La nullità dell’atto di citazione. Un caso “anomalo” di estinzione

Di Luca Di Pietro Paolo -

Sommario: 1. Il caso di specie e lo svolgimento del giudizio di merito – 2. Le tipologie di estinzione e le conseguenze applicative – 3. L’inattività nel caso concreto – 4. L’acquiescenza al provvedimento del giudice – 5. Conclusioni

Corte d’Appello di Lecce, Sezione I – Sentenza 25 giugno 2025 n.  511 – Pres. Pasca – Est. Zuppetta

L’inottemperanza all’ordine del giudice di rinotificare l’atto introduttivo integra la fattispecie estintiva di cui all’art. 307, commi 3 e 4 c.p.c., essendo pienamente integrati i presupposti oggettivi e soggettivi richiesti dalla norma.

Anche nel caso di illegittimità dell’ordine del giudice, la mancata contestazione implica acquiescenza della parte e, di conseguenza, il provvedimento è immune da censure successive.

 

 

1. Il caso di specie. Lo svolgimento del giudizio di merito e la decisione della Corte d’Appello

La Corte d’Appello di Lecce è stata di recente chiamata a pronunciarsi in merito ad un caso di estinzione del procedimento causata della mancata rinnovazione della notificazione dell’atto di citazione da parte dell’attore al convenuto.

Nel caso in esame, l’attore proponeva opposizione al decreto ingiuntivo che lo condannava al pagamento del corrispettivo per la fornitura del gas.

La società di somministrazione del gas si costituiva in giudizio, eccependo la nullità dell’atto di citazione ai sensi dell’art. 164, co. 1, c.p.c. per mancato rispetto del termine a comparire e chiedeva la fissazione di una nuova udienza nel rispetto dei termini.

Il giudice accoglieva l’eccezione del convenuto e, dunque, fissava una nuova udienza, onerando controparte di rinotificare l’atto introduttivo.

Tuttavia, l’attore non provvedeva a rinnovare la citazione nei termini stabiliti.

Nella successiva udienza il giudice dichiarava estinto il giudizio ai sensi dell’art. 307, co. 3 e 4, c.p.c., facendo divenire il decreto ingiuntivo definitivo.

Avverso l’ordinanza di estinzione, l’attore ha proposto appello lamentando l’illegittimità dell’estinzione, ritendo l’ordine giudiziale di rinnovazione di notifica dell’atto introduttivo privo di fondamento normativo, in quanto la costituzione del convenuto avrebbe già sanato con efficacia ex tunc, ai sensi dell’art. 164, co. 3, c.p.c., i vizi relativi alla vocatio in ius.

La Corte d’Appello di Lecce ha ritenuto l’impugnazione infondata, poiché l’art. 307, co. 3, c.p.c. troverebbe applicazione in tutte le ipotesi in cui una parte sia onerata dal giudice di compiere un’attività necessaria alla prosecuzione del processo[1].

Viene precisato, inoltre, che il termine in esame è perentorio ed anche qualora fosse stato ordinatorio vi sarebbe stata decadenza, non essendo stata chiesta tempestiva proroga[2].

Sotto un diverso profilo, il giudice d’appello ha osservato che l’appellante ha manifestato acquiescenza al provvedimento del giudice di primo grado: “non solo non lo ha impugnato né criticato, ma ha anche eseguito, seppur in ritardo, la rinotifica disposta”.

Sia la sentenza di primo grado che quella di appello presentano diverse criticità.

2.Le tipologie di estinzione e le conseguenze applicative.

Per un’analisi accurata della pronuncia in esame è necessario soffermarsi sulle diverse tipologie di estinzione del processo.

L’estinzione[3] rientra tra le c.d. “vicende anomale” del processo e può avvenire per rinuncia agli atti ex art. 306 c.p.c. o per inattività delle parti ex art 307 c.p.c. La prima norma stabilisce che l’attore può rinunciare agli atti del giudizio in corso con effetto estintivo dello stesso. Tale effetto si produce se la rinuncia è accettata dalle parti costituite che potrebbero avere interesse alla prosecuzione del processo.

