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Ultime (ma non solo) novità giurisprudenziali sul fronte delle vicende impattanti sul titolo esecutivo
Di Valentina Baroncini -
Sommario: 1. Le vicende impattanti sul titolo esecutivo e sulla sua idoneità a fondare l’esecuzione forzata. – 2. La sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo. – 3. La caducazione del titolo esecutivo. – 4. (Segue). Caducazione o “sostituzione” del titolo esecutivo? – 5. La “duplicazione” del titolo esecutivo.
1.Le vicende impattanti sul titolo esecutivo e sulla sua idoneità a fondare l’esecuzione forzata.
La sferzante linearità del principio nulla executio sine titulo consacrato nell’art. 474 c.p.c.[1], che vuole l’esecuzione forzata sempre condotta sulla base di un (valido ed efficace) titolo esecutivo, è destinata a intricarsi non solo in conseguenza dei principi affermati da Cass. civ., sez. un., 7 gennaio 2014, n. 61[2] – la quale, come ampiamente noto, ha precisato come tale regola non presupponga la sopravvivenza, all’interno del processo esecutivo, del titolo portato dal creditore procedente, quanto la costante presenza di almeno un valido titolo esecutivo, sia pure dell’interventore, valevole a giustificare la perdurante efficacia dell’originario pignoramento – quanto, più in generale, da tutti quegli eventi suscettibili di interessare le sorti del titolo medesimo, incidendo sulla sua capacità di dare impulso e sorreggere il procedimento esecutivo[3].
La serie di vicende potenzialmente idonee a impattare sull’efficacia esecutiva del titolo (e che possiamo sin d’ora identificare nelle categorie della sospensione, della caducazione, della sostituzione e della duplicazione) appare variegata e anche un poco disomogenea, nella misura in cui si presta a ricomprendere sia eventi “interni” al processo esecutivo, sia eventi “esterni” al medesimo, in quanto originati nel processo di cognizione entro il quale il titolo esecutivo (giudiziale) si è formato.
Se su alcune di tali fattispecie (caducazione e sospensione del titolo) possiamo contare, oggi, su approdi giurisprudenziali che possiamo ritenere consolidati, su altre (sostituzione e duplicazione) permane, all’opposto, una certa incertezza, specie per quanto riguarda la definizione dei limiti entro cui tali eventi possono effettivamente incidere sull’efficacia esecutiva del titolo e sulla sua persistente idoneità a condurre l’esecuzione forzata. Scopo del presente contributo è, così, oltreché fornire un quadro sistematico (e attuale) degli eventi idonei a interessare il titolo esecutivo e la sua efficacia, quello di offrire una risposta ragionata alle questioni che risultino tuttora dibattute. Ciò fornirà anche l’occasione per declinare il significato della regola nulla executio sine titulo nel contesto degli eventi impattanti sulla vita del titolo esecutivo, sovente definito dalla nostra giurisprudenza di legittimità quale condizione “necessaria e sufficiente” a dare avvio all’azione esecutiva[4].
2. La sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo.
La sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo rappresenta una di quelle fattispecie, cui si accennava poc’anzi, idonea a involgere dinamiche sia interne allo stesso processo esecutivo, sia ricollegate al processo di cognizione al cui interno si è formato il titolo medesimo. Va da sé, poi, come la tale vicenda non debba essere confusa con la sospensione del processo esecutivo – anch’essa, come noto, suddivisa in “esterna” e “interna”[5] – la quale ultima può sì discendere dall’intervenuta sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo, ma non esaurisce certo il proprio campo operativo entro tale eventualità[6].
Anzitutto, è opportuno precisare che l’efficacia esecutiva del titolo non può mai essere sospesa dal giudice dell’esecuzione: e pour cause, trattandosi di potere che istituzionalmente appartiene al giudice dell’impugnazione del titolo esecutivo (giudiziale) azionato. Dunque, quando si parla di dinamiche interne al processo esecutivo idonee a condurre alla sospensione dell’efficacia del titolo, ci si intende riferire all’eventualità connessa all’intervenuta proposizione dell’opposizione a precetto ex art. 615, 1°co., c.p.c. La norma appena richiamata, infatti, prevede che il giudice della cognizione investito dell’opposizione a precetto, «concorrendo gravi motivi, sospende su istanza di parte l’efficacia esecutiva del titolo [corsivo nostro]»[7]. Sono note, a tal riguardo, le critiche di inesattezza linguistica che parte della dottrina ha mosso nei confronti del legislatore[8]. Come si accennava, i poteri sospensivi in discorso, quando si tratti di titolo giudiziale, istituzionalmente appartengono al giudice della cognizione dinnanzi al quale il titolo medesimo sia impugnato: l’opposizione a precetto ex art. 615, 1°co., c.p.c., però, non rappresenta un rimedio avente ad oggetto l’impugnazione del titolo esecutivo, quanto la contestazione del diritto del creditore di agire in executivis sulla base del precetto come concretamente formulato e intimato (nel caso di titolo giudiziale, peraltro, solo per fatti sopravvenuti rispetto alla sua formazione, nel rispetto del principio di preclusione del dedotto e del deducibile)[9]; con la conseguenza per cui, più che di potere di sospendere l’efficacia esecutiva del titolo azionato, sembra più corretto discorrere di inibitoria dell’azione esecutiva come concretamente configurata nel precetto, ovvero di sospensione preventiva dell’azione esecutiva, come concretamente minacciata, fondata su un sindacato circoscritto alle sole ragioni poste a base dell’opposizione a precetto[10].
Chiarito tale aspetto, le conseguenze discendenti da siffatta fattispecie sospensiva sull’efficacia esecutiva del titolo sono state efficacemente descritte dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha affermato che “il potere di sospensione del giudice dell’opposizione pre-esecutiva si riferisce all’idoneità del titolo ad essere posto a base di ogni esecuzione astrattamente fondata sul medesimo come in concreto azionato sulla base di uno specifico precetto” [11]. A chiarimento di tale affermazione occorre poi aggiungere che, trattandosi di inibitoria fondata sulle sole ragioni di opposizione a precetto formulate[12], a seconda dei motivi di accoglimento dell’istanza di sospensione andrà anche a mutare l’incidenza esercitata dal provvedimento sospensivo sul titolo: così, se l’inibitoria ex art. 615, 1°co., c.p.c. è stata pronunciata per ragioni inerenti alla qualità soggettiva del creditore procedente, la stessa impedirà di intraprendere una nuova esecuzione al solo creditore opposto, ma non anche ai diversi soggetti che si dichiarino creditori sulla base del medesimo titolo[13]; sul versante oggettivo, poi, è il medesimo art. 615, 1°co., c.p.c. a consentire che, in caso di contestazione solo parziale del diritto del creditore di agire in executivis, l’efficacia del titolo sia sospesa solo parzialmente (in relazione alla parte contestata), con conseguente possibilità per il creditore di proseguire con l’azione esecutiva minacciata, entro i limiti autorizzati[14]. In entrambi i casi ci troviamo, dunque, di fronte a un titolo che solo per alcuni soggetti (o solo entro determinati limiti oggettivi) mantiene la propria efficacia esecutiva, venendo a perderla per i soggetti o entro i limiti colpiti dal provvedimento sospensivo: ed entro tali limiti (soggettivi od oggettivi che siano) il titolo non sarà più idoneo a fondare l’azione esecutiva, in coerente applicazione del principio nulla executio sine titulo.
Restano, poi, meritevoli di attenzione due fattispecie involgenti la sospensione ora in esame, relative ai rapporti tra la medesima e i poteri inibitori riconosciuti, rispettivamente, al giudice dell’impugnazione del titolo esecutivo e al giudice dell’esecuzione in caso d’intervenuta proposizione di opposizione successiva.
Muovendo dalla prima ipotesi delineata, per quanto detto sin qui – ossia, il differente oggetto dei giudizi di impugnazione e di opposizione e, conseguentemente, dei provvedimenti sospensivi ivi concessi e degli effetti specificamente discendenti da questi ultimi – consuetamente si afferma l’esistenza di un concorso tra il potere di inibitoria preventiva dell’azione esecutiva riconosciuto al giudice dell’opposizione a precetto ex art. 615, 1°co., c.p.c., e quello istituzionalmente spettante al giudice dell’impugnazione del titolo esecutivo (giudiziale). Come noto, non si tratta, però, di un concorso pieno, bensì destinato a essere regolato a seconda di quali siano i motivi volta per volta posti a fondamento dell’istanza di sospensione. Vi sono, cioè, ipotesi in cui l’inibitoria può essere correttamente indirizzata (solo) all’uno o all’altro giudice, a seconda dei motivi che la supportano: per l’esattezza, al ricorso dei presupposti fissati dagli artt. 283, 373, ecc., c.p.c., laddove involgenti fatti deducibili nel giudizio d’impugnazione, sarà solo il giudice dell’impugnazione a risultare munito del potere-dovere di sospendere l’efficacia esecutiva del titolo (giudiziale) azionato; viceversa, se la richiesta di sospensione voglia fondarsi (oltreché sull’impignorabilità dei beni) su fatti sopravvenuti alla formazione del titolo esecutivo (giudiziale), identificabili nel fumus oppositionis, sarà il giudice dell’opposizione a precetto ex art. 615, 1°co., c.p.c. a risultare investito del potere-dovere di concedere la sospensione preventiva dell’azione esecutiva. Oltre a tali considerazioni, permane l’autonoma utilità rivestita dai due provvedimenti sospensivi, in particolare in ragione della possibilità di reclamare ex art. 669-terdecies c.p.c. (e conseguentemente revocare) l’inibitoria concessa dal giudice dell’opposizione a precetto[15].
Più delicato, viceversa, appare il tema del concorso tra il potere in discorso e quello riconosciuto al giudice dell’opposizione successiva ex art. 624, 1°co., c.p.c. di sospendere il processo esecutivo. Occorre a tal proposito precisare che dal complessivo tenore dell’art. 615, 1°co., c.p.c., pare emergere come l’istanza di sospensione ivi disciplinata debba essere proposta prima che sia iniziata l’esecuzione forzata, ché, una volta effettuato il pignoramento, l’opposizione e la correlata richiesta di sospensione dell’esecuzione transiterebbero nella competenza del giudice dell’esecuzione[16].
La questione riguarda, anzitutto, la conservazione, in capo al giudice dell’opposizione a precetto, del potere di sospendere l’efficacia esecutiva del titolo una volta che, dopo la presentazione dell’istanza di sospensiva ex art. 615, 1°co., c.p.c., sia stato dato avvio all’esecuzione forzata[17]. La possibilità di un siffatto concorso viene negata da parte della dottrina e della giurisprudenza, propense a riconoscere in capo al giudice dell’opposizione a precetto il potere di sospendere l’efficacia esecutiva del titolo solo fino a che non sia iniziata l’esecuzione, transitando il potere sospensivo, successivamente a tale momento, in capo al giudice dell’esecuzione che sia investito di un’opposizione successiva[18]. Secondo altre voci, all’opposto, il potere del giudice dell’opposizione a precetto di sospendere l’efficacia esecutiva del titolo non verrebbe meno con l’avvio dell’esecuzione forzata e l’insorgenza, in capo al giudice dell’esecuzione, del potere di sospendere la procedura esecutiva ex artt. 624 o 618, 2°co., c.p.c., in ipotesi di intervenuta proposizione di un’opposizione esecutiva[19].
La soluzione da preferire appare quest’ultima, in considerazione del fatto – tra l’altro – che i due poteri sospensivi in esame hanno due oggetti differenti, rivelandosi idoneo, quello esercitato ex art. 615, 1°co., c.p.c., oltre che a sospendere l’esecuzione già iniziata, anche a impedire l’avvio di ulteriori procedure esecutive fondate sul medesimo titolo[20]: in altri termini, anche in questo caso è l’autonoma utilità rivestita dal provvedimento di sospensione ex art. 615, 1°co., c.p.c., a giustificare il concorso con quello pronunciabile in caso di opposizione successiva. Ciò posto, il concorso tra i due poteri sospensivi è destinato a essere regolato dalle regole in materia di litispendenza, conseguentemente escludendosi reciprocamente laddove fondati su identici presupposti[21].
È così possibile trascorrere alle ipotesi di autentica sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo, da indentificarsi, come anticipato, con le fattispecie (tipiche) in cui la legge accorda al giudice dell’impugnazione del titolo giudiziale il potere di inibirne l’efficacia esecutiva: si tratta dei casi variamente disciplinati dagli artt. 283, 351, 373, 401, 407, 431, 447-bis, 649, 668 e 830 c.p.c.
In ciascuna di tali ipotesi, riscontrati i presupposti fissati ex lege, il giudice della cognizione (ossia, «il giudice davanti al quale è impugnato il titolo esecutivo» di cui discorre l’art. 623 c.p.c.) concede, su istanza di parte, la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo medesimo: vicenda che, come noto, si traduce in una fattispecie di sospensione necessaria (c.d. “esterna”) del processo esecutivo che dovesse essere già stato instaurato, e di cui il giudice dell’esecuzione non deve far altro che prendere atto, anche d’ufficio, con provvedimento meramente dichiarativo[22]. Ci troviamo, anche in questo caso, al cospetto di una piana applicazione del principio nulla executio sine titulo, dove al venir meno del titolo esecutivo fondante l’esecuzione forzata (per intervenuta sospensione della sua efficacia esecutiva) corrisponde l’impossibilità, per la medesima, di avere ulteriore seguito.
Vi sono, tuttavia, determinate fattispecie che arricchiscono tale lineare quadro fattuale di alcune peculiarità.
Anzitutto, sappiamo (seguendo l’insegnamento di Cass. civ., sez. un., n. 61/2014 e la logica di oggettivizzazione degli atti esecutivi dalla stessa professata) che nel caso in cui l’efficacia esecutiva del titolo portato dal creditore procedente sia sospesa, ma all’interno della procedura esecutiva siano intervenuti altri creditori muniti di un valido ed efficace titolo esecutivo, la prosecuzione dell’esecuzione forzata su impulso di questi ultimi non è impedita dalla vicenda sospensiva occorsa al creditore pignorante[23].
