Informativa sul trattamento dei dati personali (ai sensi dell’art. 13 Regolamento UE 2016/679)
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Sull’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme processuali civili
Di Massimo Cirulli -
Sommario: 1. Causa remota e causa proxima dell’interpretazione conforme. – 2. L’enunciazione del principio e la sua posteriore revisione. – 3. Dal sindacato accentrato al sindacato diffuso. – 4. Norme processuali civili interpretate secundum constitutionem. – 5. Soggezione del giudice alla legge e creazionismo giurisprudenziale. – 6. Il riaccentramento del gudizio incidentale di costituzionalità.
1. L’ormai consolidata prassi dell’interpretazione costituzionalmente adeguata, da parte dei giudici comuni, delle norme di fonte legislativa[1] ha verosimilmente la sua causa remota nell’art. 2 della relazione di Piero Calamandrei sul potere giudiziario e sulla Suprema Corte costituzionale presentata alla Commissione per la Costituzione – II Sottocommissione[2], che prevedeva: “I giudici nell’esercizio delle loro funzioni dipendono soltanto dalla legge, che essi interpretano ed applicano al caso concreto secondo la loro coscienza, in quanto la riscontrino conforme alla Costituzione”. Veniva così riconosciuto al giudice il potere di disapplicazione della norma costituzionalmente illegittima, “in via incidentale e con efficacia limitata al caso deciso”, mentre era riservato alla Suprema Corte costituzionale a sezioni unite il controllo “in via principale e con efficacia generale ed astratta” (art. 27). L’art. 28 prevedeva che, rilevata d’ufficio ovvero sollevata dalle parti o dal pubblico ministero “la questione della incostituzionalità della legge da applicare al caso controverso”, il giudice di qualunque grado la risolvesse, se rilevante, “in via incidentale con efficacia limitata al caso deciso”, potendo alternativamente sospendere il giudizio perché la questione fosse decisa dalla prima sezione della Suprema Corte costituzionale. Le sentenze di primo o di secondo grado che avevano deciso incidentalmente una questione di incostituzionalità erano impugnabili davanti a tale sezione, che statuiva “con efficacia limitata alla causa decisa, annullando se del caso la sentenza impugnata e rimandando al giudice ordinario la prosecuzione del giudizio” (art. 29). L’incostituzionalità con effetti erga omnes poteva essere dichiarata, invece, soltanto dalle sezioni unite della Suprema Corte costituzionale, su impugnazione proposta in via principale, nel termine di decadenza di tre anni dall’entrata in vigore della legge denunciata, dai soggetti legittimati (art. 31).
La causa proxima dell’interpretazione conforme è invece rinvenibile nella mozione approvata all’unanimità dal congresso dell’Associazione nazionale magistrati (allora divisa in tre correnti: Magistratura indipendente, Magistratura democratica – che era stata fondata il 7 luglio 1964 – e Terzo potere, che il 17 marzo 1979 si fonderà con Impegno costituzionale in Unità per la Costituzione)[3] svoltosi a Brescia-Gardone Riviera-Salò il 25-28 settembre 1965. Vi si afferma che spetta “al giudice, in posizione di imparzialità e indipendenza nei confronti di ogni organizzazione politica e di ogni centro di potere, 1) applicare direttamente le norme della Costituzione, quando ciò sia tecnicamente possibile in relazione al fatto concreto controverso; 2) rinviare all’esame della Corte costituzionale, anche d’ufficio, le leggi che non si prestino ad essere ricondotte, nel momento interpretativo, al dettato costituzionale; 3) interpretare tutte le leggi in conformità ai principi contenuti nella Costituzione, che rappresentano i nuovi principi fondamentali dell’ordinamento giuridico statuale»; ed il congresso “si dichiara decisamente contrario alla concezione che pretende di ridurre l’interpretazione ad una attività puramente formalistica indifferente al contenuto ed all’incidenza concreta della norma nella vita del Paese. Il giudice, all’opposto, deve essere consapevole della portata politico-costituzionale della propria funzione di garanzia, così da assicurare, pur negli invalicabili confini della sua subordinazione alla legge, una applicazione della norma conforme alle finalità fondamentali volute dalla Costituzione”.
Nel discorso per l’inaugurazione dell’anno giudiziario letto il 12 gennaio 1966, il procuratore generale presso la Corte di cassazione Enrico Poggi esprimerà «qualche riserva per il punto relativo alla facoltà riconosciuta al giudice ordinario d’applicare direttamente “ove possibile” la norma costituzionale»[4]. Nondimeno, l’interpretazione conforme da parte del giudice, omessa la rimessione della questione alla Corte costituzionale, diventerà una prassi diffusa, talora ideologicamente connotata. Intervenendo al congresso dell’Unione magistrati italiani (associazione derivata nel 1961 dalla scissione di magistrati conservatori dall’A.N.M.) svoltosi a Ravenna il 21-24 settembre 1968, Salvatore Satta osserverà polemicamente che la Costituzione era divenuta, “per i magistrati democratici” (scil., iscritti a Magistratura democratica), “lo strumento o talismano che opera la giuridicizzazione della politica”, nel senso che «il giudizio deve essere costantemente “costituzionalizzato”, vale a dire che il giudice deve imparare a domandarsi, nella sua giurisprudenza quotidiana, che cosa impongano di metterci l’art. 1, l’art. 2, l’art. 3…della Costituzione»[5].
2. Nonostante che il sindacato di legittimità costituzionale sia accentrato e non diffuso[6], l’interpretazione adeguatrice della norma da parte del giudice, ordinario o speciale, che doveva applicarla era ritenuta dalla Corte costituzionale non solo legittima, ma addirittura doverosa, almeno fino alle decisioni del 2015/17[7]. La questione di legittimità costituzionale era infatti dichiarata inammissibile (con sentenza pronunciata all’esito di udienza pubblica) o manifestamente inammissibile (con ordinanza resa in camera di consiglio)[8] qualora il giudice a quo non avesse esperito il “doveroso tentativo di ricercare un’interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni censurate”[9].
“In linea di principio, le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne), ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali”[10]: questa formula compendia il principio dell’interpretazione conforme ed è stata presumibilmente determinata dall’esigenza di ridurre le pendenze della Corte. Imporre al giudice a quo il dovere di inferire dalla disposizione censurata una norma[11] in linea con i principi e le regole costituzionali, sotto pena di inammissibilità della questione incidentale, si risolve, infatti, “nella pratica eliminazione” dal catalogo dei provvedimenti della Corte della categoria delle pronunce interpretative di rigetto[12].
Il canone icasticamente enunciato nel 1996 è stato in seguito ridimensionato[13], se non modificato[14]. La corrente giurisprudenza costituzionale è infatti orientata nel senso che il “tenore letterale della disposizione” assolve il giudice rimettente dall’onere di sperimentare l’interpretazione conforme[15]. Anche le sezioni unite hanno statuito che “l’interpretazione giudiziale non si deve spingere oltre i possibili significati linguistici del testo legislativo”[16]; “la lettera della norma costituisce il limite cui deve arrestarsi anche l’interpretazione costituzionalmente orientata dovendo, infatti, essere sollevato l’incidente di costituzionalità ogni qual volta l’opzione ermeneutica supposta conforme a Costituzione sia incongrua rispetto al tenore letterale della norma stessa”[17]; «l’attività di interpretazione, per quanto la si voglia dilatare in funzione “evolutiva” (e in molti casi è opportuno dilatarla in tale chiave onde superare altrimenti inaccettabili lacune dell’ordinamento), non può mai spingersi fino a superare il limite di tolleranza e di elasticità di un enunciato, ossia – come efficacemente è stato detto – del significante testuale della disposizione che il legislatore ha posto, giacché da quel significante, previamente individuato, non può che muovere la dinamica di inveramento della norma nella concretezza del suo operare»[18]. Ma è nota la sorte che fu riservata all’art. 37 c.p.c., che prevedeva la rilevabilità d’ufficio del difetto di giurisdizione “in qualunque stato e grado del processo”[19].
3. La Corte costituzionale “giudica su norme ma pronuncia su disposizioni”, le quali “non sono altro che il necessario veicolo di accesso al sindacato di legittimità, sì che, allorquando esse mutino ma resti invariato il loro contenuto precettivo, la questione non può non trasferirsi sulle nuove disposizioni: nella specie, sulla c.d. clausola di salvezza, contenuta nella legge di conversione in forza della quale sono validi atti e rapporti nascenti dalle disposizioni censurate, le quali, dunque, seppur contenute in un decreto legge non convertito, possono essere sottoposte a giudizio di legittimità costituzionale”. Si disvela così “la funzione servente e strumentale della disposizione rispetto alla norma, sicché è la immutata persistenza di quest’ultima nell’ordinamento ad assicurare la perdurante ammissibilità del giudizio di costituzionalità sotto il profilo dell’inalterata sussistenza del suo oggetto (che costituisce altresì, sotto questo aspetto, ragione della sua persistente rilevanza), mentre l’eventuale successione di una disposizione ad altra rileva soltanto al fine di riversare correttamente l’esito del sindacato di costituzionalità nell’ordinamento”[20].
La Corte costituzionale richiama e condivide la distinzione tra disposizione e norma, elaborata da Vezio Crisafulli[21] (ma non senza critiche)[22]: le disposizioni «costituiscono propriamente il contenuto precettivo dell’atto, il “voluto” in esse manifestato, e possono vedersi, in un certo senso, come l’atto medesimo (o una sua parte) nella sua unità dialettica di forma e contenuto. Le norme, invece, lungi dal configurarsi come un elemento dell’atto, ne stanno fuori, quali entità staccate ormai dalla loro fonte (dall’atto che le ha poste), con un proprio significato, che può in varia misura divergere, e tanto più con l’andar del tempo, da quello originariamente espresso dalle rispettive disposizioni, singolarmente considerate, poichè esso si determina in funzione dell’ordinamento complessivo, e su di esso perciò si riflettono altre norme a questo appartenenti»[23].
La norma è quindi estrinseca alla disposizione; non è un prodotto immediato della fonte-atto, ma dell’interpretazione, mutevole nel tempo e non vincolata all’intenzione del legislatore. Per richiamare l’art. 37 c.p.c., la rilevabilità d’ufficio del difetto di giurisdizione in ogni stato e grado del processo rispondeva – secondo questa teorica – alla volontà dei compilatori del codice nel 1940, ma non è reputata conforme alla sopravvenuta regola della ragionevole durata del processo: la questione litis ingressum impediens è rilevabile d’ufficio soltanto nel primo grado del giudizio.
Si dà così incontrollato adito al creazionismo giurisprudenziale di matrice kelseniana[24] ed ispirazione antipositivistica[25]. La giurisdizione è diventata – come aveva teorizzato Francesco Carnelutti, in adesione alla nota teoria di Hans Kelsen[26] – “produzione del diritto in sede di sovranità vincolata”, ma pur sempre “vera produzione del diritto”[27], perché “anche quando accerta una norma o comunque un comando giuridico preesistente il giudice ordina giuridicamente la società come la ordina il legislatore”[28]; “la legislazione è applicazione del diritto rispetto alla Costituzione e creazione del diritto rispetto alla sentenza del giudice; e la giurisdizione è applicazione del diritto nei confronti della legge e creazione del diritto nei confronti degli atti di esecuzione”[29].
Occorre tuttavia riconoscere che il creazionismo è una reazione agli eccessi del positivismo: dell’ideologia, piuttosto che della teoria, positivistica[30]. Ma il creazionismo ha finito con il sostituire un’ideologia ad un’altra: quella del primato del diritto vivente (di fonte giurisprudenziale) sul diritto vigente (di fonte legislativa)[31]. Per quanti la difendono ed anzi la propugnano, la “creatività interpretativa del giudice” è il prodotto “di una visuale complessiva di cui i formanti, a partire dal testo di legge, sono i valori e i diritti fondamentali riconosciuti dall’ordinamento, il comune sentire (coscienza o consenso sociale), le consuetudini, la stessa tradizione giuridica (cd. dati extratestuali)”; la soggezione del giudice alla legge non impedisce “di attribuire all’interpretazione giurisprudenziale il valore di fonte del diritto”, potendo la giurisprudenza “creare diritto in via accessoria e complementare rispetto alla missione principale del giudice che è quella di decidere singole controversie; è, in un certo senso, una creatività marginale che non contraddice il fatto che il giudice agisce sempre sotto l’ombrello (o, come si usa dire, negli interstizi o nelle pieghe) della legge allo scopo di rivelarne, attualizzarne il significato, adattarlo ai casi concreti”; e la giurisprudenza creativa viene ritenuta compatibile con l’assenza di una diretta legittimazione popolare del decidente: il quale amministra la giustizia “in nome del popolo” (art. 101, comma 1, Cost.)[32].
Credo, invece, che la formula costituzionale esprima proprio il rifiuto dell’interpretazione creativa del diritto e quindi della nomopoiesi giurisprudenziale. Il giudice, in quanto amministratore della giustizia, non è il produttore della norma giuridica speciale e concreta (secondo la concezione kelseniana), ma l’interprete della norma giuridica generale ed astratta, che derivando da fonte legislativa rappresenta manifestazione della sovranità popolare. Il testo legislativo non è uno dei formanti del diritto, concorrente su un piano paritario con l’ermeneusi giudiziale: “la subordinazione alla legge dell’interprete va tenuta ferma”, ammonisce Claudio Consolo[33].