La seconda disposizione menzionata, invece, disciplina più ipotesi di inattività delle parti[4] che possono essere distinte in due macrocategorie. La prima è l’inattività semplice che è disciplinata dal primo e secondo comma dell’art. 307 c.p.c. ed è conseguenza del mancato compimento di un atto di impulso processuale. In tal caso l’inattività delle parti (es. la mancata costituzione delle parti dopo la notificazione della citazione) comporta dapprima la cancellazione della causa dal ruolo mediante la quale si verifica un fenomeno di quiescenza del processo. Se nessuna delle parti riassume il processo nel termine perentorio di tre mesi il processo si estingue. La seconda categoria è quella dell’inattività qualificata disciplinata dal terzo comma dell’art. 307 c.p.c. che è conseguenza della mancata sanatoria di vizi di presupposti processuali. La norma specifica testualmente che il processo si “estingue altresì qualora le parti alle quali spetta di rinnovare la citazione o di proseguire, riassumere o integrare il giudizio, non vi abbiano provveduto entro il termine perentorio stabilito dalla legge, o dal giudice che dalla legge sia autorizzato a fissarlo”.

In questo caso (a differenza dell’inattività semplice) il processo si estingue immediatamente, senza quiescenza, poiché la mancata esecuzione degli atti rende impossibile una decisione nel merito, essendo il processo viziato in uno dei suoi presupposti[5].

L’estinzione è dichiarata con diverse modalità a seconda che a decidere sia il collegio o il giudice monocratico ( i.e. giudice di pace e tribunale in composizione monocratica). Ai sensi dell’art. 307, co. 4, c.p.c. “L’estinzione opera di diritto ed è dichiarata, anche d’ufficio, con ordinanza del giudice istruttore ovvero con sentenza del collegio” e ai sensi dell’art. 308, co. 1, c.p.c. “contro di essa è ammesso reclamo nei modi di cui all’articolo 178, commi terzo, quarto e quinto”. Pertanto, qualora a decidere sia il collegio, il provvedimento di estinzione è impugnabile mediante reclamo. Il rigetto del reclamo viene deciso con pronuncia impugnabile, mentre il provvedimento di accoglimento non è impugnabile, manifestando un chiaro favor del legislatore per la prosecuzione del giudizio. Qualora invece a decidere sia il giudice in composizione monocratica, la pronuncia avrà la forma di ordinanza o di sentenza[6]  a seconda che, rispettivamente, sia stata rigettata[7] o accolta l’eccezione di estinzione. In tale ultimo caso la sentenza è impugnabile con gli ordinari mezzi di gravame[8].

Infine, l’art. 310, co. 1, c.p.c. stabilisce che “L’estinzione del processo non estingue l’azione”, pertanto sarà possibile per le parti riproporre nuovamente il giudizio[9].

3. L’inattività nel caso concreto

 

A questo punto è necessario applicare la normativa sull’inattività all’ipotesi specifica.

Nel caso che ci occupa, il giudice di prime cure ha ordinato all’attrice di eseguire la rinnovazione della notificazione dell’atto introduttivo all’opponente nel rispetto dei termini a comparire.

Pertanto, ci troviamo dinanzi ad un’ipotesi di estinzione del procedimento per inattività qualificata della parte, avendo l’attore omesso nel termine perentorio assegnato dal giudice di notificare l’atto introduttivo.

Tuttavia, emerge ictu oculi l’“anomalia” del provvedimento poiché l’ordine di notifica riguarda la parte costituita, la quale si è limitata ad eccepire il mancato rispetto dei termini a comparire[10].

La notificazione dell’atto di citazione al convenuto è, dunque, del tutto superflua.