In altri termini, non ad ogni ipotesi di sopravvenuta sospensione del titolo portato dal creditore procedente consegue, in via necessaria, la sospensione del processo esecutivo: ancorché, ovviamente, ciò non significhi affatto scivolare in un’esecuzione condotta in assenza di titolo esecutivo, confluendo anche la vicenda in esame entro i binari tracciati dalla regola nulla executio sine titulo. Ne discende che, in caso di concorso di creditori (titolati) nell’espropriazione forzata, il provvedimento di sospensione c.d. necessaria che il giudice dell’esecuzione è tenuto a pronunciare ex art. 623 c.p.c. sia caratterizzato da un ambito soggettivo di efficacia ben definito, ossia circoscritto al solo creditore procedente (l’efficacia del cui titolo sia stata sospesa), e che non può però incidere anche sui poteri che l’art. 500 c.p.c. riconosce ai creditori intervenuti muniti di titolo esecutivo. In altri termini, nel caso che stiamo considerando il giudice dell’impugnazione – che sospende l’efficacia esecutiva del titolo (e non, ovviamente, il processo esecutivo) – si limita a incidere sull’efficacia esecutiva del solo titolo impugnato, portato dal creditore procedente, non potendo (ovviamente) in alcun modo toccare le posizioni degli altri creditori intervenuti titolati, che conserveranno intatti i poteri loro riconosciuti dal richiamato art. 500 c.p.c.: esattamente come quando venga sospesa dal giudice dell’impugnazione l’efficacia esecutiva del titolo portato dal creditore intervenuto, evento in alcun modo idoneo a determinare la sospensione dell’intero processo esecutivo, anche in danno del creditore procedente il cui titolo abbia conservato la propria efficacia. Dalla prospettiva del giudice dell’esecuzione, ciò implica che, dedotta dal debitore, ex art. 486 c.p.c., l’esistenza di un provvedimento sospensivo dell’efficacia esecutiva del titolo portato dal creditore procedente pronunciato dal giudice dell’impugnazione, egli, ai sensi dell’art. 623 c.p.c., dovrà limitarsi a prendere atto del fatto che il (solo) creditore procedente è momentaneamente privo di poteri di impulso processuale all’interno del processo esecutivo, dovendo poi passare a valutare, in capo agli intervenuti, la sussistenza dei poteri loro riconosciuti dall’art. 500 c.p.c.: e laddove gli stessi risultino tuttora in possesso di un titolo munito di efficacia esecutiva, alla sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo portato dal creditore procedente, pronunciata dal giudice dell’impugnazione, non potrà evidentemente conseguire la sospensione dell’intero processo esecutivo.
Se, nel caso esaminato, la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo portato da un creditore (non importa, ora, se procedente o intervenuto) non determina necessariamente la sospensione del processo esecutivo, qual è la sorte da riconoscere allo stesso?
Anzitutto, si deve ritenere che tale creditore non per ciò solo possa dirsi tecnicamente estromesso dall’esecuzione forzata: il suo atto di esercizio (in via principale o in via incidentale) dell’azione esecutiva non perde, cioè, la propria efficacia, continuando a legittimarlo a partecipare alla procedura, seppur con poteri depotenziati dal provvedimento che ha sospeso l’efficacia esecutiva del titolo. La posizione da riconoscere a tale creditore appare piuttosto simile a quella propria del creditore intervenuto non titolato, il quale del pari non è ammesso a svolgere atti c.d. espropriativi, potendo solo partecipare, come recita l’art. 500 c.p.c., alla distribuzione della somma ricavata, subordinatamente, però, all’avvenuto riconoscimento – espresso o tacito – del proprio diritto di credito, ovvero al fatto che riesca a munirsi in tempo utile di un titolo esecutivo. In altri termini, il creditore che stiamo (che in un certo senso ha perso il proprio titolo esecutivo), può essere accostato al creditore (ab origine) privo di titolo esecutivo, che all’esito dell’intervenuto disconoscimento del suo credito necessiti di munirsi di un titolo: in entrambi i casi, cioè, tali creditori, per poter (quantomeno) partecipare alla distribuzione della somma ricavata devono munirsi di un titolo esecutivo, rectius, per il caso che stiamo considerando devono far riacquistare al titolo di cui già sono muniti la propria efficacia esecutiva. E ciò, con una serie di conseguenze applicative.
Il riferimento, anzitutto, è a quelle ben delineate da Cass. civ., 16 febbraio 2021, n. 4034[24], la quale ha a suo tempo chiarito che laddove il titolo del creditore intervenuto, provvisoriamente sospeso, riacquisti efficacia esecutiva in data anteriore all’approvazione del definitivo progetto di distribuzione, l’effetto preclusivo della partecipazione alla distribuzione delle somme ricavate dalla vendita debba ritenersi limitato alle distribuzioni avvenute medio tempore, allo scopo di salvaguardare sia il principio della par condicio creditorum – in quanto, in tal modo, viene favorito il concorso dei creditori nel processo esecutivo avente ad oggetto i beni del comune debitore – sia quello della parità di trattamento tra creditore intervenuto e creditore pignorante, il quale ultimo (e, beninteso, in mancanza di un concorso di creditori titolati nell’esecuzione forzata) in caso di perdita della provvisoria esecutività del titolo può beneficiare della sospensione del processo esecutivo ex art. 623 c.p.c.
In altri termini, come si anticipava, il titolo che abbia visto sospesa la propria efficacia esecutiva non per questo perde ogni effetto all’interno dell’espropriazione forzata: il creditore intervenuto sulla scorta di tale titolo, infatti, non potrà concorrere alle distribuzioni che dovessero avvenire medio tempore, ma laddove il titolo recuperi in tempo utile la propria efficacia, ridarà pieno vigore anche all’atto di intervento esplicato, legittimando il creditore alla partecipazione alla (ulteriore) fase distributiva. Il che, appunto, ci riporta alla situazione in cui versa il creditore intervenuto non titolato il cui credito sia stato disconosciuto ex art. 499, 6°co., c.p.c., e che si munisca in tempo utile di un titolo esecutivo (potendo peraltro beneficiare, nelle more, di un provvedimento di accantonamento ex art. 510, 3°co., c.p.c.).
In secondo luogo – ed è proprio il tema dell’accantonamento a condurci a tale ipotesi, non direttamente considerata dalla Cassazione – è opportuno chiedersi cosa accada nell’eventualità in cui il titolo esecutivo portato dal creditore intervenuto riacquisti la propria efficacia esecutiva successivamente alla chiusura dell’esecuzione forzata. In tal caso, il creditore è destinato a perdere definitivamente l’esercizio dei propri poteri processuali all’interno della procedura esecutiva e, così, ogni diritto di partecipare alla fase distributiva? Per quanto detto sin qui – ossia, sulla base dell’analogia condotta tra il creditore in questione e quello intervenuto privo di titolo esecutivo che si attivi per procurarsene uno, oltreché per l’esigenza di non pregiudicare ingiustamente tale categoria creditoria – la risposta dovrebbe essere negativa, in considerazione, per l’appunto, della possibilità che potrebbe essere riconosciuta al creditore di richiedere l’accantonamento delle somme lui spettanti nelle more della conferma o della revoca dell’efficacia esecutiva del titolo[25]. Anche in tal caso, dunque, nessuna deroga è ravvisabile alla regola nulla executio sine titulo: nessuna procedura esecutiva, cioè, è iniziata, proseguita o partecipata in assenza di un titolo esecutivo (o, meglio, senza che il titolo abbia riacquistato la sua efficacia esecutiva). Occorre poi ammettere, a tale riguardo, che un precedente rinvenibile nella giurisprudenza di merito, e avente ad oggetto la medesima fattispecie qui considerata, si è espresso in senso avverso rispetto alla soluzione proposta, facendo leva sulla natura eccezionale della norma (l’art. 510, 3°co., c.p.c.) in materia di accantonamenti[26]. L’argomento, a parere di chi scrive, non è dirimente: a differenza di quanto accade in materia concorsuale, infatti, non paiono sussistere, in quella esecutiva individuale, analoghe rationes che suggeriscano di imporre un principio di tassatività o tipicità degli accantonamenti (su tutte, l’esigenza di non appesantire e ritardare eccessivamente lo svolgimento della procedura liquidatoria)[27]; d’altro canto, disporre un accantonamento a favore del creditore portatore di un titolo la cui efficacia esecutiva sia stata temporaneamente sospesa perseguirebbe la medesima finalità cautelare propria della fattispecie considerata dall’art. 499, 6°co., c.p.c., giustificandone, così, l’applicabilità in via analogica.
Ancora, l’indagine del tema non può non portare a interrogarsi sui rapporti tra l’intervenuta sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo portato da un creditore partecipante all’espropriazione forzata e l’istituto della sostituzione esecutiva ex art. 511 c.p.c.[28]: il quesito, nel dettaglio, riguarda la possibilità per tale disciplina di trovare applicazione anche laddove il titolo portato dal creditore sostituito veda sospesa la propria efficacia esecutiva. In tal caso, cioè, è lecito chiedersi, anzitutto, se permanga, in capo al creditor creditoris, la possibilità stessa di sostituirsi al proprio debitore diretto; e, in caso affermativo, quali siano le conseguenze determinate dall’intervenuta sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo portato dallo stesso.
Sul punto, è opportuno ricordare come l’art. 511 c.p.c. riconosca il potere di presentare domanda di sostituzione al creditore «di un creditore avente diritto alla distribuzione». La norma, dunque, si limita a subordinare il potere del creditor creditoris di sostituirsi al proprio debitore diretto alla circostanza che quest’ultimo abbia maturato a proprio favore il diritto alla distribuzione del ricavato: ciò che accade, in primis, per i creditori muniti di titolo esecutivo. Ciò dovrebbe significare che, nel caso in cui il creditore sostituendo abbia vista sospesa l’efficacia esecutiva del proprio titolo, venendo meno (seppur temporaneamente) il suo diritto di partecipare alla distribuzione del ricavato, viene anche meno il potere del creditor creditoris di presentare domanda di sostituzione: e, diremmo, pour cause, trattandosi di istituto destinato a venire in gioco in fase distributiva e finalizzato, con forme assai snelle e semplificate, ad attribuire al creditor creditoris le somme che spetterebbero al creditore sostituito. Resta inteso che, laddove il creditore partecipante all’espropriazione forzata e il cui titolo sia stato sospeso si sia attivato per richiedere l’accantonamento delle somme ex art. 510, 3°co., c.p.c., all’eventuale ripristino dell’efficacia esecutiva del suo titolo consegue, parallelamente, il ripristino del potere del creditor creditoris di presentare domanda di sostituzione la quale, a quel punto, verrà fatta valere sulla somma che era stata accantonata e che, in mancanza di sostituzione ex art. 511 c.p.c., sarebbe stata consegnata al creditore partecipante all’espropriazione forzata. Si deve escludere, all’opposto, la sussistenza di un potere, in capo al creditor creditoris, di surrogarsi al proprio debitore diretto allo scopo di richiedere, in caso di sua inerzia, l’accantonamento ex art. 510, 3°co., c.p.c.[29]: ciò che manca nel caso di specie, infatti, è, più radicalmente e a monte, la possibilità stessa per il creditor creditoris di presentare domanda di sostituzione nei confronti del suo debitore diretto, difettando in capo a quest’ultimo quel diritto di partecipare alla distribuzione del ricavato di cui discorre l’art. 511 c.p.c.
Altro tema di assoluto interesse riguarda, poi, il rapporto tra il potere del giudice dell’impugnazione di sospendere l’esecutività del titolo (giudiziale) e quello esercitabile dal giudice dell’esecuzione nella fase c.d. necessaria delle opposizioni successive, di sospendere il processo esecutivo per gravi motivi a norma degli artt. 624 o 618, 2°co., c.p.c.[30]. In altri termini, nel caso in cui il giudice dell’impugnazione abbia sospeso l’esecutività del titolo portato dal creditore pignorante, il debitore resta legittimato a richiedere, in sede di opposizione successiva, un secondo provvedimento sospensivo ex artt. 624 o 618, 2°co., c.p.c.? Esiste un possibile concorso tra sospensione esterna e interna del processo esecutivo?
La risposta – con il conforto, come subito si vedrà, di parte autorevole della dottrina – appare affermativa, ancorché subordinatamente ad una precisazione: la possibilità di coesistenza tra i due provvedimenti sospensivi (fondati, come noto, su presupposti applicativi diversi, in considerazione del differente oggetto dei relativi giudizi[31]) induce infatti a concludere che, anche in tal caso, il concorso intanto possa ammettersi in quanto le rispettive istanze (e, dunque, le distinte inibitorie) risultino fondate su differenti ragioni.
La soluzione proposta appare poi avvalorata da diversi argomenti, tutti fondati sull’autonoma utilità rivestita dal provvedimento di sospensione c.d. interna rispetto a quella c.d. esterna, già ottenuta davanti al giudice dell’impugnazione. Si pensi, anzitutto, all’eventualità in cui nell’espropriazione forzata siano intervenuti altri creditori muniti di un (valido ed efficace) titolo esecutivo in cui, pertanto, all’inibitoria concessa dal giudice dell’impugnazione non consegue, necessariamente, la sospensione del processo esecutivo ex art. 623 c.p.c.: in tal caso, tale risultato pratico potrà essere raggiunto dal debitore tramite la richiesta di sospensione di cui ai successivi artt. 624 o 618, 2°co. In secondo luogo, l’autonoma utilità per il debitore rivestita dal provvedimento di sospensione pronunciato ex artt. 624 o 618, 2°co., c.p.c. può essere rinvenuta in ciò, che laddove venga meno la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo (ad esempio, per intervenuto rigetto dell’appello proposto dal debitore e conferma della sentenza di condanna pronunciata in primo grado), il processo esecutivo, anziché riprendere impulso, potrà permanere sospeso in virtù dei provvedimenti resi ex artt. 624 o 618, 2°co., c.p.c. Ma c’è un terzo argomento a favore della soluzione offerta, correttamente evidenziato da quella giurisprudenza di legittimità che si è espressa sul tema, ossia che l’autonoma utilità garantita al debitore dalla sospensione pronunciata ex artt. 624 o 618, 2°co., c.p.c. rispetto a quella di cui all’art. 623 c.p.c., risiederebbe nella possibilità, particolarmente appetibile sul piano pratico, di ottenere la conversione dell’ordinanza di sospensione in un provvedimento di estinzione della procedura esecutiva, per intervenuta “stabilizzazione” della prima, secondo il meccanismo disciplinato dall’art. 624, 3°co., c.p.c.[32]. Ma tutto ciò, lo si ripete, appare possibile solo allorché il provvedimento di sospensione c.d. interna si riveli come autonomo, ossia fondato su presupposti differenti rispetto a quelli determinanti la sospensione c.d. esterna, non riducendosi a un (abnorme) atto di recezione di quest’ultima.
