Una piccola riflessione sulla riforma della giustizia civile

Di Giuseppe Miccolis -

Come tutti sappiamo, la giustizia civile ha un malessere causato dal malfunzionamento del “fattore tempo”. Dopo alcuni interventi efficaci, l’unica cura che periodicamente è somministrata consiste in discrete dosi di sostanze placebo e, al più, di analgesico. Una reale cura “alla radice” della malattia appare, per la verità, impresa immane e, in ogni caso, difficilmente risolutiva.

Il “fattore tempo” è condizionato, a sua volta, da tre fattori.

Il “primo fattore” è quello delle regole processuali. Queste devono garantire che il processo “vada avanti e non torni indietro”, per evitare che l’attività del giudice sia duplicata e comunque risulti inutile.

Il “secondo fattore” è quello della disponibilità del giudice. Non è sufficiente che il processo “vada avanti”, è necessario anche che il giudice “sia disponibile all’appuntamento col processo”.

Il “terzo fattore” è direttamente e contestualmente influenzato dai primi due. Questo, sempre nel rispetto dei principi costituzionali del diritto di azione e del diritto alla difesa, è quello della concentrazione e semplificazione delle attività processuali.

Con la grande riforma del 1990/1995, il legislatore è pesantemente intervenuto sul “primo fattore” nel processo ordinario di cognizione; ha razionalizzato il rito, delineando tre fasi ben distinte e impermeabili, salvo alcune legittime eccezioni. Prima di questa riforma era, invece, sempre possibile, anche alle battute finali del processo, tornare indietro con nuove allegazioni e prove e, conseguentemente, rimettere in discussione tutta l’attività processuale sino a quel momento svolta. Con la grande riforma del 2005/2006, dopo un “assaggio” offerto nel 1998, il legislatore ha messo mano anche all’espropriazione forzata.

Dopo queste riforme, il legislatore è costantemente intervenuto, con piccole regolazioni e messe a punto, sul “primo fattore” (quella più significativa è stata la riforma del 2009); il prodotto che ne è scaturito è un processo ordinario di cognizione (ma anche esecutivo), tutto sommato, ben strutturato, che, però, continua ad avere una durata eccessiva.

Sennonché, senza sostanzialmente mettere mano al “secondo fattore”, il legislatore è caduto nella tentazione di cercare la soluzione al “fattore tempo”, incidendo direttamente sul “terzo fattore”, ossia su quello della concentrazione e semplificazione delle attività processuali, creando, spesso, più danni che benefici. Ciò, in quanto, incidere sul “terzo fattore” bypassando il “secondo fattore” è totalmente inutile se non dannoso, in quanto rischia di essere lesivo dei diritti delle parti costituzionalmente protetti, senza alcun beneficio temporale. A titolo esemplificativo, è inutile eliminare la seconda udienza oggi prevista dall’art. 184 c.p.c. sperando, così, di concentrare il processo e ridurne la durata, giacché il giudice, se deve decidere sulle istanze istruttorie alla prima udienza fissata dall’art. 183 c.p.c., anziché alla seconda, fissata dall’art. 184 c.p.c., deve comunque trovare il tempo per farlo. Certo la soluzione adottata è sempre meglio della originaria versione proposta dalla Commissione Luiso, in virtù della quale l’eliminazione dell’udienza 184 c.p.c. era conseguenza della anticipazione delle preclusioni e della assimilazione dell’udienza ex art. 183 c.p.c. a quella ex art. 420 c.p.c. Ciò in quanto il giudice, oggi, tra le due udienze, comunque impiega il suo tempo per trattare altre cause tra quelle che ha sul ruolo (spesso anche oltre mille e cinquecento). È esattamente quello che è avvenuto (riforma del 1990) con la soppressione dell’automatica udienza di discussione, ultima prima della decisione, all’epoca fissata anche tre anni dopo la precedente udienza per la precisazione delle conclusioni. Dopo tale innovazione, il lungo rinvio è toccato all’udienza di precisazione delle conclusioni, diventata questa, appunto, l’ultima prima della decisione: se il giudice, prima di questa, ha già pronte per la decisione 250 cause e quindi ha da redigere 250 sentenze, come può pensare di redigere la 251a prima di due anni? Salvo che si arrivi, in una giustizia tutta telematica, alla decisione con un semplice click.

