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Sulla manifestazione “personale” del consenso nel procedimento di adozione di maggiorenni e la sottoscrizione personale del ricorso
Di Federico Russo -
TRIBUNALE DI PALERMO, Sez. I., sent. 14 ottobre 2022; Pres. F. Micela, est. G. Corsini, R.V.G. 5900/2021; ricorrente: C.; adottando: T.
Adozione di persona maggiorenne – morte dell’adottando prima dell’udienza – necessità del consenso dell’adottando – sottoscrizione personale del ricorso – insufficienza – cessazione della materia del contendere (Cod. civ., art. 291 – 314)
Nel procedimento di adozione di maggiorenni, come disciplinato dagli artt. 291 – 311 cod. civ., il consenso dell’adottante deve essere manifestato, oltre che personalmente, anche in udienza, non essendo al riguardo sufficiente l’eventuale consenso prestato con la sottoscrizione personale del ricorso. Ne consegue che, qualora l’adottante muoia dopo la proposizione del ricorso ma prima dell’udienza fissata per la manifestazione del consenso, manca uno dei presupposti normativamente richiesti ai fini dell’accoglimento della domanda, sicché va dichiarata cessata la materia del contendere.
1.Il caso affrontato dal Tribunale. – 2. Posizione del problema alla luce dell’attuale quadro normativo. – 3. Un (breve) quadro storico. – 4. Interpretazione evolutiva delle norme in parola (de iure condito o de iure condendo): equipollenza del consenso manifestato in seno al ricorso personalmente sottoscritto e diretto al tribunale rispetto a quello manifestato “di persona” davanti al presidente del tribunale medesimo.
1.Il caso affrontato dal Tribunale. – Il presente contributo muove dall’esame di una sentenza del Tribunale di Palermo, datata 14 ottobre 2022, in un procedimento di adozione di maggiorenni disciplinato dagli artt. 291 ss. cod. civ.
Il sig. C., vedovo, privo di figli e con genitori ambedue deceduti, con ricorso depositato il 16 dicembre 2021, aveva chiesto al Tribunale siciliano di pronunciare l’adozione del maggiorenne T., che aveva peraltro, con testamento, già designato quale proprio unico erede. Il ricorso veniva sottoscritto, oltre che dall’avvocato, anche personalmente dal ricorrente.
Il Presidente del Tribunale fissava l’udienza per la comparizione e la manifestazione del consenso dell’adottante e dell’adottando per il 12 ottobre 2022, davanti a un suo delegato.
Dopo circa sei mesi dalla proposizione del ricorso – ma prima dell’udienza anzidetta, e precisamente il 13 aprile 2022 – il ricorrente decedeva. Il procuratore, all’udienza, dava atto della morte (producendo anche un certificato), ma chiedeva ugualmente per l’emissione del provvedimento di merito, ritenendo il consenso dell’adottante già validamente prestato.
Con la decisione in epigrafe il Tribunale ha, invece, ritenuto che la disposizione dell’art. 311 cod. civ. richieda che l’adottante manifesti il proprio consenso personalmente e in udienza. Ha, di contro, escluso che la condizione, appunto, della manifestazione del consenso possa essere realizzata dalla semplice circostanza che il ricorrente–adottante avesse personalmente sottoscritto il ricorso. Ha, pertanto, ritenuto insussistenti i presupposti normativamente previsti per il perfezionamento del procedimento e ha dichiarato la cessazione della materia del contendere.
2.Posizione del problema alla luce dell’attuale quadro normativo. – La disciplina dell’adozione dei maggiorenni di età è contenuta agli artt. 291 – 314 cod. civ. Tralasciando i requisiti oggettivi (i quali tra l’altro, nella versione originaria, prevedevano anche, all’art. 292 cod. civ., un divieto di adozione tra cittadini di “razza ariana” e “non ariana”[1] e che, leggi razziali a parte, furono comunque attenuati dalla Corte Costituzionale, con sentenza n. 557 del 19 maggio 1988[2]) e soffermandoci sulle regole processuali, la normativa prevede la necessità del “consenso” dell’adottante e dell’adottando e “l’assenso” di alcuni soggetti, lato sensu, controinteressati, ossia: l’eventuale coniuge non legalmente separato di adottante e adottando. Mentre, tuttavia, la mancanza del consenso di adottante e adottando è condizione ostativa per il perfezionamento dell’adozione, l’eventuale mancanza dell’assenso dei soggetti sopra indicati – per loro rifiuto (e salvo il caso dei genitori esercenti la responsabilità genitoriale del coniuge convivente di adottante o adottando) o impossibilità a prestarlo – può essere superato dal tribunale «sentiti gli interessati, su istanza dell’adottante, (…) ove ritenga il rifiuto ingiustificato o contrario all’interesse dell’adottando»[3].
L’art. 298, quindi, prevede che l’adozione produca i suoi effetti «dalla data del decreto (oggi, in realtà, sentenza – n.d.a.[4]) che la pronunzia» e che finché non venga emanato tale provvedimento il consenso di adottante e adottando possa esser revocato. Aggiunge, però, che «se l’adottante muore dopo la prestazione del consenso e prima dell’emanazione del decreto, si può procedere al compimento degli atti necessari per l’adozione» e che, in questo caso (e ferma restando la possibilità per gli eredi dell’adottante di depositare eventuali «memorie e osservazioni per opporsi all’adozione»), l’adozione produrrà, se ammessa, «i suoi effetti dal momento della morte dell’adottante».
Le disposizioni processuali si chiudono con l’art. 312 cod. civ., il quale disciplina gli accertamenti che il tribunale è tenuto, «assunte le opportune informazioni» a verificare (in particolare: «1. se tutte le condizioni della legge sono state adempiute; 2. se l’adozione conviene all’adottando»), e con l’art. 313 cod. civ. il quale prevede che «Il tribunale, in camera di consiglio, sentito il pubblico ministero e omessa ogni altra formalità di procedura, provvede con sentenza decidendo di far luogo o non far luogo alla adozione». Il secondo comma dell’art. 313 cod. proc. civ. prevede, inoltre, l’appellabilità di siffatta sentenza, secondo le regole specifiche di cui alla medesima disposizione.
Per quel che riguarda l’oggetto del presente contributo, come si è detto, l’art. 298 cod. civ. da un lato afferma che gli effetti dell’adozione si producono dalla data del provvedimento finale emesso a conclusione del procedimento (che oggi, come visto, ha forma di sentenza), dall’altro, però, consente di far luogo all’adozione, nel caso che l’adottante sia morto prima dell’emissione della sentenza di adozione. Ciò, però, a condizione che, al momento della morte, l’adottante avesse già prestato il consenso.
In quest’indagine mi soffermerò sull’evoluzione delle norme in questione, con particolare riferimento alle forme di manifestazione dei consensi e sul dies a quo della disposizione di cui al citato art. 298 cod. civ. Tralascerò – per ragioni di spazio – taluni pur importanti profili problematici sollevati dalla decisione annotata, come la scelta – che lascia, invero, perplessi – del Tribunale di dichiarare la “cessazione della materia del contendere”[5].
Nella fattispecie esaminata dal Tribunale palermitano, dunque, il ricorrente aveva sottoscritto personalmente il ricorso e dunque – in un certo senso – aveva già manifestato personalmente il proprio consenso; tuttavia non aveva potuto “ribadire verbalmente” il consenso già precedentemente manifestato all’udienza appositamente fissata.
Circa le modalità di manifestazione del consenso, l’art. 311 cod. civ. precisa che «Il consenso dell’adottante e dell’adottando o del legale rappresentante di questo deve essere manifestato personalmente al presidente del tribunale nel cui circondario l’adottante ha residenza», laddove l’assenso dei soggetti sopra indicati può anche «essere dato da persona munita di procura speciale rilasciata per atto pubblico o per scrittura privata autenticata».
La legge, come detto, consente il perfezionamento dell’adozione nel caso di morte dell’adottante dopo la manifestazione del consenso. Se, però, tale condizione può sicuramente considerarsi verificata qualora il decesso sia avvenuto dopo la manifestazione del consenso espressa oralmente in udienza, sussiste un margine di incertezza qualora l’adottante, come nel caso di specie, pur avendo sottoscritto personalmente il ricorso – e, dunque, pur avendo già, in una certa misura, manifestato personalmente il proprio consenso – sia morto prima di tale udienza.
Se è, infatti, innegabile che la disciplina sia improntata ad un favor verso l’adozione, è altrettanto vero che il termine iniziale per consentire il perfezionamento della procedura viene individuato nel momento della manifestazione personale del consenso (ancorché non venga espressamente precisato che ciò debba avvenire in udienza). In più, come si vedrà, la disciplina diretta all’acquisizione dei consensi è caratterizzata da una innegabile solennità, circostanza che rende tutt’altro che scontata la soluzione del perfezionamento dell’adozione in una fattispecie come quella in esame, in cui il ricorrente, pur avendo sottoscritto personalmente il ricorso, sia morto prima di potere manifestare questo consenso “di persona”, ossia comparendo all’udienza appositamente fissata per tale attività.
3.Un (breve) quadro storico. – La disciplina di favor del legislatore verso la volontà dell’adottante, in caso di decesso di questi, ha radici antiche e si colloca nel solco dei precedenti storici[6] al codice vigente, nei quali il procedimento di adozione era regolato in modo abbastanza simile a quello attuale.