Infatti, come correttamente rilevato dall’appellante in sede di gravame la costituzione del convenuto avrebbe già sanato[11] con efficacia ex tunc, ai sensi dell’art. 164, co. 3, c.p.c., i vizi relativi alla vocatio in ius.

Inoltre, l’art. 164, co. 2, c.p.c. dispone che “Se il convenuto non si costituisce in giudizio, il giudice, rilevata la nullità della citazione ai sensi del primo comma, ne dispone d’ufficio la rinnovazione entro un termine perentorio”.

Dello stesso tenore è anche l’art. 291 c.p.c., il quale allo stesso modo prevede che “se il convenuto non si costituisce e il giudice istruttore rileva un vizio che importi nullità nella notificazione della citazione, fissa all’attore un termine perentorio per rinnovarla”.

Da una lettura a contrario delle norme emerge che il giudice non può ordinare la rinnovazione della notificazione se la parte si costituisce[12].

Non si comprende, inoltre, l’utilità di far notificare l’atto introduttivo ad una parte costituita la quale non solo ha accesso al fascicolo telematico del giudizio, ma che è anche regolarmente comparsa in udienza.

Di conseguenza il giudice da un lato ha correttamente e coerentemente con il disposto normativo fissato una nuova udienza nel rispetto dei termini a comparire, ma dall’altro ha irritualmente ordinato alla parte di rinnovare la notificazione dell’atto di citazione.

Tuttavia, a fronte di tale decisione, parte attrice non ha contestato il provvedimento irrituale del giudice e ha notificato l’atto tardivamente rispetto al termine perentorio stabilito.

Sicché il giudice di prime cure (a questo punto) coerentemente con la prima decisione ha ritenuto di estinguere la procedura ai sensi dell’art. 307 c.p.c. per inattività qualificata.

4. L’applicazione dell’art. 307 c.p.c. e l’acquiescenza al provvedimento del giudice

La Corte d’Appello è stata dunque investita della valutazione di una pronuncia di estinzione connotata da un profilo del tutto atipico ed ha ritenuto di rigettare l’appello per due ordini di ragioni.

La prima è l’applicazione dell’art. 307 c.p.c.: si sarebbe verificata una tipica ipotesi di estinzione in quanto vi sarebbe stata “mancata esecuzione, entro i termini di legge o quelli eventualmente fissati dal giudice, di attività processuali specificamente individuate”. Viene richiamata giurisprudenza secondo la quale l’art. 307, co. 3, c.p.c. si applica a tutte le ipotesi in cui una parte sia onerata dal giudice di compiere un’attività necessaria alla prosecuzione del processo.

La seconda ragione è, invece, l’acquiescenza al provvedimento: per la Corte l’ordinanza non è “stata oggetto di alcuna contestazione, non è stato proposto alcun reclamo avverso detta statuizione, né la parte interessata ne ha chiesto la revoca in parte qua, limitandosi ad eseguirla mediante rinotifica della citazione, eseguita oltre il previsto termine di legge”.

In merito al primo punto, la Corte – senza particolari approfondimenti – ha ritenuto applicabile l’art. 307 c.p.c. per carenza dell’attività di notifica necessaria per la prosecuzione del giudizio.

A parere di chi scrive, la decisione si fonda sull’errato presupposto di ritenere tale attività indispensabile per la prosecuzione del giudizio. In realtà, dopo la costituzione del convenuto, l’unica attività necessaria ai fini della prosecuzione è la fissazione dell’udienza nel rispetto dei termini di comparizione, così da assicurare il pieno esercizio del diritto di difesa della parte.

Infatti, l’estinzione per inattività qualificata postula la mancata esecuzione di atti senza i quali è impossibile una decisione nel merito.

L’omessa notifica dell’atto alla parte convenuta costituita non può di certo essere ritenuta presupposto per la decisione e, di conseguenza, non può tantomeno assurgere a causa di estinzione del procedimento.

Pertanto, sotto tale profilo, il giudice di gravame avrebbe dovuto per lo meno rilevare come l’ordine del giudice fosse del tutto irrituale e come non si sia trattato di un’ordinaria applicazione dell’art. 307 c.p.c.