3. La caducazione del titolo esecutivo.
Le vicende caducatorie del titolo esecutivo – coincidenti, sostanzialmente, con le ipotesi di riforma o cassazione del titolo, all’esito dell’impugnazione proposta contro lo stesso – in punto di attuazione della regola nulla executio sine titulo non si distinguono da quelle sospensive, potendo anzi essere raggruppate sotto la comune etichetta della sopravvenuta inefficacia del titolo esecutivo: in entrambi i casi, infatti, siamo al cospetto di fattispecie che, in quanto idonee a privare il titolo della sua efficacia esecutiva – e, con esso, il creditore del proprio diritto processuale di agire in executivis – finiscono per inibire la possibilità stessa di intraprendere o proseguire l’esecuzione forzata, determinando l’arresto del relativo procedimento (salvo, ovviamente, che nel processo esecutivo pendente siano già intervenuti altri creditori muniti di titolo esecutivo, abilitati allora a dare impulso a tale procedimento secondo i principi affermati da Cass. civ., sez. un., n. 61/2014[33]). Nelle considerazioni che seguiranno ci si limiterà, dunque, a enunciare le peculiarità che la vicenda della caducazione presenta, rispetto a quella della sospensione.
Una prima differenza riguarda ciò, che se la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo naturalmente si atteggia quale situazione temporanea, lo stesso non può dirsi in relazione alla caducazione, che fatalmente segna l’irreversibile venir meno del titolo: se, in altri termini, nel primo caso la sopravvenuta inefficacia del titolo esecutivo è solo transitoria, con le implicazioni pratiche poc’anzi esposte, nel caso della caducazione essa si atteggia come permanente. Tale considerazione, evidentemente, vale a escludere dall’attuale campo d’indagine tutte le riflessioni poco sopra spese in ordine ai poteri da riconoscere al creditore munito di un titolo la cui efficacia esecutiva sia stata (solo temporaneamente) sospesa. A tale riguardo, però, non appare superfluo domandarsi se il creditore, il cui titolo esecutivo sia stato sì caducato, ma con decisione fatta oggetto di impugnazione (e, dunque, non ancora trascorsa in cosa giudicata) possa essere equiparato (allo stesso modo di quanto proposto in relazione al creditore munito di titolo esecutivo sospeso) al creditore intervenuto non titolato, che si sia attivato per munirsi del titolo esecutivo: con conseguente possibilità di beneficiare, in fase distributiva, del provvedimento di accantonamento, in applicazione analogica del comb. disp. degli artt. 499, 6°co. e 510, 3°co., c.p.c. In questo caso, però – ferma l’assenza di tassatività delle ipotesi considerate dalla norma da ultimo richiamata – il confronto effettuato con le disposizioni in materia di accantonamenti nella liquidazione giudiziale pare escludere le condizioni per sostenere una soluzione affermativa: in particolare, le fattispecie di accantonamento specifico considerate dall’art. 227, 1°co., CCII (e, per suo tramite, dall’art. 204, 2°co., lett. c), CCII), hanno tutte riguardo a situazioni in cui il titolo portato dal creditore risulta sì sub iudice, trattandosi però di provvedimento affermativo dell’esistenza del credito, e non (come nella fattispecie che stiamo considerando) di provvedimento che nega l’esistenza di quel diritto di credito. In altri termini, appare chiara la differenza intercorrente tra creditore munito di un titolo esecutivo caducato, e creditore munito di un titolo esecutivo sospeso: è vero che, a rigore, in entrambi i casi possiamo dire di trovarci al cospetto di un creditore che si sta munendo di un titolo esecutivo agli effetti di cui all’art. 499, 6°co., c.p.c.: ma, per l’appunto, mentre nel caso interessato dalla vicenda sospensiva il creditore è effettivamente munito di un titolo che, ancorché sospeso nella sua efficacia esecutiva, tuttora afferma l’esistenza del proprio diritto di credito, non essendo ancora intervenuta la (solo eventuale) riforma o cassazione del provvedimento giudiziale che lo porta; in caso di caducazione del titolo esecutivo, viceversa, il creditore che cerca di munirsi di titolo esecutivo coltivando l’iter impugnatorio previsto contro il provvedimento che lo ha caducato non risulta più, almeno allo stato, munito di un titolo consacrante l’esistenza del suo diritto di credito.
Ciò chiarito, passiamo a indagare le altre conseguenze esercitate sull’esecuzione forzata pendente e sulle sue dinamiche dall’intervenuta caducazione del titolo esecutivo, al di là dell’appena descritta e piana esplicazione della regola nulla executio sine titulo, nella declinazione offerta dalla più volte richiamata Cass. civ., sez. un., n. 61/2014.
L’indagine può utilmente muovere, per i motivi che saranno presto chiariti, dal regime di rilevabilità della sopravvenuta caducazione del titolo all’interno del processo esecutivo. Ora, è nota come – proprio in applicazione del principio racchiuso nell’incipit dell’art. 474 c.p.c. – la sussistenza del titolo esecutivo sia riguardato, in giurisprudenza, come “presupposto necessario e sufficiente per l’azione esecutiva”, con la conseguenza per cui la sua sopravvenuta caducazione, oltreché deducibile dal debitore tramite opposizione ex art. 615 c.p.c., è affermata come pacificamente rilevabile d’ufficio dal giudice dell’esecuzione[34].
Se non vi sono motivi per dissentire da tale orientamento, il criticabile (e, invero, condivisibilmente criticato) salto logico compiuto dalla giurisprudenza di legittimità è, però, quello che vorrebbe l’intervenuta caducazione del titolo esecutivo rilevabile d’ufficio anche da parte del giudice dell’opposizione esecutiva: affermazione che si fonda pur sempre sulla qualificazione del titolo quale presupposto fondante l’esecuzione forzata[35]. Ancorché la giurisprudenza di legittimità appaia ormai saldamente orientata in tal senso, la stessa non si è però mai preoccupata di argomentare adeguatamente sul punto: prestando il fianco a non pochi rilievi, specie considerato che tale indirizzo contrasta (insanabilmente, diremmo), con altro, parimenti diffuso, interno alla Suprema Corte, che tende a qualificare il giudizio di opposizione all’esecuzione quale procedimento retto dal principio della domanda e fondato su una domanda eterodeterminata[36].
Ad ogni buon conto, scontata la deduzione (anche d’ufficio o solo su istanza di parte, a seconda dell’impostazione che si ritenga di preferire), in sede di opposizione all’esecuzione, della sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo, è opportuno ricordare, seppur con estrema sintesi, il dibattito insorto attorno agli effetti dispiegati da tale evento sul giudizio oppositivo: gli estremi del quale, lo si ricorda, hanno riguardato la formula con cui deve chiudersi il giudizio di opposizione, nonché la regolazione delle relative spese di lite. Il contrasto giurisprudenziale maturato attorno a tali temi[37] è stato risolto, in tempi non troppo remoti, da Cass. civ., sez. un., 21 settembre 2021, n. 25478[38], la quale, aderendo all’orientamento espresso dalla Sezione III, ha affermato che alla sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo debba conseguire la definizione del giudizio di opposizione all’esecuzione per altri motivi proposto mediante una pronuncia di cessazione della materia del contendere (non già di accoglimento nel merito dell’opposizione), con regolazione delle spese processuali secondo il criterio della soccombenza virtuale, da valutare unicamente in relazione agli originari motivi di opposizione. Optando per tale criterio di regolamentazione delle spese le Sezioni Unite sposano, evidentemente, ragioni di opportunità, mosse dall’esigenza di scoraggiare la proposizione di opposizioni meramente strumentali: porre le spese del giudizio di opposizione all’esecuzione sempre a carico del creditore opposto finirebbe, secondo il giudice di legittimità, per incoraggiare il debitore a proporre comunque l’opposizione, anche se del tutto infondata, al solo scopo di lucrare le relative spese in caso di sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo[39].
Tornando alle vicende caducatorie del titolo esecutivo, una fattispecie che appare degna di approfondimento è, poi, quella recentemente introdotta dalla riforma Cartabia (d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149) e dal relativo correttivo (d.lgs. 31 ottobre 2024, n. 164) incidendo sull’art. 614-bis, 2°co., c.p.c., disciplinante le misure coercitive indirette.
In particolare, all’interno di tale norma – che, lo si ricorda, ha riguardo al caso in cui sia il giudice dell’esecuzione a concedere la misura coercitiva indiretta, laddove non richiesta nel processo di cognizione o accessoria a un titolo esecutivo stragiudiziale[40] – viene aggiunta la precisazione secondo cui il provvedimento (pronunciato dal giudice dell’esecuzione e contenente la misura coercitiva indiretta) perde efficacia in caso di estinzione del processo esecutivo. Siamo, evidentemente, di fronte a un’espressa codificazione di un’ulteriore fattispecie di caducazione di un titolo esecutivo (giudiziale).
Ci sono, tuttavia, diversi aspetti che la norma non chiarisce adeguatamente, prontamente evidenziati dai primi commentatori dalla riforma.
In primo luogo, l’art. 614-bis, 2°co., c.p.c., non è del tutto esaustivo nel chiarire le conseguenze derivanti da tale caducazione in relazione alle sorti del credito maturato medio tempore in virtù dell’operatività della misura coercitiva indiretta. Sul punto, peraltro, si condivide appieno l’opinione di chi ha osservato come tale credito non venga travolto dalla sopravvenuta estinzione del processo esecutivo, ma resti acquisito in capo al creditore, allo stesso modo di quanto accade al credito maturato nelle more dell’impugnazione del provvedimento di cognizione che commina la misura coercitiva indiretta, per il caso di sua riforma o cassazione[41].
Il vero punto oscuro della disciplina, però, risiede nella determinazione di quale sia il processo esecutivo, la cui estinzione è idonea a determinare la caducazione di quella misura. È doveroso premettere che, nonostante i lodevoli sforzi effettuati in dottrina per munire la norma di un significato ragionevole, e al di là delle preferenze personali, l’insipienza del conditor legis impedisce di elaborare una proposta ricostruttiva che possa dirsi pienamente soddisfacente.
Ad ogni buon conto, si potrebbe anzitutto pensare che l’(oscura) intentio legis sia quella di collegare la sorte della misura coercitiva indiretta a quella del procedimento, ex art. 612 c.p.c., instaurato dinanzi al giudice dell’esecuzione al fine di ottenerla: una soluzione, però, presto destinata ad essere scalzata dalla scena, se solo si consideri che il processo instaurato ex art. 612 c.p.c. per ottenere la pronuncia della misura coercitiva indiretta non può estinguersi in un momento successivo rispetto alla pronuncia del provvedimento[42].
Si è anche ipotizzato che il processo esecutivo, la cui estinzione sarebbe idonea a determinare la caducazione della misura coercitiva indiretta pronunciata dal giudice dell’esecuzione, si identificherebbe con il procedimento di espropriazione forzata avviato per recuperare le somme maturate in conseguenza dell’applicazione dell’astreinte. Anche tale opinione, però, non è apparsa affatto soddisfacente, non essendo chiaro il motivo per cui l’estinzione (per qualsiasi motivo occorsa) del processo finalizzato ad attuare la misura coercitiva indiretta dovrebbe poi anche determinare la caducazione della medesima[43].
Le difficoltà interpretative innescate dalla norma originano dal fatto che, come noto, quando si ha a che fare con le misure coercitive indirette ci si trova di norma al cospetto di obblighi (di fare o di non fare) infungibili, in quanto tali insuscettibili di attuazione coattiva nelle forme dell’esecuzione forzata diretta: di talché, in tali ipotesi, l’estinzione destinata a travolgere la misura coercitiva indiretta resa dal giudice dell’esecuzione non potrebbe mai essere riferita a un ipotetico processo instaurato per attuare coattivamente l’obbligo infungibile cui la misura medesima accede. Occorre peraltro aggiungere che il d.l. 27 giugno 2015, n. 83 (conv., con modificazioni, dalle l. 6 agosto 2015, n. 132) ha in certo qual modo snaturato l’istituto delle misure di coercizione indiretta, prevedendo come le stesse possano accedere non soltanto a provvedimenti di condanna all’adempimento di obblighi (di fare o di non fare) infungibili, bensì – potenzialmente estendendone notevolmente l’ambito applicativo – a tutti i provvedimenti di condanna «all’adempimento di obblighi diversi dal pagamento di somme di denaro», ivi inclusi, evidentemente, obblighi di natura fungibile e suscettibili di esecuzione forzata diretta nelle forme dell’esecuzione in forma specifica[44].
È proprio muovendo da quest’ultima fattispecie, peraltro, che è stata articolata la soluzione probabilmente più seducente alla questione in esame: secondo la stessa, il termine «estinzione» utilizzato dalla norma sarebbe in realtà da intendersi come riferito all’“esaurimento” – ossia, alla conclusione con la soddisfazione del creditore ovvero con l’adempimento spontaneo del debitore che comporti la successiva estinzione – della procedura di esecuzione forzata diretta in forma specifica che il creditore abbia (eventualmente) scelto di avviare per dare attuazione coattiva all’obbligo principale, in quanto a ciò, evidentemente, conseguirebbe il venir meno dell’utilità stessa della misura coercitiva indiretta concessa dal giudice dell’esecuzione[45]. L’aspetto convincente di tale ricostruzione risiede, in particolare, nella capacità di dotare la (quasi indecifrabile) disciplina in esame di una ratio giustificatrice ragionevole, ricollegando le sorti della misura coercitiva indiretta all’intervenuta attuazione obbligo principale. Tale conclusione, tuttavia, reca con sé il non trascurabile inconveniente di ridimensionare i poteri riconosciuti al giudice dall’esecuzione dall’art. 614-bis, 2°co., c.p.c., nella misura in cui, scontando che il titolo esecutivo “principale” sia sempre idoneo a dar luogo a un processo di esecuzione forzata in forma specifica – e, dunque, porti sempre condanna all’adempimento di un obbligo fungibile (ancorché diverso dal pagamento di somme di denaro) – costringe a negare che il potere del giudice dell’esecuzione di concedere la misura coercitiva indiretta sussista altresì laddove il titolo esecutivo “principale” rechi condanna a un obbligo (di fare o di non fare) infungibile[46].
