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Sulla necessità di avere un codice di procedura civile e sul dovere dei giudici di rispettarlo e farlo rispettare (nota a Cass. 25 luglio 2019 n. 20152)
Sommario: 1. Il caso e la decisione della Corte di cassazione. 2. I precedenti. 3. L’iter logico della decisione. 4. I problemi che essa pone affermando che le regole processuali meritano rispetto solo se si traducano nella lesione di specifiche facoltà difensive che la parte deve allegare e provare nel concreto della singola vicenda procedurale. 5. Prima questione: il giudice rischia di perdere il potere/dovere di sollevare d’ufficio le nullità processuali. 6. Seconda questione: nessun giudice può chiedere alla parte, a pena di ammissibilità della domanda, in qual modo egli intenda utilizzare il diritto fatto valere in giudizio perché questo possa essere riconosciuto. 7. Terza questione: la valutazione dell’utilità concreta della norma processuale è già stata fatta dal legislatore nel momento in cui ha varato la norma. 8. Conclusioni. 9. La connessione dell’orientamento giurisprudenziale a commento con l’orientamento politico manifestatosi ormai da qualche anno, e secondo il quale si dovrebbe procedere ad una riforma del processo civile volta a semplificare il rito ordinario, liberandolo di tutti o gran parte dei precetti che il codice contiene. 10. La necessità che tutti facciano sentire con forza la loro voce contro progetti del genere, in grado di far venir meno lo stesso diritto processuale civile.
“Tutta la storia del processo, dalle formulae del diritto romano, alle positiones del diritto comune, dagli statuti italiani alle coutumes francesi, è, in sostanza, fino a giungere alle codificazioni, la storia della trasformazione della pratica giudiziaria in diritto processuale…..Allora, se si vuol dar credito alla sentenza dei giudici, si comincino a cercare nei meccanismi sempre più precisi della procedura le garanzie per assicurare che essa sia in ogni caso il prodotto, non dell’arbitrio, ma della ragione”.
CALAMANDREI, Processo e democrazia, Padova, 1954, 24, 26.
1.Questo il fatto.
Un Tribunale liquida un compenso ad un CTU.
Una delle parti, ritenendo eccessiva e ingiusta la decisione, impugna l’ordinanza di liquidazione ex art. 170 dpr 115/2002.
L’opposizione viene spiegata nei confronti del solo CTU e al procedimento di opposizione non viene pertanto coinvolto l’altro litigante.
Il Tribunale asserisce che il contraddittorio è da considerare integro, in quanto in questi giudizi parte necessaria è ogni titolare passivo del rapporto di debito oggetto del procedimento stesso.
La cosa non trova consenziente la parte soccombente, che pertanto ricorre in cassazione contro la decisione del Tribunale per violazione delle norme sul litisconsorzio necessario.
La Corte riconosce, in contrasto con l’opinione del Tribunale, che nell’ipotesi in esame v’è stata una violazione della disciplina del litisconsorzio necessario, ed a tal fine ribadisce, richiamando propri precedenti, che nei giudizi di opposizione ex art. 170 dpr 115/2002 “l’omessa notifica del ricorso in opposizione e del decreto di comparizione ad una di tali parti determina la nullità del procedimento e della decisione (Cass. 31072/2018; Cass. 23192/2012; Cass. 2972/2017)”.
Tuttavia, prosegue la Corte, “il ricorrente si è limitato a denunciare la violazione dell’art. 102 c.p.c. senza prospettare l’erroneità, nel merito, della decisione impugnata e, soprattutto, senza indicare quali facoltà difensive siano state pregiudicate, non potendo vantare un interesse astratto alla regolarità del giudizio senza evidenziarne i riflessi pratici sulla decisione adottata…..L’eventuale accoglimento del ricorso determinerebbe – in sostanza- l’unico effetto di consentire un nuovo esame della controversia, con il rischio di un uso strumentale delle regole processuali e di un vulnus delle ragioni di celere definizione e ragionevole durata del processo ex art. 111 Cost……..In sostanza, a seguito della costituzionalizzazione del principio del giusto processo, la violazione delle regole processuali, per assumere rilievo, deve tradursi nella lesione di specifiche facoltà difensive che compete alla parte allegare e la sua deduzione deve essere sorretta da un interesse pratico, restando esclusa la necessità di regolarizzare il processo qualora non sia riscontrabile alcuna concreta contrazione dei diritti sostanziali e processuali” (così, espressamente, Cass. 25 luglio 2019 n. 20152).