L’interpretazione costituzionalmente orientata da parte dei giudici comuni ha prodotto una sorta di ibridazione tra due modelli di giustizia costituzionale: quello, di matrice anglosassone, della disapplicazione e quello, di elaborazione kelseniana, del sindacato accentrato. Già nel 1968 Mauro Cappelletti notava come la judicial review of the constitutionality of legislation fosse stata di fatto riservata alla Supreme Court, che dichiarava con effetti erga omnes (non diversamente dalla nostra Corte costituzionale) l’illegittimità costituzionale della legge censurata, stante la vincolatività delle sue decisioni, mentre «nei vari sistemi “accentrati” di giustizia costituzionale adottati nell’ultimo dopoguerra, da quello italiano al tedesco, si è attuato un notevolissimo avvicinamento al sistema di controllo “diffuso”, in quanto a tutte le corti di giustizia si è attribuito il potere, se non proprio di decidere le questioni di costituzionalità, per lo meno di sollevarle in occasione dei casi concreti, portandole alla decisione della Corte costituzionale»[34]. Tuttavia, allora la rimessione alla Corte della questione di legittimità costituzionale, se rilevante e non manifestamente infondata, da parte del giudice a quo veniva ritenuta obbligatoria da accreditata dottrina (che quindi teneva in non cale la mozione approvata dal congresso dell’A.N.M. nel 1965)[35], dovendo il rimettente limitarsi ad accertare, “in linea di mera delibazione, se sussiste un dubbio sulla legittimità costituzionale della legge”; non spettava ai giudici comuni “sindacarne la costituzionalità, ed è infatti vietato disapplicarle, anche ove siano convinti della loro incostituzionalità”, essendo “del pari vietato applicarle, ove abbiano motivi anche semplicemente per dubitare della loro costituzionalità, senza prima aver provocato al riguardo il giudizio della Corte. In presenza di una legge di dubbia costituzionalità, i giudici hanno dunque il solo potere-dovere di sospenderne l’applicazione, proponendo con ordinanza alla Corte costituzionale la questione della sua legittimità costituzionale”[36].
L’interpretazione conforme è invece divenuta una decisione de lege da parte del giudice. La norma ritenuta incostituzionale viene disapplicata incidenter tantum nel giudizio in corso, ma può essere dichiarata illegittima erga omnes qualora il giudice rimetta la questione (rilevante e non manifestamente infondata) alla Corte, che la giudichi fondata. Le leggi sono così trattate come i regolamenti: il giudice ordinario può disapplicarle (e non solo, peraltro temporaneamente, nel processo cautelare, ma anche nel giudizio a cognizione piena)[37], mentre (non il giudice amministrativo, ma) la Corte costituzionale può annullarle. Tuttavia, la prima differenza è che l’interessato può impugnare il regolamento, che sia immediatamente lesivo di una situazione soggettiva materiale, dinanzi al giudice amministrativo, mentre gli è precluso l’accesso diretto alla Corte costituzionale (anche se tale divieto è stato talora eluso mediante la c.d. fictio litis, come nel caso della legge elettorale del 2005)[38]. La seconda differenza è che il parametro di legittimità della legge è rappresentato dalla Costituzione e che la disapplicazione o la dichiarazione di incostituzionalità di un atto normativo di fonte primaria si risolve nell’esercizio di una funzione paralegislativa. Non solo la Corte costituzionale, ma ciascun giudice può rifiutare (motivatamente, s’intende) l’applicazione di una norma ritenuta contra constitutionem. La sovranità popolare, che si esercita principaliter mediante la funzione legislativa, viene così subordinata non solo alla Costituzione ed al sindacato della Corte costituzionale (come è doveroso), ma anche al controllo diffuso da parte dei giudici; e si materializza lo spettro, agitato da Carl Schmitt, del trasferimento della potestà normativa “ad una aristocrazia della toga”[39].
L’attività interpretativa della Corte costituzionale viene rivendicata già in una delle prime decisioni, che disattendono il c.d. lodo De Nicola[40]: “la Corte, vestale della Costituzione; la Magistratura, vestale della Legge”. Poiché la disposizione è un enunciato linguistico, la norma il suo contenuto precettivo, l’interpretazione l’attività intellettuale che trae dalla disposizione la norma, le decisioni interpretative della Corte costituzionale non pronunciano su una disposizione, ma su un’interpretazione di una disposizione e quindi su una norma. Nelle sentenze interpretative di rigetto, la Corte dichiara che la disposizione censurata non è costituzionalmente illegittima se interpretata in un certo senso, conforme alla Costituzione, e quindi a condizione che dalla disposizione si tragga una certa norma e non un’altra[41]; la Corte dichiara infondata la questione di legittimità costituzionale, “con riguardo però ad una norma che differisce da quella dedotta nell’ordinanza o nel ricorso, ed è perciò un’altra norma, ad avviso della Corte correttamente deducibile dalle disposizioni indicate nell’atto introduttivo del giudizio costituzionale (ordinanza o ricorso che sia)”[42].
E’ quindi “sottinteso che la stessa disposizione sarebbe costituzionalmente illegittima, qualora fosse invece interpretata altrimenti. Ma, secondo la Corte, proprio perché quella disposizione ammette almeno una interpretazione conforme a Costituzione, non vi è ragione sufficiente di dichiararla illegittima: è sufficiente comandare (o piuttosto raccomandare) che essa sia interpretata nel modo conforme a Costituzione”[43]. Nelle sentenze interpretative di accoglimento[44], invece, la Corte non dichiara incostituzionale la disposizione, ma una delle sue possibili interpretazioni alternative, talchè la disposizione sopravvive e continua ad essere applicabile, restando preclusa la sola interpretazione censurata dal giudice costituzionale[45]. Rientrano in tale categoria anche le sentenze che non dichiarano incostituzionale una disposizione, ma una norma tratta da un combinato disposto[46].
Il pericolo insito nelle sentenze interpretative di rigetto è che la disposizione sopravvive e, non essendo la pronuncia vincolante erga omnes, resta suscettibile di applicazione contra constitutionem da parte di un giudice diverso da quello rimettente[47]. Come preconizzava Tullio Ascarelli, “riferendo direttamente la pronuncia della Corte alla norma formulata in base al testo, anziché al testo, si aprirebbe una incerta corsa in relazione a varie possibili interpretazioni di un testo che…morrebbe solo in relazione a una tra le interpretazioni che se ne possono dare o permarrebbe…a sua volta solo in relazione a una sua possibile interpretazione”, mentre la pronuncia della Corte dovrebbe avere “direttamente per oggetto il testo nei cui confronti viene dichiarata l’incostituzionalità o dichiarata infondata la questione di costituzionalità”[48]. E’ certo, infatti, che la decisione di rigetto non ha la medesima efficacia di quella di accoglimento[49]: il che è parso ingiustificabile ai processualcivilisti[50]. Il giudicato secundum eventum litis nel nostro ordinamento rappresenta un’eccezione: ma è addirittura dubbio che le sentenze costituzionali siano capaci di giudicato, in quanto la funzione della Corte – organo sui generis – viene ritenuta un tertium genus tra quella giurisdizionale e quella legislativa[51], ovvero “paralegislativa o superlegislativa”[52], se non “al di fuori e al di sopra della tripartizione tradizionale delle funzioni dello Stato rispetto al diritto”[53]. Secondo la nomenclatura carneluttiana, essendo la Costituzione una superlegge, il giudice costituzionale non può che essere un supergiudice, davanti al quale si svolge il processo al legislatore: processo volontario, non contenzioso, definito con provvedimento che, se dichiara l’incostituzionalità, non forma giudicato, ma ha natura di autorizzazione a non applicare la disposizione censurata; il supergiudice esercita una funzione giurisdizionale, non legislativa, perché non procede d’ufficio[54]. Le categorie processualistiche non sembrano quindi direttamente applicabili al giudizio incidentale di costituzionalità, che risolve una questione pregiudiziale in senso atecnico, non potendo dedursi ad oggetto di un autonomo giudizio[55].
Le decisioni interpretative di rigetto della Corte costituzionale sono, nonostante queste riserve, un dato acquisito dell’esperienza giuridica. Maggiori perplessità suscita, invece, l’interpretazione costituzionalmente orientata da parte dei giudici comuni. Si sostiene che nel nostro sistema ad essere accentrata sia la sola dichiarazione di incostituzionalità, mentre l’interpretazione ed applicazione conforme alla Costituzione si fonda sugli artt. 54 e 101 Cost. e non invade la competenza della Corte costituzionale, prevenendo l’antinomia tra fonte primaria e fonte sovraordinata: “l’interpretazione conforme non comporta, di per sé, la disapplicazione della legge, poiché, in quanto rivolta alla determinazione e individuazione della norma, spettante ad ogni giudice, è logicamente anteriore alla possibile antinomia tra norma legislativa e principio o norma costituzionale, antinomia risolubile dalla sola Corte costituzionale”[56]. Mi sembra un abilissimo espediente retorico: il giudice che deduce da una disposizione (significante) la norma (significato) A, ritenendo incostituzionale la norma B, disapplica la norma B. Si ipotizza, peraltro, che il giudice possa eccezionalmente disapplicare la norma manifestamente incostituzionale, quando sia stata dichiarata costituzionalmente illegittima una norma consimile[57]; si riconosce che l’interpretazione adeguatrice da parte del giudice comune rappresenta “una attenuazione del principio (pure costituzionale) del c.d. monopolio del sindacato (accentrato) di costituzionalità delle leggi attribuito alla (sola) Corte costituzionale”, ma si giustifica la deroga richiamando il “principio di supremazia (globale e pervasiva) della Costituzione”, che legittima la trasformazione del sindacato accentrato in sindacato «non già diffuso, bensì “collaborativo” (con i giudici comuni)», che sono invitati dalla Corte a ricercare un significato secundum constitutionem dell’enunciato normativo, limitando la rimessione ai casi nei quali sembra preclusa[58]. Il ragionamento potrebbe anche condividersi, se non fosse che la Corte ha reso (almeno fino al 2015) l’interpretazione costituzionalmente orientata da parte del giudice a quo una condizione di ammissibilità del giudizio incidentale; e che di fronte ad un’interpretazione consolidata, costituente diritto vivente[59], ma della cui legittimità costituzionale abbia fondato motivo di dubitare, il giudice è di fronte all’alternativa tra l’applicare un’interpretazione minoritaria (che sarà prevedibilmente disattesa in sede di impugnazione) od il rimettere la questione alla Corte costituzionale, che la dichiarerà inammissibile, perché il giudice a quo non ha esperito il tentativo di un’ermeneusi conforme alla Carta fondamentale dello Stato.
L’interpretazione adeguatrice, quando non sia conforme al testo letterale della disposizione (si pensi all’art. 37 c.p.c.), è «frutto di una scelta discrezionale: altamente discutibile, peraltro, sia sotto il profilo della legalità, sia sotto quello dell’opportunità politica. Intanto, nell’interpretare la legge i giudici non hanno altro obbligo se non quello di attribuire ad essa il senso “fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore” (art. 12, comma 1, disp. prel. c.c.). Sicchè l’interpretazione adeguatrice, lungi dall’essere doverosa, è anzi giustificata solo quando si accorda con il significato comune delle parole o con l’intenzione del legislatore: il che non sempre è il caso (la presunzione, su cui talora si regge l’interpretazione adeguatrice, che il legislatore sia rispettoso della Costituzione, e non intenda violarla, non ha alcuna plausibile fondamento)», vieppiù quando si tratti di disposizioni emanate anteriormente all’entrata in vigore della Costituzione. «Soprattutto, è lecito sostenere che, di fronte ad una disposizione di legge che ammetta anche una sola interpretazione difforme dalla Costituzione, il giudice – lungi dall’avere l’obbligo dell’interpretazione adeguatrice – abbia anzi l’obbligo di sollevare questione di legittimità costituzionale di fronte alla Corte. Ciò per la semplice ragione che, evidentemente, non può dirsi “manifestamente infondata” (art. 1 legge cost. n. 1/1948; art. 23, comma 2, legge n. 87/1953) una questione di legittimità costituzionale sopra una disposizione suscettibile di esprimere anche una sola norma in contrasto con la Costituzione. Sotto il profilo della opportunità politica, è anche lecito ritenere che l’interpretazione adeguatrice (specie se compiuta dai giudici comuni, ma anche se compiuta dalla Corte costituzionale con decisioni “interpretative di rigetto”) non solo non sia doverosa, ma sia anche dannosa per chi abbia a cuore la legalità costituzionale. Tale tecnica interpretativa, infatti, non sortisce altro esito se non quello di conservare in vita disposizioni legali che possono esprimere norme incostituzionali, e la cui interpretazione conforme a Costituzione da parte della generalità dei giudici e (soprattutto) della pubblica amministrazione non può dirsi assicurata. Le decisioni di rigetto, infatti, sono prive di efficacia erga omnes: i loro effetti sono circoscritti al caso deciso»[60].
Un esempio conforta questo ragionamento. L’art. 624, comma 2, c.p.c. ammette il reclamo contro l’ordinanza che provvede sull’istanza di sospensione proposta in pendenza di opposizione ex artt. 615 e 619 c.p.c., tacendo sull’opposizione agli atti esecutivi. Dai successivi commi si deduce – in via di interpretazione sistematica – che il reclamo è proponibile anche contro il provvedimento reso sull’istanza proposta dall’opponente ex art. 617, comma 2, c.p.c. Nel 2010 la Cassazione ha ritenuto (a ragione) che “sarebbe certamente lettura non conforme a Costituzione leggere il sistema nel senso che, nell’ambito dell’opposizione agli atti esecutivi, sarebbe reclamabile ai sensi dell’art. 624, comma 2, c.p.c. solo il provvedimento concessivo della sospensione dell’esecuzione e non anche quello negativo di essa”[61]. Ma ancora nel 2022 il tribunale di Roma[62] e quello di Vicenza[63] hanno dichiarato (a torto) inammissibile il reclamo contro il diniego della sospensione chiesta dall’opponente agli atti esecutivi. Se la S.C. avesse sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 624, comma 2, c.p.c., nella parte in cui non prevede la reclamabilità dell’ordinanza che provvede sull’istanza di sospensione proposta in pendenza di opposizione agli atti esecutivi, e la Corte avesse (come sarebbe stato lecito attendersi) dichiarato fondata la questione, anziché sanzionarla di inammissibilità per non avere il rimettente esperito il tentativo dell’interpretazione conforme, i giudici di merito non avrebbero potuto definire in rito la fase impugnatoria senza incorrere in responsabilità disciplinare.