Nello stesso senso, infatti, si collocavano anche le disposizioni del Codice per lo Regno delle due Sicilie, Parte prima – leggi civili.
Queste prevedevano, innanzitutto, una fase da svolgere davanti al giudice del circondario, diretta alla raccolta dei consensi: «Art. 277. La persona che vorrà adottare, e quella che vorrà essere adottata, si presenteranno al giudice di circondario del domicilio dell’adottante, per farvi atto del loro rispettivo consenso». Le norme successive disciplinavano una fase ulteriore, nella quale l’atto di manifestazione dei consensi veniva consegnato al «procurator regio presso il tribunale civile del domicilio dell’adottante» per l’omologazione da parte del tribunale medesimo (art. 278). Questo, dopo aver compiuto accertamenti non poi così dissimili da quelli previsti dalla disciplina odierna[7], avrebbe pronunciato «sentito il procuratore regio, ed omessa ogni altra formalità di processo (…) senza esprimere i motivi, in questi termini: vi è luogo, o non vi è luogo all’adozione» (art. 280; corsivo nel testo – NDA).
Tralasciando le fasi ulteriori, destinate al controllo della decisione da parte della Gran Corte civile (art. 281), alla pubblicità della decisione e alla trascrizione nei registri dello Stato Civile (art. 283), per quel che interessa in questa sede, veniva disciplinato il caso di decesso dell’adottante:
«Art. 284. Se l’adottante morisse dopo che l’atto comprovante la sua volontà di formare il contratto di adozione sarà stato ricevuto dal giudice del circondario, e portato avanti a’ tribunali, e questi non avessero pronunziato diffinitivamente, sarà continuato il processo; e sarà, se siavi luogo, ammessa l’adozione».
In pratica, l’adozione poteva essere pronunciata se la morte fosse sopravvenuta successivamente alla raccolta del consenso da parte del giudice del circondario, a condizione però che l’atto fosse stato già «portato avanti a’ tribunali»[8].
La disciplina del Regno delle due Sicilie, va detto, ricalcava quasi pedissequamente la formulazione del Codice civile pel Regno d’Italia, approvato da Napoleone il Grande il 16 gennaio 1806, salvo per alcuni dettagli minori, quali la competenza, per raccogliere i consensi, che il codice napoleonico attribuiva al giudice di pace, ai sensi dell’art. 353 (ma l’omologazione rimaneva di competenza del tribunale di prima istanza e sottoposta al controllo del tribunale di appello: artt. 356 e 357). Anche in questa legislazione era prevista una disciplina diretta a consentire il perfezionamento dell’adozione in caso di decesso dell’adottante, del tutto analoga a quello del Regno delle due Sicilia (art. 360)[9].
Sulla stessa linea, si collocava anche il Codice civile per gli Stati di S.M. il re di Sardegna (nonché di Cipro e di Gerusalemme) del 1837: «Art. 202. La persona che vorrà adottare e quella che vorrà essere adottata si presenteranno al Prefetto del Tribunale di Prefettura del domicilio dell’adottante per venire all’atto del loro rispettivo consenso, che sarà ricevuto dal segretario del Tribunale. Dovrà pure intervenire in persona o per procura quegli, il cui consenso è richiesto giusta l’articolo 194». Ai sensi dell’art. 205, poi, l’atto sarebbe stato «entro i dieci giorni susseguenti presentato per copia autentica dalla parte più diligente al Tribunale di Prefettura nel cui distretto l’adottante è domiciliato per l’omologazione, quindi il tribunale avrebbe statuito in modo analogo ai due codici precedenti «senza esprimere i motivi (…) si fa luogo, o, non si fa luogo all’adozione».
Anche il questo caso, il decreto sarebbe stato soggetto al controllo, stavolta del Senato, che avrebbe dovuto confermare o riparare il decreto «nelle stesse forme prescritte pel Tribunale di Prefettura». La fattispecie della morte dell’adottante dopo la manifestazione del consenso era disciplinata dall’art. 209: «Se l’adottante morisse dopo che l’atto di consenso per esso prestato in conformità dell’articolo 202 sarà stato innoltrato avanti i Tribunali, e prima che questi abbiano pronunziato definitivamente, il procedimento sarà tuttavia continuato, ed ammessa, se vi ha luogo, l’adozione».
Tanto nella normativa napoleonica che in quella napoletana e piemontese, dunque, il procedimento era articolato in (almeno) due fasi ben distinte tra loro: una prima diretta alla raccolta del consenso, da prestarsi personalmente davanti a un giudice dello Stato, e una successiva diretta all’omologazione dell’accordo davanti al tribunale. In caso di morte dell’adottante, l’adozione avrebbe potuto essere pronunciata se la prima fase (raccolta dei consensi) si fosse conclusa, e la seconda (omologazione) fosse almeno iniziata.
La sopra descritta struttura fondamentale del procedimento – inclusa la possibilità del suo perfezionamento in caso di morte dell’adottante – fu poi mantenuta dal Codice civile del 1865, ma con alcune differenze di non poco conto.
Al di là della modifica dei requisiti sostanziali, alcuni di assoluto rilievo – l’art. 215 introduceva, con innovazione poi recepita dal codice civile vigente, il sindacato del giudice sulla convenienza dell’adozione per l’adottando[10] – la struttura del procedimento fu, però, semplificata. Seguendo lo schema della codificazione sarda, fu, in particolare, eliminato lo sdoppiamento di competenza tra giudice dell’acquisizione dei consensi (giudice del circondario nel Regno delle due Sicilie, giudice di pace nel codice napoleonico) e giudice dell’omologazione (in ambedue i casi, al netto delle differenti denominazioni, il tribunale) e ambedue le fasi, analogamente a quanto previsto dal codice sardo, si svolgevano davanti al medesimo organo (sia pure, differentemente dalla legislazione piemontese, la corte d’appello in luogo del tribunale di prefettura)[11].
Circa il dies a quo per la produzione degli effetti dell’adozione, questi erano fissati retroattivamente al «giorno dell’atto del consenso» (art. 217), ferma restando la possibilità di revoca di questo, fino alla pronuncia del decreto. Correlativamente, l’evenienza della morte dell’adottante nel corso del procedimento era disciplinata di conseguenza dall’art. 217 cod. civ. (1865), secondo comma: «Se l’adottante muore, dopo la prestazione dell’atto di consenso alla corte e prima dell’omologazione, sarà tuttavia continuato il procedimento, e ammessa, qualora sia il caso, l’adozione»[12].
In conclusione, nel codice civile del 1865 il procedimento aveva mantenuto la sua originaria struttura bifasica, la quale era stata però semplificata secondo il modello del codice sardo, dal momento che ambedue le fasi processuali – prestazione del consenso e successiva omologazione – si svolgevano davanti alla medesima Corte d’appello, seppure il primo di essi – l’acquisizione del consenso – davanti al Presidente, e il successivo davanti alla Corte tout court.
Il codice del 1942[13] ereditò l’impianto del codice del 1865, apportando però alcune innovazioni di non poco conto sul piano sistematico[14].
Il procedimento, innanzitutto, virò verso un’impostazione maggiormente pubblicistica. L’originario impianto del 1865, a me pare, rivelava un’impostazione prevalentemente privatistica dell’adozione, attraverso l’atto di manifestazione del consenso di adottante e adottando (sia pure in forma solenne, davanti al Presidente della Corte di appello), e la successiva “omologazione”; concettualmente: un intervento diretto ad assicurare il controllo di legalità, ancorché già arricchito, come visto, da un’indagine di merito circa la rispondenza dell’adozione all’interesse dell’adottando[15].
L’originaria omologazione dell’atto di volontà privata, invece, nel 1942 fu sostituita da un provvedimento di provenienza giudiziaria ad ogni effetto costitutivo dell’adozione: l’intervento del giudice – Corte d’appello[16] nel testo originario, Tribunale a seguito della riforma introdotta con l’art. e comma 1 della legge 5 giugno 1967, n. 431 – ora pronunciava l’adozione; ed era il decreto (oggi, sentenza) del giudice e non più l’atto di adozione – ossia la reciproca manifestazione dei consensi di adottante e adottando, sia pure sotto condizione dell’avvenuta omologazione – a dovere essere iscritto nel registro previsto dall’art. 314 e annotato in margine agli atti di nascita di adottante e adottato.
Con ciò, a me pare, l’angolo di visuale del procedimento – e, dunque, il baricentro dell’istituto – fu spostato dalla manifestazione del consenso delle parti (scelta sistematica che valorizzava l’aspetto negoziale dell’adozione) al provvedimento del giudice, avente natura costitutiva del vincolo. La reciproca manifestazione dei consensi, pur rimanendo ovviamente essenziale, degradò in un certo senso a una mera condizione, o presupposto, per l’emissione del provvedimento di adozione.
Tanto la pubblicizzazione[17] del procedimento che la correlata sostituzione dell’omologazione con un decreto costitutivo (e le sue implicazioni concettuali e sistematiche) sono evidenziati nella Relazione al R. Decreto 12 dicembre 1938 – Anno XVII, n. 1853 (Supplemento Ordinario alla Gazzetta Ufficiale n. 285 del 15 dicembre 1938): «143. – Non mi è sembrata giustificata la proposta di far pronunziare l’adozione mediante sentenza anzichè mediante decreto. Il carattere pubblicistico rimane ben chiaro qualunque sia la forma che assume il provvedimento dell’autorità giudiziaria (…) 147. – (…) Nell’art. 312 ho preferito far menzione del “decreto che pronunzia l’adozione” invece “dell’atto di adozione”, in quanto sembra più esatto prendere in considerazione, ai fini della pubblicità, anziché l’atto del consenso, il decreto emanato dall’autorità giudiziaria, poiché è questo che costituisce l’adozione».