In merito al secondo punto, invece, il comportamento processuale dell’attore in primo grado (i.e. la mancata contestazione del provvedimento e la rinnovazione tardiva) ha sicuramente contribuito alla decisione del giudice di prime cure.

La Corte, dunque, farebbe riferimento ad una vera e propria accettazione tacita del provvedimento, avendo ritenuto il tentativo di notificazione effettuato tardivamente un comportamento incompatibile alla contestazione dell’ordinanza.

Il menzionato atteggiamento processuale, tuttavia, non può essere qualificato come vera e propria “acquiescenza”.

Tale istituto è infatti disciplinato dall’art. 329 c.p.c. e viene definito come “accettazione espressa o da atti incompatibili con la volontà di avvalersi delle impugnazioni ammesse dalla legge ne esclude la proponibilità”.

Nel caso che ci occupa, ci troviamo dinnanzi ad un’ordinanza che ai sensi dell’art. 177, co. 2, c.p.c., può essere “sempre”[13] modificata o revocata e che non può essere oggetto di immediata impugnazione.

Pertanto, sotto tale profilo non può trovare applicazione un regime “rigido” come quello dell’acquiescenza, che riguarda provvedimenti definitivi e non revocabili.

Sotto altro, profilo, invece, la rinnovazione tardiva della notifica non può essere considerata “un atto incompatibile” con la contestazione della decisione.

Infatti, è possibile che la parte pur ritenendo illegittimo l’ordine del giudice abbia ritenuto di notificare l’atto al fine di evitare eventuali “conseguenze” processuali sfavorevoli[14].

Si può ritenere che la Corte, utilizzando il termine “acquiescenza”, non intendesse fare riferimento al regime previsto dall’art. 329 c.p.c., ma che piuttosto volesse indicare una generica “mancata contestazione”.

Al riguardo è rilevante soffermarsi sui momenti processuali che ha avuto a disposizione l’attore per contestare la decisione del giudice.

Certo, l’attore avrebbe potuto – adottando un approccio prudenziale – sollevare una contestazione sull’ordine del giudice di rinnovare l’atto di citazione tramite il deposito di un’istanza o durante la seconda udienza. Tale contestazione, tuttavia, riguarderebbe esclusivamente la legittimità dell’ordine del giudice. Il primo momento utile per proporre opposizione al provvedimento di estinzione rimane, comunque, la proposizione dell’appello.

Infatti, il provvedimento di estinzione pronunciato dal tribunale in composizione monocratica determina la conclusione del giudizio di primo grado, precludendo alla parte ulteriori strumenti di contestazione.

In altri termini, sebbene l’attore non si sia immediatamente opposto all’ordinanza illegittima del giudice relativa alla rinnovazione della notificazione, ha comunque sollevato tempestivamente appello contestando l’idoneità di tale provvedimento a determinare l’estinzione del procedimento.

Pertanto, sotto entrambi profili l’appello avrebbe dovuto trovare accoglimento, in quanto: non trova applicazione l’art. 307, co. 4, c.p.c. dato che la costituzione del convenuto ha sanato il vizio della vocatio in ius e pertanto non era più necessaria alcuna attività per la prosecuzione del processo; il primo momento utile per impugnare il provvedimento di estinzione era la proposizione dell’atto di appello.

5. Conclusioni

Il caso in esame è caratterizzato dalla successione di “anomalie” processuali avvenute nel primo grado di giudizio.

A fronte di una notifica dell’atto di citazione nel mancato rispetto dei termini a comparire, a seguito della costituzione in giudizio del convenuto, il giudice si sarebbe dovuto limitare a fissare un’udienza nel rispetto dei menzionati termini. Tuttavia, il medesimo ha optato (in via del tutto irrituale) per l’ordine di rinnovazione della notifica.