Ad ogni buon conto, la preferenza di chi scrive non può che andare a quest’ultima soluzione interpretativa: dunque, è l’“estinzione” – rectius: l’esaurimento, nel senso visto poc’anzi – del processo esecutivo avviato per ottenere coattiva attuazione dell’obbligo (fungibile) “principale” a determinare la caducazione della misura coercitiva indiretta che sia stata eventualmente pronunciata, nelle more, dal giudice dell’esecuzione.
È solo il caso di effettuare un’ultima precisazione. Alcune opinioni, infatti, hanno ritenuto di desumere dall’onere di previa notificazione del precetto previsto dall’art. 614-bis, 2°co., c.p.c. per richiedere al giudice dell’esecuzione la pronuncia della misura coercitiva indiretta, la conclusione per cui il meccanismo ora in esame – ossia, la caducazione della misura resa dal giudice dell’esecuzione in caso di estinzione del processo esecutivo “principale” – presupporrebbe la previa instaurazione del procedimento di esecuzione forzata diretta: in altri termini, la misura coercitiva emessa dal giudice dell’esecuzione successivamente alla notificazione del precetto perderebbe la propria efficacia in caso di estinzione del processo di esecuzione forzata diretta del titolo “principale”, da iniziarsi (necessariamente) entro i novanta giorni dalla notifica del precetto medesimo[47]. Ciò, avrebbe lo scopo di evitare che il creditore possa non coltivare l’esecuzione forzata “principale” provocandone l’estinzione anticipata e, al contempo, pretendere il pagamento degli importi che nel tempo si accumulano, grazie alla comminatoria senza termine disposta dal giudice dell’esecuzione[48]: il 2°co. dell’art. 614-bis c.p.c., infatti, a differenza del 1°, non prevede la possibilità di fissare un termine di durata della misura.
In realtà, non pare vi sia alcuna necessità di predicare – peraltro, nel silenzio della norma sul punto – l’esistenza di un siffatto onere, per il creditore, di previamente instaurare il procedimento di esecuzione forzata diretta. V’è da dire, infatti, che nulla pare opporsi alla possibilità di applicare analogicamente la disposizione di cui al 1°co. anche alla fattispecie ora in esame, con la conseguenza per cui il giudice dell’esecuzione, per regola generale, sarà tenuto anche a fissare la durata della misura coercitiva indiretta. Ciò consentirebbe, allora, di richiedere la misura ex art. 614-bis, 2°co., c.p.c. – ossia, senza onere di instaurare il processo di esecuzione forzata diretta – senza i timori sopra esposti, ché, evidentemente, la misura godrebbe comunque di un termine di durata proprio e autonomo. D’altro canto, in caso di avvio della procedura di esecuzione forzata diretta, sul termine di durata dell’astreinte fissato dal giudice dell’esecuzione finirebbe comunque per prevalere quello determinato dall’estinzione (rectius: esaurimento) del processo esecutivo “principale”, quale evento idoneo ex lege a determinare la caducazione della misura coercitiva indiretta. Ci pare, questa, soluzione finalizzata sia a valorizzare l’istituto di cui all’art. 614-bis c.p.c. e i poteri riconosciuti al giudice dell’esecuzione dal suo 2°co., sia a consentire un risparmio di attività processuali, nella misura in cui evita la necessaria instaurazione del processo esecutivo “principale”; e aderendo alla quale una vera problematica si porrebbe, in definitiva, solo allorché il creditore intraprenda la strada dell’esecuzione forzata indiretta, senza avviare l’esecuzione forzata diretta, e il giudice dell’esecuzione manchi di apporre un termine di durata alla misura coercitiva: ma, in tal caso, sarebbe onere del debitore o di presentare istanza allo stesso al fine di richiedere l’integrazione del provvedimento ovvero, ancor più radicalmente – dove, cioè, si predichi l’esistenza di un vero e proprio obbligo, in capo al giudice dell’esecuzione, di apporre un termine di durata alla misura – di opporsi allo stesso ex art. 617 c.p.c. al fine di denunciarne l’invalidità, per mancanza di un suo elemento essenziale.
4.(Segue). Caducazione o “sostituzione” del titolo esecutivo?
Tra le vicende che possono interessare la vita del titolo esecutivo, e che in certo modo s’intrecciano con quella, appena esaminata, della caducazione, quella della sostituzione – talvolta definita, in giurisprudenza, nei termini di “trasformazione” del titolo esecutivo[49] – pare presentare alcuni aspetti tuttora bisognevoli di qualche chiarimento.
Anzitutto, dev’essere precisato che con sostituzione del titolo esecutivo ci si intende riferire a quella gamma di fenomeni in cui a un primo titolo esecutivo (giudiziale), azionato o azionabile in via esecutiva, se ne sostituisce un secondo, il quale, per i motivi che andremo subito a esaminare, subentra al primo (anche) nella sua idoneità a (continuare a) reggere l’esecuzione forzata. In questa serie di ipotesi, dunque, il principio nulla executio sine titulo impone che al primo titolo esecutivo, caducato in virtù della pronuncia del secondo, si sostituisca quest’ultimo, quale unico titolo capace di accordare al creditore il diritto processuale ad agire in executivis.
La prima, classica fattispecie di sostituzione del titolo esecutivo è rappresentata dall’eventualità in cui la sentenza di condanna di primo grado venga fatta oggetto d’impugnazione da parte del debitore, e il giudizio d’appello sfoci in una pronuncia confermativa di quella di prime cure[50]: a differenza dell’ipotesi esaminata nel precedente paragrafo – in cui, lo si ricorda, la pronuncia di condanna di primo grado veniva riformata all’esito del giudizio d’appello – non siamo dunque al cospetto di una fattispecie di caducazione del titolo esecutivo bensì, piuttosto e per l’appunto, della sua sostituzione, operata dalla sentenza d’appello che abbia confermato la sentenza di condanna di primo grado.
Non è un caso se, per descrivere il fenomeno appena illustrato, si è scelto di utilizzare l’espressione “sostituzione” del titolo esecutivo: ché, come subito si vedrà, le (note) criticità che tale vicenda solleva sul piano pratico sono innescate (ma pure si prestano ad essere risolte), facendo riferimento alla natura sostitutiva propria dell’appello[51]. Nel dettaglio, e per quanto direttamente interessa nella presente sede, infatti, l’idoneità della sentenza di appello confermativa della decisione di primo grado a sostituirsi a quest’ultima sin dal momento della sua pubblicazione, a rigore si atteggia a evento idoneo a determinare la caducazione del titolo esecutivo (ossia, la sentenza di primo grado): con quali conseguenze all’interno dell’esecuzione forzata?
Ora, nessuna problematica particolare si presenta nel caso in cui l’esecuzione forzata non fosse ancora stata avviata dal creditore sulla base della sentenza di condanna di primo grado, poi “sostituita” da quella di appello contenente esclusivamente il rigetto del gravame proposto e l’integrale conferma della sentenza di prime cure: in tal caso (e, diremmo, senza pregiudizio né particolare aggravio per il creditore medesimo) la procedura esecutiva potrà (e dovrà) essere avviata azionando, quale (unico) titolo esecutivo idoneo a reggerla, la sentenza d’appello.
Le criticità, viceversa, si pongono nel caso in cui l’esecuzione forzata fosse già stata avviata sulla base della sentenza di condanna di primo grado, e risulti tuttora pendente: in tal caso, l’intervenuta “sostituzione” del titolo esecutivo provocata dalla pronuncia della sentenza d’appello è idonea, in applicazione della regola nulla executio sine titulo, a travolgere la procedura esecutiva (la quale, infatti, venuta meno la decisione di prime cure non sarebbe più retta da un valido titolo esecutivo), o la stessa è comunque in grado di proseguire, senza soluzione di continuità, sulla base della sentenza d’appello (idonea a sostituirsi a quella di primo grado anche nella sua essenza di titolo esecutivo)?
Ovviamente, il tema, a partire dalla pronuncia di Cass. civ., sez. un., n. 61/2014, ha ragione di porsi solo per l’eventualità in cui, all’interno dell’espropriazione forzata avviata, non abbiano esplicato intervento altri creditori muniti di titolo esecutivo: ché, in tal caso, a prescindere dalle conseguenze che si vogliano ricollegare alla vicenda “sostitutiva” del titolo, potrebbe pur sempre supplire quello portato dal creditore intervenuto. Ciò chiarito, la questione, spesso affrontata dalla giurisprudenza di legittimità, appare ancora, almeno in parte, dibattuta.
Non sono infatti mancate decisioni, particolarmente rigorose, le quali hanno affermato che, poiché la sentenza di appello si sostituisce, dalla data della sua pubblicazione, alla sentenza di primo grado, sarebbe altresì idonea a privare quest’ultima della sua idoneità a legittimare la prosecuzione della procedura esecutiva, senza che sia necessario attenderne il suo passaggio in giudicato[52].
Vi sono casi, tuttavia – e questo è senz’altro uno di quelli – in cui il processo civile, più che abbandonarsi a eccessivi formalismi, dovrebbe assecondare soluzioni di buon senso: arrivando, allora, a ritenere assolutamente preferibile che, nel caso descritto, la procedura esecutiva ben possa proseguire sulla base della sentenza d’appello confermativa di quella di primo grado.
Occorre peraltro osservare che la soluzione proposta non appare priva di addentellati testuali all’interno del codice di rito: il riferimento è, in particolare, all’art. 653, 2°co., c.p.c., che per il caso di accoglimento parziale dell’opposizione a decreto ingiuntivo espressamente prevede, da un lato, che il titolo esecutivo sia costituito solo dalla sentenza che chiude il giudizio ex art. 645 c.p.c. e che si sostituisce al decreto ingiuntivo medesimo, e, dall’altro, che conservino i propri effetti, nei limiti della somma o della quantità ridotta, gli atti di esecuzione già compiuti in base al decreto ingiuntivo (poi revocato). In altri termini, la nostra legge processuale espressamente prevede che, in caso di conferma (parziale) del decreto ingiuntivo all’esito del giudizio di opposizione ex art. 645 c.p.c., la sentenza conclusiva di tale giudizio si sostituisca (anche quale titolo esecutivo) al decreto ingiuntivo medesimo, e che la procedura esecutiva avviata sulla base di quest’ultimo possa proseguire ed essere retta dalla sentenza sostitutiva dello stesso, essendo fatti salvi gli atti esecutivi già compiuti: se così non fosse, infatti, la legge processuale avrebbe dovuto contemplare l’esito opposto, ossia la caducazione degli stessi. E se quanto previsto dall’art. 653, 2°co., c.p.c. vale per il caso della sostituzione del decreto ingiuntivo con la sentenza conclusiva del giudizio di opposizione ex art. 645 c.p.c., lo stesso deve valere per il caso da cui abbiamo preso le mosse, ossia della decisione di prime cure sostituita dalla pronuncia d’appello, in considerazione del fatto che, come affermato dalla migliore dottrina, il procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo condividerebbe la stessa natura del giudizio d’appello, quale mezzo di gravame destinato a concludersi con un provvedimento sostitutivo del decreto impugnato[53]. L’efficacia sostitutiva della sentenza di appello confermativa della decisione di prime cure comporterebbe altresì che, venuta meno la sentenza d’appello per effetto della sua cassazione, si verificherebbe una fattispecie di difetto sopravvenuto del titolo esecutivo ab origine, in quanto, se tale sentenza aveva sostituito il titolo esecutivo originariamente costituito dalla sentenza di primo grado, il suo venir meno si risolve nella carenza, sia pure sopravvenuta, del titolo medesimo fin dal momento in cui si era formato; in tal caso, una nuova procedura esecutiva potrebbe semmai fondarsi sulla sentenza pronunciata dal giudice di rinvio.
Quella qui esposta ricalca, peraltro, la soluzione – e il relativo percorso argomentativo – sposati dalla giurisprudenza di legittimità probabilmente maggioritaria, a mente della quale, in definitiva, la prosecuzione del processo esecutivo sarebbe resa possibile da ciò, che la sentenza di appello è idonea a sostituirsi con efficacia ex tunc, anche agli effetti di titolo esecutivo, alla decisione di primo grado[54].
Non sono peraltro mancate, in tempi recenti, alcune puntualizzazioni a detto principio: in particolare, la Cassazione ha recentemente chiarito che quanto affermato non potrebbe valere nella differente ipotesi in cui la sentenza d’appello abbia dichiarato la nullità (per vizio formale o per error in procedendo) della sentenza di primo grado, pur avendo poi adottato una statuizione di merito di contenuto identico a quello della pronuncia annullata, poiché in tal caso assisteremmo a una vera e propria caducazione del titolo esecutivo, e non, semplicemente, alla sua trasformazione (o sostituzione), la quale sola, come visto, consentirebbe la prosecuzione del processo esecutivo in corso[55].
Ora, nel caso di specie si trattava di nullità per vizio di costituzione del giudice, la quale, a norma dell’art. 158 c.p.c., deve essere riguardata come nullità assoluta ma al contempo assoggettata alla regola di conversione in motivi d’impugnazione di cui al successivo art. 161, 1°co. È altrettanto noto che, quando l’appello sia finalizzato a rimediare (non all’ingiustizia, bensì) all’invalidità della sentenza di primo grado, lo stesso presenti alcune peculiarità: per quanto interessa nella presente sede, il nostro appello civile è conformato come mezzo di gravame idoneo a correggere (quasi) tutti gli errori processuali che si siano verificati nel processo di primo grado, permettendo di rinnovare il giudizio a partire dal momento in cui la nullità si è verificata e di pronunciare una nuova sentenza, pur sempre sostitutiva di quella viziata[56]. Ciò significa, nella prospettiva che ci occupa, che la sentenza d’appello che rimedia a un vizio processuale inficiante la pronuncia di primo grado non dev’essere riguardata quale pronuncia caratterizzata da un primo momento rescindente (volto cioè a caducare la decisione viziata di primo grado) e di un secondo momento rescissorio (finalizzato alla pronuncia di una nuova decisione, emendata dal vizio riscontrato): ciò che, in effetti, determinerebbe la caducazione del titolo esecutivo (la sentenza di primo grado viziata) e, con essa, l’improcedibilità dell’esecuzione forzata, come affermato dall’ultima Cassazione riportata. Piuttosto, l’appello mantiene, anche in tal caso, la propria vocazione sostitutiva, quale giudizio che consente, al suo interno, la sanatoria del vizio processuale verificatosi in prime cure, esitando nella pronuncia di una sentenza capace di sostituirsi, anche quale titolo esecutivo e senza soluzione di continuità, a quella di primo grado, non dissimilmente da quanto accade nel caso in cui venga censurata la sua ingiustizia[57]. In definitiva, anche in caso di intervenuta sostituzione, all’esito del giudizio di appello, della pronuncia di primo grado viziata da nullità processuale, opera il meccanismo visto sin qui, ossia l’idoneità della decisione di seconde cure a sostituirsi, senza soluzione di continuità, a quella di primo grado, anche quale titolo esecutivo, con salvezza degli atti esecutivi compiuti.