L’impianto normativo rimase poi, negli anni, sostanzialmente il medesimo, ancorché poi circoscritto alla sola adozione di persone maggiori di età, giusta la disciplina speciale introdotta dalla legge 4 maggio 1983, n. 184 ss.mm.ii., per l’adozione dei minori[18]. Nel corso del tempo, furono, tuttavia, apportate alcune significative modifiche (oltre che per quanto riguarda l’abrogazione delle leggi razziali[19]) relativamente a: a) la competenza che, come detto, la legge 5 giugno 1967, n. 431 trasferì dalla Corte d’appello al Tribunale (e al Tribunale dei Minorenni, per il caso di adozione di un minore), sia per la fase di acquisizione dei consensi che per quella del provvedimento collegiale di adozione; b) la conseguente abolizione della possibilità per il presidente della Corte d’appello di delegare – prevista dall’originario secondo comma dell’art. 311 cod. civ. – il presidente del Tribunale per l’acquisizione dei consensi e per sentire l’adottando nei casi previsti dall’art. 296 cod. civ.[20]; c) la, sempre conseguente e coerente con la struttura procedimentale, introduzione della possibilità di reclamo (poi appello), introdotta al secondo comma dell’art.313 dall’art. 65 della legge 4 maggio 1983, n. 184; d) la sostituzione del provvedimento finale, da decreto a sentenza (e la conseguente sostituzione del reclamo, già espressamente qualificato come «impugnazione», con l’appello), prevista dall’art. 30 della legge 28 marzo 2001, n. 149, proponibile dal pubblico ministero, dall’adottante e dall’adottando entro trenta giorni dalla comunicazione della sentenza.
La disciplina come sopra sommariamente descritta, va aggiunto, non sembra – pur con tutte le cautele del caso – essere stata modificata dalla riforma del 2022, che non pare avere neppure trasferito la competenza del tribunale al neo-introdotto tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie[21].
4. Interpretazione evolutiva delle norme in parola (de iure condito o de iure condendo): equipollenza del consenso manifestato in seno al ricorso personalmente sottoscritto e diretto al tribunale rispetto a quello manifestato “di persona” davanti al presidente del tribunale medesimo. – Se tale è il quadro storico-evolutivo della disciplina, con specifico riferimento alla struttura bifasica e all’ipotesi di decesso dell’adottando prima della conclusione del procedimento, occorre ora interrogarsi sulla disciplina applicabile nella fattispecie esaminata dal Tribunale di Palermo e sulla possibilità di adottare una interpretazione estensiva della manifestazione del consenso. Se, in particolare, il consenso dell’adottante possa essere validamente manifestato mediante la sottoscrizione personale dell’originario ricorso diretto al tribunale.
Per quel che interessa in questa sede, innanzitutto, il codice vigente, ancor più del suo immediato predecessore, ha attenuato la struttura bifasica che aveva caratterizzato in precedenza il procedimento. Infatti, pur potendosi individuare nella disciplina vigente, le due originarie fasi – della manifestazione del consenso da un lato, e della verifica delle condizioni e dell’emissione del provvedimento giudiziale dall’altro – entrambe, oggi come nel codice del 1865, si svolgono dinanzi al medesimo organo, ossia davanti al Tribunale. Di più, l’avere sostituito l’originaria omologazione del consenso con un provvedimento, come detto, costitutivo con il quale il giudice pronunzia l’adozione, ha accentuato – a me pare – l’unicità del procedimento nel suo complesso: il tribunale non deve più omologare un accordo già perfezionato tra le parti, ma è chiamato a decidere su una domanda di adozione proposta con l’originario ricorso. E ciò presupporrà la verifica circa la sussistenza delle condizioni previste, tra cui – in primis – la circostanza che il consenso sia stato prestato (oltre agli ulteriori requisiti, quale – depurato dalle implicazioni derivanti dalle leggi razziali – la convenienza dell’adozione per l’adottando).
In sintesi, se l’originaria struttura bifasica aveva un suo fondamento preciso nella natura, come visto, negoziale (o, per lo meno, parzialmente tale) dell’adozione, in cui erano ben distinguibili i due momenti, ambedue essenziali, della manifestazione del consenso e del provvedimento giudiziale, la riforma del 1938-1942, spostando il centro del procedimento sul provvedimento del giudice, ha fatto venir meno la distinzione sistematica, sul piano processuale, delle due attività – manifestazione del consenso e provvedimento del giudice – degradando la prima a un mero presupposto per l’emissione del secondo.
Tale unificazione del procedimento, del resto, risulta coerente con la prassi che sembra essere stata adottata dal Tribunale adito nella vicenda in commento. Il ricorrente aveva depositato un ricorso per chiedere l’adozione; a questo punto il Presidente aveva fissato l’udienza davanti a un suo delegato per la manifestazione dei consensi. Quindi il Tribunale emise il provvedimento annotato. Vale la pena osservare che il collegio era composto, oltre che dal Presidente e dal terzo componente, anche dal giudice che era stato precedentemente delegato per la ricezione dei consensi; questi, anzi, fu poi l’estensore della decisione annotata. La fase della manifestazione dei consensi, dunque, fu (correttamente) considerata come una fase endoprocedimentale e intermedia di un unico procedimento di adozione, iniziato col ricorso e destinato a chiudersi con la sentenza di adozione.
Muovendo da tale premessa, non mi pare, a questo punto, dirimente il fatto che la manifestazione del consenso debba essere resa “al presidente del tribunale” mentre la fase successiva debba essere condotta dal “tribunale”. Ritengo, infatti, che – nell’ambito di un procedimento oggi sostanzialmente unitario, quale è diventato oggi, secondo la ricostruzione avanzata nelle precedenti pagine, il procedimento di adozione di maggiorenni – la manifestazione del consenso resa, a monte, davanti all’organo collegiale nel suo complesso sia idonea a soddisfare i requisiti previsti dall’art. 311 cod. civ. Se la fase della manifestazione dei consensi è, infatti, diventata ad ogni effetto parte interna e intermedia del procedimento (unitario) di adozione, non mi sembra ragionevole negare, oggi, che il consenso manifestato davanti al tribunale nella sua interezza sia anche un consenso manifestato davanti al presidente di tale organo. E ciò anche in ragione del generale principio di libertà delle forme di cui all’art. 121 cod. proc. civ.
Il secondo problema riguarda la possibilità di considerare la manifestazione di consenso, resa per iscritto tramite la sottoscrizione personale del ricorso, come una manifestazione personale del consenso stesso, conforme al testo dell’art. 311 cod. civ.
Al contrario del codice del 1865 e dei precedenti storici sommariamente ripresi, la normativa attuale contiene una innovazione, apparentemente insignificante, circa la fase della prestazione dei consensi. In particolare, mentre le normative previgenti, con formulazioni simili, prevedevano che adottante e adottando si sarebbero dovuti presentare personalmente davanti all’organo deputato «per venire all’atto del loro reciproco consenso»[22], il testo vigente si limita a richiedere (art. 311) che «Il consenso dell’adottante e dell’adottando o del legale rappresentante di questo deve essere manifestato personalmente al presidente del tribunale nel cui circondario l’adottante ha residenza».
Rispetto ai precedenti storici, dunque, è venuto meno il verbo di azione: “presentarsi personalmente … per rendere”, ma viene semplicemente richiesto che il “consenso” di adottante e adottando sia “prestato personalmente”. Il che potrebbe apparire una differenza di poco conto ma, sul piano semantico, le implicazioni mi pare siano non indifferenti. Considerato il silenzio della legge che non prevede – almeno, non espressamente – la fissazione di un’udienza presidenziale per la manifestazione dei consensi, un consenso potrebbe considerarsi “personalmente” prestato anche se manifestato nel ricorso sottoscritto personalmente, laddove la formulazione precedente richiedeva inequivocabilmente la prestazione “verbale” del consenso da parte di adottante e adottando.
Difficile stabilire se il testo precedente fosse dettato, almeno in parte, da valutazioni di ordine pratico, quale la scarsa alfabetizzazione della popolazione italiana dell’epoca, che rendevano pressoché scontata la necessità di una manifestazione orale del consenso, da verbalizzare davanti al giudice.
Un’indicazione, però, potrebbe essere fornita dall’esame delle tavole statistiche pubblicate da ISTAT. L’Istituto ha pubblicato i dati sull’alfabetizzazione a partire dal 1951, data in cui viene rilevato un numero di residenti in possesso della licenza elementare pari al 24.946.000, pari al 59% della popolazione, numero che scendeva drasticamente a 2.515.000, pari al 5,9% della popolazione, se si guarda il numero di residenti in possesso di licenza media inferiore. Il numero di residenti in possesso di diploma era pari a 1.380.000 (3% della popolazione), mentre il numero di laureati era pari a 422.000 (1% della popolazione)[23].