2. A sostegno della decisione la Corte di cassazione richiama propri precedenti: in particolare sono richiamate le decisioni delle sezioni unite Cass. sez. un. 14 maggio 2013 n. 11523; e poi le decisioni Cass. 10 aprile 2012 n. 5656, Cass. 23 febbraio 2010 n. 4342 e Cass. 19 agosto 2009 n. 18410.
Sia consentito però rilevare che, a mio parere, questi precedenti non attengono a fatti analoghi e non contengono affermazioni del tenore di quelle sopra riportate[1].
Ritengo infatti di poter affermare che con la pronuncia in esame si sia fatto un passo avanti, poiché mentre in precedenza si asseriva, direi più genericamente, che “Il rispetto del principio costituzionale della ragionevole durata del processo impone al giudice di evitare comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso e si traducano in un inutile dispendio di energie processuali e di formalità non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dall’effettivo rispetto del principio del contraddittorio”, ora al contrario si afferma, più radicalmente e precisamente, che “la violazione delle regole processuali, per assumere rilievo, deve tradursi nella lesione di specifiche facoltà difensive che compete alla parte allegare e la sua deduzione deve essere sorretta da un interesse pratico”.
Sostanzialmente, Cass. 25 luglio 2019 n. 20152 afferma che in tanto una parte può far valere in giudizio una nullità e/o un vizio processuale, in quanto dimostri in qual modo e con quali utilità poteva utilizzare quel diritto/facoltà processuale.
In mancanza, ogni eccezione processuale è da considerare inammissibile, e il processo regolarmente svolto al di là del rispetto o meno dei precetti di rito.
3. Ora, io sono stupito che affermazioni di questa rilevanza possano essere esternate con simile sicurezza e brevità e con una ordinanza che indica quale oggetto della decisione “liquidazione ctu”, come se il provvedimento avesse ad oggetto, appunto, questioni legate alla liquidazione dei compensi degli ausiliari di giustizia e non temi fondamentali del processo civile.
Mi sembra, tutto al contrario, che affermazioni quale quelle sopra richiamate incidano in modo significativo non solo sul ruolo da assegnare alle norme processuali ma proprio, direi, sullo stesso modo di concepire e svolgere la funzione giurisdizionale; dal che, credo, necessitano ben altri approfondimenti e più attente riflessioni.
Peraltro, prima ancora di esprimere il mio disappunto all’orientamento in questione, devo ammettere, ad esser sinceri, di non averne compreso appieno il percorso logico.
Ed infatti, le norme sul litisconsorzio necessario sono poste a tutela della parte assente, ovvero della parte che non c’è, e che per questo prende il nome di litisconsorte necessario pretermesso.
Conseguentemente, il comportamento processuale tenuto dalla parte che c’è, ovvero della parte presente al giudizio, non può mai incidere e/o pregiudicare i diritti che si devono assicurare alla parte assente.
Come si può affermare che la parte assente non ha niente da aggiungere e niente di pratico e sostanziale da far valere al processo sulla base del comportamento processuale tenuto dalla parte presente?
Per sapere in qual modo la parte assente possa esercitare il suo diritto al contraddittorio non c’è che un modo, chiederglielo; ma per chiederglielo non si può che ordinare la sua partecipazione al giudizio, così come necessariamente dispone l’art. 102, 2° comma c.p.c.
Dunque, non comprendo come, con riferimento al ricorso per cassazione in oggetto, la Corte abbia affermato che la nullità processuale “per assumere rilievo, deve tradursi nella lesione di specifiche facoltà difensive che compete alla parte allegare e la sua deduzione deve essere sorretta da un interesse pratico”, perché in questo modo la cassazione ha fatto dipendere dal comportamento del litisconsorte presente, il diritto al processo del litisconsorte pretermesso.
Con ragionamenti di questo genere un domani potremmo procedere a divisioni ereditarie in assenza di un coerede, o ad azioni di disconoscimento della paternità in assenza della madre, e dire ai litisconsorti necessari pretermessi che non sono stati chiamati in giudizio perché sulla base di quanto asserito dagli altri litisconsorti si è ritenuto non avessero niente di sostanziale da aggiungere.
Potremo fare cose del genere?