Quanto detto, ovviamente, non può però valere né per i casi di c.d. inesistenza della sentenza di primo grado (affetta, cioè, da vizi non sanabili neppure dal passaggio in giudicato della pronuncia, ex art. 161, 2°co., c.p.c., ed eventualmente censurabili anche tramite opposizione all’esecuzione[58]), né per i casi di appello c.d. rescindente, ossia quando siano denunciati determinati vizi processuali, di fronte ai quali il nostro legislatore, con l’art. 354 c.p.c. (pure rinnovato dal d.lgs. n. 149/2022) impone al giudice d’appello di annullare la sentenza di primo grado, rinviando la causa al giudice di prime cure. In tali casi, infatti, l’appello, perdendo la propria natura sostitutiva, esita in una pronuncia che si limita ad annullare la decisione di primo grado: in questo caso sì, determinandone fatalmente la caducazione e, con essa, l’improcedibilità dell’esecuzione forzata.
Per completare il quadro degli orientamenti giurisprudenziali maturati attorno al tema ora in esame non si può tacere, infine, su quella (particolarissima) ricostruzione proposta da Cass. civ., 8 febbraio 2013, n. 3074 (Est. Frasca), la quale ha sostanzialmente confermato che, nel caso di specie, il processo esecutivo possa proseguire sulla base della sentenza d’appello, ma non in quanto la stessa si sostituisca ex tunc a quella di primo grado bensì, piuttosto, in quanto il titolo esecutivo sarebbe rappresentato da una combinazione tra la pronuncia di prime cure e la decisione d’appello: in altri termini, nella fattispecie che stiamo considerando il titolo esecutivo sarebbe rappresentato dalla necessaria combinazione tra i due provvedimenti, ossia dalla “complessiva vicenda per cui la sentenza di primo grado costituente titolo esecutivo, e come tale individuatrice del diritto per cui si può procedere all’esecuzione, vede conservato tale valore dal modo di essere della sentenza di appello”[59].
Tale orientamento, che non risulta aver avuto un seguito, né in dottrina né in giurisprudenza[60], si presta ad essere condiviso solo laddove si scelga di muovere dalle medesime premesse dogmatiche che lo animano, e che del pari appaiono minoritarie. Il riferimento è a quell’orientamento che, muovendo dal progressivo attenuarsi del carattere devolutivo dell’appello, ha messo in discussione il principio dell’efficacia sostitutiva dell’appello quale “valore assoluto”, giungendo a negare che la sentenza di seconde cure, confermativa di quella di primo grado, si sostituisca a quest’ultima[61]: premessa alla quale consegue, appunto, che nell’ipotesi in cui si voglia iniziare o proseguire l’esecuzione forzata dopo la pronuncia della sentenza confermativa in appello, a costituire titolo esecutivo non sarebbe già e direttamente quest’ultima, bensì, appunto, la “necessaria combinazione” tra i due provvedimenti. Ne discenderebbe così, secondo la Cassazione in esame, che l’operatività, mutatis mutandis, della regola apprestata dall’art. 653, 2°co., c.p.c. presupporrebbe non la sostituzione ex tunc della decisione di riforma al titolo esecutivo, bensì la sua “sostituzione a far tempo dalla sopravvenienza della sentenza di appello e non incidente sulla vicenda della pretesa esecutiva pregressa articolatasi sulla base della sentenza di primo grado”, ossia un “effetto di sostituzione dal momento della sopravvenienza, che, per elementare coerenza, non può spiegare effetti per lo svolgimento pregresso della pretesa esecutiva, bensì soltanto per quello successivo alla sopravvenienza”: diversamente, infatti, “la pretesa esecutiva estrinsecatasi sulla base della sentenza di primo grado dovrebbe sempre considerarsi tamquam non esset, perché ha avuto luogo sulla base di un titolo che non c’è più, essendone sopravvenuto uno nuovo” [62].
Come si diceva, trattasi di indirizzo legato a doppio filo a una precisa ricostruzione dogmatica del giudizio d’appello (la quale, come visto, non è neppure giunta alle medesime conseguenze applicative cui è pervenuta la Cassazione in commento), e in quanto tale condannato a perdere la propria appetibilità una volta che si fuoriesca da tale prospettiva, secondo la classica logica del simul stabunt simul cadent.
Simile alla vicenda sostitutiva sin qui descritta è, poi, quella considerata dall’art. 431, 2°co., c.p.c., il quale, con una disposizione ispirata a un chiaro favor per il lavoratore, prevede che l’esecuzione forzata contro il datore di lavoro possa essere avviata anche sulla base della sola copia del dispositivo «in pendenza del termine per il deposito della sentenza», ovviamente nei casi in cui venga seguito il modulo decisorio di cui al precedente art. 429, 1°co., secondo periodo. Il significato da attribuire a tale disposizione, come correttamente rilevato da attenta dottrina, è che il dispositivo, quale atto processuale autonomo, conservi la propria (provvisoria) efficacia esecutiva solo finché la sentenza venga depositata[63]. Ciò significa, dal punto di vista che stiamo considerando, che in caso di esecuzione forzata avviata dal lavoratore sulla base del solo dispositivo, una volta che sia pronunciata la sentenza la procedura esecutiva ben possa proseguire sulla base di quest’ultima, la quale, dunque, dovrà essere tempestivamente esibita dal creditore agli organi della procedura; anche in tale ipotesi, dunque, si assiste a una sostituzione, senza soluzione di continuità[64], di un titolo esecutivo all’altro. Tale disciplina pare rappresentare un ulteriore indice normativo a favore della soluzione qui patrocinata, secondo cui l’intervenuta sostituzione del titolo esecutivo non pregiudica la possibilità per l’esecuzione forzata già avviata di legittimamente proseguire: se così non fosse, infatti, la scelta operata dal legislatore con la codificazione dell’art. 431, 2°co., c.p.c., si rivelerebbe priva di ogni utilità pratica.
5. La “duplicazione” del titolo esecutivo.
L’ultima vicenda che può riguardare il titolo esecutivo, non direttamente considerata dal codice di rito bensì creata in via pretoria quale conseguenza, almeno indiretta, dell’operatività nella nostra materia di un divieto di abuso dell’azione esecutiva, riguarda la duplicazione del titolo e, specialmente, l’ammissibilità di tale prassi. L’analisi di tale particolare fattispecie consentirà, peraltro, di precisare ulteriormente la valenza del principio nulla executio sine titulo, portandoci al cospetto di ipotesi in cui un titolo esecutivo (pur valido ed efficace) non è idoneo a legittimare il creditore all’esercizio dell’azione esecutiva, conseguentemente non integrando quel requisito (oltreché necessario, altresì) sufficiente a dare avvio all’esecuzione forzata.
Anzitutto, occorre chiarire che per duplicazione del titolo esecutivo ci s’intende riferire a quella gamma di ipotesi in cui il creditore, nei confronti del medesimo debitore, e per il medesimo credito, si munisca di un secondo titolo esecutivo (si pensi, per un esempio di scuola, al creditore che, già munito di una sentenza di condanna ottenuta nell’ambito di un processo di cognizione, si attivi per ottenere, per il medesimo credito e nei confronti del medesimo debitore, un decreto ingiuntivo).
La giurisprudenza che si è occupata del tema ha da tempo chiarito, anzitutto, come nel nostro ordinamento non esista un divieto assoluto di duplicazione del titolo esecutivo, così ammettendo la praticabilità di tale prassi, seppur al ricorso di determinate condizioni, ossia: a) che non venga violato il principio del ne bis in idem (ciò da cui discende l’impedimento, per il creditore, di iniziare un secondo giudizio di accertamento avente ad oggetto l’esistenza del medesimo credito già azionato in giudizio); b) che sussista, in capo al creditore, l’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. (in mancanza del quale non gli sarebbe consentito introdurre un secondo giudizio dal quale non possa trarre alcun vantaggio giuridico concreto); c) infine, che non vi sia abuso del diritto o del processo[65]. Così, a titolo esemplificativo, secondo la Cassazione richiamata non potrà domandare un decreto ingiuntivo “il creditore che abbia già ottenuto una sentenza o un altro decreto ingiuntivo per il medesimo titulus obligationis e nei confronti della medesima persona, perché ha ormai consumato l’azione, e si tratterà dunque solo di stabilire se la sua domanda sia impedita da litispendenza o giudicato; non potrà farlo chi ha già un titolo che gli consenta l’iscrizione di ipoteca giudiziale sui beni della medesima persona, poiché nessun vantaggio ulteriore ne trarrebbe; né potrà farlo chi, in considerazione della specificità del caso concreto, risulti unicamente mosso da intenti emulativi, fraudolenti e vessatori”.
I principi enunciati da tale pronuncia appaiono senz’altro condivisibili e mostrano come, in realtà, la formula del divieto (come visto, relativo) di duplicazione del titolo esecutivo non sia altro che il compendio di presupposti tradizionalmente acquisiti in materia processual-civilistica. Certo, un conto è enunciare – seppur limpidamente – su un piano astratto i requisiti di ammissibilità della “duplicazione” del titolo esecutivo, tutt’altro è calarsi nella realtà applicativa, onerando il giudice del compito di riscontrare, in concreto, la sussistenza di tali condizioni. A tal proposito, può senz’altro essere utile immaginare qualche fattispecie in cui facciano difetto una o più di esse.
Muovendo dal requisito richiamato sub a), oltre al caso di scuola già proposto, si pensi alla più articolata fattispecie in cui il creditore si attivi per richiedere un decreto ingiuntivo munito di provvisoria esecutorietà, nel caso in cui la (già ottenuta) sentenza di condanna di primo grado abbia visto sospesa la propria efficacia esecutiva (e dunque non possa legittimamente dare avvio o prosecuzione all’azione esecutiva). In un’eventualità siffatta, è certamente vero che la seconda iniziativa giudiziale è funzionale a procurare al creditore un titolo idoneo a dare avvio all’esecuzione forzata – sicché parrebbe sussistere l’interesse ad agire in via monitoria; tuttavia, oltre a essere di fronte a una violazione del divieto di bis in idem, ammettere una prassi di questo tipo significherebbe consentire un (illegittimo) aggiramento delle norme in materia di sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza di condanna e della delibazione compiuta dal giudice dell’impugnazione, il quale, evidentemente, ha riscontrato il fumus boni iuris e/o il periculum in mora richiesti ex lege.
Per quanto riguarda la condizione sub b), poi, oltre al caso deciso dalla richiamata Cass. civ., n. 21768/2019, è possibile ricordare la recente pronuncia di Cass. civ., 21 maggio 2025, n. 13612[66]. La vicenda decisa dalla Suprema Corte, che conviene riassumere brevemente, vedeva dapprima la Consap s.p.a. avviare un procedimento monitorio allo scopo di munirsi di un decreto ingiuntivo, avente ad oggetto solo una parte della somma concessa in mutuo, il quale, però, seppur divenuto esecutivo per mancata opposizione e ritualmente notificato alla parte debitrice, non veniva mai portato ad esecuzione; in un momento successivo, l’Amministrazione iscriveva a ruolo l’intera somma di cui risultava creditrice, corrispondente all’intero importo oggetto del mutuo (e dunque comprensiva anche di quella di cui al decreto ingiuntivo), con successiva notifica della relativa cartella esattoriale da parte di Equitalia s.p.a. La cartella veniva fatta oggetto di opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c., accolta dall’adito Tribunale di Roma, che riduceva l’importo della stessa, detraendo la somma oggetto del decreto ingiuntivo, ritenendo che il suo inserimento nella cartella esattoriale avesse comportato una illegittima parziale duplicazione della medesima pretesa creditoria. Avverso la decisione, confermata all’esito del giudizio di appello, veniva interposto ricorso per cassazione, rigettato dalla Suprema Corte mediante la pronuncia testé richiamata, per non avere l’Amministrazione ricorrente prospettato e adeguatamente argomentato l’esistenza di uno specifico interesse alla duplicazione dei titoli esecutivi. Occorre ammettere come residui qualche perplessità nei confronti della decisione assunta, data dal fatto che la somma, di cui alla cartella esattoriale, iscritta a ruolo, era di ammontare superiore rispetto a quella portata dal decreto ingiuntivo: e forse già questo basterebbe per giustificare l’interesse dell’Amministrazione all’emissione della cartella medesima, poi azionata in sede esecutiva. Non a caso, il provvedimento si premura di precisare che, a ben vedere, le criticità insite nell’ammettere, nel caso di specie, la duplicazione del titolo esecutivo, si sarebbero identificate nei maggiori oneri difensivi imposti alla parte debitrice, la quale, nell’eventualità (del tutto virtuale, però) in cui il decreto ingiuntivo fosse stato portato ad esecuzione, sarebbe risultata onerata di dimostrare (nell’esecuzione avviata sulla base della cartella esattoriale) di avere già corrisposto la somma portata dal decreto ingiuntivo al fine di ottenerne lo scomputo, con conseguente dispendio di attività processuale e senza che a ciò potesse corrispondere un evidente e concreto beneficio per il creditore pubblico. Si tratta, tuttavia, di uno scenario che, anzitutto, nel caso di specie non si affatto è verificato, ma è soltanto pronosticato dalla Cassazione allo scopo di argomentare la decisione assunta: il decreto ingiuntivo, anzi, seppur divenuto definitivo prima dell’emissione della cartella esattoriale, a differenza di quest’ultima non è mai stato portato ad esecuzione, presumibilmente proprio per la convenienza, in capo all’Amministrazione, di intraprendere l’azione esecutiva (solo e direttamente) sulla base della cartella. D’altro canto, la disposta decurtazione, dalla cartella esattoriale, dell’importo portato dal decreto ingiuntivo, se evita, sulla carta, una duplicazione del titolo esecutivo, finisce però per onerare l’Amministrazione dell’avvio di un secondo procedimento di esecuzione forzata, per recuperare le somme portate dal decreto ingiuntivo medesimo: una soluzione che appare contraria ai principi di economia processuale e ragionevole durata dei giudizi. Preferibile sarebbe stato, forse, non effettuare alcuna decurtazione della cartella esattoriale – sì da consentire all’Amministrazione di ottenere l’attuazione coattiva dell’intera somma di cui risultava creditrice in un’unica procedura esecutiva – per poi, eventualmente, impedire l’attivazione/prosecuzione della (seconda ed eventuale) procedura esecutiva che dovesse essere stata (a quel punto illegittimamente) avviata sulla base del decreto ingiuntivo[67].