Le interpretazioni costituzionalmente orientate possono essere, peraltro, tra loro confliggenti, in relazione al diverso parametro adottato. L’appello soggetto al rito del lavoro viene dichiarato improcedibile se il ricorso ed il decreto di fissazione dell’udienza di discussione non siano stati notificati alla controparte a cura dell’impugnante (benchè l’art. 435 c.p.c. non lo preveda), “alla stregua di un’interpretazione costituzionalmente orientata imposta dal principio della ragionevole durata del processo”[64]. Ma è lettura conforme all’art. 24 Cost. (che garantisce il potere di azione ed il diritto di difesa) anche quella che, per contro, prevede l’assegnazione all’appellante, rimasto inerte, di un termine perentorio per provvedere alla notifica, previa fissazione di nuova udienza: eppure la Cassazione ha censurato questa (non implausibile) alternativa opzione ermeneutica del giudice di secondo grado[65]. E l’art. 111 Cost. prevede che il processo debba essere, oltre che di durata ragionevole, anche sostanzialmente giusto, così da pervenire ad una decisione di merito conforme al diritto sostanziale[66].
Ho l’impressione che l’ordine giudiziario sia ancora, consapevolmente od inconsapevolmente, condizionato dal discorso tenuto dal Primo Presidente Ernesto Eula il 28 aprile 1956. La Corte costituzionale aveva già tenuto la sua prima udienza pubblica, ma l’alto magistrato continuava a rivendicare il potere-dovere del giudice di applicare immediatamente nel processo in corso le norme costituzionali precettive ad efficacia immediata[67], disapplicando quelle ordinarie contrastanti, senza “la complicazione dell’incidente di costituzionalità”[68]. Il fine, encomiabile, era quello di evitare la sospensione del giudizio; ma il mezzo, se giovava alla parte beneficiaria della disapplicazione nel caso deciso, non profittava alla generalità dei consociati, che restavano esposti al rischio che la disposizione continuasse ad essere applicata ultra partes: “anche se dieci giudici hanno detto in dieci cause diverse che quel tale articolo di una legge ordinaria precedente alla Costituzione deve considerarsi abrogato per incompatibilità con questa, non si può escludere che venga domani un undicesimo giudice a dimostrare che l’incompatibilità non c’è e che quindi la legge precedente è ancora in vigore”[69].
4. La disposizione che, pur essendo ritenuta illegittima da un giudice comune (se interpretata contra constitutionem), non viene dichiarata incostituzionale dalla Consulta, è insomma un ordigno che può ancora deflagrare, se un diverso giudice la applichi. Solo la dichiarazione d’incostituzionalità disinnesca la bomba e la rende definitivamente innocua erga omnes.
Fuor di metafora, la Corte costituzionale ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 11, legge 31 luglio 1997, n. 249, “censurato, in riferimento all’art. 24, comma 1, Cost., nella parte in cui, stabilendo che per le controversie fra utenti, o categorie di utenti, ed un soggetto autorizzato o destinatario di licenze non può proporsi ricorso in sede giurisdizionale se non sia stato preventivamente esperito un tentativo obbligatorio di conciliazione, escluderebbe anche la possibilità di proporre ricorso in sede cautelare, determinando così una lesione del diritto di agire in giudizio. La questione è sollevata su una premessa – quella secondo cui la norma censurata non consentirebbe il ricorso alla tutela cautelare nel caso di mancato esperimento del tentativo di conciliazione – erronea, in quanto, tenuto conto che, per i procedimenti cautelari, l’esclusione dalla soggezione al tentativo obbligatorio di conciliazione si correla alla stessa strumentalità della giurisdizione cautelare rispetto all’effettività della tutela dinanzi al giudice, e che, se la previsione di un tentativo obbligatorio di conciliazione è finalizzata ad assicurare l’interesse generale al soddisfacimento più immediato delle situazioni sostanziali, attraverso la composizione preventiva della lite, tale interesse svanisce in riferimento all’azione cautelare, proprio in considerazione delle esigenze che si vogliono tutelare con i procedimenti cautelari, esigenze che richiedono una risposta immediata”. Pertanto, “la norma censurata deve essere interpretata nel senso che il mancato espletamento del tentativo di conciliazione non preclude la concessione di provvedimenti cautelari”[70]. La Corte, quindi, non ha dichiarato l’incostituzionalità della disposizione impugnata, nella parte in cui preclude l’esperimento anche della tutela cautelare (e non solo di quella dichiarativa) nelle more dell’espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione[71]: resta pertanto teoricamente possibile che un giudice, diverso da quello a quo, dichiari inammissibile il ricorso ex art. 700 c.p.c., non adeguandosi alla pronuncia interpretativa di rigetto, che ha valore persuasivo ma non vincolante.
Come è stato rilevato dal processualcivilista che ha studiato funditus il giudizio di legittimità costituzionale, il sindacato diffuso, di origine nordamericana, è inapplicabile negli ordinamenti di civil law, ai quali è ignoto il principio dello stare decisis[72]: “una medesima legge o disposizione di legge potrebb’essere disapplicata, in quanto ritenuta incostituzionale, da alcuni giudici, mentre potrebb’essere applicata invece, in quanto ritenuta non in contrasto con la Costituzione, da altri. Di più, potrebbe accadere che lo stesso organo giudiziario, che ieri aveva disapplicato una data legge, la applichi invece oggi, avendo mutato opinione sul problema della sua legittimità costituzionale”[73].
La doverosità dell’interpretazione conforme viene derivata dal principio di conservazione degli atti giuridici: la disposizione non va dichiarata incostituzionale, quando le si possa attribuire “almeno un significato” secundum constitutionem[74]. Ma non si può evitare la dichiarazione di incostituzionalità attribuendo alla disposizione un significato antiletterale, benchè conforme alle regole e principi costituzionali[75]. Invece, in materia di espropriazione forzata, l’art. 14, comma 1 bis, decreto legge 31 dicembre 1996, n. 669 (convertito con modificazioni dalla legge 28 febbraio 1997, n. 30, successivamente introdotto dall’art. 147 legge 23 dicembre 2000, n. 388, poi sostituito dall’art. 44, comma 3, decreto legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito con modificazioni dalla legge 24 novembre 2003, n. 326)[76], denunciato di incostituzionalità nella parte in cui non prevede che anche l’intervento del creditore di enti ed istituti esercenti forme di previdenza ed assistenza obbligatoria organizzati su base territoriale sia proposto, a pena d’improcedibilità rilevabile d’ufficio, esclusivamente nei processi di espropriazione di crediti presso terzi pendenti innanzi al giudice dell’esecuzione della sede principale del tribunale nel cui circondario ha sede l’ufficio giudiziario che ha emesso il provvedimento posto a fondamento dell’intervento, è stato interpretato dalla Corte nel senso che il termine “pignoramento” non è assunto dalla legge nel significato legale di “atto iniziale dell’espropriazione forzata”, ma di “processo di espropriazione forzata”, comprensivo dell’intervento; la questione è stata pertanto definita con sentenza interpretativa di rigetto[77], anziché di accoglimento, con estensione all’interventore della regola di competenza dettata per il pignorante. Ma in una successiva decisione la Corte costituzionale non ha ritenuto sufficiente l’interpretazione conforme data dalle sezioni unite della Cassazione in tema di translatio iudicii[78], dichiarando l’incostituzionalità della disposizione sottoposta al suo giudizio[79].
Da ultimo, la Corte ha reso pronuncia interpretativa di rigetto della questione di legittimità costituzionale dell’art. 171 bis c.p.c., denunciato, oltre che per eccesso di delega (vizio ritenuto insussistente dal giudice costituzionale), anche per violazione dell’art. 24 Cost., poiché la disposizione censurata prevede l’emanazione, con decreto, di provvedimenti di carattere interlocutorio fuori udienza e senza alcun contraddittorio preventivo con le parti[80]. La Corte ha ritenuto che la disposizione, là dove prescrive che con il decreto di fissazione dell’udienza il giudice debba indicare alle parti le questioni rilevabili d’ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione, costituisca “espressione dell’esigenza di garantire il contraddittorio poiché le parti sono sollecitate a sviluppare la propria posizione su di esse già nelle memorie di cui all’art. 171 ter c.p.c. e poi a discuterne all’udienza di prima comparizione”. Invece, sotto un diverso profilo “la disposizione censurata, nella sua formulazione testuale, non garantisce allo stesso modo il contraddittorio laddove prevede che il giudice, prima dell’udienza di comparizione ex art. 183 c.p.c. e delle memorie integrative ex art. 171 ter c.p.c., operi le verifiche preliminari dalla stessa prescritte e adotti i provvedimenti conseguenti. È infatti stabilito che il giudice non si limiti ad indicare alle parti specifiche questioni di rito, anch’esse rilevate d’ufficio, quali sono quelle che attengono alla notifica degli atti introduttivi del giudizio, alla regolarità della rappresentanza delle parti, alla necessità o opportunità che il giudizio si svolga anche con la partecipazione di un altro soggetto. Il giudice va oltre: decide tali questioni, con decreto, anticipatamente rispetto all’udienza di prima comparizione e, soprattutto, le decide senza che le parti siano chiamate ad interloquire su di esse o abbiano la possibilità di farlo. È pur vero che, in seguito, in sede di udienza di comparizione, le stesse parti, entrando in contatto con il giudice per la prima volta, possono interloquire in ordine al decreto emesso in precedenza e chiedere che il giudice, con ordinanza adottata in udienza, lo modifichi o lo revochi. Ma intanto il decreto ha posto a carico delle parti un onere processuale (di rinnovazione di una notificazione, di regolarizzazione della rappresentanza processuale, di integrazione del contraddittorio, di chiamata in causa di un terzo), che, se inadempiuto, comporta conseguenze pregiudizievoli per le parti, finanche l’estinzione del processo. Ciò rende, in concreto, non effettiva la possibilità per le parti stesse di aver voce all’udienza di prima comparizione. Come è stato osservato in dottrina, viene meno il dialogo tra il giudice e i difensori sui vizi del contraddittorio, degli atti introduttivi e delle formalità di costituzione”. Prosegue la sentenza che «pertanto, sotto questo aspetto, la censura del giudice rimettente coglie nel segno laddove evidenzia una possibile compressione del diritto di difesa. Ma “le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali” (sentenza n. 42 del 2017), potendo questa Corte indicarne l’interpretazione adeguatrice, orientata alla conformità a Costituzione, sì da superare un dubbio di legittimità costituzionale (ex plurimis,sentenze n. 41 e n. 36 del 2024, n. 183, n. 105, n. 46 e n. 10 del 2023). L’interpretazione adeguatrice, quando operata da questa Corte, rappresenta l’esito della valutazione delle censure di legittimità costituzionale mosse dal giudice a quo e quindi ha una valenza e portata peculiari rispetto all’ordinaria esegesi del giudice comune». La Corte rivendica quindi il suo primato interpretativo ed indica i correttivi necessari affinchè l’art. 171 ter c.p.c. sia preservato dalla dichiarazione di incostituzionalità: il giudice, nell’esercizio del potere di direzione del processo, può fissare apposita udienza di comparizione delle parti, d’ufficio e prima di emettere il decreto, o su istanza di parte dopo aver provveduto; tale udienza garantisce il contraddittorio, anche se comporta il rinvio dell’udienza già fissata ex art. 183 c.p.c.[81]
La pronuncia riscrive l’art. 171 bis c.p.c., a maggior tutela del principio del contraddittorio. Il fine è lodevole, ma il mezzo è discutibile. La sentenza interpretativa di rigetto non è efficace erga omnes e la Corte ne è consapevole, postulando la (invero non prevista dall’ordinamento e non meglio definita) peculiarità della sua ermeneusi rispetto a quella dei giudici comuni: che invece sono soggetti soltanto alla legge. Per vincolarli al decisum del giudice costituzionale è necessario che la disposizione censurata sia dichiarata, in tutto od in parte, contraria alla legge fondamentale dello Stato. Decisione che nella specie la Consulta non ha inteso assumere, perché la fissazione dell’udienza da parte del giudice, prima dell’emissione del decreto, è stata ritenuta facoltativa, non obbligatoria[82]: e quindi non avrebbe avuto senso dichiarare incostituzionale l’art. 171 bis c.p.c., nella parte in cui non prevede che il giudice possa (e non debba) provvedere nel contraddittorio delle parti.
5. L’interpretazione conforme può essere difesa sulla base dell’art. 101, comma 2, Cost.? Si tratta di intendersi sul significato storico e su quello attuale della soggezione del giudice alla legge. Credo che nessuno (neppure un “positivista temperato”, quale si dichiara Giovanni Verde)[83] sia disposto ad accettare l’identificazione riduttiva e quasi meccanica del giudice – teorizzata da Montesquieu nel libro XI della sua celebre opera – con la “bocca che pronuncia la parola della legge” (che riecheggia il ciceroniano magistratum vere dicimus legem esse loquentem, legem autem mutum magistratum)[84], considerando i giudici “esseri inanimati, che non possono regolarne né la forza né la severità”[85] ed il potere giudiziario “invisibile e nullo”[86]. Questo modello del “giudice funzionario del principe e mero esecutore della sua legge – ammesso che sia mai esistito – certamente non è più di attualità”[87]. Non poteva valere neppure sotto il regime statutario, che riservava l’interpretazione delle leggi, “in modo per tutti obbligatorio”, al potere legislativo (art. 73), ma non privava il giudice del potere di interpretare la legge con effetti limitati al caso deciso, né gli imponeva, nei casi dubbi, di sollecitare l’intervento del legislatore, secondo il modello del referè legislatif della Francia rivoluzionaria[88].
Con l’istituzione del sindacato di legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge, caratterizzato dal conferimento del potere di promuovere l’incidente a ciascun giudice e della potestà decisoria alla Corte costituzionale, il magistrato giudicante deve rifiutare l’applicazione della norma che sospetti incostituzionale. L’interpretazione non è meramente ricognitiva, ma anche valutativa della conformità della legge alla Costituzione. L’ermeneusi deve quindi coordinare norme a fattispecie chiusa e norme a fattispecie aperta, come quelle costituzionali[89]. Come ha scritto Virgilio Andrioli, la subordinazione del giudice alla sola legge non si risolve nel vietare al sottoposto di conoscere de legibus, “ma nel senso che nell’assicurare la garanzia dell’ordinamento costituito i giudici sono guidati dalla sola osservanza della legge, se ed in quanto conforme alla Costituzione, e non anche alla soddisfazione d’interessi, sia pure propri dell’amministrazione come accade agli organi amministrativi, ovvero dall’esigenza di interpretare e di rendere concreto l’interesse generale politico, come avviene per gli organi investiti della funzione di governo”[90].