Prima del 1951, il tasso di alfabetizzazione può essere stimato solo in via indiretta, es. sulla base del numero di «sposi che non sottoscrissero l’atto di matrimonio perché non sapevano scrivere»[24]. Premesso che, ovviamente, saper scrivere il proprio nome non vuol dire necessariamente saper leggere e scrivere, l’evoluzione del trend è comunque significativa: nel 1867, primo anno di rilevazione, temporalmente abbastanza vicino all’entrata in vigore del codice del 1865, il numero di atti di matrimonio non sottoscritti con la predetta motivazione è di 236.956, pari al 69,5% del numero totale di atti di matrimonio (con differenza sensibile tra sposi: 102.154, pari al 59,9%; e spose – 134.802, pari al 79,1%). Nel 1942 il numero si era fortemente abbattuto sia in valori assoluti che in termini percentuali: 25.215, pari al 4,4% del numero totale di atti di matrimonio (anche qui con differenza, comunque ridotta, tra uomini: 10.292, pari al 3,6%; e donne: 14.923, pari al 5,2%)[25].
In conclusione, nel periodo intercorso tra il 1865 e il 1942, l’alfabetizzazione, almeno primaria, si era sensibilmente accresciuta[26].
Il riscontro nei dati statistici di tale miglioramento dell’alfabetizzazione, ovviamente, non implica affatto che la modifica alle norme del 1942 fosse stata pensata proprio al fine di consentire, nel procedimento di adozione, una manifestazione per iscritto del consenso. Mi pare, anzi, più corretto affermare che una simile eventualità non fosse stata neppure valutata dai conditores, dal momento che non trova riscontro nei lavori preparatori[27] (come, invece, ci si sarebbe dovuti aspettare, in presenza di una innovazione di simile rilevanza). Ritengo, tuttavia, che – quali che fossero le intenzioni soggettive del legislatore – il dato letterale del codice vigente, a differenza della normativa precedente, sia tendenzialmente passibile di una interpretazione estensiva, che ammetta formule alternative alla manifestazione orale del consenso, quale – per quel che rileva nel caso specie – la sottoscrizione personale originaria del ricorso da parte dell’adottante. E mi pare, altresì, che questa modifica procedimentale, introdotta nel 1942, corrispondesse – allora e ancor più oggi – alla mutata situazione di fatto, rappresentata dal sensibile miglioramento dell’alfabetizzazione nel Paese, fatto che rendeva (rende) la sottoscrizione personale del ricorso maggiormente significativa di quanto non potesse esserlo in precedenza. Sembra, oggi, abbastanza evidente che se il ricorrente sottoscriva il ricorso introduttivo (non la semplice procura, in calce a un ricorso sottoscritto dal solo difensore) sia perfettamente consapevole del fatto di stare chiedendo l’adozione e del significato che tale atto comporta.
Va, però, detto che la dottrina civilistica ha sempre tendenzialmente ritenuto che il consenso debba essa manifestato «personalmente e verbalmente»[28]. L’affermazione, in sintesi, muove da un argomento letterale – il consenso deve essere manifestato personalmente davanti al “Presidente” del tribunale – e da un argomento sostanziale, e più precisamente circa la natura del consenso che non sarebbe una vera, semplice manifestazione di volontà, ma un elemento «di valutazione per il giudice, che deve accertare la consapevolezza e libertà del dichiarante», sicché non potrebbe essere contenuto «in un documento che ne garantirebbe solo la provenienza»[29].
Ambedue gli argomenti, devo dire, mi paiono, si fas est, riproporre in modo tralaticio un orientamento formatosi sotto la disciplina previgente; tant’è che i suoi sostenitori richiamano – citandole pressoché pedissequamente – le argomentazioni dottrinarie formatesi antecedentemente al codice del 1942, quando – ossia – la legge prevedeva espressamente che il consenso dovesse essere manifestato, per così dire, non solo personalmente, ma anche di persona[30]. Non mi pare, tuttavia, che tale interpretazione sia ancora incontrovertibile, sulla base del mutato testo normativo, come sopra ricostruito.
Sul piano sistematico, del resto, ogniqualvolta la legge vuole che una determinata manifestazione di volontà, oltre ad essere manifestata personalmente (o, al massimo, tramite procuratore speciale) tramite sottoscrizione del ricorso, venga ancheconfermata dal medesimo soggetto in udienza, lo ha previsto espressamente. Emblematico il caso dell’art. 99 disp. att. c.p.c., relativo alla conferma in udienza della querela di falso proposta in via principale[31]. Si tratta, però, di una ipotesi nella quale gli argomenti teorici del peculiare valore del consenso, delle sue implicazioni e della solennità dell’atto sono diretti essenzialmente a giustificare e commentare una scelta esplicita, univocamente presa dal legislatore, che impone appunto una doppia manifestazione del consenso. Non mi pare invece che, se venisse meno per volontà del legislatore, in tale ipotesi, la previsione esplicita della conferma del consenso in udienza, gli argomenti anzidetti potrebbero giustificare la persistenza di un siffatto doppio adempimento anche in futuro[32]. Mutatis mutandis, l’evoluzione storica della disciplina del procedimento di adozione di maggiorenni impone, oggi, a mio giudizio, di riconsiderare il tradizionale orientamento – riproposto dalla decisione in commento – secondo cui il consenso di adottante e adottando debba essere manifestato, oltre che “personalmente”, anche verbalmente e in udienza. Non vi è dubbio, ad ogni modo, che la formulazione incompleta della norma – suscettibile di diverse opzioni ermeneutiche, ambedue tecnicamente plausibili – richiederebbe, de iure condendo e in una tematica così delicata, una presa di posizione univoca del legislatore, in un senso o nell’altro.
Abstract
L’autore, muovendo dalla decisione del Tribunale di Palermo del 14 ottobre 2022, ripercorre l’evoluzione storica della fase della manifestazione del consenso nel procedimento di adozione di maggiorenni, e le implicazioni processuali nel caso che il ricorrente, dopo avere sottoscritto personalmente il ricorso, muoia prima di potere reiterare il consenso “verbalmente” in udienza. Conclude che, a seguito dell’evoluzione anzidetta, sarebbe auspicabile un ripensamento del tradizionale orientamento (riproposto anche dalla decisione in commento), secondo cui il consenso di adottante e adottando dovrebbe essere manifestato, oltre che “personalmente”, anche verbalmente e in udienza. Conclude che, a seguito dell’evoluzione anzidetta, sarebbe auspicabile un ripensamento del tradizionale orientamento (riproposto anche dalla decisione in commento), secondo cui il consenso di adottante e adottando dovrebbe essere manifestato, oltre che “personalmente”, anche verbalmente e in udienza.
The author, moving from the decision of the Court of Palermo of October, 14th, 2022, traces the historical evolution of the phase of the manifestation of consent in the procedure for the adoption of adults, and the procedural implications in the case that the applicant, after personally signing the appeal, dies before being able to reiterate the consent “verbally” in the hearing.
He concludes that, following the aforementioned evolution, a rethinking of the traditional orientation (reproposed by the decision in comment) – according to which the consent of the adopter and adopter must be expressed, as well as “personally”, also verbally and at the court hearing – should be required.
[1] Le disposizioni razziali non erano, evidentemente, contenute nel Progetto Solmi del 1936, che era anteriore di qualche anno alle leggi razziali, introdotte in Italia con R.D.L. 17 novembre 1938, n. 1728, Provvedimenti per la difesa della razza italiana e poi “perfezionate” con altri interventi, quale la legge 29 giugno 1939, n. 1054, Disciplina dell’esercizio delle professioni da parte dei cittadini di razza ebraica, o la legge 29 giugno 1939, n. 1004, Sanzioni penali per la difesa del prestigio di razza di fronte ai nativi dell’Africa Italiana e la legge 13 maggio 1940, n. 822, Norme relative ai meticci. Cfr. Brusco, La grande vergogna, Torino, 2019 (ebook, cap. I “Il fascismo e gli ebrei dagli anni Venti al 1938”), il quale riporta il precedente atteggiamento – dissonante rispetto alla svolta del ’38 – del fascismo rispetto agli ebrei (alcuni dei quali avevano partecipato attivamente al fascismo, quale l’incontro di Piazza San Sepolcro o la marcia su Roma, e avevano occupato posizioni di rilievo nella gerarchia fascista, divenendo membri – è il caso di Aldo Finzi – addirittura membri del Gran Consiglio del Fascismo).
La svolta razzista del fascismo era stata, peraltro, anticipata con il R.d.l. 19 April 1937, n. 880 «Sanzioni per i rapporti d’indole coniugale fra cittadini e sudditi», che aveva proibito le relazioni «d’indole coniugale» tra cittadini italiani e persone suddite «dell’Africa Orientale italiana o straniera» e dall’articolo apparso su «Il Giornale d’Italia» del 14 luglio 1938 – che anticipò di poche settimane la legislazione razzista – dal titolo «Il Fascismo e i problemi della razza» (c.d. Manifesto degli scienziati razzisti o Manifesto della razza). V. anche Mack Smith, Le guerre del duce, Roma-Bari, 1976, p.61 (traduzione italiana dell’originale: Mussolini’s Roman Empire, 1976). Per una compiuta ricostruzione, corredata da fonti, della storia dell’ingresso delle leggi razziali nel codice civile, e in particolare nel libro primo, v. Rondinone, Storia inedita della codificazione civile, Milano, 2003, in part. p 155 – 159.
