Informativa sul trattamento dei dati personali (ai sensi dell’art. 13 Regolamento UE 2016/679)
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Tipologie di dati personali trattati
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Un dubbio sul regime transitorio della riforma dell’art. 614 bis c.p.c.
Di Bruno Capponi -
L’art. 35, comma 1, d.lgs. n. 149/2022, nel testo integralmente novellato dall’art. 1, comma 380 della legge di bilancio n. 197/2022, prevede che «Le disposizioni del presente decreto, salvo che non sia diversamente disposto, hanno effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023 e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data. Ai procedimenti pendenti alla data del 28 febbraio 2023 si applicano le disposizioni anteriormente vigenti». La sola disposizione dell’art. 35 che si occupa del processo esecutivo è il comma 8, sul quale ci siamo già di recente intrattenuti (Un dubbio sul regime transitorio della riforma degli artt. 475, 476, 478 e 479 c.p.c., in www.judicium.it dal 27 gennaio 2023); ne risulta che l’intera novellazione riferita al processo esecutivo è ispirata al sistema del “doppio binario”: le norme nuove si applicheranno ai soli procedimenti instaurati dopo il 28 febbraio 2023, mentre i procedimenti pendenti a quella data resteranno soggetti alle norme anteriori.
Questo criterio, apparentemente chiaro pur con tutti i suoi limiti, non sempre è in grado di identificare con certezza una disciplina transitoria (o meglio, come vedremo, non sempre è in grado di dettare una vera disciplina transitoria). Ci sembra questo il caso dell’art. 614 bis c.p.c., il cui nuovo testo introduce, tra l’altro, le seguenti novità:
a)«Con il provvedimento di condanna all’adempimento di obblighi diversi dal pagamento di somme di denaro il giudice … può fissare un termine di durata della misura, tenendo conto della finalità della stessa e di ogni circostanza utile»;
b)«Se non è stata richiesta nel processo di cognizione, ovvero il titolo esecutivo è diverso da un provvedimento di condanna, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza o ritardo nell’esecuzione del provvedimento è determinata dal giudice dell’esecuzione, su ricorso dell’avente diritto, dopo la notificazione del precetto. Si applicano in quanto compatibili le disposizioni di cui all’articolo 612».
In rapporto a queste due previsioni (o gruppi di previsioni), occorre capire come funziona il sistema del “doppio binario” fondato sulla pendenza o sulla novità del “procedimento”.
La prima questione che può essere affrontata riguarda l’identificazione del provvedimento di condanna che, a norma del comma 1 dell’art. 614 bis, dev’essere contestuale alla pronuncia dell’astreinte, come avveniva anche in forza del corrispondente testo abrogato. Il punto critico è l’applicazione della nuova regola, secondo cui se la misura non sia stata richiesta nel processo di cognizione (non anche se, richiesta, sia stata disattesa) potrà essere richiesta al giudice dell’esecuzione, dopo la notificazione del precetto (e quindi prima dell’inizio in senso tecnico dell’esecuzione forzata). Ciò vale anche per i provvedimenti di condanna pronunciati prima del 28 febbraio 2023?
La risposta passa attraverso l’esegesi dell’espressione “procedimenti pendenti”, dovendosi intendere per tali non soltanto quelli che pendono in un determinato grado, ma anche quelli in relazione ai quali è pendente il termine per l’impugnazione o quello per la riassunzione (pendenza c.d. attenuata). Sono pendenti, ai nostri fini, anche i procedimenti sospesi o interrotti o le citazioni non ancora iscritte a ruolo.
Ciò significa che una statuizione di condanna pronunciata nell’ambito di un giudizio in relazione al quale non si sia ancora attinto il giudicato formale non può essere assortita da un’astreinte da parte del giudice dell’esecuzione. Né può ritenersi che il ricorso ex art. 612 c.p.c. – modello prescelto dal legislatore, in mancanza di altri, per introdurre la richiesta – sia ammissibile appunto perché proposto dopo il 28 febbraio 2023: infatti, il presupposto per l’applicazione della norma è nel processo di cognizione (che non deve essere “pendente”) e non in quello di esecuzione (deposito del ricorso indirizzato al g.e.). Ragion per cui sarebbe stata assai opportuna una norma transitoria ad hoc, che favorisse l’applicazione quanto più larga della nuova regola sulla competenza “di chiusura” del g.e.: ciò che sarebbe stato possibile prendendo quale riferimento non i procedimenti pendenti bensì i provvedimenti di condanna, pur se pronunciati in procedimenti ancora pendenti alla data di entrata in vigore della riforma. Possiamo dire che nel nostro caso la norma transitoria generale risulta viziata da una sorta di aberratio ictus.