La declamata soggezione del giudice alla legge è un’ingenua formula illuministica. Nel nostro ordinamento, è la legge ad essere soggetta all’interpretazione giudiziale, oltre che al supremo scrutinio di legittimità costituzionale. La soggezione alla Costituzione dei magistrati, non solo giudicanti, è già prevista dall’art. 54 Cost., che impone a tutti i cittadini, senza eccezioni, di osservare le norme costituzionali. L’art. 101, comma 2, Cost. vuole piuttosto indicare nel giudice il destinatario finale della norma: la regola che sanziona l’omicidio, ad es., vieta di commetterlo e comanda al giudice di punirlo[91].
L’istituzione della Corte costituzionale, in luogo dell’attribuzione a ciascun giudice del potere di disapplicazione, con effetti limitati al processo in corso, della norma ritenuta incostituzionale (regime applicato fino all’entrata in funzione della Corte costituzionale, a norma dell’art. VII, comma 2, disp. trans. Cost.)[92], è indice della diffidenza dei Costituenti nei confronti dei giudici, reclutati sotto il regime fascista[93]. Si volle attribuire ad un organo composto solo per un terzo da magistrati il controllo di conformità delle leggi alla Costituzione, anziché seguire il modello americano del sindacato diffuso, che avrebbe prodotto interpretazioni difformi della medesima disposizione da parte di giudici diversi[94] (come poi è avvenuto).
L’interpretazione costituzionalmente orientata s’inquadra nel processo di sostituzione al giudizio sussuntivo-dichiarativo di quello innovativo-costitutivo. Alla giurisprudenza dei concetti si è sostituita prima quella degli interessi, quindi quella dei valori. “Il giudice dei valori non è il giudice che accerta, è il giudice che regola, che dispone”[95]. Il punto è che l’art. 101, comma 2, Cost. è (forse volutamente) ambiguo ed il suo valore precettivo si esaurisce nell’avverbio “soltanto”: il giudice sottoposto alla sola legge non dipende né da un altro giudice (indipendenza interna), né dal potere esecutivo (indipendenza esterna: la dipendenza dal potere legislativo è immanente, invece, proprio nella soggezione alla legge)[96].
6. Quale il possibile rimedio contro interpretazioni, come quella dell’art. 37 c.p.c., antiletterali e, quindi, nomopoietiche? Il conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato, con il quale il Parlamento adisce la Corte costituzionale chiedendo l’annullamento del provvedimento giurisdizionale, ancorchè non più soggetto ad impugnazione, siccome invasivo della competenza legislativa? Il tentativo è stato sperimentato senza successo nel noto caso di Eluana Englaro[97]. Peraltro, Luigi Montesano aveva espresso riserve di carattere dogmatico circa l’elevabilità nella specie del conflitto, ritenendo che al nostro sistema ripugni “un giudice parte di conflitti tra poteri dello Stato” e che «il rimedio sarebbe peggiore del male, giacchè ogni annullamento di pronuncia giudiziale viziata di “usurpazione di potere” significherebbe che, su iniziativa di un organo politico, l’ultima e decisiva parola su di una controversia giudiziaria, e quindi spesso sulle garanzie di insopprimibili diritti dei cittadini, spetterebbe alla Corte costituzionale», che secondo l’illustre A. “non è un giudice e comunque non è certamente un organo giudiziario ed opera con le funzioni e la mentalità di un supremo regolatore di politica, sia pure di politica costituzionale”[98].
Un rimedio alternativo è costituito dalla legge di interpretazione autentica. La riserva di giurisdizione non comprende la riserva di interpretazione: quella giudiziale non è esclusiva, né prevalente[99]; al contrario, già l’art. 73 dello Statuto riservava al potere legislativo l’interpretazione generalmente vincolante e “nessuna norma costituzionale attribuisce ai giudici un primato assoluto sull’interpretazione giuridica, né tantomeno un tale primato può essere incontrovertibilmente desunto dall’art. 12 disp. prel. c.c.”; la soggezione del giudice alla legge implica la sottoposizione anche alle regole legali di ermeneutica[100].
Tuttavia, anche l’interpretazione autentica, al pari di ogni altra legge retroattiva, soggiace al limite del giudicato, che è intangibile[101]. La regola non è stata costituzionalizzata, come pure era stato proposto[102]: ma più non si dubita che violerebbe l’indipendenza dell’ordine giudiziario ed il superiore principio di eguaglianza – e finanche quello di separazione dei poteri[103] – la legge che dichiarasse inefficace ex tunc una sentenza non più impugnabile in via ordinaria[104]. All’interpretazione autentica di una norma processuale civile il legislatore è ricorso, a seguito di una inopinata pronuncia della Cassazione[105], in materia di termine per la costituzione in giudizio dell’opponente a decreto ingiuntivo, con riferimento ai giudizi pendenti, senza peraltro emanare (nonostante la necessità e l’urgenza) un decreto legge[106]. Più frequenti sono i casi nei quali è la legge, invece, a conformarsi alla giurisprudenza (v., ad es., il nuovo testo dell’art. 37 c.p.c.).
Peraltro, il Parlamento interviene (con il conflitto di attribuzione o con la legge di interpretazione autentica) quando la questione è politicamente e soprattutto elettoralmente rilevante[107]. Le norme processuali civili non suscitano l’attenzione dei parlamentari, ai quali sono prevalentemente ignote. Se non erro, l’ultimo professore di diritto processuale civile ad essere titolare di un incarico di governo è stato, in un passato ormai remoto, il compianto Virginio Rognoni.
Se la Corte costituzionale impone ai giudici comuni l’interpretazione conforme, non può pretendere che tale attività ermeneutica sia subordinata alla sua, così introducendo surrettiziamente il vincolo dello stare decisis. I poteri interpretativi, sia delle leggi e degli atti aventi forza di legge, sia delle norme costituzionali che costituiscono il parametro dell’interpretazione conforme, concorrono su un piano di parità. Quando venne istituita la Corte costituzionale, fu paventato il rischio che il giudice comune non sollevasse l’incidente di costituzionalità, ritenendo la questione manifestamente infondata. L’onere dell’interpretazione conforme ha invece finito con il ridimensionare il potere della Consulta – successivamente oberata di questioni incidentali – di interpretare la legge. Lo testimonia la statistica: nel 2023 la Corte ha emesso, a definizione dei giudizi di legittimità costituzionale in via incidentale, 115 sentenze e 25 ordinanze, rispetto ai 160 provvedimenti dell’anno precedente; le decisioni di inammissibilità sono state 54, quelle di infondatezza 53, quelle di incostituzionalità 49; sono pervenute 170 ordinanze di rimessione e ne sono state decise 185, con una pendenza al 31 dicembre 2023 di appena 132 questioni[108]: un carico inferiore a quello di qualunque giudice comune, a fronte del quale nel 2023 la Corte ha ricevuto dallo Stato un contributo di 62 milioni e 600 mila euro per le spese di funzionamento[109].
Per conservare integra la sua funzione di interprete e, quando occorra, di censore delle norme incostituzionali, è auspicabile che la Corte elimini la regola che impone ai giudici comuni l’obbligo[110] dell’interpretazione costituzionalmente orientata, così da favorire l’accesso al giudizio incidentale, che dal 1996 è stato limitato per ridurre le pendenze: effetto deflattivo che – e si tratta di un indubbio merito della Corte – è stato pienamente conseguito. Dopo le decisioni del 2015/17, i costituzionalisti hanno già registrato questo processo di c.d. riaccentramento del giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale[111].
Un esempio virtuoso è offerto dalla sentenza che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 630, comma 3, c.p.c., nella parte in cui stabilisce che, contro l’ordinanza che dichiara l’estinzione del processo esecutivo ovvero rigetta la relativa eccezione, è ammesso reclamo al collegio con l’osservanza delle forme di cui all’art. 178, commi quarto e quinto, c.p.c., senza prevedere che al collegio non possa partecipare il giudice che ha emanato il provvedimento reclamato[112]. Nella specie, l’Avvocatura dello Stato aveva eccepito l’inammissibilità della questione, atteso che nessuna norma afferma esplicitamente che al collegio investito del reclamo debba necessariamente partecipare il giudice-persona fisica che ha adottato l’ordinanza reclamata, talchè “il rimettente avrebbe potuto ben desumere dai principi generali la sussistenza, anche in questo caso, di un dovere di astensione ex art. 51, comma 1, n. 4, c.p.c. Tale conclusione sarebbe ulteriormente confortata dalla previsione per legge, nella parallela disciplina dell’opposizione agli atti esecutivi, dell’art. 186 bis disp. att. c.p.c., che dispone l’incompatibilità tra giudice dell’esecuzione e giudice dell’opposizione”. La Corte ha osservato in contrario che «è vero che le disposizioni censurate non prevedono espressamente la necessaria partecipazione del giudice dell’esecuzione al giudizio di reclamo. Tuttavia, non è implausibile desumere dal rinvio dell’art. 630, comma 3, c.p.c. ai commi quarto e quinto dell’art. 178 c.p.c., e in particolare dall’attribuzione al giudice dell’esecuzione del ruolo riferito al giudice istruttore, la sua necessaria partecipazione al collegio che giudica il reclamo. Inoltre, va comunque sottolineato che la censura mossa dal rimettente è diretta nei confronti della norma non soltanto perché, a suo dire, contemplerebbe la suddetta partecipazione obbligatoria, ma anche perché ometterebbe di escludere la partecipazione del giudice dell’esecuzione al collegio del reclamo. E, a tal riguardo, non è implausibile quanto argomenta il giudice a quo, sostenendo che la fattispecie al suo esame non costituisc[a] tecnicamente “altro grado del medesimo processo”, sì da consentire l’applicazione dell’art. 51, comma 1, n. 4, c.p.c.»[113].
In applicazione del principio enunciato con la sentenza n. 356/1996, la Corte avrebbe dovuto invece dichiarare inammissibile la questione o rendere una pronuncia interpretativa di rigetto. Nel 1997, infatti, dichiarò infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 51, comma 1, n. 4, c.p.c., nella parte in cui non obbliga il giudice, che ha pronunciato il decreto ex art. 28 legge 20 maggio 1970, n. 300, ad astenersi dal conoscere dell’opposizione, “essendo l’interprete tenuto ad una esegesi costituzionalmente corretta della norma denunciata, tale da ricomprendere, tra le ipotesi di obbligo di astensione del giudice per avere conosciuto della causa in un altro grado, quella dell’opposizione” al decreto repressivo della condotta antisindacale: nella specie, l’interpretazione costituzionalmente orientata fu compiuta dalla Corte, con sentenza interpretativa di rigetto[114], che quindi non espunse la disposizione censurata.
Il ripristino del sindacato accentrato rappresenta, sul piano assiologico, strumento di efficace tutela contro gli eccessi creazionistici della giurisprudenza, soprattutto di merito. Il tribunale di Roma ha affermato che l’ordinanza di rigetto dell’istanza ex art. 649 c.p.c. è impugnabile davanti al collegio con il reclamo cautelare, valorizzando l’argomento, addotto dalla Corte costituzionale, circa l’area di “tendenziale reclamabilità dei provvedimenti che, in quanto non definitivi né decisori, si sottraggono alla ricorribilità per cassazione di cui al settimo comma dell’art. 111 Cost.”[115], sulla base “di un’interpretazione complessiva e sistematica, costituzionalmente orientata, delle norme di riferimento” e del “carattere espansivo delle norme sul procedimento cautelare uniforme”[116]. Ha così applicato un rimedio cautelare ad un’ordinanza priva di natura cautelare, come quella che nega la sospensione dell’esecuzione immediata del decreto ingiuntivo opposto. Avrebbe dovuto, invece, sollevare questione di legittimità costituzionale degli artt. 648 e 649 c.p.c., nella parte in cui dichiarano non impugnabili le ordinanze ivi previste (nelle more potendo al più concedere interinalmente la sospensione fino alla decisione della Corte costituzionale, secondo lo schema adottato quando viene chiesta una cautela stricto sensu), così da provocare una decisione valevole, se di accoglimento, erga omnes.
In definitiva, solo il riaccentramento del sindacato di legittimità costituzionale può garantire l’eguaglianza dei consociati davanti alla legge, altrimenti soggetta ad interpretazioni difformi da parte dei giudici comuni. La prevedibilità (weberiana) delle decisioni costituisce attuazione dei principi di legalità e di uguaglianza[117] e rappresenta un valore da tutelare, non meno di quello dell’indipendenza della magistratura[118].
[1] Sul tema v., a tacer d’altri, M. LUCIANI, Interpretazione conforme a costituzione, in Enc. dir., Ann., IX, Milano, 2016, pp. 391 ss.; G. SORRENTI, L’interpretazione conforme a Costituzione, Milano, 2006. Per una rassegna di decisioni civili secundum constitutionem v. AA.VV., L’«interpretazione secondo Costituzione» nella giurisprudenza. Crestomazia di decisioni giuridiche2, a cura di G. Perlingieri-G. Carapezza Figlia, II, Napoli, 2021. Per un’analisi della giurisprudenza costituzionale sulle norme processuali civili v. N. TROCKER, Costituzione e processo civile: dall’accesso al giudice all’effettività della tutela giurisdizionale, in Giusto proc. civ., 2019, pp. 15 ss.
[2] In Opere giuridiche, a cura di M. Cappelletti, III, Napoli, 1968, pp. 215 ss.
[3] Sulla storia dell’associazionismo giudiziario v. M. CICALA, Le “correnti” della magistratura italiana, in www.magistraturaindipendente.it, 17 giugno 2020.
[4] E. POGGI, Discorso per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 1966, p. 17.
[5] S. SATTA, Il giudice e la legge negli interni contrasti della magistratura italiana, in Quaderni del diritto e del processo civile, I, Padova, 1969, p. 71.