Se sì, procediamo allora all’abolizione dell’art. 102 c.p.c. e norme connesse quali gli artt. 307, 354, 383 e 161 c.p.c. perché disposizioni, a questo punto, che non servono più a niente.
4. Ma il problema non è solo questo, è ben più grave, e credo che ciò già emerga in modo evidente.
La decisione a commento, infatti, trae origine da una vicenda di litisconsorzio necessario ma afferma un principio che vale per tutte le nullità e per tutti i vizi del processo, e dunque che investe l’intero diritto processuale civile.
Semplicemente si asserisce che le regole processuali meritano rispetto solo se si traducano nella lesione di specifiche facoltà difensive che la parte deve allegare e provare nel concreto della singola vicenda procedurale.
In mancanza, l’eccezione processuale è inammissibile e il rispetto della regola processuale irrilevante.
Questo è quanto la cassazione afferma, e questo è quanto deve essere oggetto pertanto di ulteriori riflessioni.
5. Prima questione.
In questi anni, presi dalla foga di ridurre il numero dei processi e i loro tempi, si sono sempre fatte due cose, ovvero si sono aumentati i poteri del giudice e diminuite le facoltà delle parti (rectius: degli avvocati).
E’ cosa che ho scritto in più occasioni e che anche qui mi vedo costretto a ripetere.
Il problema è che, come diceva Piero Calamandrei, “Nel processo giudici e avvocati sono come specchi”[2], cosicché può succedere, come in questo caso, che incidere sui diritti dell’uno comporti la medesima conseguenza sui poteri dell’altro.
Se, infatti, io limito il diritto della parte di sollevare eccezioni processuali e statuisco che questa non possa più eccepire nullità del processo se non allegando e dimostrando in qual modo il diritto processuale negato poteva essere utilizzato e con quali differenze pratiche, va da sé che, così facendo, io sottraggo parimenti al giudice ogni potere di sollevare d’ufficio vizi o nullità del processo.
Mi sembra evidente che se la parte perde il diritto all’eccezione, che diviene inammissibile se non ancorata alla prova di altre circostanze di fatto, il giudice non ha più il potere di rilevare d’ufficio vizi processuali, poiché certo il giudice d’ufficio non può entrare sull’esistenza e la prova delle ulteriori circostanze di fatto richieste a pena di ammissibilità dell’eccezione processuale.
E ciò varrà, come anticipato, stante la genericità del principio che la cassazione ha posto, non soltanto con riferimento al litisconsorzio necessario, bensì con riferimento a tutte le nullità processuali: e così, solo a titolo di esempio, ciò potrà valere con riguardo alla remissione della causa al primo giudice, alla nullità delle notificazioni, alla nullità della citazione, o comunque ad ogni nullità che attenga alla regolarità del contraddittorio.
In tutti questi casi, il giudice non potrà rilevare niente d’ufficio, dovrà aspettare che l’eccezione sia sollevata dalla parte, e se la parte non gli indicherà le ragioni pratiche e concrete della lamentela dovrà respingere l’eccezione per inammissibilità, e considerare l’attività processuale come valida e ben fatta a prescindere dal rispetto delle regole.
E’ questo quello che vogliamo?
Se sì, si tratta senz’altro di una novità, perché fino ad oggi, se uno studente mi avesse detto cose del genere all’esame, l’avrei bocciato.
6. Seconda questione.
Nessun titolare di un diritto, perché il diritto gli sia riconosciuto, deve indicare a cosa gli serve quel diritto e in qual modo intende esercitarlo.
Così, se io rivendico la proprietà di un bene, il giudice può ritenere sussistente o insussistente la proprietà, ma certo non potrà mai dichiarare inammissibile la rivendicazione perché non ho precisato a cosa mi serva il bene o come intenda poi esercitare il diritto di proprietà.
Allo stesso modo, se io faccio valere un diritto di credito, al giudice non verrà mai in mente di negarmi il credito perché non ho precisato le modalità dell’impiego del denaro una volta ottenuto con l’azione giudiziale.
Il concetto è chiaro: nessun giudice può chiedere alla parte, a pena di ammissibilità della domanda, in qual modo egli intenda utilizzare il diritto fatto valere in giudizio perché questo possa essere riconosciuto.
Dunque, se così è, si tratta di trarre le conseguenze sull’orientamento a commento, poiché delle due l’una, tertium non datur: a) o l’orientamento è errato; b) oppure dobbiamo concludere che le norme processuali non attribuiscono più alle parti dei veri e propri diritti, ma solo degli interessi, che il giudice può negare o concedere a seconda li ritenga, discrezionalmente, meritevoli di tutela.