A questo punto l’attore avrebbe dovuto contestare il provvedimento del giudice, evidenziando la superfluità della notifica. Invece, non solo non è stata mossa alcuna critica al provvedimento, ma è stato addirittura rinnovata la notificazione tardivamente.

Il giudice ha, pertanto, ritenuto di estinguere la procedura ex art. 307 c.p.c.

In tali situazioni la via spesso più conveniente, qualora non sia maturata la prescrizione[15], è la proposizione di una nuova domanda di primo grado.

Tuttavia, tale giudizio è caratterizzato da altra peculiarità: si tratta di un’opposizione a decreto ingiuntivo con la conseguenza che l’estinzione del giudizio di opposizione comporterebbe la cristallizzazione del decreto. Sicché, l’unico rimedio è la proposizione dell’atto di appello.

Parimenti non è condivisibile la soluzione adottata della Corte d’Appello sulla pretesa “acquiescenza” dell’attore: la qualificazione adottata non è compatibile né con il regime dell’art. 329 c.p.c., né con la natura sempre revocabile dell’ordinanza ex art. 177, co. 2, c.p.c., e trascura il fatto che l’unico momento utile per contestare la declaratoria di estinzione fosse proprio l’appello.

Si rammenta, inoltre, il favor del legislatore per la prosecuzione del giudizio e, pertanto, non è condivisibile ritenere applicabile il regime dell’estinzione se non nei casi tassativamente previsti.

Nel caso de quo l’estinzione del processo si presenta come il risultato di un’applicazione eccessivamente formalistica dell’art. 307 c.p.c., fondata su un ordine giudiziale che, alla luce dell’art. 164 c.p.c., non avrebbe dovuto essere emesso.

Per pacifica giurisprudenza, infatti, la nullità dell’atto introduttivo del giudizio per violazione dei termini a comparire è sanata dalla costituzione del convenuto, e soltanto se quest’ultimo eccepisce tale vizio (come accaduto) il giudice è tenuto, a fissare nuova udienza nel rispetto dei termini[16].

Il caso mostra come l’istituto dell’inattività qualificata non dovrebbe essere utilizzato per sanzionare la mancata esecuzione di un’attività non necessaria alla prosecuzione del giudizio.

[1] Cfr. Cass. 21 ottobre 2020, n. 4710.

[2] La CdA di Lecce al riguardo richiama Cass., S.U., 30 luglio 2008, n. 20604, secondo cui “il decorso infruttuoso anche di un termine ordinatorio comporta decadenza, ove non sia stata chiesta tempestivamente una proroga prima della scadenza, con conseguente perdita del potere di compiere l’atto in modo analogo a quanto accade con i termini perentori.

[3] Al riguardo, F. P. Luiso, Diritto processuale civile, II, Milano, 2025, p. 272, chiarisce che “Collegare al mancato compimento di certi atti l’estinzione del processo è una scelta che deriva non da esigenze di sistema, ma da una valutazione di pura opportunità del legislatore, il quale, in modo del tutto libero, enuclea certi atti e stabilisce che, se questi atti non vengono compiuti, il processo non può arrivare ad una decisione di merito”.

[4] E.T. Liebman, Manuale di diritto processuale civile, II, Milano, 1981, p. 203 secondo cui l’art. 307 c.p.c. ricollega l’estinzione del giudizio a fatti giuridici (specifici comportamenti omissivi delle parti) rispetto a cui nessuna rilevanza è data alla volontarietà dell’effetto.

[5] Ivi, p. 275, l’A. riporta l’esempio del litisconsorzio necessario in quanto “si è in presenza di un presupposto processuale perché, se i litisconsorti non sono chiamati a partecipare al processo, il giudice non può giungere ad una sentenza di merito. L’art. 102, II c.p.c. prevede la sanatoria del vizio; il giudice dà quindi ordine di chiamare i litisconsorti pretermessi; se costoro non vengono chiamati, il vizio persiste, e non si può giungere ad una pronuncia di merito”.