[6] “Si possono individuare tre modelli originari di giustizia costituzionale: il primo si afferma nel Regno Unito con il caso Bonham del 1610 e negli Stati Uniti con il caso Marbury vs Madison del 1803 per garantire la supremazia del Common law e della giustizia naturale prima e della Costituzione scritta poi; il secondo viene realizzato nello Yucatan e in Messico, seguendo l’impostazione della Costituzione spagnola di Cadice del 1812, per assicurare a chiunque di far valere i diritti proclamati nella Costituzione; il terzo, teorizzato da Kelsen e codificato nella Costituzione della Repubblica austriaca del 1920 sulla base dell’evoluzione storica e delle peculiarità dell’Impero austro-ungarico, affida il controllo sulla costituzionalità delle leggi ad un organo apposito, nominato in tutto o in parte dal Parlamento, per tutelare le minoranze, senza però mettere in discussione la supremazia parlamentare” (E. PALICI di SUNI, Tre modelli di giustizia costituzionale, in Riv. AIC, 2016, 1).
[8] Sul diverso iter formativo delle due pronunce v. E. MALFATTI-S. PANIZZA-R. ROMBOLI, Giustizia costituzionale7, Torino, 2021, p. 132.
[9] Per applicazioni del principio in materia processuale v. Corte cost., 17 luglio 2013, n. 198, in Foro it., 2013, I, c. 2341, con nota di D. LONGO (dichiara manifestamente inammissibile la q.l.c. degli art. 2495 c.c. e 328 c.p.c, nella parte in cui non prevedono, in caso di estinzione della società per effetto di volontaria cancellazione dal registro delle imprese, che il processo prosegua o sia proseguito nei gradi di impugnazione da o nei confronti della società cancellata, sino alla formazione del giudicato, in riferimento agli art. 3, 24 e 111 Cost.; “il rimettente non ha adempiuto al dovere di sperimentare la possibilità di dare alle norme impugnate un significato tale da renderle compatibili con gli evocati parametri costituzionali, e il petitum richiesto non si configura come soluzione costituzionalmente imposta, apparendo piuttosto diretto a sterilizzare, sul piano processuale, gli effetti immediatamente estintivi della società derivanti dalla cancellazione ai sensi del nuovo testo dell’art. 2495 c.c., mediante un sostanziale ripristino del sistema anteriore alla riforma del 2003, per il quale la cancellazione dal registro delle imprese della iscrizione di una società commerciale, di persone o di capitali, non produceva l’estinzione della società stessa, in difetto dell’esaurimento di tutti i rapporti giuridici pendenti facenti capo ad essa”); Corte cost., 11 novembre 2010, n. 322, in Foro it., 2011, I, c. 1642, con nota di C. CEA (dichiara manifestamente inammissibili le q.l.c. degli art. 709, comma 4, e 709 ter c.p.c., censurati, in riferimento agli art. 3, 24 e 111, commi 1 e 2, Cost., nelle parti in cui non consentono, nel procedimento di separazione giudiziale, di sottoporre a reclamo davanti al tribunale, in composizione collegiale, le ordinanze del giudice istruttore in materia di revoca o modifica dei provvedimenti temporanei ed urgenti emessi dal presidente del tribunale nell’interesse della prole e dei coniugi ai sensi dell’art. 708, comma 3, c.p.c.; “premesso che in materia si riscontrano orientamenti giurisprudenziali differenziati, tra i quali quello che ammette la reclamabilità di tali provvedimenti davanti al collegio mediante il rimedio del rito cautelare uniforme ai sensi dell’art. 669 terdecies c.p.c., i rimettenti non hanno sperimentato la possibilità di pervenire ad una doverosa interpretazione costituzionalmente conforme della norma che consenta di colmare la dedotta carenza di tutela, risolvendosi in tal modo il prospettato dubbio di costituzionalità in un improprio tentativo di ottenere dalla Corte costituzionale l’avallo dell’interpretazione della norma dai medesimi ricorrenti propugnata, con uso evidentemente distorto dell’incidente di costituzionalità”); Corte cost., 24 giugno 2010, n. 230, in Giust. civ., 2011, p. 576 (dichiara inammissibile – in riferimento agli art. 3, 24 e 111, comma 2, Cost. – la q.l.c. dell’art. 140, comma 4, d.lgs. 7 settembre 2005 n. 209, nella parte in cui prevede un’ipotesi di litisconsorzio necessario, ai sensi dell’art. 102 c.p.c., nei giudizi promossi fra l’impresa di assicurazione e le persone danneggiate; “identica questione è stata, infatti, già dichiarata inammissibile per avere il rimettente sia trascurato di sperimentare la possibilità di dare alla disposizione censurata un’interpretazione costituzionalmente orientata e di spiegare le ragioni che impediscono di pervenire ad un risultato idoneo a superare i dubbi di costituzionalità, sia denunciato meri inconvenienti di fatto, quali le asserite difficoltà di individuazione dei danneggiati, come tali estranei al controllo di costituzionalità”); Corte cost., 17 giugno 2010, n. 217, in Giust. civ., 2011, p. 583, con nota di M. NARDELLI (dichiara inammissibile la q.l.c. dell’art. 49, comma, 1 d.lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, censurato, in riferimento agli art. 3, 23, 24, 111 e 113 Cost., nella parte in cui non prevede la possibilità di sospensione della sentenza tributaria pronunciata in grado d’appello, impugnata con ricorso per cassazione, quando dall’esecuzione possa derivare grave ed irreparabile danno; “il rimettente, nonostante la mancanza di un diritto vivente sul punto, non ha esperito alcun tentativo di interpretare la disposizione censurata nel senso che essa consenta l’applicazione al processo tributario della sospensione cautelare prevista dall’art. 373 c.p.c., con conseguente insussistenza del prospettato contrasto con gli evocati parametri costituzionali”).
[10] Corte cost., 22 ottobre 1996, n. 356 (est. Gustavo Zagrebelsky), in motivazione, § 4.
[11] Sul rapporto tra disposizione e norme v. infra, n. 3.
[12] E. MALFATTI-S. PANIZZA-R. ROMBOLI, Giustizia costituzionale7, cit., p. 357.
[13] Corte cost., 5 novembre 2015, n. 221 (est. Giuliano Amato), in motivazione, § 3.3: “La compiuta valutazione di tali argomenti, ancorché inidonea ad escludere possibili soluzioni difformi, appare indicativa del tentativo, in concreto effettuato dal giudice a quo, di utilizzare gli strumenti interpretativi a sua disposizione per verificare la possibilità di una lettura alternativa della disposizione censurata, eventualmente conforme a Costituzione. Tale possibilità viene consapevolmente esclusa dal rimettente, il quale ravvisa nel tenore letterale della disposizione un impedimento ad un’interpretazione costituzionalmente compatibile”. La possibilità di un’ulteriore interpretazione alternativa, esclusa dal giudice a quo, “non riveste alcun significativo rilievo ai fini del rispetto delle regole del processo costituzionale, in quanto la verifica dell’esistenza e della legittimità di tale ulteriore interpretazione è questione che attiene al merito della controversia, e non alla sua ammissibilità”. Nella specie è stata resa pronuncia interpretativa di rigetto, sulla premessa che la rettificazione anagrafica dell’attribuzione di sesso non esige indefettibilmente un trattamento medico-chirurgico modificativo dell’anatomia sessuale, diversamente da quanto opinato dal rimettente: la Corte ha rigettato l’eccezione di inammissibilità della q.l.c., sollevata dall’Avvocatura dello Stato, che imputava al giudice a quo di non avere “adeguatamente verificato la possibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata della normativa censurata”. E. MALFATTI-S. PANIZZA-R. ROMBOLI, Giustizia costituzionale7, cit., p. 358 notano come il criterio di accesso al giudizio incidentale fissato dalla sentenza n. 356/1996 viene modificato dalla sentenza n. 221/2015, “nel senso che è sufficiente per il giudice motivare in modo plausibile la scelta di non seguire una interpretazione che supera i dubbi di costituzionalità e che la fondatezza delle diverse interpretazioni attiene al merito della questione. Questa nuova giurisprudenza sarà poi costantemente seguita dalla Corte e fino ad oggi confermata”.
[14] Corte cost., 24 febbraio 2017, n. 42 (est. Franco Modugno), in motivazione, § 2: «Se, dunque, “le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne)” (sentenza n. 356 del 1996), ciò non significa che, ove sia improbabile o difficile prospettarne un’interpretazione costituzionalmente orientata, la questione non debba essere scrutinata nel merito. Anzi, tale scrutinio, ricorrendo le predette condizioni, si rivela, come nella specie, necessario, pure solo al fine di stabilire se la soluzione conforme a Costituzione rifiutata dal giudice rimettente sia invece possibile».
[15] Corte cost., 10 novembre 2023, n. 202 (est. Giovanni Amoroso), in www.judicium.it., 28 dicembre 2023, con nota di F.P. LUISO; in Giur. it., 2024, p. 823, con nota di A.A. ROMANO; ivi, p. 1570, con nota di L. GALANTI, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 669 quaterdecies e 695 c.p.c., nella parte in cui non consentono di proporre il reclamo, previsto dall’art. 669 terdecies c.p.c., avverso il provvedimento che rigetta il ricorso per la nomina del consulente tecnico preventivo ai fini della composizione della lite, di cui all’art. 696 bis c.p.c. La Corte ha inferito dal diritto positivo “un’area di tendenziale reclamabilità di provvedimenti che, in quanto non definitivi né decisori, si sottraggono alla ricorribilità per cassazione di cui al settimo comma dell’art. 111 Cost.” (in motivazione, § 11), affermando che le norme sul procedimento cautelare uniforme hanno “carattere espansivo” ed “esprimono principi generali dell’ordinamento, ai quali occorre fare riferimento per colmare le eventuali lacune della disciplina di procedimenti ispirati alla medesima ratio” (in motivazione, § 16). La sentenza ha esteso il reclamo cautelare ad un provvedimento che cautelare non è, neppure ad avviso della Corte: il ricorso ex art. 696 bis c.p.c., infatti, non richiede l’allegazione di ragioni di urgenza e quindi del periculum in mora (in motivazione, § 13). Mi sembra che la vera ratio decidendi della pronuncia sia quella di evitare, mediante l’ammissione, da parte del collegio adito in sede di reclamo, della consulenza tecnica negata dal giudice, l’introduzione del processo a cognizione piena. Con il reclamo non si tutela il diritto soggettivo o lo strumentale diritto alla prova, ma l’interesse del ricorrente a munirsi di un accertamento tecnico preventivo (in senso sia cronologico che teleologico) che induca, se favorevole all’istante, la controparte a transigere la controversia. Si può discutere se questa applicazione della tecnica rimediale anglosassone (ubi remedium ibi ius) sia conforme al nostro ordinamento di civil law. La sentenza è apprezzabile secondo i canoni dell’analisi economica del diritto (perché l’ammissione del mezzo istruttorio consente di evitare il processo dichiarativo, che rappresenta un costo per la collettività), non secondo quelli del diritto processuale civile.
[16] Cass., Sez. un., 28 gennaio 2021, n. 2061, in Fall., 2021, p. 781, con nota di G. FICHERA; in Banca, borsa, tit. cred., 2021, II, p. 628, con nota di M. ONORATO; in Contr., 2021, p. 397, con nota di V. BRIZZOLARI; in Giur. it., 2021, p. 2664, con nota di R. RUSSO; in Corr. giur., 2021, p. 456, con nota di R. CLARIZIA; in Foro it., 2021, I, c. 853, con nota di L. LA BATTAGLIA-R. PARDOLESI; ivi, c. 865, con nota di G. PINO.
[17] Cass., Sez. un., 1° giugno 2021, n. 15177, in Nuova giur. civ. comm., 2022, p. 159, con nota di R. MARUFFI, in motivazione, § 44.
[18] Cass., Sez. un., 19 marzo 2024, n. 7337, in motivazione, § 23.
[19] Cass., Sez. un., 9 ottobre 2008, n. 24883, in Giur. it., 2009, p. 406, con note di R. VACCARELLA e A.M. SOCCI; ivi, p. 1459, con nota di A. CARRATTA; in Riv. dir. proc., 2009, p. 857, con nota di L. PICCININNI; ivi, p. 1071, con note di E.F. RICCI e V. PETRELLA; in Foro it., 2009, I, c. 806, con nota di G.G. POLI; in Giust. civ., 2009, I, p. 47, con nota di A. NAPPI; in Corr. giur., 2009, p. 372, con note di R. CAPONI e F. CUOMO ULLOA; in Giusto proc. civ., 2009, p. 263, con nota di G. BASILICO. Per ulteriori ragguagli v. R. TISCINI, Delle modificazioni della competenza per ragioni di connessione. Del difetto di giurisdizione, dell’incompetenza e della litispendenza, in Commentario del codice di procedura civile, a cura di S. Chiarloni, Bologna, 2016, pp. 400 ss.
[20] Corte cost., 21 marzo 1996, n. 84, in Foro it., 1996, I, c. 1113, con nota di R. ROMBOLI; in Giur. it., 1996, I, p. 372, con nota di A. CELOTTO. Nella specie, è stata dichiarata infondata la questione di legittimità costituzionale (sollevata in riferimento agli art. 77, comma 2, e 97 Cost.) dell’art. 1, comma 2, l. 20 dicembre 1995, n. 534, che dichiara validi gli atti ed i provvedimenti adottati e salvi gli effetti prodottisi ed i rapporti giuridici sorti sulla base degli artt. 2 e 4 d.l. 21 giugno 1995, n. 238, prevedenti l’aumento della competenza per valore del pretore ed una prima udienza di comparizione, distinta dalla successiva prima udienza di trattazione, in cui il giudice non può compiere alcuna attività processuale che non sia quella di verificare la correttezza del contraddittorio. Il d.l. n. 238/1995 non era stato convertito in legge, ma reiterato con d.l. 9 agosto 1995, n.347, non convertito, e d.l. 18 ottobre 1995, n. 432, convertito dalla legge n. 534/1995. Le disposizioni censurate, contenute nel d.l. non convertito, erano state riprodotte in quello convertito e dichiarate salve dalla legge di conversione.
[21] V. CRISAFULLI, Disposizione (e norma), in Enc. dir., XIII, Milano, 1964, p. 196. Ma sulla distinzione tra testo e norma v. già T. ASCARELLI, Giurisprudenza costituzionale e teoria dell’interpretazione, in Riv. dir. proc., 1957, pp. 351 ss.
[22] M. LUCIANI, L’errore di diritto e l’interpretazione della norma giuridica, in Quest. giust., 2019, 3, pp. 31 ss.
[23] V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale4, II, 1, Padova, 1978, p. 40.