Da ultimo, per quanto riguarda il requisito sub c), lo stesso viene (correttamente, s’intende) invocato quasi alla stregua di valvola di salvezza del sistema, che anche in materia esecutiva non deve mai travalicare i limiti dell’abuso degli strumenti processuali predisposti dal legislatore ordinario. A tal proposito, è solo il caso di ricordare che si ha abuso dell’azione esecutiva quando il creditore non si limiti, come consentito dal sistema, ad agire nei soli limiti di quanto necessario per ottenere la soddisfazione del proprio credito: su tutti, il codice di rito vieta, mediante l’art. 483 c.p.c., il cumulo dei mezzi di espropriazione, disponendo che, su istanza del debitore, il giudice dell’esecuzione limiti l’espropriazione forzata al mezzo prescelto dal creditore ovvero a quello che lui stesso determina[68].
Dunque, se è vero che non può esserci avvio (e prosecuzione) dell’esecuzione forzata senza un valido ed efficace titolo esecutivo, non è però vero anche il contrario, ossia il fatto che in presenza di un valido ed efficace titolo esecutivo il creditore sia senz’altro legittimato a dare avvio all’esecuzione forzata: ciò, infatti, non può valere nei casi in cui tale titolo rappresenti (illegittima) duplicazione di altro titolo esecutivo e, più in generale, ogni qual volta ciò significhi abusare dell’azione esecutiva, consentendo al creditore di agire con modalità ultronee ed eccedenti rispetto a quelle accordategli dall’ordinamento processuale.
[1] Sono note, peraltro, le recenti vicende che hanno interessato il requisito dell’astrattezza del titolo esecutivo, intesa a conferire autonomia all’azione esecutiva rispetto alla realtà sostanziale, specie in conseguenza di quanto affermato da Cass., sez. un., 2 luglio 2012, n. 11067, in materia di c.d. eterointegrazione del titolo: sul punto, B. Capponi, Autonomia, astrattezza, certezza del titolo esecutivo: requisiti in via di dissolvenza?, in Corr. giur., 2012, 1169 ss.; B. Sassani, Da “normativa autosufficiente” a “titolo aperto”. Il titolo esecutivo tra corsi, ricorsi e nomofilachia, in www.judicium.it, 17 ottobre 2012; C. Delle Donne, In morte della regola “nulla executio sine titulo”, impressioni su S.U. n. 11067/2012, in www.judicium.it, 20 ottobre 2012; sul argomento si rinvia, altresì, a E. Zucconi Galli Fonseca, Attualità del titolo esecutivo, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2010, 67 ss.; V. Monteleone, L’oggettivazione del pignoramento: tramontata la concezione astratta del titolo esecutivo?, in Riv. esec. forz., 2014, 297 ss.; nonché G. Verde, Attualità del principio “Nulla executio sine titulo”, in Riv. dir. proc., 1999, 965 ss.
[2] Reperibile in Riv. dir. proc., 2014, 481 ss., con nota di B. Capponi, Le Sezioni Unite e la sorte dell’espropriazione in caso di sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo; in Corr. giur., 2014, 971 ss., con nota di R. Metafora, Le Sezioni Unite e l’”oggettivizzazione” degli atti dell’espropriazione forzata; in Riv. esec. forz., 2014, 297 ss., con note di G. Monteleone, Noterelle sulla sentenza della Cass., S.U., 7-1-2014, n. 61; M. Pilloni, L’esecuzione forzata: tra oggettivizzazione degli atti esecutivi ed esigenze di efficienza della giurisdizione esecutiva; F. Russo, Le conseguenze dell’oggettivizzazione (del pignoramento). Ricadute sull’intervento nell’esecuzione forzata della decisione Cass., S.U., 7-1-2014, n. 61; e V. Monteleone, L’oggettivizzazione del pignoramento: tramonta la concezione astratta del titolo esecutivo?
Tale principio era già stato affermato dalla risalente Cass. civ., 17 agosto 1973, n. 2347, e più recentemente ribadito da Cass. civ., 2 agosto 2023, n. 23654.
Per alcune particolari eccezioni, dettate da leggi speciali, alla regola nulla executio sine titulo si rinvia, altresì, a G. Costantino, Le espropriazioni forzate speciali, Milano, 1984, 293 ss.
[3] Come verrà meglio illustrato oltre, il principio affermato dalla richiamata pronuncia delle Sezioni Unite rappresenta piuttosto un posterius del verificarsi di alcuno degli eventi che verranno qui presi in considerazione, utile a determinare la sorte del processo esecutivo nel caso in cui il titolo portato dal creditore procedente veda in qualche modo incisa la sua idoneità a condurre l’esecuzione forzata.
[4] Il riferimento è a Cass. civ., 13 giugno 2018, n. 15538; Cass. civ., 6 luglio 2010, n. 15852; Cass. civ., 21 luglio 2004, n. 13568; Cass. civ., 21 novembre 2001, n. 14727.
[5] Ciò che emerge dal testo dell’art. 623 c.p.c., il quale, dopo aver distinto, nella prospettiva del giudice dell’esecuzione, tra sospensione necessaria e discrezionale della procedura esecutiva, altresì discerne tra la sospensione disposta «dal giudice davanti al quale è impugnato il titolo esecutivo» (ossia, quello della cognizione, del cui provvedimento sospensivo il giudice dell’esecuzione deve necessariamente prendere atto) e quella concessa discrezionalmente, «con provvedimento del giudice dell’esecuzione», a seguito della proposizione di un’opposizione ai sensi degli artt. 615, 617 o 619 c.p.c. Per un primo inquadramento, in dottrina, F.P. Luiso, Diritto processuale civile, III, Milano, 2025, 308 ss.; C. Mandrioli-A. Carratta, Diritto processuale civile, IV, Torino, 2025, 255 ss.; G. Ruffini, Diritto processuale civile, III, Bologna, 2024, 201 ss.; per la nota distinzione tra sospensione necessaria e facoltativa si veda C. Furno, La sospensione del processo esecutivo, Milano, 1956, 6 ss. e 61 ss.; per quella tra sospensione interna ed esterna, F.P. Luiso, voce Sospensione del processo civile. Processo di esecuzione forzata, in Enc. dir., XLIII, Milano, 1990, 61 ss.
[6] Il riferimento è, ovviamente e in primis, ai provvedimenti di sospensione concessi dal giudice dell’esecuzione in occasione dell’intervenuta proposizione di un’opposizione esecutiva, ai sensi degli artt. 618, 2°co., e 624, 1°co., c.p.c.
[7] Il tema non si pone, ovviamente, né con riguardo all’opposizione preventiva agli atti esecutivi, in relazione alla quale l’art. 617 c.p.c. non prevede la possibilità di richiedere la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo (per una critica, A. Tedoldi, Esecuzione forzata, Pisa, 2023, 372 e 405), né con riguardo all’opposizione di terzo all’esecuzione, che istituzionalmente si atteggia a opposizione successiva all’inizio dell’esecuzione forzata.
Si ricorda, peraltro, come prima della novella di cui al d.l. 14 marzo 2005, n. 35 (conv., con modificazioni, dalla l. 14 maggio 2005, n. 80) l’art. 615, 1°co., c.p.c., non contemplasse la possibilità di sospendere (discrezionalmente e in via preventiva) l’efficacia esecutiva del titolo: a tale lacuna si è supplito (a partire da Cass. civ., 8 febbraio 2000, n. 1372) ammettendo l’utilizzo del provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c. per inibire l’inizio dell’esecuzione forzata in caso di pregiudizio imminente e irreparabile rappresentato dalla minaccia di intraprendere l’azione esecutiva (sul tema, E. Vullo, I provvedimenti d’urgenza ex art. 700 c.p.c., in S. Chiarloni, C. Consolo (a cura di), Trattato sui processi speciali, II, Processo cautelare, Torino, 2005, 1281 ss.; R. Metafora, Considerazioni in tema di sospensione dell’esecuzione e provvedimento d’urgenza in pendenza di opposizione a precetto, in Riv. dir. proc., 2002, 620 ss.; M. Cataldi, La tutela cautelare del debitore nell’opposizione a precetto ed il giusto processo civile: necessità costituzionale della sospensione ex art. 700 c.p.c., in Riv. esec. forz., 2000, 650 ss.).
[8] Il riferimento è ad A. Tedoldi, op. cit., 424 ss.; e G.L. Barreca, La riforma della sospensione del processo esecutivo e delle opposizioni all’esecuzione e agli atti esecutivi. Parte prima: Sospensione del processo esecutivo, in Riv. esec. forz., 2006, 7 ss.
[9] Sull’oggetto dell’opposizione a precetto ex art. 615, 1°co., c.p.c., A. Tedoldi, op. cit., 386 ss. e 424; G. Ruffini, op. cit., 181 ss.; in giurisprudenza, si segnala l’efficace arresto di Cass. civ., sez. un., 23 luglio 2019, n. 19889, la quale ha affermato che “nel caso di titolo esecutivo giudiziale, con l’opposizione non si possono addurre contestazioni su fatti anteriori alla sua formazione o alla sua definitività, deducibili esclusivamente coi mezzi di impugnazione previsti dall’ordinamento contro di quello; le contestazioni per fatti posteriori alla definitività o alla maturazione delle preclusioni non integrano un’impugnazione del titolo, ma l’articolazione di fatti di cui quello non ha legittimamente potuto tener conto e per la cui omessa considerazione non potrebbe mai considerarsi inficiato: e in entrambi i casi non può tecnicamente impugnarsi un titolo per un vizio non suo proprio”.
[10] Sul punto, ancora, A. Tedoldi, op. cit., 425 ss., il quale efficacemente, pone in luce la differente natura e struttura intercorrente tra l’inibitoria in discorso e quelle ricollegate all’impugnazione del titolo esecutivo (e variamente disciplinate agli artt. 283, 351, 373, 401, 407, 431, 447-bis, 649, 668 e 830 c.p.c.).
[11] Sono parole della già richiamata Cass. civ., sez. un., n. 19889/2019.
[12] La formula dei «gravi motivi», infatti, finisce per appiattirsi sul riscontro del requisito del fumus oppositionis, ossia della fondatezza, prima facie, dei motivi di opposizione, ritenendosi il periculum in mora in re ipsa: così, A. Tedoldi, op. cit., 423 ss.
[13] In tal senso, Cass. civ., 25 agosto 2023, n. 25264, in Riv. Esec. Forz. 2024, 78 ss., con nota di A. Napolitano, La successione a titolo particolare nel debito e nel credito, l’efficacia soggettiva del titolo esecutivo, la legitimatio ad causam nell’ambito dell’opposizione a precetto e i limiti del giudicato sull’opposizione a precetto.
[15] La reclamabilità del provvedimento di sospensione concesso dal giudice dell’opposizione a precetto ex art. 615, 1°co., c.p.c., come noto, è stata affermata da Cass. civ., sez. un., 23 luglio 2019, n. 19889 (in Riv. dir. proc., 2019, 1619 ss., con nota di L. Salvaneschi, Il reclamo sul provvedimento di sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo ex art. 615, comma 1°, c.p.c.; in Corr. giur., 2020, 217 ss., con nota di R. Metafora, La natura lato sensu cautelare della sospensione pre-esecutiva e la sua reclamabilità; in Giur. it., 2019, 2410 ss., con note di R. Conte, Sezioni unite e reclamabilità dell’ordinanza ex art. 615, 1°comma, c.p.c. e G. Felloni, Reclamabilità della decisione sulla sospensiva in sede di opposizione a precetto; e in Riv. Esec. Forz., 2019, 566 ss., con nota di A. Auletta, Per le Sezioni Unite l’ordinanza che decide sull’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo è reclamabile al Collegio), muovendo da una valorizzazione della natura cautelare del provvedimento.
[16] In tal senso, C. Mandrioli-A. Carratta, op. cit., 226 ss., nt. 32; in giurisprudenza, Cass. civ., 10 marzo 2006, n. 5368, in Riv. esec. forz., 2006, 13 ss., con annotazione di G. Tota, Nota in tema di istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo azionato; e in Guida al dir., 2006, n. 14, 62 ss., con nota favorevole di G. Finocchiaro.
In tempi recenti la giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., 17 ottobre 2019, n. 26285, principio enunciato nell’interesse della legge ex art. 363, 3°co., c.p.c.) ha risolto la questione facendo applicazione delle regole in materia di litispendenza, e cioè affermando che “la proposizione al giudice dell’opposizione a precetto di un’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo ai sensi dell’art. 615, 1°co., c.p.c., preclude all’opponente – per consumazione del potere processuale – di richiedere al giudice dell’esecuzione, per le medesime ragioni, la sospensione della procedura esecutiva ex art. 624 c.p.c., ancorché il giudice dell’opposizione a precetto non si sia ancora pronunciato”.
[17] Per le criticità insite in tale eventualità, che il legislatore della riforma non si è premurato di sventare, R. Oriani, La sospensione dell’esecuzione (sul combinato disposto degli artt. 615 e 624 c.p.c.), in Riv. esec. forz., 2006, 27 ss.