Il codice di procedura civile – va riconosciuto a onore e merito dei suoi conditores – non si compromise con le leggi razziali, neppure là dove avrebbe teoricamente potuto, come nell’art. 82, che non menziona i divieti all’esercizio delle professioni (già in vigore), o nell’art. 75, che – al contrario ad esempio dell’art. 1 cod. civ. – non conteneva alcuna limitazione alla capacità processuale, per motivi razziali. In effetti, le disposizioni più ambigue del codice di rito – quale l’intervento del Pubblico Ministero nei procedimenti relativi allo stato e alla capacità delle persone (anche se già l’originario art. 346 del codice di procedura del 1865 prevedeva, in tali procedimenti, che egli potesse «concludere»: cfr. le osservazioni di Monteleone – a cura di – Codice di procedura civile del Regno d’Italia, Milano, 2004, p.387 sub art. 346, nota 3, ove si dà atto anche delle modifiche limitative intervenute nel 1875), o la sua presenza nella camera di consiglio della Cassazione, nel testo originario – non sono, se non in modo assolutamente indiretto e non inequivoco, riconducibili a un asservimento del processo al regime; tant’è che esse poterono sopravvivere alla caduta del Fascismo.
[2] La Corte Costituzionale, con sentenza n. 557 del 19 maggio 1988, dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 292 cod. civ., nella parte in cui non consentiva l’adozione a persone che avessero discendenti legittimi o legittimati maggiorenni e consenzienti.
[3] Sulla differenza tra consensi e assensi, estranea agli obbiettivi del presente contributo, v., per tutti, Procida Mirabelli Di Lauro, Dell’adozione di persone maggiori di età. Art. 291-314, in Comm. Scialoja – Branca, Bologna – Roma, 1965, sub art. 311, in part. p. 605 e 609 ss.
[4] L’originaria forma del decreto, prevista dall’art. 313 cod. civ., fu sostituita dall’art. 30 della legge 28 marzo 2001, n. 149 con quella attuale della sentenza, più adatta alla natura del provvedimento, costitutivo di uno status. V. Apicella, Modifiche al titolo VIII del libro I del Codice civile, in Autorino, Stanzione (a cura di) Le adozioni nella nuova disciplina (l. 28.3.2001, n. 149), Milano, 2001, p. 416.
[5] La dottrina, in coerenza con il disposto dell’art. 313 cod. civ., è pressoché unanime nel ritenere che il procedimento in esame abbia natura di volontaria giurisdizione e non abbia carattere contenzioso, come del resto è naturale per un procedimento come quello di adozione; cfr., per tutti: Procida Mirabelli Di Lauro, Dell’adozione di persone maggiori di età., cit., 305; Ruperto, (voce) Adozione (diritto civile), in Enc. dir., I, p. 590 – 592; Salvi, (voce) Adozione (Diritto civile), in Noviss. Dig. it., p. 296 ss. Stella Richter, Sgroi, Delle persone e della famiglia, II ed., in Commentario cod. civ., I, 2, Torino, 1967, p. 330 e 360; Cass. 26.11.2004, n. 2250, in Famiglia e dir., 2005, p. 399 ss. con nota di Tommaseo, Profili processuali dell’adozione in casi particolari. V. anche Lancellotti, Incompetenza e nullità del procedimento di adozione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1956, p.353; Jannuzzi, Manuale della volontaria giurisdizione, II ed., Milano, 1968, p. 781; Dogliotti, Affidamento e adozione, in TrattatoCicu – Messineo, Milano, 1990, p. 371. Ci si sarebbe, pertanto, aspettati – senza entrare nel merito della questione che verrà affrontata nelle prossime pagine – un provvedimento comunque di merito, il quale desse luogo all’adozione ovvero, ritenendo non personalmente manifestato il consenso, ravvisasse il mancato verificarsi delle condizioni di legge e si concludesse con la formula tralaticia: “non vi è luogo all’adozione”. L’applicazione al caso di specie di uno schema tipicamente contenzioso, quale la cessazione della materia del contendere, pare – più che altro – un tentativo piuttosto dissonante di adattare la logica sottesa ad un altro schema tipicamente contenzioso, ossia l’interruzione del processo per morte della parte, a un procedimento che contenzioso non è affatto. Un adattamento, aggiungo, forse inconsapevole (v., infra, sul c.d. bias della disponibilità, su cui Kahneman, Pensieri lenti e veloci, Milano, 2015 (ebook), cap. XII. La scienza della disponibilità, e l’ulteriore bibliografia citata alla nota 30.
[6] Per una disamina circa l’evoluzione storica dell’istituto dell’adozione, in Italia e all’estero, v. Cattaneo, (voce) Adozione, in Dig. disc. priv., sez. civ., 1987, in part. parr. 1-4. I principii fondamentali della disciplina dell’adozione – oggi adozione di maggiorenni – sembrano risalire al diritto romano e, precisamente, alla semplificazione operata da Giustiniano, che, in luogo del ricorso agli antichi istituti della mancipatio, della manumissio e della in iure cessio – introdusse le semplici dichiarazioni di voler dare e ricevere in adozione da parte del pater naturalis e di quello adottivo dinanzi a un funzionario imperiale, «praesente et non contradicente» l’adottato: «Veteres circuitus in adoptionibus, quae per tres emancipationes et duas manumissiones in filio aut per unam emancipationem in ceteris liberis fieri solebant, corrigentes sive tollentes censemus licere parenti, qui liberos in potestate sua constitutos in adoptionem dare desiderat, sine vetere observatione emancipationum et manumissionum hoc ipsum actis intervenientibus apud competentem iudicem manifestare, praesente et eo qui adoptatur et non contradicente, nec non eo qui eum adoptat (…)». (C.I. 8.47.11, dell’ a. 530 e C.8.49 nell’edizione del 1560 Apud Hugonem à Porta, CodicisIustiniani ex repetita praelectione Libri novem priores, sub Tit. XLIX, p. 1681, disponibile su https://amshistorica.unibo.it/176). V. Marrone, Istituzioni di diritto romano, II ed., Palermo, 1994, p. 245. Sempre alla riforma di Giustiniano si deve il mantenimento della patria potestas del padre naturale. Sempre al diritto romano risale la concezione di fondo – ispiratrice delle originarie norme sulla differenza di età tra adottante e adottando – secondo cui adoptio naturam imitatur: V. Marrone, Op. ult. cit., ibidem. Sull’adoptio e sulle sue influenze nella storia politica romana v. Marastoni, Mastrocinque, Paoletti, Hereditas, adoptio e potere politico in Roma antica, Roma, 2011. Istituto affine, ancorché intrinsecamente diverso, era invece la più antica adrogatio, la quale presupponeva che l’adrogato fosse sui iuris: «Adoptio autem duobus modis fit, aut populi auctoritate, aut imperio magistratus, veluti praetoris. Populi auctoritate adoptamus eos qui sui iuris sunt; quae species adoptionis dicitur adrogatio, quia et is qui adoptat rogatur, id est interrogatur, an velit eum quem adoptaturus sit iustum sibi filium esse; et is qui adoptatur rogatur, an id fieri patiatur; et populus rogatur, an id fieri iubeat. Imperio magistratus adoptamus eos qui in protestate parentum sunt, sive primum gradum liberorum optineat, qualis est filius et filia, sive inferiorem, qualis est nepos neptis pronepos proneptis» (Gai, Institutiones, I.98-107). V. anche Aulo Gellio, Noctes Atticae, V.19.1-13: «Cum in alienam familiam inque liberorum locum extranei sumuntur, aut per praetorem fit aut per populum. Quod per praetorem fit, “adoptatio” dicitur, quod per populum, “arrogatio”». V. anche D’Orta, Saggio sulla ‘heredis institutio’. Problemi di origine, Torino, 1996, p. 1-190; Russo Ruggeri, La datio in adoptionem. Origine, regime giuridico e riflessi politico-sociali in età repubblicana ed imperiale, Milano, 1990, p. 1-500; Migliorini, L’adozione tra prassi documentale e legislazione imperiale nel diritto del tardo Impero Romano, Milano, 2001, p. 1-396. Sulla rilevanza del consensus v. Barbati, La rilevanza del consensus dell’adottando nell’adrogatio e nell’adoptio, Roma, 2000, p. 1-67.
[7] Così l’art. 279: «Il tribunale radunato nella camera del consiglio, dopo aver prese le opportune informazioni, verificherà: 1° se siensi adempiute tutte le condizioni della legge; 2° se colui che vuole adottare, goda di buona fama».
[8] Salva, aggiungo, la difficoltà di individuare con precisione tale momento: se dalla data di consegna al Procuratore regio o a quella, successiva, in cui questi avrebbe effettivamente portato l’atto davanti al Tribunale.
[9] Art. 360 cod. civ. Napoleone: «Se l’adottante morisse dopo che l’atto comprovante la sua volontà di passare all’atto dell’adozione sarà stato ricevuto dal giudice di pace, ed inoltrato avanti ai tribunali, e questi non avessero pronunziato definitivamente, sarà continuato il processo e sarà, se v’è luogo, ammessa l’adozione».
[10] Dunque, una formulazione che richiedeva al giudice una valutazione ben più ampia di quella attribuita dai precedenti storici, e soprattutto incentrata non tanto sull’adottante (agli artt. 355 del Codice Napoleone, 279 Codice per lo Regno delle due Sicilie, 204 Codice del Regno di Sardegna richiedevano che l’adottante godesse di «buona fama») ma sull’adottando.