[24] “Anche il giudice è un creatore del diritto”, benchè goda, rispetto al legislatore, di una minore libertà; ma “egli pure è relativamente libero” nell’interpretazione, che è un atto di volontà, in quanto determinativo della “norma individuale”, e non un atto di conoscenza, come ritiene la contestata giurisprudenza dei concetti (H. KELSEN, Lineamenti di dottrina pura del diritto, trad. it. R. Treves, Torino, 2000, p. 123).
[25] Come ricorda N. BOBBIO, Il positivismo giuridico, Torino, 1996, pp. 219 ss., “il dissenso tra il giuspositivismo e i suoi avversari comincia proprio quando si tratta di precisare la natura conoscitiva della giurisprudenza: per il primo essa consiste in un’attività puramente dichiarativa o riproduttiva di un diritto preesistente, cioè nella conoscenza puramente passiva e contemplativa di un oggetto già dato; per i secondi essa consiste in una attività che è anche creativa o produttiva di un nuovo diritto, cioè nella conoscenza attiva di un oggetto che lo stesso soggetto conoscente contribuisce a produrre”. Per il positivismo giuridico l’attività interpretativa è limitata dal testo della disposizione: l’interpretazione può essere testuale od extratestuale, giammai antitestuale, “cioè andare contro la volontà che il legislatore ha espresso nella legge”.
[26] “La sentenza che dichiara esistente nel caso concreto la fattispecie che la legge definisce solo in termini generali e pronuncia la sanzione concreta che la legge prevede solo in generale, altro quindi non è che una norma giuridica individuale, l’individualizzazione o concretizzazione della norma giuridica generale o astratta” (H. KELSEN, La dottrina dei tre poteri o funzioni dello Stato, in Il primato del parlamento, Milano, 1982, p. 88). Per l’A., la funzione giurisdizionale “non ha per nulla un carattere semplicemente dichiarativo (…), quasi che il diritto già compiuto nella legge, cioè nella norma generale, dovesse soltanto essere espresso o trovato nell’atto del tribunale” e quindi nella sentenza. “La così detta funzione giurisdizionale è piuttosto totalmente costitutiva, è produzione di diritto nel vero senso della parola. Solo per mezzo della sentenza viene posto in essere il rapporto per cui, in generale, un fatto concreto esistente viene collegato a una specifica conseguenza giuridica e viene perciò unito alla conseguenza giuridica concreta. Come i due fatti, nel campo generale, sono collegati a mezzo della legge, così tali fatti, nel campo dell’individuale, debbono essere anzitutto uniti dalla sentenza. Perciò la sentenza è di per se stessa una norma giuridica individuale, l’individualizzazione o concretizzazione della norma giuridica generale o astratta, la continuazione del processo di produzione del diritto dal generale all’individuale. Soltanto il pregiudizio per cui tutto il diritto si esaurirebbe nella norma generale, soltanto l’erronea identificazione del diritto con la legge ha potuto offuscare questa concezione” (H. KELSEN, Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., pp. 108 s.).
[27] F. CARNELUTTI, Teoria generale del diritto3, Roma, 1951, p. 56.
[28] F. CARNELUTTI, Teoria generale del diritto3, cit., p. 54. L’A. ne trae la conclusione che “la tripartizione delle fonti giuridiche formali in legislazione, giurisdizione ed esecuzione non risponde più dunque alla fase moderna delle nostre cognizioni intorno al diritto”.
[29] H. KELSEN, Giurisdizione e amministrazione, in Il primato del parlamento, cit., p. 128.
[30] N. BOBBIO, Il positivismo giuridico, cit., pp. 233 ss., premesso che la teoria è un giudizio (avalutativo-ontologico) di fatto (della realtà per com’è), mentre l’ideologia esprime un giudizio (valutativo-deontologico) di valore (della realtà per come dovrebbe essere), nota che “l’ambizione del positivismo è di assumere un atteggiamento neutrale di fronte al diritto, per studiarlo così com’è, e non come dovrebbe essere: cioè di essere una teoria e non un’ideologia”. La componente ideologica condizionò tuttavia i giuspositivisti tedeschi della seconda metà dell’Ottocento, che sotto l’influenza della concezione hegeliana dello Stato etico [per G.W.F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto, trad. it. F. Messineo, Bari, 1974, pp. 238 ss. “lo Stato è la realtà dell’idea etica (…) è volontà divina”] postularono “il dovere assoluto o incondizionato di ubbidire alla legge in quanto tale”. L’A. peraltro distingue questo deprecato “positivismo etico estremistico” dal condiviso “positivismo etico moderato”, che invece “non porta affatto alla statolatria e al totalitarismo politico”; anzi, “il considerare l’ordine, l’eguaglianza formale e la certezza come i valori propri del diritto rappresentano un sostegno ideologico a favore dello Stato liberale, e non già dello Stato totalitario o comunque tirannico; questi valori sono stati infatti rivendicati dal movimento illuministico contro lo Stato autoritario dell’Ancien Regime, e sono stati realizzati dallo Stato liberale-democratico dell’Ottocento; l’ideologia giuridica del nazismo era d’altra parte nettamente contraria al principio giuspositivistico secondo cui il giudice deve decidere esclusivamente in base alla legge, sostenendo che, al contrario, esso doveva decidere in base all’interesse politico dello Stato. Si aggiunga che, specie in Italia, il principio di legalità (…) venne rivendicato dai giuspositivisti (ad esempio, dal Calamandrei) non già per sostenere il fascismo, ma per porre una remora ai suoi arbitrii” (op. cit., pp. 248 s.).
[31] L. FERRAJOLI, Contro la giurisprudenza creativa, in Doc. giust., 2016, 4, pp. 13 ss.
[32] A. LAMORGESE, L’interpretazione creativa del giudice non è un ossimoro, in Doc. giust., 2016, 4, p. 118.
[33] C. CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale civile11, I, Torino, 2017, p. 9.
[34] M. CAPPELLETTI, Il significato del controllo giudiziario di costituzionalità delle leggi nel mondo contemporaneo, in Riv. dir. proc., 1968, pp. 483 ss., spec. 496.
[36] V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale2, cit., II, 2, p. 58.
[37] Si ammette, infatti, che il giudice conceda la misura cautelare sul presupposto della non manifesta infondatezza della questione sollevata, ma ad tempus, ossia fino alla restituzione degli atti del processo cautelare da parte della Corte costituzionale, sicché il giudice a quo non ha consumato la propria potestas iudicandi e la questione non perde la sua rilevanza. All’esito della decisione della Corte, la misura verrà, secundum eventum litis, confermata o revocata (Corte cost., 5 dicembre 2014, n. 274; Corte cost., 7 luglio 2010, n. 236).
[38] V., anche per ulteriori riferimenti, A. PANZAROLA, Principi e regole in epoca di utilitarismo processuale, Bari, 2022, pp. 95 ss.
[39] C. SCHMITT, Il custode della costituzione, a cura di A. Caracciolo, Milano, 1981, p. 236. Sulla polemica con Hans Kelsen sul giudice costituzionale v. M. LA TORRE, Chi ha paura del giudice costituzionale? Decisionismo e positivismo giuridico, in Quad. fior., 2013, pp. 153 ss.; V. ZAGREBELSKY-V. MARCENO’, Giustizia costituzionale, I, Bologna, 2007, pp. 49 ss.
[40] La definizione è di E. LAMARQUE, La fabbrica delle interpretazioni conformi a Costituzione tra Corte costituzionale e giudici comuni, in www.astrid-online.it., 20 novembre 2009, p. 6. Enrico De Nicola fu il primo Presidente della Corte e pronunciò la frase riportata nel testo nella conferenza inaugurale della prima udienza pubblica, tenutasi il 23 aprile 1956, volendo riservare al giudice costituzionale l’interpretazione della Carta fondamentale dello Stato ed ai giudici comuni l’interpretazione degli atti aventi forza di legge, distinguendo la legalità costituzionale dalla legalità legale. Ma osserva l’A. che la tanto solennemente proclamata separazione di competenze ermeneutiche venne immediatamente negata dalle sentenze interpretative di rigetto: la Corte da un lato si attribuì il potere di interpretare la legge, mentre per altro verso invitò i giudici comuni ad interpretare la legge secondo i valori costituzionali.
[41] Corte cost., 23 giugno 1956, n. 3, in Riv. dir. proc., 1957, p. 88, con nota di M. CAPPELLETTI.
[42] V. CRISAFULLI, Le sentenze “interpretative” della Corte costituzionale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1967, p. 3.
[43] R. GUASTINI, Interpretare e argomentare, in Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da A. Cicu-F. Messineo-L. Mengoni, continuato da P. Schlesinger, Milano, 2011, pp. 63 ss., spec. 70 ss.
[44] Pronuncia inammissibile se si ritiene che oggetto della sentenza di incostituzionalità sia “il disposto legislativo in sé considerato, e non mai l’una o l’altra norma che il disposto medesimo in ipotesi esprima” (L. MONTESANO, Norma e formula legislativa nel giudizio costituzionale, in Riv. dir. proc., 1958, p. 527).
[45] Ad es., Corte cost., 27 maggio 1961, n. 26, in Foro it., 1961, I, c. 1283, con nota di L. MONTESANO, dichiara incostituzionale l’art. 2 t.u.l.p.s. “nei limiti in cui esso attribuisce ai prefetti il potere di emettere ordinanze senza il rispetto dei principi dell’ordinamento giuridico”. La sentenza segue la pronuncia interpretativa di rigetto 2 luglio 1956, n. 8, in Foro it., 1956, I, c. 1050.
[46] Corte cost., 6 ottobre 1983, n. 300, in Foro it., 1983, I, c. 2933.
[47] La pronuncia interpretativa di rigetto, infatti, vincola il solo giudice a quo ad applicare la norma per come interpretata dalla Corte; per sottrarsi a tale dovere, il giudice deve sollevare nuovamente la questione (E. MALFATTI-S. PANIZZA-R. ROMBOLI, Giustizia costituzionale7, cit., p. 137). «Il vincolo che deriva, sia per il giudice a quo sia per tutti gli altri giudici comuni, da una sentenza interpretativa di rigetto, resa dalla Corte costituzionale, è soltanto negativo, consistente cioè nell’imperativo di non applicare la norma ritenuta non conforme al parametro costituzionale evocato e scrutinato dalla Corte costituzionale, così da non ledere la libertà dei giudici di interpretare ed applicare la legge – ai sensi dell’art. 101, comma 2, Cost. – e, conseguentemente, neppure la funzione di nomofilachia attribuita alla Corte di cassazione dall’art. 65 ord. giud., non essendo preclusa la possibilità di seguire, nel processo a quo o in altri processi, “terze interpretazioni” ritenute compatibili con la Costituzione, oppure di sollevare nuovamente, in gradi diversi dello stesso processo a quo o in un diverso processo, la questione di legittimità costituzionale della medesima disposizione, sulla base della interpretazione rifiutata dalla Corte costituzionale, eventualmente evocando anche parametri costituzionali diversi da quello precedentemente indicato e scrutinato» (Cass., 9 luglio 2020, n. 14632; Cass., Sez. un., 16 dicembre 2013, n. 27986, in motivazione, § 4.4).
[48] T. ASCARELLI, Giurisprudenza costituzionale e teoria dell’interpretazione, cit., pp. 360 s.
[49] Sull’inidoneità al giudicato della decisione della Corte dichiarativa dell’infondatezza della questione di legittimità costituzionale v. M. CAPPELLETTI, Effetti preclusivi nel processo civile delle pronunce costituzionali, in Jus, 1958, pp. 476 ss.
[50] Mentre secondo E. REDENTI, Legittimità delle leggi e Corte costituzionale, Milano, 1957, p. 80 anche la pronuncia dichiarativa dell’infondatezza della questione conteneva “un accertamento a carattere universale e perpetuo”, E.T. LIEBMAN, Contenuto ed efficacia delle decisioni della Corte costituzionale, in Riv. dir. proc., 1957, pp. 507 ss. giustificava la diversa efficacia delle sentenze di accoglimento rispetto a quelle di rigetto richiamando la distinzione tra effetti principali ed effetti secondari: effetto principale è l’applicabilità o l’inapplicabilità nel giudizio principale della disposizione censurata, effetto secondario della sola sentenza di incostituzionalità è il divieto di applicarla anche in altri processi. Giova rammentare che i nostri processualcivilisti più autorevoli condividevano l’opinione circa l’efficacia ex nunc della dichiarazione di incostituzionalità [P. CALAMANDREI, La illegittimità costituzionale delle leggi nel processo civile, in Opere giuridiche, cit., II, pp. 395 ss., 408 ss.; E. REDENTI, Legittimità delle leggi e Corte costituzionale, cit., pp. 76 ss.; ma per il primo la sentenza era costitutiva e non operava nel giudizio in corso (con la conseguenza che il giudice doveva decidere la causa come se la norma censurata non fosse stata espunta dall’ordinamento), mentre per il secondo era dichiarativa e vincolava il giudice a quo a non applicare la norma incostituzionale]. La retroattività della sentenza caducatoria fu invece persuasivamente dimostrata da E. GARBAGNATI, Sull’efficacia delle decisioni della Corte costituzionale, in AA.VV., Scritti giuridici in onore di Francesco Carnelutti, IV, Padova, 1950, pp. 191 ss.; ID., Efficacia nel tempo della decisione di accoglimento della Corte costituzionale, in Riv. dir. proc., 1974, pp. 201 ss. Nota tuttavia R. CAPONI, L’efficacia del giudicato civile nel tempo, Milano, 1991, pp. 43 ss. che mentre l’art. 136, comma 1, Cost. (“Quando la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge o di un atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”) è norma sostanziale, l’art. 30, comma 3, legge 11 marzo 1953, n. 87 (“Le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”) è norma processuale: la prima elimina la regola censurata per il futuro, mentre la seconda obbliga i giudici comuni a disapplicarla nei processi pendenti. La Corte si è peraltro attribuita il potere di dichiarare l’incostituzionalità con effetto ex nunc, quando la retroattività della pronuncia comporterebbe gravosi oneri a carico del bilancio dello Stato [Corte cost., 11 febbraio 2015, n. 10 (est. Marta Cartabia)].