[18] M. Bove, in G. Balena-M. Bove, Le riforme più recenti del processo civile, Bari, 2006, 307 ss.; Trib. Roma, 17 maggio 2008, in Giur. it., 2008, 403 ss., con nota critica di G. Frus, Osservazioni sul potere sospensivo del giudice dell’opposizione a precetto dopo l’inizio dell’esecuzione forzata.
[19] In tal senso, C. Mandrioli-A. Carratta, op. loc. cit.; R. Oriani, op. cit., 28 ss.; G. Ruffini, op. cit., 187; G.L. Barreca, op. cit., 10 ss., testo e nt. 35; G. Frus, op. cit., 405; in giurisprudenza, la già cit. Cass. civ., n. 26285/2019
[20] Considerazione spesa anche da G. Ruffini, op. cit., 188. Nella giurisprudenza di legittimità, si ricorda ancora l’arresto della già cit. Cass. civ., sez. un., n. 19889/2019, la quale, sul punto, ha affermato che “il potere di sospensione del giudice dell’opposizione pre-esecutiva si riferisce all’idoneità del titolo ad essere posto a base di ogni esecuzione astrattamente fondata sul medesimo come in concreto azionato sulla base di uno specifico precetto, mentre il potere di sospensione del giudice dell’esecuzione iniziata può incidere solo sullo specifico singolo processo esecutivo pendente dinanzi a lui”.
[21] Così, ancora, Cass. civ., sez. un., n. 19889/2019, secondo la quale “[…] i rispettivi poteri, ove le richieste di sospensiva si basino sugli stessi identici motivi, non possono dirsi concorrenti, ma mutuamente esclusivi: il giudice adito in tempo successivo deve ritenersi privo di potestas iudicandi anche sulle relative misure cautelari di competenza”.
[23] Beninteso, sempre che l’azione esecutiva risultasse originariamente intrapresa sulla base di un valido ed efficace titolo esecutivo (e, dunque, il pignoramento sia valido e possa essere riferito, quale primo atto dell’iter espropriativo, anche al creditore titolato intervenuto), e che l’intervento sia stato esplicato prima della sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo del creditore procedente e, conseguentemente, prima dell’arresto dell’azione esecutiva.
Sul tema si veda anche C. Petrillo, Sui poteri processuali dei creditori intervenuti, muniti di titolo esecutivo, in caso di sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo del procedente. Sui poteri di sospensione del G.E. e sui possibili rimedi, in Riv. esec. forz., 2007, 547 ss.
[24] In Riv. Esec. Forz., 2021, 657, con nota sostanzialmente adesiva di F. Tizi, Sospensione della provvisoria esecutività del titolo esecutivo del creditore intervenuto e i suoi effetti.
[25] Dunque, il creditore partecipante all’espropriazione forzata munito di titolo, la cui efficacia esecutiva sia stata sospesa dal giudice dell’impugnazione, è legittimato a chiedere l’accantonamento delle somme ad esso spettanti ex art. 510, 3°co., c.p.c.: conf., F. Tizi, op. cit., 674 ss.
[26] Il riferimento è a Trib. Rovigo, 13 giugno 2018, in www.ilprocessocivile.it, con nota di G. Lauropoli, Effetti della sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo sulla procedura esecutiva in corso, la quale, però, da un punto di vista pratico è pervenuta al medesimo risultato qui proposto, sospendendo la fase di distribuzione del ricavato a norma dell’art. 512, 2°co., c.p.c.
[27] Sul principio di tassatività o tipicità degli accantonamenti nel fallimento (e dunque, oggi, nella liquidazione giudiziale), per tutti, M. Montanari, Appunti sul processo di fallimento, Torino, 2018, 103.
[28] Sull’istituto, diffusamente, B. Capponi, La «sostituzione esecutiva» tra vecchio e nuovo codice, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1990, 95 ss.; N. Picardi, La domanda di sostituzione nel processo esecutivo, in Riv. dir. proc., 1959, 574 ss.; M. Acone, La domanda di sostituzione del creditore nella distribuzione del ricavato, in Riv. dir. proc., 1981, 233 ss.; G. Balena, Brevissime note sulla sostituzione di un creditore nella distribuzione del ricavato dell’espropriazione, in Foro it., 1992, I, 2836; G. Miccolis, Sugli effetti della domanda di sostituzione promossa ai sensi dell’art. 511 c.p.c., in Riv. esec. forz., 2000, I, 142; nonché, se si vuole, V. Baroncini, La cognizione sul credito vantato dal creditor creditoris nella sostituzione esecutiva ex art. 511 c.p.c., in www.judicium.it, 18 gennaio 2021.
[29] Facoltà, questa, astrattamente ipotizzabile laddove si acceda alla tesi della natura surrogatoria – e non meramente satisfattiva – della sostituzione esecutiva: in tal senso, E. Redenti, Diritto processuale civile, III, Milano, 1957, 200.
[30] Ma lo stesso vale, ovviamente, in relazione al potere del giudice dell’esecuzione di sospendere la procedura in caso di intervenuta proposizione di opposizione successiva agli atti esecutivi ex art. 618, 2°co., c.p.c.
[31] Ossia, come già rilevato, rispettivamente: quelli fissati ex lege dagli artt. 283, 373, ecc., c.p.c. (e aventi ad oggetto anche fatti deducibili nel giudizio d’impugnazione); il riscontro del fumus oppositionis, fondato sulla deduzione di fatti sopravvenuti rispetto alla formazione del titolo esecutivo (giudiziale) o sull’impignorabilità dei beni.
[32] In tal senso Cass. civ., 13 aprile 2015, n. 7364 (in Corr. giur., 2016, 695 ss., con nota critica di R. Donzelli, Sui rapporti tra sospensione interna ex art. 624 c.p.c. e sospensione esterna disposta dal giudice dell’impugnazione; ivi, 544 ss., con nota di S. Giuliani, Cumulabilità tra sospensione del titolo esecutivo e sospensione del processo esecutivo; in Riv. Esec. Forz., 2016, 73 ss., con nota critica di D. Longo, La sospensione duplicata e l’estinzione del processo esecutivo; e in Giur. it., 2015, 2111 ss., con nota critica di G. Anania, Sul cumulo di sospensioni del procedimento esecutivo), la quale, nel caso deciso, ha riconosciuto l’interesse del debitore esecutato (che già aveva ottenuto la sospensione dell’esecutività del decreto ingiuntivo contro di lui azionato) a ottenere un secondo e autonomo provvedimento di sospensione da parte del giudice dell’esecuzione al fine di lucrare gli effetti estintivi di cui all’art. 624 c.p.c. I motivi di adesione al provvedimento, tuttavia, paiono formarsi qui: non appare condivisibile, infatti, l’affermazione della Suprema Corte secondo la quale, fermo che la sospensione dell’esecutività del titolo giudiziale legittima il debitore esecutato a sollecitare la sospensione (necessaria, ex art. 623 c.p.c.) del processo esecutivo mediante istanza ex art. 486 c.p.c., lo stesso possa anche promuovere l’opposizione esecutiva al fine di far valere come grave motivo di sospensione discrezionale la sospensione esterna del processo, ossia il venir meno dell’esecutività del titolo. La Cassazione, in altri termini, pare ammettere (per utilizzare le parole di R. Donzelli, op. cit., 700), anche una sospensione interna in forza di quella esterna, e non, come qui affermato nel testo, una sola sospensione interna nonostante quella esterna (beninteso, fondate su presupposti diversi). Un aspetto interessante della fattispecie decisa dalla pronuncia richiamata riguarda, infatti, il fatto che, nel caso deciso, il giudice dell’esecuzione aveva esercitato il potere sospensivo di cui all’art. 624 c.p.c. (in luogo di quello disciplinato dal precedente art. 623), individuando i «gravi motivi» per la sospensione esclusivamente nella pregressa sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo disposta dal giudice dell’impugnazione. In applicazione del c.d. principio dell’apparenza, è stata poi applicata al provvedimento sospensivo emanato la disciplina propria dell’art. 624 c.p.c., con conseguente successiva estinzione della procedura esecutiva per “stabilizzazione” del provvedimento sospensivo, per non essere stato il giudizio di merito tempestivamente instaurato. In senso conforme a tale precedente, nella giurisprudenza di merito, App. Torino, 27 settembre 2013 (in Corr. giur., 2014, 556 ss., con nota adesiva di C. Onniboni, Sulla compatibilità tra la sospensione dell’esecutività del titolo e la sospensione del processo esecutivo; e in Riv. esec. forz., 2014, 586 ss., con nota critica di B. Capponi, Ri-sospensione dell’esecuzione?).
[33] Può essere utile richiamare, ancorché in sintesi, le argomentazioni spese dalle Sezioni Unite.
Le stesse, come già ricordato, hanno anzitutto attribuito alle attività compiute all’interno del processo esecutivo una rilevanza di carattere oggettivo, nel senso di ritenere irrilevante stabilire chi, tra tutti i soggetti parimenti dotati di poteri di impulso processuale ex art. 500 c.p.c., le abbia concretamente poste in essere, purché al momento in cui sono state compiute uno dei creditori fosse munito di un valido titolo esecutivo.
Tale considerazione consentirebbe anche di coordinare il principio affermato con l’effetto espansivo esterno disciplinato dall’art. 336 c.p.c., il quale sarebbe astrattamente idoneo a travolgere ex tunc tutti gli atti esecutivi compiuti sulla base del titolo esecutivo caducato: secondo le Sezioni Unite, la regola contenuta nell’art. 336 c.p.c. potrebbe operare solo nel caso in cui nell’esecuzione avviata sulla base del titolo esecutivo poi caducato non siano intervenuti altri creditori titolati; laddove, invece, processo esecutivo siano intervenuti altri creditori muniti di titolo esecutivo, sull’effetto espansivo esterno prevarrebbe il disposto dell’art. 629 c.p.c., per il quale il sopravvenuto difetto del titolo esecutivo non è in grado di per sé solo di travolgere gli atti esecutivi da esso dipendenti laddove vi sia la contraria volontà dei creditori concorrenti titolati.
Le regole esposte, tuttavia, potrebbero operare soltanto se l’azione esecutiva esercitata dal creditore procedente sia ab origine sorretta da un valido titolo esecutivo, solo successivamente caducato, restando la loro operatività esclusa nel caso in cui il pignoramento fosse stato originariamente posto in essere da un soggetto privo di un valido titolo esecutivo (in tal caso, solo l’effettuazione di un pignoramento successivo ex art. 493 c.p.c. garantirebbe la salvezza degli atti esecutivi compiuti).
[34] In giurisprudenza, tra le più recenti, Cass. civ., 7 febbraio 2025, n. 3172.
[35] Così, ad esempio, Cass. civ., 30 luglio 2024, n. 21264; Cass. civ., 28 luglio 2011, n. 16612; Cass. civ., 13 luglio 2011, n. 15363; Cass. civ., 29 novembre 2004, n. 22430; Cass. civ., 7 febbraio 2000, n. 1337.
[36] In tal senso, Cass. civ., 22 marzo 2022, n. 9226; Cass. civ., n. 16612/2011, cit.; Cass. civ., 28 luglio 2011, n. 16541; Cass. civ., 20 gennaio 2011, n. 1328; Cass. civ., 7 marzo 2002, n. 3316, in Giur. it., 2011, 2611 ss., con nota di G. Fasciano, Sulla causa petendi dell’opposizione all’esecuzione per impignorabilità dei beni esecutati (le ultime due pronunce richiamate, coerentemente, hanno escluso il potere del giudice dell’opposizione esecutiva di rilevare ex officio la sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo).
In dottrina, riconosce, in capo al giudice dell’opposizione esecutiva, il potere di rilevare d’ufficio la sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo A.M. Soldi, Manuale dell’esecuzione forzata, Padova, 2024, 2632 ss.; viceversa, per una critica a tali contraddittori orientamenti giurisprudenziali, C. Marino, Caducazione del titolo esecutivo e giudizio di opposizione all’esecuzione, in Riv. dir. proc., 2022, 735 ss.; A. Majorano, Questioni controverse in tema di poteri di rilevazione officiosa del giudice dell’opposizione e di interpretazione del titolo esecutivo, in Riv. esec. forz., 2012, 159 ss.
[37] Sinteticamente, secondo un orientamento più risalente (espresso, ad esempio, da Cass. civ., 9 gennaio 2002, n. 210; Cass. civ., 12 marzo 2009, n. 6042), poiché il titolo esecutivo costituisce la condizione necessaria dell’esercizio dell’azione esecutiva, l’accertamento della sua esistenza si porrebbe come preliminare, dal punto di vista logico, rispetto alla decisione sui motivi di opposizione all’esecuzione, anche se questi non investano direttamente la questione, con la conseguenza per cui la sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo renderebbe fondata l’opposizione proposta, che deve essere accolta (indipendentemente dalla fondatezza dei motivi originari) nel merito, con liquidazione delle spese a carico del creditore opposto. Il contrasto composto dalle Sezioni Unite che verranno illustrate nel testo è, però, quello insorto tra le Sezioni II e III della Cassazione. Secondo la prima (si vedano, in particolare, Cass. civ., 9 agosto 2019, n. 21240, in Giur. it., 2020, 328 ss., con nota di M. Barafani, La caducazione del titolo esecutivo in sede di opposizione all’esecuzione; Cass. civ., 6 settembre 2017, n. 20868), rilevata ex officio la caducazione del titolo esecutivo, il giudice dell’opposizione dovrebbe dichiarare la cessazione della materia del contendere, con condanna alle spese del creditore opposto: ciò in quanto, essendo il titolo esecutivo condizione necessaria per l’esercizio dell’azione esecutiva, la sua caducazione nelle more del giudizio di opposizione all’esecuzione implicherebbe l’accoglimento della domanda dell’opponente, indipendentemente dalla fondatezza dei motivi originari, che rimangono assorbiti dall’evento sopravvenuto, con conseguente liquidazione delle spese a carico del creditore opposto, il quale, nel momento in cui si avvale di un titolo esecutivo ancora instabile, lo fa a proprio rischio e pericolo. La Sezione III della Cassazione, viceversa (il riferimento è a Cass. civ., 17 gennaio 2020, n. 1005; Cass. civ., 11 dicembre 2018, n. 31955; Cass. civ., 29 novembre 2018, n. 30857; Cass. civ., 9 marzo 2017, n. 6016), ha ritenuto che la sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo, in quanto estranea agli originari motivi di opposizione, non fosse idonea a determinarne la fondatezza: ciò in quanto, trattandosi di un giudizio fondato sul principio della domanda, lo stesso verrebbe violato laddove la domanda medesima (che ha natura eterodeterminata) potesse essere accolta per un motivo diverso rispetto a quelli sollevati dalla parte; il giudice dell’opposizione dovrebbe allora dichiarare, piuttosto, la cessazione della materia del contendere per difetto di interesse ad agire, liquidando le spese del giudizio secondo il criterio della soccombenza virtuale, ossia all’esito di una valutazione prognostica sulle sorti della domanda di opposizione.