[11] Cfr.: art. 213 (1865): «la persona che vorrà adottare e quella che vorrà essere adottata si presenteranno personalmente al presidente della corte d’appello nel cui distretto ha domicilio l’adottante, per venire all’atto del loro reciproco consenso il quale sarà ricevuto dal cancelliere della corte». L’atto, a questo punto, sarebbe stato presentato (art. 214) «entro i dieci giorni susseguenti, in copia autentica, dalla parte più diligente alla corte per l’omologazione», la quale, compiute le verifiche previste dall’art. 215, avrebbe pronunciato (ancora una volta senza motivare) «si fa luogo, o non si fa luogo all’adozione » (art. 216).
[12] Così l’art. 217 cod. civ. (1865), al secondo comma: «Se l’adottante muore, dopo la prestazione dell’atto di consenso alla corte e prima dell’omologazione, sarà tuttavia continuato il procedimento, e ammessa, qualora sia il caso, l’adozione».
[13] Il libro primo del codice civile fu approvato con R.d.l. 12 dicembre 1938, n. 1852, e la Relazione fu pubblicata nel Supplemento ordinario della Gazzetta ufficiale n. 285 del 15 dicembre 1938. Circa i lavori preparatori, una breve ma esaustiva disamina dei lavori preparatori è pubblicata dalla Biblioteca Centrale Giuridica del Ministero della Giustizia: v. Ministero della Giustizia, Dipartimento per gli affari di Giustizia, Biblioteca Centrale Giuridica, I lavori preparatori dei codici italiani. Una bibliografia, Roma, 2013, p. 5 – 32 e in part. p. 6 (per quanto concerne il libro primo), https://www.giustizia.it/giustizia/protected/1303127/0/def/ref/BAR951284/. Si veda, anche, il completo lavoro di Rondinone, Storia inedita della codificazione civile., cit., in part. p. 159.
[14] V. Procida Mirabelli Di Lauro, Dell’adozione di persone maggiori di età., cit., in part. p. 602.
[15] Che aveva sostituito, come visto alla nota 10, il precedente controllo sulla «buona fama» dell’adottante. La pubblicizzazione dell’istituto è stata sottolineata dalla dottrina; Apicella, Modifiche al titolo VIII del libro I del Codice civile., cit., p. 416. v. anche: Giusti, XI. L’adozione di persone maggiori d’età. Sezione 1. L’adozione di persone maggiori d’età, in Bartolini (a cura di), Trattato di diritto di famiglia, vol. IV, La filiazione e l’adozione, Milano, 2016, p. 4026. Per il dibattito circa la natura della prestazione del consenso, se «negozio di diritto privato familiare, sia pure inserito in un procedimento più complesso comprensivo anche del provvedimento di adozione», ovvero di un semplice «presupposto dell’adozione, prodotto invece dal provvedimento del giudice», ovvero ancora di un «atto complesso negoziale e giudiziale che si perfeziona con il concorso di due elementi parimenti essenziali e soggetti a distinte discipline: il consenso delle parti e il controllo del tribunale che sfocia nel decreto di adozione» v. Giusti, L’adozione di persone maggiori d’età., cit., p. 4025 – 4027; Cass. 4 luglio 1983, n. 4461, in Giust. civ., 1984, I, c. 853 ss., con nota di Dogliotti, Il problema del consenso nell’adozione; Salvi, (voce) Adozione (Diritto civile), in Noviss. Dig. it., p. 293; Ruperto, (voce) Adozione(diritto civile), in Enc. dir., I, Milano, 1958, p. 589- 590; Tessitore, Osservazioni in tema di natura e funzione dell’adozione ordinaria, in Dir. Fam. Pers., 1978, p. 659 ss.; Bessone, Ferrando, (voce) Adozione ordinaria, in Nov. Dig. it., app. I, Torino, 1980, cit., p. 76; Procida Mirabelli Di Lauro, Dell’adozione di persone maggiori di età., cit., 426 ss.
Sotto il codice del 1865 era prevalente la concezione privatistica: v. Pacifici, Mazzoni, Istituzioni di diritto civile italiano, IV ed., Firenze, 1919, VII, p. 614, sia pure con importanti opinioni contrarie, cfr. Dusi, Della filiazione e dell’adozione, Napoli, 1907, p. 880 ss.; Cicu, Il diritto di famiglia, Roma, 1914, p. 227. Sotto la formulazione vigente, sembra prevalere, in coerenza con la mutata formulazione normativa, una concezione pubblicistica, nella quale il consenso viene considerato, appunto, come mero presupposto, ovvero come «atto strumentale non negoziale», che non incide sul rapporto, ma su una «situazione tecnica preparatoria»: Rossi Carleo, L’adozione e gli istituti di assistenza ai minori, in Trattato Rescigno, 4, Persone e famiglia, III, Torino, 1982; p. 380; Giusti, L’adozione di persone maggiori d’età., cit., p.4027 oltre alla bibliografia sopra richiamata.
[16] Sull’attribuzione della competenza alla Corte d’appello, appare significativa la relazione al progetto preliminare Solmi; v.: Codice civile, libro primo, Progetto definitivo e Relazione del Guardasigilli on. Solmi, Roma, 1936, Relazione, Par. 297, p.112: «il progetto preliminare affidava questo compito al giudice tutelare. Dopo attento esame della questione non ho esitato a ripristinare il sistema vigente che attribuisce la competenza alla Corte d’appello. Non occorre dilungarsi sull’importanza etica dell’atto di adozione, nè sottolineare gli effetti giuridici che ne scaturiscono: un organo eminente e di illuminata esperienza, qual’è la corte di appello, è più idoneo a provvedere con la dovuta ponderazione in materia così delicata, e le parti possono essere portate a meglio considerare l’importanza del rapporto che desiderano costituire».
[17] Che la codificazione di epoca fascista fosse stata orientata, in linea generale, verso una generale pubblicizzazione del diritto privato mi pare, del resto, un’affermazione difficile da confutare. Significativa, del resto, l’opinione espressa da Mariano D’Amelio nel 1942: «la maggiore deduzione, che si può trarre dalla disposizione di questo codice è il pericolo di morte che sovrasta al diritto privato. è proprio questa la nota di maggiore interesse che presenta l’insieme del nuovo codice di diritto civile. Chi scorre attentamente le sue disposizioni vedrà come siano scarse quelle che non siano d’ordine pubblico o di pubblico interesse. Norme derogabili vi sono, ma costituiscono piccole isole nell’oceano delle norme pubblicistiche. è lo Stato autoritario che si afferma sempre di più e fissa la disciplina degli istituti. Oggi vi è quasi una esitazione a nominare soltanto il diritto privato». D’Amelio, La codificazione italiana e la sua evoluzione storica, conf. del 21 marzo 1942, in Circolo Giuridico di Milano, Linee fondamentali della nuova legislazione civile italiana sulla famiglia, la proprietà privata, il lavoro e l’impresa, Milano, 1943, p. 3 ss. V., in generale, Rondinone, Storia inedita della codificazione civile., cit., in part. p. 701 ss. V. anche, supra, nota 15.
[18] Lascia, a dire il vero, perplessi la circostanza che, pur essendo la disciplina codicistica oramai circoscritta alla sola adozione dei maggiorenni, sia stato mantenuto, all’art. 312 cod. civ., il sindacato del giudice circa la convenienza dell’adozione per l’adottando. La dottrina, sul punto, si è espressa in modo cauto, da un lato sottolineandone la persistente importanza della previsione in parola, dall’altro ammettendo che tale controllo potrebbe estendersi sia a profili economici, che ad aspetti «più articolati, come le conseguenze del mutamento (di status e) del nome, in relazione alle condizioni della famiglia di origine e di quella propria dell’adottante, tenendo conto, sotto questo profilo, anche della reputazione e posizione sociale dei diretti interessati»: v., per tutti, Giusti, L’adozione di persone maggiori d’età., cit., p. 4033. In senso ancora più estensivo la giurisprudenza (v. Cass. 3 febbraio 2006, n. 2426, in Dir. Famiglia, 3/2006, p. 1017 con nota di Bianchini; Cass. 3 febbraio 2022, n. 3462, secondo cui si tratterebbe di una valutazione di merito, sia in termini economici che morali, e che potrebbe essere condotta mediante l’assunzione di informazioni da parte degli organi di pubblica sicurezza, i servizi locali o le autorità comunali).
L’interpretazione in questione non mi pare convincente, dal momento che – salvo ipotesi patologiche in cui potrebbe ravvisarsi la mancanza dell’interesse ex art. 100 cod. proc. civ. (comunque previsti dalla legge, es.: domanda di adozione del proprio figlio, disciplinata dall’art. 293 cod. civ.), o di altre ipotesi comunque assai circoscritte, come l’incapacità naturale dell’adottando (circostanza che dovrebbe escluderebbe comunque la validità del consenso ugualmente reso), o la sua inabilitazione – la valutazione circa la convenienza dell’adozione dovrebbe essere rimessa alla esclusiva e invalicabile sfera dell’adottando, almeno se capace di intendere e di volere, chiamato a manifestare nel processo il proprio consenso. Non pare ravvisarsi la persistente opportunità di una simile previsione, che consente al giudice un controllo così invasivo della sfera privata. Per la possibile applicabilità della norma in esame al caso dell’adottando inabilitato, v. Cattaneo, (voce) Adozione., cit., in part. par. 44 e, ivi, nota 84.