[6] Può infatti avvenire che i giudici adottino la forma dell’ordinanza, ma a prescindere da ciò la forma sostanziale rimane sempre quella della sentenza in quanto il provvedimento è idoneo a definire il giudizio e come tale è appellabile.

[7] Al riguardo v. B. Sassani, Lineamenti del processo civile italiano, Milano, 2025, p. 557, il quale chiarisce che nel caso di rigetto dell’eccezione di estinzione se la parte ha intenzione di coltivare l’eccezione avrà l’onere di riproporla in sede di precisazione delle conclusioni. Tuttavia, Cass. 12 febbraio 2016, n. 2837 specifica che non è necessaria alcuna riserva di gravame, in quanto l’ordinanza è inidonea alla definizione del giudizio e pertanto sempre revocabile.

[8] Cass. 30 giugno 2021, n. 18499 ha infatti chiarito che “L’ordinanza con cui il tribunale in composizione monocratica dichiara l’estinzione del giudizio ha contenuto decisorio e natura sostanziale di sentenza; ne consegue che, avuto riguardo alla relativa impugnazione, mentre il termine cd. breve decorre solo a seguito della notificazione dell’ordinanza medesima ad istanza di parte, quello cd. lungo, applicabile in assenza di tale notifica, decorre dal deposito del provvedimento, coincidente, nell’ipotesi di sua pronuncia in udienza, con la data di quest’ultima”.

[9] Per approfondimento v. R. Vaccarella, Inattività delle parti ed estinzione del processo di cognizione, Napoli, 1975, p. 297 secondo cui l’art. 310, co. 1, c.p.c. consacra il principio dell’autonomia tra azione e giudizio e della consequenziale inidoneità dell’estinzione del processo ad estinguere l’azione o i diritti sostanziali di cui era stata chiesta tutela nel giudizio.

[10] Si legge infatti a pag. 2 della sentenza in commento “Si costituiva in giudizio … , depositando comparsa di costituzione e risposta in data 29 dicembre 2021, con la quale eccepiva la nullità dell’atto di citazione ai sensi dell’art. 164, comma 1, c.p.c., e chiedeva, ai sensi del comma 3 della medesima norma, la fissazione di una nuova udienza nel rispetto dei termini a comparire”.

[11] Con la costituzione del convenuto, infatti, l’atto ha raggiunto il suo scopo e, dunque, non può dirsi violato il diritto di difesa ed il principio del contraddittorio.

[12] Si v. Cass. 11 ottobre 2024, n. 26544, in un caso in cui la notificazione era stata eseguita in diverso luogo, ha stabilito che la costituzione del convenuto sanata la nullità anche se compiuta al solo fine di eccepire il vizio della notificazione.

[13] L’art. 177 c.p.c. stabilisce che “Salvo quanto disposto dal seguente comma, le ordinanze possono essere sempre modificate o revocate dal giudice che le ha pronunciate”.

[14] Tale atteggiamento processuale non sarebbe molto differente, infatti, dall’esecuzione spontanea della sentenza di primo grado, ritenuta pacificamente un’ipotesi dove non trova applicazione l’istituto dell’acquiescenza (Ex plurimis Cass., S.U., 21 febbraio 1997, n. 1616; Cass. 9 aprile 2009, n. 8687). Infatti, in entrambi i casi la parte “adempie” al provvedimento del giudice al fine di evitare le eventuali conseguenze sfavorevoli.

[15]Al riguardo è pacifico che l’estinzione del processo elimina l’effetto permanente dell’interruzione della prescrizione prodotto dalla domanda giudiziale ai sensi dell’art. 2945, co. 2, c.c., ma non incide sull’effetto interruttivo istantaneo della medesima, comunque prodottosi, con la conseguenza che la prescrizione ricomincia a decorrere dalla data di detta domanda. Si v. Cass. 13 settembre 2017, n. 21201.

[16] Cfr. Cass. 7 marzo 2002, n. 3335.