[38] Reperibile in Riv. dir. proc., 2022, 735 ss., con nota di C. Marino, Caducazione del titolo esecutivo e giudizio di opposizione all’esecuzione; in Riv. Esec. Forz., 2021, 918 ss., con nota di M. Marchese, La sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo giudiziale: la soluzione delle Sezioni Unite; in www.ilprocessocivile.it, con nota di R. Metafora, Le Sezioni Unite si pronunciano sulle conseguenze della caducazione del titolo esecutivo nel corso del giudizio di opposizione (conf., successivamente, Cass. civ., 28 marzo 2022, n. 9899; Cass. civ., 14 marzo 2024, n. 6902). L’ordinanza di rimessione (Cass. civ., 6 marzo 2020, n. 6422) è reperibile in Rass. esec. forz., 2020, 474 ss. con note di D. Strada, Note a margine dell’ordinanza interlocutoria Cass. n. 6422/2020 e A. Scala, Sugli effetti nel giudizio di opposizione all’esecuzione della sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo: la parola alle sezioni unite; e in www.giustiziacivile.com, con nota di A. Crivelli, Alle Sezioni Unite la questione degli effetti della caducazione del titolo sul giudizio d’opposizione. L’ordinanza è oggetto di commento anche nello scritto di S. Boccagna, Opposizione all’esecuzione e sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo, in Nuove leggi civ. comm., 2021, 1439 ss.
Si ricorda che, in tale arresto, le Sezioni Unite si sono espresse anche sull’individuazione del giudice competente a conoscere della domanda di risarcimento dei danni provocati da un’esecuzione forzata avviata senza la normale prudenza, che l’art. 96, 2°co., c.p.c. attribuisce al giudice che accerta l’inesistenza del diritto. Nel dettaglio, le Sezioni Unite hanno individuato tale giudice, in prima battuta, in quello del processo in cui il titolo esecutivo si è formato, ove sia ancora pendente e non vi siano preclusioni di natura processuale, con la conseguenza per cui l’istanza risarcitoria può essere proposta al giudice dell’opposizione solo in via subordinata, quando il giudizio in cui il titolo si è formato si sia già concluso o siano maturate preclusioni di natura processuale. In via ancora residuale, le Sezioni Unite ammettono la proposizione della domanda risarcitoria anche in via autonomia, ma solamente qualora vi sia un’impossibilità di fatto o di diritto a proporla anche in sede di opposizione all’esecuzione, e dunque manchi una sede processuale in cui farla valere.
[39] Per una critica, ancora, C. Marino, op. cit., 747 ss.
[40] In argomento, A. Tedoldi, op. cit., 344; F.P. Luiso, op. cit., 256.
[41] In tal senso, C. Consolo (a cura di), Codice civile. Codice di procedura civile, Milano, 2024, 1711 ss., quantomeno per il caso di estinzione atipica del processo esecutivo per infruttuosità ex art. 164-bis disp. att. c.p.c.
[42] E si conviene, in tal senso, con i rilievi espressi da G. Ruffini, op. cit., 170; B. Capponi, I poteri del giudice dell’esecuzione alla luce del comma 2 dell’art. 614-bis c.p.c. come modificato dal “correttivo” (d.leg. 31 ottobre 2024, n. 164), in Foro it., 2025, 2, V, 111; in tal senso pure U. Corea, L’art. 614-bis nel prisma della tutela giurisdizionale, in www.judicium.it, 24 gennaio 2025, § 5.
[43] Così, F.P. Luiso, Il processo civile. Commentario breve al c.d. “Correttivo Cartabia” (d.lgs. 31 ottobre 2024, n. 164), Torino, 2024, 163.
[44] Ancora, A. Tedoldi, op. cit., 11; critiche sono espresse anche in C. Mandrioli-A. Carratta, op. cit., 210 ss.
[45] Il riferimento è alla proposta elaborata da B. Capponi, op. loc. ult. cit., 112 ss., secondo il quale, più precisamente, “il riferimento alla “estinzione” risulta fuorviante perché, se l’estinzione per rinuncia potrebbe far pensare a un raggiungimento dello scopo dell’astreinte, l’estinzione per inattività è al riguardo neutra e non può giustificare la perdita di efficacia della misura compulsoria); la ricostruzione è accolta in toto da U. Corea, op. loc. cit.
[46] Inevitabile controindicazione peraltro prontamente rilevata dallo stesso B. Capponi, op. loc. ult. cit., 112.
[47] Così, A.M. Soldi, op. cit., 2537 ss.; simile risulta l’opinione di A. Carratta, Il processo civile dopo i correttivi alla riforma Cartabia, Torino, 2025, 178, secondo cui la sola lettura possibile dell’innesto normativo sarebbe quella per cui il titolo esecutivo “secondario” scaturito dalla pronuncia coercitiva resa dal giudice dell’esecuzione abbia efficacia meramente endo-esecutiva, restando la sua efficacia confinata al perdurare della procedura esecutiva “principale”. Nello stesso senso anche C. Scalvini, Il “correttivo” e il processo esecutivo, in Giur. it., 2025, 1697.
[49] Così, tra le molte, Cass. civ., 30 luglio 2024, n. 21264; Cass. civ., 16 aprile 2013, n. 9161; Trib. Roma, 5 gennaio 2015, n. 261; Trib. Torre Annunziata, 6 maggio 2014, n. 1609.
[50] Ma lo stesso è a dirsi, evidentemente, per la sentenza di condanna emessa in grado d’appello che sia fatta oggetto di ricorso per cassazione e confermata in conseguenza del rigetto dello stesso.
[51] Sulla natura sostitutiva dell’appello sia consentito rinviare a A. Tedoldi, L’appello civile, Torino, 2025, 59 ss. e 538 ss.; F.P. Luiso, Diritto processuale civile, II, Milano, 2025, 416 ss.; G. Ruffini, Diritto processuale civile, II, Bologna, 2024, 385.; A. Mandrioli-C. Carratta, Diritto processuale civile, II, Torino, 2025, 417 ss.; C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, II, Torino, 2025, 473 ss.
[52] Così, in particolare, Cass. civ., 11 giugno 2014, n. 13249; nella giurisprudenza di merito, Trib. Bari, 4 dicembre 2013, in Giur. it., 2014, 2749 ss., con nota di L. Moretti, Sugli effetti della cassazione con rinvio della sentenza di appello.
[53] Il riferimento è a E. Garbagnati, Il procedimento d’ingiunzione, 2°ed. a cura di A.A. Romano, Milano, 2012, 170 ss.
[54] Il riferimento, in particolare, è a Cass. civ., 16 aprile 2013, n. 9161 in Giur. it., 2014, 594 ss., con nota conforme di R. Conte, Sull’identificazione e sull’inesistenza del titolo esecutivo ai fini dell’esecuzione forzata, la quale richiama i precedenti di cui a Cass. civ., 18 aprile 2012, n. 6072; Cass. civ., 30 luglio 1997, n. 7111; Cass. civ., 7 aprile 1986, n. 2406; Cass. civ., 16 gennaio 1985, n. 101; più recentemente, Cass. civ., 14 novembre 2022, n. 33443.
[55] È quanto recentemente affermato dalla già richiamata Cass. civ., 30 luglio 2024, n. 21264.
[56] Così, chiaramente, F.P. Luiso, Diritto processuale civile, II, Milano, 2025, 418 ss.
[57] A dimostrazione di ciò, si rifletta sul fatto che, laddove la sentenza viziata ex art. 158 c.p.c., e azionata come titolo esecutivo, non sia fatta oggetto di appello, il suo passaggio in giudicato determinerebbe la sanatoria del vizio, legittimando appieno la prosecuzione del processo esecutivo (ciò, salvo si tratti di vizi di costituzione del giudice particolarmente gravi, per i quali si ritiene applicabile il regime previsto dall’art. 161, 2°co., c.p.c., per la sentenza priva di sottoscrizione): sul punto, G. Ruffini, Diritto processuale civile, I, Bologna, 2023, 279 ss.
Purtroppo, dal testo del provvedimento di legittimità in esame non emerge la tipologia di vizio di costituzione del giudice concretamente riscontrato.
[58] Così, A. Tedoldi, Esecuzione forzata, cit., 388; F.P. Luiso, Diritto processuale civile, III, cit., 260.
[59] La pronuncia è rinvenibile in Foro it., 2013, 10, I, 2900, con annotazioni di N. Minafra. Un commento alla stessa è rinvenibile anche in B. Capponi, Le Sezioni Unite e l’«oggettivizzazione» degli atti dell’espropriazione forzata, in Riv. dir. proc., 2014, 505 ss.; in V. Bertoldi, Effetto sostitutivo della conferma in appello e titolo esecutivo, in B. Capponi, B. Sassani, A. Storto, R. Tiscini (a cura di), Il processo esecutivo. Liber Amicorum Romano Vaccarella, Torino, 2014, 129 ss.; e in R. Martino, Sulla inammissibilità della richiesta di inibitoria della sentenza di secondo grado che rigetta l’appello proposto avverso la pronuncia di condanna in primo grado: statuizioni (per nulla condivisibili) di un giudice di merito e tutela del diritto di difesa della parte soccombente, in Riv. esec. forz., 2018, 642 ss.
[60] Salvo il caso della pronuncia “gemella” di cui a Cass. civ., 12 febbraio 2013, n. 3280, redatta dal medesimo estensore (Frasca). È il caso di osservare che la medesima sezione della Cassazione ha ribadito l’orientamento maggioritario illustrato nel testo contestualmente e successivamente a tali sentenze gemelle: così, Cass. civ., 7 febbraio 2013, n. 2955; oltre alla già citata Cass. civ., n. 9161/2013.
[61] Il riferimento è, soprattutto, a E. Redenti, Diritto processuale civile, II, Milano, 1997, 533 ss. e spec. 536 (il quale, però, a p. 486 riconosce valore di titolo esecutivo alla sentenza di primo grado, precisando solo la necessità di una notifica della sentenza d’appello unitamente a quella).
[62] Conseguentemente, la Suprema Corte ha chiarito che, in caso di cassazione con rinvio della sentenza d’appello, la decisione di prime cure conserverebbe la propria esecutorietà, ben potendo continuare a sorreggere gli atti esecutivi posti in essere in base alla stessa, nell’attesa di conoscere gli esiti del giudizio di rinvio.
[63] Da ultimo, G. Trisorio Liuzzi, D. Dalfino, Manuale del processo del lavoro, Bari, 2023, 277; ma in precedenza già G. Tarzia, Manuale del processo del lavoro, Milano, 2008, 289 ss.; e G. Tarzia, L’esecutorietà della sentenza nel processo del lavoro, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1974, 475 ss., il quale, optando per un’interpretazione rigorosa della norma, circoscrive l’efficacia esecutiva del dispositivo entro la scadenza del termine di legge per il deposito della sentenza.
[64] Così pure G. Trisorio Liuzzi, D. Dalfino, op. loc. cit.
[65] In tal senso, in particolare, Cass. civ., 28 agosto 2019, n. 21768, in Riv. Esec. Forz., 2020, 420 ss., con nota di E. Benanti, La duplicazione dei titoli esecutivi ed i suoi limiti (nel caso di specie, la Suprema Corte ha riconosciuto l’interesse del creditore di una società in nome collettivo in possesso di un titolo esecutivo giudiziale avverso la società di agire per ottenere un secondo titolo esecutivo contro i soci illimitatamente responsabili in quanto il primo titolo, seppur idoneo ai fini dell’avvio dell’esecuzione forzata contro questi ultimi, non può dar luogo ad iscrizione di ipoteca sui loro beni); Cass. civ., 30 giugno 2006, n. 15084; Cass. civ., 26 giugno 2006, n. 14737; Cass. civ., 14 ottobre 2004, n. 20304 (in cui, in materia condominiale, la Suprema Corte ha ritenuto che il creditore che abbia ottenuto sentenza definitiva di condanna al pagamento di una somma di denaro nei confronti del condominio sia carente di interesse ad agire contro il singolo condomino per il pagamento pro quota della medesima somma, disponendo già di un titolo esecutivo relativo all’intera somma, azionabile nei confronti del condominio o dei singoli condomini); Cass. civ., 10 settembre 2004, n. 18248; Cass. civ., 21 luglio 2004, n. 13518; Cass. civ., 5 gennaio 2001, n. 135; nella giurisprudenza di merito, C. App. Roma, 8 febbraio 2024, n. 901; Trib. Salerno, 12 settembre 2023, n. 3693; Trib. Rimini, 25 agosto 2020, n. 520; C. App. Ancona, 18 agosto 2020, n. 871.
[66] In www.ilprocessocivile.it, 8 luglio 2025, con nota di V. Baroncini, Divieto di duplicazione del titolo esecutivo.
[67] Quanto affermato appare in linea con l’arresto della già citata Cass. civ., n. 15084/2006, secondo la quale il principio, secondo il quale il creditore che abbia ottenuto una pronuncia di condanna nei confronti del debitore ha esaurito il suo diritto di azione e non può, per difetto di interesse, richiedere ex novo un decreto ingiuntivo contro il medesimo debitore per lo stesso titolo e lo stesso oggetto, trova deroga nei casi in cui la domanda di condanna rivolta al giudice, nella preesistenza di altro e analogo titolo giudiziale, non mira alla duplicazione del titolo già conseguito, ma è diretta a far valere una situazione giuridica che non ha trovato esaustiva tutela, suscettibile di conseguimento di un risultato ulteriore rispetto alla lesione denunziata.
[68] Sul divieto di abuso dell’azione esecutiva sia consentito rinviare, per tutti, ad A. Tedoldi, op. cit., 100 ss.