[51] G. ZAGREBELSKY-V. MARCENO’, Giustizia costituzionale, cit., II, pp. 11 ss.
[52] P. CALAMANDREI, Corte costituzionale e autorità giudiziaria, in Riv. dir. proc., 1956, I, p. 39; ID., La illegittimità costituzionale delle leggi, cit., p. 387.
[53] E. REDENTI, Legittimità delle leggi e Corte costituzionale, cit., p. 33. Questa espressione si deve, in verità, a G. LEONE, Relazione sul potere giudiziario e sulla Corte di garanzia costituzionale, in Atti della commissione per la Costituzione, II sottocommissione, p. 214, che nel prospettare l’alternativo affidamento del sindacato di legittimità costituzionale delle leggi alla Corte di cassazione o ad un’apposito organo riteneva, propendendo per la seconda ipotesi, “preferibile che una Corte predisposta per l’osservanza dei limiti di costituzionalità sia al di fuori di ciascuno dei tre tradizionali poteri; e, naturalmente, al di sopra”.
[54] F. CARNELUTTI, Aspetti problematici del processo al legislatore, in Riv. dir. proc., 1959, pp. 1 ss.
[55] V. ANDRIOLI, Profili processuali del controllo giurisdizionale sulle leggi, in Riv. dir. pubbl., 1950, I, p. 36.
[56] F. MODUGNO, Al fondo della teoria dell’«interpretazione conforme alla Costituzione», in L. MENGONI-F. MODUGNO-F. RIMOLI, Sistema e problema. Saggi di teoria dei sistemi giuridici2, Torino, 2017, pp. 47 ss., spec. 51.
[59] A tal fine si richiede una consolidata giurisprudenza di legittimità, non essendo sufficienti pronunce di merito sulla questione controversa (v. Corte cost., 30 marzo 2023, n. 54, a proposito dell’art. 669 quater c.p.c.).
[60] R. GUASTINI, Interpretare e argomentare, cit., p. 303, nt. 92.
[61] Cass., 8 maggio 2010, n. 11243, in Giur. it., 2011, p. 372, con nota di P.L. NELA.
[62] Trib. Roma, 2 marzo 2022 (ord.), in www.plurisonline.it
[63] Trib. Vicenza, 5 maggio 2022 (ord.), in www.plurisonline.it
[64] Cass., Sez. un., 30 luglio 2008, n. 20604, in Mass. giur. lav., 2008, p. 986, con nota di M. TATARELLI; in Riv. dir. proc., 2009, p. 1012, con nota di G. GUARNIERI; in Inf. prev., 2009, p. 94, con nota di S. ZIINO; in Riv. it. dir. lav., 2009, II, p. 692, con nota di D. BUONCRISTIANI; in Giur. it., 2009, p. 1204, con nota di A. RONCO; in Corr. giur., 2009, p. 199, con nota di M. PILLONI.
[66] G. VERDE, Il processo sotto l’incubo della ragionevole durata, in Riv. dir. proc., 2011, pp. 505 ss., spec. 518 ss., ove la critica di Cass., Sez. un., 30 luglio 2008, n. 20604.
[67] La tripartizione delle norme costituzionali in programmatiche, precettive ad efficacia differita e precettive ad efficacia immediata era stata elaborata da Cass. pen., Sez. un., 7 febbraio 1948, in Foro it., 1948, II, c. 57, con nota di G. AZZARITI.
[68] L’intervento del Primo Presidente è citato da P. CALAMANDREI, La prima sentenza della Corte costituzionale, in Riv. dir. proc., 1956, II, p. 151 ss., spec. 153.
[69] Così P. CALAMANDREI, La prima sentenza, cit., p. 157 manifestava la sua perplessità in ordine al ragionamento del Primo Presidente.
[70] Corte cost., 30 novembre 2007, n. 403, in Giur. it., 2008, p. 1099, con nota di T. GUARNIER.
[71] La regola è invece espressamente enunciata dall’art. 5, comma 3, d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, in forza del quale “lo svolgimento della mediazione non preclude in ogni caso la concessione dei provvedimenti urgenti e cautelari”.
[72] Sul quale v. U. MATTEI, Precedente giudiziario e stare decisis, in Dig. civ., XIV, Torino, 1996, pp. 148 ss.
[73] M. CAPPELLETTI, Gli organi di controllo della legittimità costituzionale delle leggi, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1967, p. 873.
[74] Corte cost., 27 luglio 1992, n. 368, in Giur. it., 1993, I, 1, c. 1160, con nota di J. LUTHER.
[75] A. PACE, Postilla. Sul dovere della Corte costituzionale di adottare sentenze di accoglimento (se del caso, «interpretative» e «additive») quando l’incostituzionalità stia nella «lettera» della disposizione, in Giur. cost., 2006, pp. 3428 ss. L’A. aveva espresso riserve sull’interpretazione conforme già in ID., I limiti dell’interpretazione “adeguatrice”, in Giur. cost., 1963, pp. 1066 ss.
[76] “Gli atti introduttivi del giudizio di cognizione, gli atti di precetto nonchè gli atti di pignoramento e sequestro devono essere notificati a pena di nullità presso la struttura territoriale dell’ente pubblico nella cui circoscrizione risiedono i soggetti privati interessati e contenere i dati anagrafici dell’interessato, il codice fiscale ed il domicilio. Il pignoramento di crediti di cui all’art. 543 c.p.c. promosso nei confronti di enti ed istituti esercenti forme di previdenza ed assistenza obbligatorie organizzati su base territoriale deve essere instaurato, a pena di improcedibilità rilevabile d’ufficio, esclusivamente innanzi al giudice dell’esecuzione della sede principale del tribunale nella cui circoscrizione ha sede l’ufficio giudiziario che ha emesso il provvedimento in forza del quale la procedura esecutiva è promossa. Il pignoramento perde efficacia quando dal suo compimento è trascorso un anno senza che sia stata disposta l’assegnazione. L’ordinanza che dispone ai sensi dell’art. 553 c.p.c. l’assegnazione dei crediti in pagamento perde efficacia se il creditore procedente, entro il termine di un anno dalla data in cui è stata emessa, non provvede all’esazione delle somme assegnate”.
[77] Corte cost., 27 ottobre 2006, n. 343 (est. Romano Vaccarella).
[79] Corte cost., 12 marzo 2007, n. 77 (est. Romano Vaccarella). Le due decisioni sono pubblicate in Foro it., 2007, I, c. 1009, con nota di R. ORIANI; in Riv. dir. proc., 2007, p. 1577, con nota di M. ACONE; in Giur. it., 2007, p. 2253, con nota di D. TURRONI; ivi, 2008, p. 693, con nota di R. FRASCA; in Dir. proc. amm., 2007, p. 796, con nota di G. SIGISMONDI; ivi, p. 910, con nota di C.E. GALLO; in Giusto proc. civ., 2007, p. 175, con nota di F. CIPRIANI; in Riv. dir. trib., 2007, p. 557, con nota di C. GLENDI; in www. judicium.it, con nota di C. DELLE DONNE; in Guida al dir., 2007, 13, p. 89, con note di G. FINOCCHIARO e M. CLARICH; in Giorn. dir. amm., 2007, p. 956, con nota di A. PAJNO; in Urb. e app., 2007, p. 435, con nota di G. DE MARZO; ivi, p. 814, con nota di G. SIGISMONDI; in Foro amm.-CdS, 2007, p. 2109, con nota di A. SCOGNAMIGLIO.
[80] Trib. Verona, 22 settembre 2023 (ord.), in www.giustiziainsieme.it, 14 novembre 2023, con nota di G. SCARSELLI; in Giusto proc. civ., 2023, p. 1211, con nota di F. NOCETO; in Giur. it., 2024, p. 1080, con nota di D. VOLPINO.
[81] Corte cost., 3 giugno 2024, n. 96 (est. Giovanni Amoroso), in www.giustiziainsieme.it, 31 luglio 2024, con nota di G. SCARSELLI. Sulla pronuncia v., in termini critici, M. BOVE, La trattazione nel processo ordinario di primo grado tra riforma Cartabia, intervento della Corte costituzionale e annunciato “correttivo”, in www.judicium.it, 13 giugno 2024.
[82] “Rimane però che, pur nel contesto di un’interpretazione adeguatrice della disposizione censurata, l’art. 175 c.p.c. non può essere piegato fino a far ritenere un vero e proprio obbligo processuale del giudice, essendo il suo potere direttivo essenzialmente discrezionale”. Se il giudice non fissa apposita udienza, provvede con ordinanza alla conferma, modifica o revoca del decreto all’udienza di trattazione (in motivazione, § 8.7). Qualora non sia adempiuto dalla parte un onere d’impulso prescritto con il decreto (può citarsi l’esempio, non addotto dalla Corte, dell’integrazione del contraddittorio nei confronti del litisconsorte necessario pretermesso), «se una delle parti chiede la fissazione di un’udienza ad hoc per contestare il provvedimento emesso dal giudice senza averle sentite, e il giudice disattende detta istanza, non può quest’ultimo, una volta rimasto inadempiuto l’ordine in questione, assumere i provvedimenti “sanzionatori” in chiave processuale se conferma la propria decisione, dopo l’esplicazione del dovuto contraddittorio, all’udienza di trattazione, ma adotta quelli necessari per l’ulteriore corso del giudizio» (in motivazione, § 8.9). Da valutarsi con favore è la notazione che in questo caso, nonostante la regressione del giudizio incida sulla durata del giudizio, «l’esigenza della rapidità del processo insita nel canone della sua “ragionevole durata” non può pregiudicare la completezza del sistema delle garanzie della difesa e comprimere oltre misura il “contraddittorio tra le parti” (art. 111, comma 2, Cost.). Un processo non “giusto”, perché carente sotto il profilo delle garanzie, non è conforme al modello costituzionale, quale che sia la sua durata (sentenze n. 116 e n. 67 del 2023, n. 111 del 2022 e n. 317 del 2009)». Per effetto della ricostruzione adottata dal giudice costituzionale, a seguito del decreto che, ad es., ordina l’integrazione del contraddittorio ex art. 102, comma 2, c.p.c., l’attore potrà restare inerte, senza rischiare la dichiarazione di estinzione del processo, all’unica condizione che chieda (entro un termine che però la Corte non indica) la fissazione di apposita udienza per il riesame della questione.
[83] G. VERDE, L’evoluzione del ruolo della magistratura e le ricadute sul nostro sistema di giustizia, in AA.VV., Scritti in onore di Bruno Sassani, a cura di R. Tiscini-F.P. Luiso, II, Pisa, 2022, p.1900; ID., Sul potere giudiziale e sull’inganno dei concetti, Torino, 2023, p. 43.
[84] La massima è citata da S. SATTA, I progetti di riforma del Consiglio superiore della magistratura (31 ottobre 1964), ripubblicato in Soliloqui e colloqui di un giurista, Nuoro, 2004, p. 247, a sostegno della tesi secondo la quale “la sacra formula, riprodotta nella Costituzione, per cui il giudice dipende solo dalla legge (…) esprime piuttosto (…) l’indipendenza dal legislatore che diventa estraneo alla legge che egli ha posto, cedendo il potere al giudice, che diventa il legislatore del caso concreto”.
[85] C.-L. DE SECONDAT DE MONTESQUIEU, Lo spirito delle leggi, trad. it. B. Boffitto Serra, Milano, 1967, p. 215.
[86] C.-L. DE SECONDAT DE MONTESQUIEU, Lo spirito delle leggi, cit., p. 209.
[87] N. PICARDI, La funzione del giudice nell’interpretazione e nell’applicazione della legge, in Giust. civ., 2003, p. 363.
[88] Sull’istituto, nella sua duplice configurazione facoltativa ed obbligatoria, v. P. CALAMANDREI, La cassazione civile, I, in Opere giuridiche, cit., VI, pp. 406 ss., 435 ss.
[89] Nell’ordinamento giuridico le norme si distinguono in regole e principi. La regola è un enunciato condizionale (secondo lo schema logico “se A, allora B”), che consta della protasi (o fattispecie) e dell’apodosi (la conseguenza giuridica del fatto). Il principio è una norma fondamentale, espressiva di un valore (l’uguaglianza dei cittadini, la buona fede ecc.), che giustifica le regole sul piano assiologico; è a fattispecie aperta, in quanto non enumera esaurientemente i fatti ai quali è ricollegata la conseguenza giuridica (ad es., l’art. 3, comma 1, Cost.): per questa ricostruzione v. R. GUASTINI, Interpretare e argomentare, cit., pp. 173 ss. Sulla distinzione tra norma giuridica e norma tecnica v. invece F. MODUGNO, Norma (teoria generale), in Enc. dir., XXVIII, Milano, 1978, pp. 338 s.: nella norma giuridica il rapporto tra protasi ed apodosi, tra fattispecie ed effetti è di natura modale, collegando il fatto condizionante con l’effetto condizionato così da esprimere la doverosità (Sollen) della conseguenza; nella norma tecnica lo schema del giudizio ipotetico (“se A, allora B”) si inverte (“se non si vuole B, non si deve compiere A”): “la doverosità del comportamento (obbligo) è trasformata nel senso ottativo e teleologico dell’onere”.
[90] V. ANDRIOLI, Diritto processuale civile, Napoli, 1979, p. 40.
[91] M. MAZZIOTTI di CELSO, Norma giuridica, in Enc. giur., XXI, Roma, 1990, p. 1. Ma per Santi ROMANO, Norme giuridiche (destinatari delle), in Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, 1953, p. 138 “l’ordinamento giuridico non ha destinatari e il problema è rimasto finora insoluto perché non esiste”.
[92] P. CALAMANDREI, Corte costituzionale e autorità giudiziaria, cit., pp. 27 ss.; V. ANDRIOLI, Diritto, cit., p. 42.