Una seconda questione riguarda l’individuazione dei titoli esecutivi diversi dai provvedimenti di condanna: se essi debbano essere formati dopo, o anche prima della data di entrata in vigore della riforma. Un “falso amico”, per la risoluzione di questa seconda questione di diritto transitorio, è nella possibilità di intimare precetto in relazione ai detti titoli, come richiesto dal comma 2 dell’art. 614 bis nuovo testo: si tratta infatti di un dato che può risultare fuorviante, perché la possibilità di intimare precetto esisteva prima della riforma e continua a esistere invariata anche dopo di essa. Il discrimen non può essere questo.
Ove si rifletta sulla questione, ci si avvede facilmente che la norma del comma 1 dell’art. 35 non può regolare il problema, essendo essa norma concepita sullo schema del “doppio binario” in base alla contrapposizione tra procedimenti pendenti e procedimenti di nuova instaurazione. Ma il titolo esecutivo non è un procedimento, ed è anche cosa diversa dall’atto di precetto (ciò si dice in relazione alla norma specifica del comma 8, concettualmente sbagliata, sulla quale ci siamo intrattenuti nello scritto cit.). Occorre quindi prendere atto che in relazione al nostro secondo problema una vera norma transitoria non c’è.
Soccorre quindi una regola non di diritto transitorio, inesistente, ma di diritto intertemporale sull’efficacia nel tempo delle norme sul processo; in base a tale regola, tradizionalmente ricevuta e ricavata dalle Preleggi, la norma processuale ha efficacia immediata e risulta applicabile anche in relazione ad atti preesistenti alla sua entrata in vigore, che il giudice debba considerare nel ricostruire la fattispecie deputata all’applicazione della nuova norma. In base a tale regola, che risponde a una logica esattamente contraria a quella del diritto transitorio, il g.e. avrà il potere di pronunciare l’astreinte, su ricorso che segue una notifica di precetto eseguita dopo il 28 febbraio 2023, anche per assortire titoli esecutivi, diversi da provvedimenti di condanna, formati prima dell’entrata in vigore della riforma. Si tratta di una soluzione qualitativamente migliore rispetto a quella che abbiamo individuata per la prima questione, perché consente nel modo più ampio l’applicazione della nuova norma, che, per definizione, è migliorativa rispetto a quella abrogata e che quindi non dovrebbe essere riferita soltanto al nuovo contenzioso.
Non interessa direttamente il regime transitorio: ma va comunque notata la grave improprietà che affetta il nuovo comma 2 dell’art. 614 bis. In esso si parla, nell’arco di due righi, di “provvedimento” prima come titolo di condanna, poi in termini di «violazione o inosservanza o ritardo nell’esecuzione». È bene precisare che non si tratta dello stesso “provvedimento”: il primo è il titolo esecutivo di formazione giudiziale, contrapposto ai titoli di diversa formazione; il secondo è il titolo costituito dalla stessa astreinte, la cui violazione inosservanza o ritardo nell’esecuzione giustifica, appunto, la liquidazione della somma individuata «tenuto conto del valore della controversia, della natura della prestazione dovuta, del vantaggio per l’obbligato derivante dall’inadempimento, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile» (comma 3). La confusione tra le due specie di “provvedimento” potrebbe avere conseguenze fatali ove si fosse indotti a concludere, in contrasto col tenore letterale della norma a regime, che l’astreinte potrebbe essere associata soltanto al provvedimento di condanna. È bene sfuggire all’equivoco.
L’ultima questione riguarda il «termine di durata della misura, tenendo conto della finalità della stessa e di ogni circostanza utile»: potere che il giudice che forma il titolo esecutivo potrà spendere soltanto nei giudizi iniziati dopo il 28 febbraio 2023, ma che sarebbe stato utile generalizzare, con apposita norma transitoria, anche con riferimento ai giudizi pendenti.
Come si vede, l’«arte» di dettare le discipline transitorie non è delle più semplici, e forse le norme destinate a regolare l’applicazione di altre norme («norme su norme», si diceva un tempo) dovrebbero essere quelle più meditate e dettagliate: perché l’obiettivo di ogni riformatore dovrebbe essere quello di garantire la più ampia applicazione possibile del diritto nuovo, laddove regole come quella dell’art. 35, comma 1, sembrano illogicamente rispondere al criterio opposto, che è quello di conservare, per quanto possibile, l’applicazione nel tempo di regole che il legislatore ha modificato, giudicandole inadeguate o superate.