Ma se così è, si capisce quali siano ancora le ulteriori conseguenze: la stessa espressione diritto processuale sarebbe errata, perché in realtà la norma processuale non attribuirebbe più diritti ma solo legittime aspettative; lo stesso codice di procedura civile in verità non sarebbe più un codice, poiché le indicazioni ivi contenute circa il rito da seguire costituirebbero solo delle indicazioni di massima; conseguentemente, addirittura, non vi sarebbe più nemmeno bisogno di avere un codice, e non vi sarebbe più alcuna necessità che il legislatore si preoccupi di regolare nel dettaglio i vari percorsi nei quali un processo si può diramare.
Al giudice basterebbe indicare i principi generali del processo, che sono già nella carta costituzionale, quali la terzietà del giudicante, il diritto al contraddittorio, il diritto alla prova, il diritto all’impugnazione, il principio della parità delle armi tra le parti, e più in generale il principio di eguaglianza.
Tutto il resto non servirebbe più, e potremmo finalmente considerarlo come qualcosa volto solo a complicare l’accertamento giurisdizionale, a renderlo più lungo e formale, a facilitare i cavilli degli avvocati più abili o semplicemente più scaltri.
Bene: uno scenario di questo genere io lo troverei un disastro; ad ogni modo, certamente, non è qualcosa che possa crearsi con un orientamento della giurisprudenza.
7. Terza questione.
Se il giudice applica la norma processuale non perché la legge così gli impone ma perché egli ha valutato che il suo rispetto ha, nel caso di specie, una finalità concreta, lì facciamo svolgere al giudice un compito che è del legislatore, e che il legislatore ha già posto in essere nel momento in cui ha stabilito che quella norma debba esserci.
Se la legge processuale fissa una regola è perché il legislatore ha ritenuto che in quella fattispecie sia necessario il rispetto di quella regola.
Il compito del giudice è quello di riscontrare la fattispecie e applicare il precetto che il legislatore ha voluto per essa, e non rientra in ciò, e fuoriesce dalla funzione giurisdizionale, stabilire discrezionalmente se vale la pena applicare o non applicare quel precetto.
Se al giudice si riconosce un potere del genere, a mio parere si rischia di infrangere la stessa contrapposizione tra legislazione e giurisdizione, perché perde di senso dare delle norme se al giudice poi residua il potere di stabilire se vale la pena o meno applicarle.
Ne può teorizzarsi che il giudice possa fare ciò in forza del principio costituzionale della ragionevole durata del processo, poiché tale principio è da considerare di ordine programmatico, indirizzato al legislatore perché faccia leggi conformi all’attuazione di esso.
Il giudice può utilizzare tali principio in via di interpretazione della legge ordinaria quando questa sia incerta o ambigua, oppure lo può utilizzare per rimettere alla Corte costituzionale una norma da considerare incostituzionale.
Non può, invece, utilizzarlo per disapplicare una norma processuale chiara, o per dar corso ad un precetto processuale non previsto dalla legge, perché in questo caso salterebbe il principio di legalità, e il giudice si attribuirebbe il potere di creare la norma processuale, potere che nel nostro ordinamento non ha.
Ne’, ancora, può immaginarsi una contrapposizione tra diritto formale e diritto sostanziale al contraddittorio, di modo da ritenere che il legislatore abbia provveduto alla solo tutela formale del contraddittorio, e poi spetti al giudice l’attuazione in concreto del principio.
Anche in questa ottica l’attuazione della norma in concreto da parte del giudice deve darsi nei limiti sopra evidenziati, e, di nuovo, l’attuazione in concreto del contraddittorio non può avvenire per il giudice con la disapplicazione di norme processuali imperative chiare (quali, nel nostro caso, gli artt. 102, 354, 383) o con l’inventarsi delle regole processuali che non sussistono perché funzionali ad assicurare, secondo lui, la ragionevole durata del processo, poiché se si ammette questo, il principio di legalità viene meno, e si entra nella confusione più totale e assoluta.
8. Per queste ragioni ritengo che l’orientamento a commento non possa essere condiviso, e mi auguro che la cassazione voglia rivedere queste sue posizioni.