[93] Si rilegga l’intervento di Piero Calamandrei al convegno dell’Associazione italiana fra gli studiosi del processo civile sul C.S.M., tenutosi a Bologna il 3-4 novembre 1952: “quello che soprattutto desidero è che il giudice non sia sordo alle esigenze umane della sua missione, alle ragioni sociali del diritto di cui egli deve essere la voce viva (…); non è vero che il giudice debba essere e possa essere un automa insensibile, chiamato a fabbricar sentenze col solo ingranaggio delle sue rotelline logiche. Il giudice è chiamato ad animare la legge, a ricrearla volta per volta nel suo spirito; la vera legge valida è quella che il giudice fa rivivere nella sua sentenza. Ma perché il giudice possa fare questo, bisogna che egli sia partecipe di quello stesso spirito da cui la legge è sorta, che respiri quella stessa atmosfera, quello stesso clima politico di cui la legge è espressione. Se noi ci ostiniamo a fare applicare le leggi corrispondenti al clima in cui viviamo da magistrati che inevitabilmente, per la loro formazione, per la loro età, per la loro onesta tradizione, sono affezionati ad un altro clima politico, la nostra legge evidentemente non sarà fedelmente applicata e non troverà nel giudice quella sensibilità, quella consonanza di interpretazione che, secondo me, è essenziale perché il diritto si attui e progredisca. Qualunque sia l’ordinamento che si adotterà per garantire l’indipendenza della magistratura, non si potrà mai impedire al giudice non dico di ricordarsi consapevolmente, ma di portare con sé nel suo subcosciente gli elementi inconsapevoli ma presenti nella sua formazione spirituale, del ceto sociale da cui è uscito, della sua cultura, delle sue opinioni (che sempre agiranno nella coscienza anche se sarà vietata l’iscrizione a un partito): e saranno tutti questi fattori spirituali che lo porteranno ad una sua propria concezione del mondo, e quindi ad una visione concreta del caso da giudicare diversa da quella che sembrerà giusta a un altro giudice che abbia avuto una formazione spirituale diversa” (P. CALAMANDREI, Sul Consiglio superiore della magistratura, in Opere giuridiche, cit., II, pp. 435 s.; i corsivi nel testo sono miei).
[94] Negli Stati uniti d’America le norme federali e statali sono subordinate a quelle costituzionali. Il giudice ha il potere-dovere di disapplicare la legge ritenuta incostituzionale e la Corte suprema si è attribuita questo potere fin dal 1803, decidendo la causa Marbury vs Madison. La disapplicazione ha effetto incidenter tantum, con effetti limitati alle parti ed all’oggetto della causa, né quindi implica la caducazione con effetti erga omnes della norma. Ma vige anche il principio della vincolatività dei precedenti della Corte suprema, la cui pronuncia disapplicativa si risolve nell’annullamento erga omnes della norma. Il nostro ordinamento non accoglie la regola dello stare decisis e, perciò, rifiuta la disapplicazione della norma incostituzionale. Infatti, “l’accoglimento del criterio adottato in America avrebbe potuto rivelarsi gravemente lesivo delle esigenze attinenti alla certezza del diritto: una legge, considerata invalida da un giudice, anche dalla Corte di cassazione, avrebbe continuato a rimanere in vigore nei confronti della generalità dei soggetti dell’ordinamento, e altri giudici avrebbero potuto dichiararsi di contrario avviso” (F. PIERANDREI, Corte costituzionale, in Enc. dir., X, Milano, 1962, p. 887)
[95] G. VERDE, L’evoluzione del ruolo della magistratura, cit., p. 1904; ID., Sul potere giudiziale, cit., p. 47.
[96] Sui concetti di indipendenza istituzionale od esterna (dell’intera magistratura) e di indipendenza funzionale od interna (del singolo giudice) v. E. SPAGNA MUSSO, Giudice (nozione), in Enc. dir., XVIII, Milano, 1969, pp. 940 ss.; A. PIZZORUSSO, Organi giudiziari, in Enc. dir., XXXI, Roma, 1981, pp. 88 ss.; S. BARTOLE, Indipendenza del giudice (teoria generale), in Enc. giur., XVI, Roma, 1989, pp. 1 ss.; I. ANDOLINA-G. VIGNERA, I fondamenti costituzionali della giustizia civile. Il modello costituzionale del processo civile italiano2, Torino, 1997, pp. 32 ss.
[97] A seguito all’emanazione del decreto della Corte d’appello di Milano n. 88 del 25 giugno 2008 che, in esecuzione della sentenza della Corte di cassazione n. 21748 del 16 ottobre 2007, autorizzò la sospensione dei trattamenti di nutrizione e idratazione artificiale che tenevano artificialmente in vita Eluana Englaro, nella seduta n. 37 del 15 luglio 2008 fu presentata al Senato della Repubblica una mozione, nella quale la citata sentenza della S.C. veniva configurata come “atto sostanzialmente legislativo, innovativo dell’ordinamento normativo vigente, adottato per via giudiziaria dal giudice di legittimità, che dovrebbe viceversa esercitare la cosiddetta funzione nomofilattica, ovvero la verifica della corretta applicazione del diritto vigente da parte dei giudici di merito”; e fu sollecitato l’impegno del Senato ad “attivare le procedure necessarie per sollevare un eventuale conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale tra il Senato e la Corte di cassazione per invasione da parte di quest’ultima nella sfera di poteri attribuiti costituzionalmente agli organi del potere legislativo”. Il 16 luglio 2008 analoga richiesta di elevazione di un conflitto di attribuzione nei confronti dell’autorità giudiziaria, in relazione alla citata sentenza, fu inviata da diversi deputati al Presidente della Camera. Discusse le mozioni, furono presentati due distinti ricorsi alla Corte costituzionale da parte di Camera e Senato per conflitto di attribuzione, per avere l’autorità giudiziaria “usurpato, e comunque menomato, le attribuzioni legislative del Parlamento”. Su tali ricorsi la Corte costituzionale decise l’8 ottobre 2008, con ordinanza n. 334, nel senso dell’inammissibilità del conflitto. Per questa sintesi v. C. TRIPODINA, A chi spettano le decisioni politiche fondamentali sulle questioni eticamente controverse? (Riflessioni a margine del “caso Englaro”), in Giur. cost., 2008, pp. 4069 ss.
[98] L. MONTESANO, Sul contenuto e sulle sanzioni del divieto di giurisprudenza “politica”, in Riv. dir. proc., 1983, pp. 20 ss.
[99] L. LONGHI, La democrazia giurisdizionale. L’ordinamento giudiziario tra Costituzione, regole e prassi, Napoli, 2021, pp. 203 ss.
[100] L. LONGHI, La democrazia giurisdizionale, cit., p. 205.
[101] Favorevole, invece, alla caducabilità ope legis del giudicato R. CAPONI, L’efficacia del giudicato civile nel tempo, cit., pp. 367 ss. In tal senso (ma sotto il cessato regime statutario) già G. CHIOVENDA, Principii di diritto processuale civile3, Napoli, 1965 (rist.), p. 963, nt. 2 (purchè la legge fosse dichiarata espressamente applicabile ai rapporti giuridici irretrattabilmente definiti con sentenza non più impugnabile); E.T. LIEBMAN, Efficacia ed autorità della sentenza, Milano, 1935, p. 41 (“Una legge nuova può eccezionalmente e con norma espressa disporre di avere non solo efficacia retroattiva, ma anche applicazione ai rapporti già decisi con sentenze passate in giudicato; ma ciò non significherebbe un grado maggiore di retroattività, bensì invece una parziale abolizione dell’autorità della cosa giudicata riguardo alle sentenze stesse, il cui comando, perdendo l’attributo dell’immutabilità, cederebbe di fronte al nuovo regolamento disposto dalla legge per i rapporti giuridici già decisi”). Per la dottrina moderna il giudicato formale rappresenta, invece, un limite alla retroattività delle sentenze dichiarative dell’illegittimità costituzionale anche delle norme processuali civili (R. ORIANI, Effetti della dichiarazione d’incostituzionalità di norme processuali, in Riv. dir. proc., 1979, 419 ss.).
[102] Recitava l’art. 4 della relazione Calamandrei: “Il giudicato, contro il quale non siano più esperimentabili i rimedi giudiziari ammessi dalla legge, è immutabile; e non può essere modificato o sospeso nei suoi effetti, neanche dal potere legislativo”.
[103] G. AZZARITI, Il principio della irretroattività della legge e i suoi riflessi di carattere costituzionale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1955, p. 630.
[104] Nel senso che “l’intangibilità del giudicato costituisce uno dei limiti che il legislatore incontra nell’emanazione di leggi con efficacia retroattiva” v. Corte cost., 26 giugno 2007, n. 234; Corte cost., 15 luglio 2005, n. 282.
[105] Cass., Sez. un., 9 settembre 2010, n. 19246, in Foro it. 2010, I, c. 3014, con note di C.M. BARONE, R. CAPONI, G. COSTANTINO, D. DALFINO, A. PROTO PISANI, G. SCARSELLI; in Corr. giur., 2010, p. 1447, con nota di A. TEDOLDI; in Corr. merito, 2010, p. 1190, con nota di G. TRAVAGLINO; in Resp. civ. prev., 2010, p. 2487, con nota di M. NEGRI; in Giur. it., 2011, p. 1599, con nota di E. DALMOTTO; in Giust. civ., 2011, I, p. 399, con nota di L. D’ANGELO; ivi, p. 2101, con nota di F. CORDOPATRI; in Nuova giur. civ. comm., 2011, p. 253, con nota di P. COMOGLIO; in Riv. dir. proc., 2011, p. 210, con nota di E. RUGGERI.
[107] Come quella sulla proroga delle concessioni balneari. A seguito delle sentenze del Consiglio di Stato che hanno disapplicato, per violazione del diritto eurounitario, le leggi di proroga, nell’approssimarsi delle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo il capogruppo del partito di maggioranza relativa aveva chiesto al Presidente della Camera dei deputati di sollevare conflitto di attribuzione (www.ansa.it/sito/notizie/politica/2024/05/27/balneari-fdi-chiede-alla-camera-di-aprire-un-conflitto-dattribuzione-alla-consulta). L’iniziativa è però rimasta priva di seguito.
[108] Il Servizio studi della Corte costituzionale distingue tra decisioni (ovvero pronunce) e dichiarazioni (ovvero capi di dispositivo), avvertendo che “non di rado una decisione è conteggiata più volte ove contenga capi di dispositivo di segno diverso”.
[110] Non lo definirei un onere, perché il comportamento doveroso non è certamente richiesto nell’interesse del giudice rimettente.
[111] Gli atti del convegno “Un riaccentramento del giudizio costituzionale? I nuovi spazi del giudice delle leggi, tra corti europee e giudici comuni”, organizzato dall’Università degli studi di Roma “La Sapienza” il 13 novembre 2020, sono pubblicati in www.federalismi.it, 27 gennaio 2021.Sul rapporto tra Corte costituzionale e giudici comuni v. le relazioni di S. STAIANO, Corte costituzionale e giudici comuni. La congettura del riaccentramento; T. GROPPI, Il ri-accentramento nell’epoca della ri-centralizzazione. Recenti tendenze dei rapporti tra Corte costituzionale e giudici comuni; B. RANDAZZO, Il ‘riaccentramento’ del giudizio costituzionale nella prospettiva di un sistema integrato di giustizia costituzionale; G. PITRUZZELLA, L’interpretazione conforme e i limiti alla discrezionalità del giudice nell’interpretazione della legge.
[112] Corte cost., 17 marzo 2023, n. 45 (est. Emanuela Navarretta), in Riv. es. forz., 2023, p. 655, con nota di R. GIORDANO; in Riv. dir. proc., 2024, p. 251, con nota di G. FANELLI.
[113] Corte cost., 17 marzo 2023, n. 45, in motivazione, § 5.2.1.
[114] Corte cost., 15 ottobre 1999, n. 387, in Corr. giur., 2000, p. 40, con note di R. TISCINI e C. CONSOLO; in Foro it., 1999, I, c. 3441, con nota di G. SCARSELLI; in Fall., 2000, p. 1227, con nota di G. FEDERICO; in Riv. dir. proc., 2000, p. 1188, con nota di M.C. GIORGETTI.
[116] Così Trib. Roma, 29 dicembre 2023 (ord.), annotata criticamente da P. LICCI, in www.judicium.it., 7 febbraio 2024; adesivamente da R. CONTE, in www.questionegiustizia.it, 29 dicembre 2023. Il provvedimento sarà pubblicato anche in Rass. es. forz., 2024, con note di P. LICCI, B. CAPPONI, M. CIRULLI, P.P. LANNI.
[117] G. COSTANTINO, La prevedibilità della decisione tra uguaglianza e appartenenza, in Riv. dir. proc., 2015, p. 656. Sul tema v. soprattutto N. IRTI, Calcolabilità weberiana e crisi della fattispecie, in Riv. dir. civ., 2014, pp. 988 ss.; ID., Un diritto incalcolabile, ivi, 2015, pp. 11 ss.; ID., Per un dialogo sulla calcolabilità giuridica, in Riv. dir. proc., 2016, pp. 917 ss.
[118] “La prevedibilità delle decisioni giudiziarie, che costituisce principio generale del diritto dell’Unione, da collegarsi a quelli del giusto processo, di uguaglianza e di stabilità delle situazioni giuridiche, va considerata come una condizione essenziale per la fiducia di cui le autorità giudiziarie devono godere in uno Stato di diritto, sicché non è consentito discostarsi da precedenti emessi in sede di legittimità senza una plausibile giustificazione” (Cass., 9 novembre 2022, n. 33012). “In tema di responsabilità civile dello Stato per danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie, la decisione del giudice difforme da precedenti orientamenti della giurisprudenza non integra grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile, fonte di responsabilità ai sensi dell’art. 2, comma 3, lett. a), della l. n. 117 del 1988 (nel testo anteriore alle modifiche apportate dalla l. n. 18 del 2015), atteso che il precedente giurisprudenziale, pur se proveniente dalla Corte di legittimità e finanche dalle sezioni unite, e quindi anche se è diretta espressione di nomofilachia, non rientra tra le fonti del diritto e, pertanto, non è di norma vincolante per il giudice; tuttavia, in un sistema che valorizza l’affidabilità e la prevedibilità delle decisioni, l’adozione di una soluzione difforme dai precedenti non può essere né gratuita, né immotivata, né immeditata, ma deve essere frutto di una scelta interpretativa consapevole e riconoscibile come tale, ossia comprensibile, ciò che avviene più facilmente se sia esplicitata a mezzo della motivazione” (Cass., Sez. un., 3 maggio 2019, n. 11747, in Giur. it., 2019, p. 2420, con nota di A. TEDOLDI).