[19] Si noti come la previsione dei divieti razziali, unita al mantenimento del controllo del giudice sull’interesse dell’adottando, poteva, in concreto, risultare quantomai insidiosa. L’originario art. 292, infatti, dopo avere vietato l’adozione tra ariani e non ariani, consentiva una possibile «dispensa dall’osservanza di questa disposizione», da parte del Re o delle «autorità a ciò delegate». Mi pare corretto dedurre che, anche nel caso in cui la dispensa fosse stata concessa, un tribunale particolarmente (e fascistamente) zelante avrebbe potuto ugualmente ritenere l’adozione non conveniente all’adottando, proprio per motivi legati alla razza, e.g. nel caso in cui l’adottando fosse stato “ariano” mentre l’adottante no. Con riguardo al divieto di adozione per motivi razziali, v. la Relazione di accompagnamento (1938), sub part. 140: «ho creduto necessario inserire nel testo una precisa disposizione per impedire l’adozione tra persone che appartengono a razze non ariane e cittadini ariani, pur prevedendo espressamente la possibilità della dispensa per i casi in cui l’autorità competente ritenga l’adozione progettata compatibile coni principii razziali». Sulla possibilità di dispensa, v. La Torre, Effetti della condizione razziale sullo stato giuridico della persona, in Il diritto razzista, a. I, n. 1-2 (maggio – giugno 1939), p. 32 – 41, ripubblicato in Sarfatti, (a cura di), Documenti della legislazione antiebraica: il commento delle riviste razziste p. 200 – 2010), gennaio – agosto 1988, vol. 54, N. 1938, le leggi contro gli ebrei: numero speciale in occasione del cinquantennale della legislazione antiebraica fascista (Gennaio – agosto 1988), p. 199-218 e in partt. 200-2010. Nell’originario articolo del Diritto razzista, alla nota 2 di pagina 203, troviamo la seguente nota del direttore, S. M. Cutelli «(…) L’art. 289 vieta, infine, l’adozione tra cittadini ariani e persone di altra razza, pure ammettendo la strana possibilità di eccezioni discrezionali. (Nota del direttore)». Sulle origini della rivista il Diritto razzista e sulla persona del suo direttore, v. De Napoli, Come nasce una rivista antisemita. Tradizionalismo e razzismo nell’azione di Stefano Mario Cutelli, in Le Carte e la Storia, 2/2012, p. 98- 116. Decisamente una pagina buia della nostra storia (non solo) giuridica.
[20] Oramai superata, visto che l’intera fase di acquisizione dei consensi si volgeva già davanti al presidente del Tribunale. Come si legge nella Relazione del 1938 (par. 147), si era preferito, in sede di stesura del testo definitivo, mantenere la possibilità di delegare altra autorità giudiziaria, diversa da quella competente per l’acquisizione del consenso. Tale autorità, tuttavia, era stata individuata nel Presidente del Tribunale (anziché nel Pretore, come previsto nel progetto) «Data la particolare importanza dell’atto».
[21] Il nuovo art. 50.5 ord. giud., come introdotto dal d.lgs. 149/2022, attribuisce alla Sezione distrettuale del Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie, «(…) nella materia civile, i procedimenti di primo grado attribuiti alla competenza del tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie diversi da quelli indicati al primo comma [ossia, attribuiti alla sezione circondariale – n.d.a.], nonché i giudizi di reclamo e di impugnazione avverso i provvedimenti pronunciati dalla sezione circondariale. Sono inoltre trattati presso la sezione distrettuale tutti i procedimenti attribuiti al tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie nella materia penale e nelle altre materie previste dalla legge». L’art. 54, come novellato dal d.lgs. 149/2022, introduce la «sezione per le persone, per i minorenni e per le famiglie», competente, ai sensi dell’art.58, sulle «impugnazioni dei provvedimenti pronunciati in primo grado dalla sezione distrettuale del tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie» (l’appello o il reclamo avverso i provvedimenti della sezione circondariale va, invece, proposto dinanzi alla sezione distrettuale del tribunale, ai sensi dell’art. 50.5.»).
Il testo della riforma sembrerebbe – pur con tutte le cautele del caso e sebbene ciò appaia, a ben vedere, controintuitivo – non avere inteso attribuire al Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie, il procedimento di adozione dei maggiorenni. Ciò sembra dedursi innanzitutto dal carattere, per quanto esteso, comunque non generalizzato («nell’ambito delle competenze ad esso attribuite dalla legge») della competenza del Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie. Cfr. art. 50.1. ord. giud.: «Il Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie, nell’ambito delle competenze ad esso attribuite dalla legge: a) esercita la giurisdizione in primo e in secondo grado, in materia civile nei procedimenti aventi ad oggetto lo stato e la capacità delle persone, la famiglia, l’unione civile, le convivenze, i minori b) (OMISSIS)». Inoltre, gli artt. 50.4. e 50.5. ord. giud. menzionano espressamente alcune soltanto tra le norme in materia di affidamento e adozione (essenzialmente: di quelle relative a minori) previste dal codice civile e dalla legge 184/1983 (rispettivamente, i titoli I e I bis, devoluti alla sezione circondariale ex art. 50.5 e i titoli II, III e IV, per i quali l’art. 50.4 prevede la composizione collegiale di «due magistrati onorari e due giudici onorari esperti», in luogo della composizione collegiale ordinaria, che giudica invece «con il numero di tre componenti»). Inoltre, non sono state – almeno, non espressamente – modificate le disposizioni di cui agli artt. 298 ss., nella parte in cui menzionano il «Tribunale», né l’art. 313 comma secondo (nella parte in cui prevede l’appellabilità della sentenza dinanzi alla corte d’appello, laddove i provvedimenti della sezione circondariale del tribunale delle persone sono impugnabili davanti alla sezione distrettuale, ai sensi del citato art. 50.5. ord. giud.). In ultimo, nel d.lgs. 149/2022 non è stato richiamato il titolo V della legge 184/1983 che avevano modificato il codice civile in tema di adozione di maggiorenni.
La tesi contraria sarebbe, comunque, sostenibile, interpretando la sopracitata disposizione di cui all’art. 50.5. ord. giud, come norma generale, attributiva alla sezione circondariale della competenza per quanto concerne «tutti i procedimenti civili riguardanti lo stato e la capacità delle persone, la famiglia, l’unione civile, le convivenze e i minori (…)». L’interpretazione in questione, però, non sembra ineccepibile sul piano sistematico, dal momento che la norma sembra più che altro diretta a ripartire le competenze tra sezione circondariale e sezione distrettuale e non ad attribuire, se non dove espressamente indicato, nuove competenze al nuovo organo, e tenuto anche conto che gli artt. 298 ss. cod. civ. sembrerebbero essere lex specialis rispetto alla disciplina appena introdotta.
Infine, l’art. 50 del dl.gs. 149/2022 sembra avere previsto la sola competenza generale del tribunale per le persone, per i minorenni e per la famiglia per i procedimenti ad oggi attribuiti al tribunale per i minorenni, non anche per gli ulteriori procedimenti in materia di stato delle persone, attribuiti ad altro giudice. Sarebbe, al riguardo, auspicabile un intervento chiarificatore, se non proprio correttivo, del legislatore sul punto, dal momento che un tema così delicato, nell’ambiguità del dato normativo, non può essere delegato all’interpretazione della giurisprudenza.
Ad ogni modo, che si acceda o meno all’interpretazione qui proposta della permanenza della competenza del Tribunale, in ogni caso, non mi pare ci siano dubbi circa l’esclusione del procedimento oggetto del contributo dal rito previsto dai neo-introdotti artt. 473 bis ss. cod. proc. civ., trattandosi di un procedimento di giurisdizione volontaria (sul punto, diffusamente, supra, nota 5). Si v., al riguardo, la Relazione al d.lgs. 149/2022, p. 48 sub. Comma 33: «ovviamente restano fuori dall’ambito applicativo del nuovo rito unificato a cognizione piena tutti i procedimenti di giurisdizione volontaria, che continuano ad essere retti dalle forme processuali camerali».
[22] Art. 213 cod. civ. (1865); art. 202 cod. civ. Regno di Sardegna; art. 277 cod. Regno due Sicilie – leggi civili; art. 277 cod. civ. Napoleone.
[25] Altro dato indiretto, che è possibile incrociare col precedente per farsi un’idea approssimativa, è quello del numero degli iscritti a scuola. In particolare, nell’anno scolastico 1864-1865 gli iscritti alla scuola primaria in Italia erano 1.194.000 a fronte di una popolazione stimabile intorno a 22.781.800. Tale ultimo numero, va detto, è una semplice stima approssimativa che si è calcolata partendo dai due dati effettivamente rilevati (21.777.000 al 1861 e 26.801.000 al 1871). Prendendo come base di calcolo l’aumento della popolazione avvenuto in questi dieci anni intercorrenti tra le due rilevazioni (26.801.000 – 21.777.000 = 5.024.000), e ipotizzando un trend di crescita costante e regolare, si è ottenuto un aumento annuo stimabile di 5.024.000 /10 = 502.400. Moltiplicando il risultato per il numero di anni intercorsi tra il 1861, data della rilevazione iniziale, e il 1864 (data che ci interesse), abbiamo calcolato l’aumento stimabile della popolazione avvenuto appunto nel 1864: 502.400 x (1864 – 1861) = 1.507.200. Abbiamo, quindi, stimato la popolazione al 1864 in: 21.777.000 (dato al 1861) + 1.507.200 (aumento stimato al 1864) = 23.284.200.