Quindi, escluso che sulla durata del processo possa incidere il “primo fattore” o, tanto meno, il “terzo fattore”, la vera questione del “fattore tempo” del processo, altro non è che la questione “fattore tempo” del giudice, ossia il secondo fattore. Per incidere sul “fattore tempo” del giudice, considerato che il tempo da questo dedicato al suo lavoro è sempre lo stesso prescindendo dalle regole giuridiche adottate, l’unica soluzione resta sempre quella di ridurre il rapporto giudizi pendenti / giudici chiamati a regolarli.

L’aumento del “denominatore”, nonostante gli sforzi già compiuti e i buoni propositi del PNRR, è impresa assai ardua per varie ragioni, non soltanto economiche: per l’accesso alla magistratura, il numero dei vincitori è oramai sempre inferiore al numero dei posti messi a concorso; non ci si può affidare, “a cuor leggero”, più di tanto alla magistratura onoraria; il rientro in servizio attivo dei magistrati impegnati presso i vari ministeri è, spesso, da questi strenuamente ostacolato.

La riduzione del “numeratore” è impedita da due cause: (i) innanzi tutto il costante e progressivo sviluppo economico dal dopoguerra in poi, giacché la crescita esponenziale delle attività economiche e sociali e conseguentemente l’incremento delle relazioni implica inevitabilmente l’aumento del contenzioso; (ii) in secondo luogo la crisi della pubblica amministrazione. Se la prima causa è inarrestabile ed è comunque una conseguenza del “benessere”, la seconda costituisce un fardello da eliminare a beneficio anche della giustizia civile.

Infatti, l’inefficienza e la disorganizzazione di buona parte della P.A., da un lato, e la crisi finanziaria, soprattutto di taluni enti pubblici (quali le ASL, gli enti locali, ecc.), dall’altro, costituiscono la causa diretta e, per l’effetto domino, indiretta dell’enorme numero dei contenziosi che oggi intasano i ruoli giudiziari: enorme contenzioso in cui l’unica questione in oggetto è il mancato adempimento all’obbligazione di pagamento in capo alla P.A., senza alcuna seria contestazione in ordine alla prestazione resa dall’altra parte. Basti solo considerare tutto il contenzioso, che spesso giunge sino in Cassazione, generato, con la normativa avviata dalla metà degli anni ’90, nella fase esecutiva con oggetto della contestazione la sola impignorabilità del “danaro” della P.A. (soprattutto per le Asl e per le Regioni e gli Enti locali), ovvero la violazione di regole processuali vessatorie per il creditore (a tutela degli Enti previdenziali): la P.A. deve adempiere le proprie obbligazioni, anziché rendersi inadempiente e poi intasare i ruoli giudiziari invocando la disciplina di soccorso, ripetutamente introdotta dal legislatore nonostante le puntuali dichiarazioni di incostituzionalità sancite dalla Consulta.

L’esperienza degli altri Paesi europei, a noi culturalmente ed economicamente vicini, è molto emblematica. La Francia, ad esempio, che recentemente dopo il Covid si è ritrovata “Una giustizia sull’orlo dell’implosione” (J.M. Dumay), con un numero di giudici per abitanti addirittura leggermente inferiore al nostro, ritiene di essere in crisi per un processo che in primo grado inizia ad arrivare a 30 mesi. Ma in Francia la P.A. funziona e, soprattutto, paga puntualmente i propri debiti, risparmiando enormemente nei costi e, soprattutto, non mandando in default i propri fornitori e semmai, i fornitori di questi.

Ed allora è inutile concentrare tutta l’attenzione e le risorse sulla disciplina del “processo civile”.

Nella scorsa legislatura è stata istituita la Commissione interministeriale “Per la Giustizia nel Sud e Isole”, che, oltre a mappare le elevate criticità sussistenti negli uffici giudiziari di tale parte dell’Italia, ha individuato quelle più rilevanti nel turnover e nelle scoperture. La Commissione si è proposta di individuare strumenti e criteri interni all’amministrazione della giustizia per efficientare la gestione dell’arretrato e dei nuovi ingressi.

Forse occorrerebbe concentrare gli sforzi sulla pubblica amministrazione per individuare soluzioni e strumenti di semplificazione delle attività e dei modelli organizzativi, per l’efficientamento delle procedure e, soprattutto, per il reperimento delle risorse da destinare, non già all’implementazione del “denominatore”, bensì all’adempimento delle obbligazioni pecuniarie, sì da ridurre il “nominatore”.

Ciò non toglie che anche tale intervento non potrà essere risolutivo, come, invece, potrà esserlo solo l’esponenziale evoluzione tecnologica allorché questa, nella progressiva sostituzione del cervello e delle braccia con i bit in tutti i settori, sarà in grado, a quale costo non si sa, di rimpiazzare anche il cervello del giudice.