Credo che i principi da affermare siano i seguenti:
a) ogni cittadino ha diritto all’attuazione del suoi diritti senza dover specificare l’uso o l’utilità che intende trarne, e ciò, indifferentemente, tanto con riferimento al diritto sostanziale quanto a quello processuale, che non costituisce diritto di serie b rispetto al primo
b) Conseguentemente, il giudice deve applicare la norma processuale a prescindere dalla valutazione dell’utilità concreta che questa possa attribuire ai litiganti, poiché se al giudice si dovesse attribuire un potere del genere, di fatto si cancellerebbero i presupposti per i quali si ha un rito prefissato dalla legge.
c) Ed infatti, la valutazione dell’utilità concreta della norma processuale è già stata compiuta dal legislatore nel momento in cui ha varato la legge, e non può essere attività che per la seconda volta viene posta in essere dal giudice, pena altrimenti il superamento dei limiti della stessa funzione giurisdizionale.
d) Tutto ciò consente infine al giudice di avere il potere/dovere di sollevare d’ufficio vizi o nullità processuali, poiché il primo potere/dovere del giudice è sempre stato, e tale deve rimanere immodificato, quello di rispettare, e far rispettare alle parti, il codice di procedura civile.
9. Ciò posto, si tratta di fare un ulteriore passo in questa disamina e sottolineare che l’orientamento qui a commento non è uno dei tanti, ma è al contrario di primissimo piano, poiché, oltre ad avere ad oggetto un tema centrale del processo civile, è il frutto, a mio sommesso parere, di un modo odierno e diffuso di pensare l’attuazione dei diritti, tanto che ben si connette alle idee da alcuni manifestate circa una possibile riforma del processo civile.
Questo è l’altro, fondamentale aspetto, da affrontare.
Ed infatti, l’orientamento giurisprudenziale in questione si sposa, direi perfettamente, con l’orientamento politico manifestatosi ormai da qualche anno, e secondo il quale si dovrebbe procedere ad una riforma del processo civile volta a semplificare il rito ordinario, liberandolo di tutti o gran parte dei precetti che il codice contiene, e rimettendo la determinazione dell’iter procedurale semplicemente al giudice, il quale dovrebbe così poter procedere nel “modo che ritiene più opportuno” a seconda delle esigenze della lite e con l’obiettivo di porre celere e giusta definizione ai processi.
Sono idee che stanno benissimo insieme, perché certo consentire al giudice di poter disapplicare la norma processuale in casi in cui essa sia da ritenere superflua, equivale a sostenere che il giudice possa procedere discrezionalmente, e nel “modo che ritiene più opportuno”, alla determinazione delle regole del rito.
Tutto sembra pronto, allora, per passare da quello che possiamo definire un sistema processuale di legalità, ove le regole del processo sono fissate dalla legge, ad un sistema processuale di equità, ove viceversa le regole del processo sono modulate discrezionalmente dal giudice.
Se la riforma venisse approvata, l’orientamento giurisprudenziale in questione ne risulterebbe addirittura assorbito e fatto proprio: non servirebbe più sostenere che il giudice è liberato dalla norma processuale quando non la ritiene utile, e ciò semplicemente perché la norma processuale non esisterebbe più, e così il giudice potrebbe finalmente e dolcemente naufragare in questo infinito leopardiano.
10. Si tratta, allora, e concludo questa mia breve disamina, non solo di criticare un orientamento della giurisprudenza; si tratta di prendere posizione in ordine alla deriva secondo la quale la predeterminazione legale del rito è inutile e il giudice può procedere nel modo che ritiene più opportuno all’attuazione dei diritti fatti valere in giudizio dalle parti.
Io credo al riguardo che ogni giudice, ogni avvocato, e financo ogni cittadino debbano prendere chiara posizione contro progetti del genere; spero che tutti avvertano come naturale l’esigenza di avere un codice che nel dettaglio regoli il processo civile.
Nella nostra tradizione di civil law ciò è indispensabile, è il naturale presupposto della legalità, della certezza del diritto, dell’eguaglianza.
Senza un codice, o con un codice che dia solo indicazioni di massima, o con orientamenti che consentano ai giudici di applicare le norme processuali solo se giustificate da esigenze pratiche, il sistema processuale smette di costituire diritto, e si trasforma in qualcosa di non ben definito, dove le parti hanno le regole imposte dai giudici e i giudici non hanno più regole.