Nel medesimo periodo, il numero di iscritti alla scuola secondaria scendeva drasticamente a 19.000, mentre quello degli iscritti all’Università si aggirava realisticamente intorno ai 7.000 (anche in questo caso, il numero esatto non è rilevato, ma è possibile stimarlo in via approssimativa, seguendo lo stesso procedimento infra descritto per il calcolo della popolazione generale, confrontando il dato del 1863/1864, pari a 6.000 e quello del 1866/1867, pari a 9.000). Sulla base di questo dato possiamo ricavare, sempre in via approssimativa e seguendo la stessa metodologia di sopra, che il numero degli iscritti alla scuola primaria era pari al 5,128% (arrotondato al terzo decimale) della popolazione generale, il numero di iscritti alla scuola secondaria era pari allo 0,08%, quello degli iscritti all’università era pari allo 0,000004% (stavolta, si è dovuto approssimare al sesto decimale).
Nell’anno scolastico 1941/1942 il numero di iscritti alla scuola primaria era salito a 5.110.000, mentre il numero di iscritti alle scuole secondarie era pari, rispettivamente, a 982.000 e 146.000. Nello stesso periodo di riferimento, la popolazione può essere stimata (seguendo la stessa metodologia di sopra, sulla base dei due dati censiti, ossia di 42.994.000, numero rilevato al 1936 e di 47.516.000, numero rilevato al 1951) in 44.501.333. Ciò sta a significare che, in termini percentuali, gli iscritti alla scuola primaria erano ora il 11,483% della popolazione, quelli iscritti alla scuola secondaria erano il 2,207%, mentre gli iscritti all’università erano lo 0,329%.
Altro indicatore rilevante è quello del numero dei laureati, che nel 1941 erano 9.907 (in flessione rispetto agli anni precedenti la guerra, come è facilmente spiegabile; già nel 1942 il numero risalì al 12.133 e nel 1944 arrivò a 27.079) tavola 7.16 Laureati per gruppo di corsi di laurea – anni 1926-2013.
Fonti: ISTAT, Serie storiche, tavola 7.3 per quanto riguarda le percentuali di iscritti alla scuola e tavola 2.1. per la popolazione generale; tutti pubblicati su : https://seriestoriche.istat.it/index.php?id=1&no_cache=1&tx_usercento_centofe%5Bcategoria%5D=7&tx_usercento_centofe%5Baction%5D=show&tx_usercento_centofe%5Bcontroller%5D=Categoria&cHash=1b020e5419ca607971010a98271e3209.
[26] Cfr. Genovesi, Storia della scuola in Italia dal Settecento a oggi, Laterza – Bari, 2010, 1-341; Dei, La scuola in Italia, Bologna – Il Mulino, 2000.
[27] I quali, anzi, sembrano dare per scontato che il consenso debba essere manifestato oralmente. Significativo il passo della Relazioneal progetto definitivo del 1936, sub par. 317 «Nell’art. 319 ho riassunto in una formula più semplice il contenuto dei primi due commi dell’art. 362 del progetto preliminare ed ho chiarito in altro comma separato che, in caso di grave impedimento, il presidente della corte di appello può delegare il pretore a ricevere il consenso della persona che deve prestarlo o a sentire l’adottando dodicenne. Ho, infine, modificato l’ultimo comma, perché non mi è sembrato necessario dare facoltà all’autorità giudiziaria di ordinare la presentazione personale delle persone che debbono dare l’assenso». In effetti, il corrispondente art. 362 del Progetto della Commissione Reale per la riforma dei codici (Roma, 1931) riproponeva l’antica formulazione: «l’adottante e l’adottato, che abbia compiuto gli anni sedici, devono presentarsi personalmente, salvo casi di grave impedimento, per manifestare il loro consenso al giudice tutelare nella cui circoscrizione l’adottante ha il domicilio». La Relazione del 1938 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 285 del 15 dicembre 1938, Supplemento ordinario, era dello stesso tenore della Relazione del 1936: v. par. 147: «(OMISSIS) Di fronte, tuttavia, alla regola posta nel comma 1° dell’articolo 309, per cui il consenso deve essere manifestato personalmente al presidente della corte, mi è sembrato opportuno prevedere espressamente che il presidente delle corte possa delegare a ricevere il consenso altra autorità giudiziaria (…)».
[28] Per tutti, v. Procida Mirabelli Di Lauro, Dell’adozione di persone maggiori di età., cit., p. 307; Cicu, La filiazione, in Tratt. Vassalli (rist.), Torino, 1969, p. 322; Stella Richter, Sgroi, Delle persone e della famiglia., cit., p.355; Ruperto, (voce) Adozione (diritto civile), in Enc. dir., I, p. 591; Salvi, (voce) Adozione (Diritto civile), in Noviss. Dig. it., p. 295 ss.; Dogliotti, Affidamento e adozione, in Trattato Cicu – Messineo, Milano, 1990, p. 371 ss.; A. Finocchiaro – M. Finocchiaro, Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei Minori, Milano, 1983, p. 82 e 512.
[29] Salmé, La nuova legge sull’adozione, Padova, 1985, p. 196; Procida Mirabelli Di Lauro, Dell’adozione di persone maggiori di età., cit., 607; Giusti, L’adozione di maggiori d’età., cit., p. 4030; Cicu, Il diritto di famiglia, Roma, 1914, p.321 ss.
[30] L’assioma muove dall’idea che l’autorità giudiziaria dovrebbe verificare non solo la provenienza della dichiarazione, ma anche «la consapevolezza e la libertà del volere», verifica che non potrebbe essere condotta dall’esame di un «documento che farebbe fede soltanto della sua provenienza»: Giusti, L’adozione di maggiori d’età., cit., p. 4030; Cicu, Il diritto di famiglia., cit., 321 ss. Una simile impostazione, va detto, appare perfettamente corretta sul piano sistematico, ma mentre sotto la vigenza del codice del 1865 costituiva un semplice commento a una scelta normativamente univoca già presa dal legislatore, sicché non richiedeva alcuna prova della sua esistenza, nell’attuale assetto normativo – a me pare – essa non può essere più data per scontata e richiederebbe uno sforzo ermeneutico assai maggiore, dal momento che – dopotutto – si tratta di far dire alla legge ciò che essa non dice. A dare per scontata, a fronte di una novella, l’interpretazione consolidatasi sotto il testo precedente – a me pare – si rischia di ricadere in un meccanismo di vischiosità dell’interpretazione consolidatasi sulla normativa precedente, che finirebbe per interpretare la norma vigente sulla base di quella preesistente. Il che, a ben vedere, sembra costituire un bias cognitivo, fenomeno ampiamente descritto dalla psicologia cognitiva, v. Kahneman, Pensieri lenti e veloci, Milano, 2015 (ebook), sub cap. VII. Un meccanismo per saltare alle conclusioni, par. secondo: Bias di credenza e conferma: «Contrariamente alle regole dei filosofi della scienza, i quali consigliano di verificare un’ipotesi provando a confutarla, le persone (e molto spesso anche gli scienziati) cercano dati che siano compatibili con le loro credenze del momento». Per restare in tema, aggiungerei, a conferma di quanto detto, che l’argomentazione classica circa la solennità dell’atto e il conseguente valore del consenso mi pare avere un forte “matching di intensità”, fatto che rende una predizione statisticamente errata. (Kahneman, Pensieri lenti e veloci., cit., sub cap. VIII Come si formano i giudizi, par terzo: «Matching di intensità»). Nello stesso volume, peraltro, l’autore sviluppa il concetto dell’ancoraggio, che si verifica «quando le persone, dovendo assegnare un valore a una quantità ignota, partono, per farlo, da un determinato valore disponibile» (Kahneman, Op.ult. cit., sub cap. XI Ancore, par. primo. Sugli stessi temi, v. anche il precedente notissimo lavoro di Tversky, Kahneman, Judgment under Uncertainty: Heuristics and Biases, in Science, Sep. 27, 1974, New Series, vol. 185, n. 4157, p. 1124 – 1131, in part., pag. 1126 ove si affronta The illusion of validity, e, sopratutto, p. 1127 dedicata ad Availability e a Biases of Imaginability e p. 1128 (sub Adjustment and Anchoring).
[31] V. P. Farina, La querela civile di falso. II. Profili teorici e attuativi, Roma, 2018, p. 168, la quale fa risalire l’istituto alla interpellanza disciplinata dall’art. 298 cod. proc. civ. (1865), già nota al diritto comune e recepita dall’art. 3 dell’ordinanza francese del 1737 e all’art. 215 del code francese. La stessa autrice individua la ratio di tale conferma nel «richiamo alla parte a riflettere seriamente sull’atto (e sulle eventuali conseguenze) che ha in animo di compiere» e ne ravvisa il parallelismo con l’interpello, previsto per il caso di querela di falso proposta in via incidentale. In ambedue le ipotesi di querela di falso, infatti, sarebbe (sottolineamo:) espressamente prevista una duplice attività di impulso della parte. P. Farina, Op. ult. cit., p.170.
[32] Sempre con riferimento alla querela di falso, del resto, non manca chi sostiene che la conferma ex art. 99 disp. att. non risponderebbe a reali esigenze del processo, trattandosi piuttosto di una formalità che appesantisce ulteriormente ed inutilmente il processo, e ne invoca la soppressione: Saletti, La conferma della querela di falso: ambito di applicazione e le conseguenze della mancata prestazione, in Riv. dir. proc., 1972, p. 335.