Tutto al contrario, è bene ricordare che un codice serve, da sempre, più che a dare regole alle parti, a dare precise regole al giudice, perché il primo compito di un codice, per il quale è nato dopo la rivoluzione francese, è proprio quello di organizzare, disciplinare e limitare il potere, che nel nostro caso è il potere giurisdizionale.
Ai tempi dell’assolutismo l’esercizio del potere non era regolato, oggi lo è, e non possiamo certo rinunciare ad una simile conquista.
E’ diritto di tutti i cittadini conoscere a priori le regole con le quali la tutela giurisdizionale viene svolta, cosicché possano far conto, quando varcano la soglia di una aula giudiziaria, proprio su quello svolgimento del processo così come regolato dalla legge.
Ed è principio costituzionale che l’esercizio del potere giurisdizionale, così come l’esercizio di ogni altro potere dello Stato, sia disciplinato per legge, e non rimesso alla discrezionalità di chi lo esercita.
Si pensi, poi, che questa riforma verrebbe fatta per ridurre i tempi del processo, alcuni affermano addirittura per dimezzare i tempi del processo.
Pensate: riduzione dei tempi processuali attraverso la soppressione delle regole processuali.
Tutti noi dobbiamo trovare semplicemente aberrante una idea del genere.
Prima di tutto un processo senza regole, o con regole assai generiche e affatto predeterminate, non offre alcuna garanzia di minor durata rispetto ad altro regolato dalla legge.
In ogni caso predicare la contrazione dei tempi del processo attraverso la soppressione delle regole è qualcosa, a mio parere, di totalmente inaccettabile, è tornare indietro di secoli, è rinunciare a quella evoluzione del diritto processuale ricordata da Piero Calamandrei in Processo e democrazia riportata in testa a questo mio scritto.
La ragionevole durata del processo non può dunque pretendere la soppressione delle regole del processo; e i primi che devono battersi, e alzare la voce, perché questo non accada, sono, e devono essere, a mio parere, proprio gli operatori del diritto, i giudici e gli avvocati.
Dobbiamo affermare che il futuro per la giustizia civile non può essere questo, non basta ricevere una sentenza purchessia ottenuta il prima possibile, magari con decisione non appellabile e senza motivazione, frutto di un processo non più predeterminato.
Tutto ciò sarebbe la fine dello stesso diritto processuale civile.
E io invece voglio augurarmi, tutto al contrario, che il diritto processuale civile possa continuare ad esistere, possa continuare a trasmettersi come valore, possa continuare ad insegnarsi nelle università dicendo ad ogni studente che il primo diritto sostanziale che il cittadino ha, è proprio quello che l’attuazione dei diritti da parte dello Stato avviene in modo regolato, con modalità fissate dalla legge, in ossequio ad un principio d’eguaglianza, e con norme imperative che tanto i giudici quanto le parti debbano sempre rispettare.
[1] Le sezioni unite del 2013 non derogavano (sempre a mio parere) le disposizioni sul litisconsorzio necessario ma solo si limitavano ad asserire che nel giudizio volto all’accertamento della simulazione relativa di un contratto di compravendita per interposizione fittizia dell’acquirente, l’alienante non è litisconsorte necessario, dal che la sentenza pronunciata in sua assenza non è inutiliter data semplicemente perché non si versa in ipotesi di litisconsorzio necessario;
Cass. 19 agosto 2009 n. 18410 aveva ad oggetto l’omessa citazione in appello e in cassazione di una parte in una controversia in materia di locazione giudicata tuttavia “non inscindibile”, e quindi si trattava dell’omissione di un litigante in linea con la disposizione di cui all’art. 332 c.p.c.;
Cass. 23 febbraio 2010 n. 4342 aveva ad oggetto la sola assenza del proprietario del veicolo nel giudizio di cassazione di un’azione proposta dal danneggiato in un sinistro stradale nei confronti dell’assicuratore, dopo che il proprietario del veicolo era stato comunque già contumace in primo grado e in appello, e comunque in ipotesi in cui la parte attrice aveva chiesto la condanna del solo assicuratore;
infine Cass. 10 aprile 2012 n. 5656 aveva ad oggetto una opposizione di terzo ed il giudice adito era tenuto, al di là del litisconsorzio necessario, a decidere anche nel merito l’opposizione proposta, dal che poteva valutare il suo interesse all’impugnazione.
[2] Calamandrei, Processo e democrazia, Padova, 1954, 141