Seneca, Medea e il contraddittorio (ovvero qui statuit parte inaudita altera haud aequus fuit)

Pubblico qui il testo dell’intervento svolto al venticinquesimo Convegno dell’Accademia Romanistica Costantiniana, sul tema La costruzione del testo giuridico tardoantico. Culture, linguaggi, percorsi argomentativi e stilistici, che si è tenuto a Spello nel 2021; l’intervento è pubblicato negli Atti dell’Accademia Romanistica Costantiniana, XXV, Perugia, 2023, pp. 563-591 sotto il titolo originario Continuità e discontinuità tra mondo classico e età tardo antica: il contraddittorio.

Di Victor Crescenzi -

1. Notava Giuliano Crifò (introducendo nel 1962 la traduzione italiana di Topik und Jurisprundenz di Theodor Viehweg): «I rapporti esistenti tra la retorica e il diritto sono stati spesso oggetto di attenzione e di meditate ricerche. Sarà sufficiente ricordare qui, per il campo specifico del diritto romano, le polemiche a tutt’oggi non sopite che lo Stroux ebbe a suscitare con le sue note tesi sulla influenza della retorica nella formazione della giurisprudenza classica. […]. In concreto, gli approfondimenti che si sono recati nel campo della retorica ed in quello degli studi di logica giuridica hanno fatto sì che il rapporto della retorica con il diritto venisse inteso come una chiave interpretativa idonea ad intendere il valore (cioè l’efficienza) della prima e la validità scientifica del secondo»[1]. Queste parole meritano, direbbe un glossatore, di essere productae ad consequentias; e, per la verità, se ne può, credo lecitamente, trarre la considerazione, secondo la quale né l’efficienza della retorica, né la validità scientifica del diritto avrebbero potuto assumere le dimensioni che noi tutti riconosciamo all’esperienza giuridica di Roma se efficienza e scientificità non fossero l’espressione di un’esperienza che diciamo giuridica in quanto furono espressione di quella che Capograssi avrebbe detto esperienza comune[2]: in una parola la cultura civile di Roma.

Proprio l’«efficienza» della retorica, che il Crifò così acutamente richiama, produce i suoi effetti nel ragionamento dei giuristi; il che lo porta a concludere che «in verità, il concetto di prova ed il suo delinearsi sono realtà adatte nel più alto grado a confermare una tale efficienza […], sicché il concetto giuridico di prova può essere senz’altro assunto come risultato di un ragionamento giuridico operato con mezzi topici»[3]. Il riferimento esplicito, peraltro, era al libro di Alessandro Giuliani pubblicato su tale tema pochi anni prima[4].

Ma ancora una volta, questo circuito tra retorica e diritto appartiene prima ancora che a quella giuridica, all’esperienza comune. E, del resto, all’esperienza comune appartiene l’esperienza del processo, dello iudicium, della quale l’istituto della prova costituisce il centro; il che ci rimanda alla figura della controuersia[5], della quale lo iudicium è solo una delle specificazioni pratiche e fenomeniche. Quindi si può dire che l’orientamento retorico, per usare la fraseologia del Crifò, della giurisprudenza in genere e di quella romana in specie, trova una ragione pratica anche perché il procedimento argomentativo del giurista è sempre e comunque finalizzato alla risoluzione d’un conflitto che nel processo, nello iudicium trova la sua sede istituzionale; la struttura del ragionamento del giurista, infatti risente inesorabilmente della funzionalità controversiale della sua scienza, che non si risolve in meri atti di conoscenza, ma è protesa alla pratica dello iudicium e della sua risoluzione[6]; ma il ragionamento del giurista è parte dell’esperienza comune, nella quale ogni funzione decisoria, ovvero la funzione del deliberare in quanto tale, come s’è visto sopra, non degrada in arbitrio se è fondata sulla considerazione degli asserti contrapposti di partes in conflitto: ancora una volta alla controuersia si torna[7].

Se l’ars inueniendi (la topica, appunto) è la tecnica del pensare per problemi, è perché il ragionamento giuridico è dominato da una problematicità strutturale, dovendo inserirsi in quel segmento dell’esperienza comune che è l’esperienza giuridica, nella quale a sua volta è strutturale la contrapposizione derivante dal conflitto di interessi — che sta alla base della deliberazione giuridicamente rilevante, generatrice del precetto — e derivante anche dal conflitto nella valutazione della disciplina del singolo interesse che dà corpo al «caso in esame», generatore della lite e che sta alla base della sentenza[8]; lasciamo parlare ancora una volta il Crifò: «il giurista classico non operava delle deduzioni logiche ma, preoccupato di risolvere il problema che gli veniva prospettato, si serviva degli argomenti che gli sembravano più adatti al caso in esame, aiutato in ciò, naturalmente, dalla conoscenza della retorica greca»[9].

Appunto, il connotato problematico del ragionamento giuridico è tale poiché questo, come ho detto, si situa all’interno di un’esperienza che è giuridica in quanto parte dell’esperienza comune. Il procedere in forma retorica del giurista in tanto è produttivo —in tanto è stato così fecondo nell’esperienza del diritto romano— in quanto è radicato nell’esperienza comune ed è forma di una prassi di vita civile condivisa nell’intera società. Ciò spiega, probabilmente, perché una delle testimonianze più antiche di un canone, quale quello del contraddittorio, ovvero, più specificamente, una delle testimonianze più antiche del canone che si esprime nella formula audiatur et altera pars[10] sembra sia collocata non in un testo della giurisprudenza classica, com’è stato notato anche da vari autori[11], ma in un testo letterario, qual è, com’è noto, la tragedia Medea di Lucio Anneo Seneca il Giovane; alla quale vanno aggiunti altri testi drammaturgici dello stesso poeta, peraltro innervati, tutti — anche quello dotato di vocazione satirica e perfino comica —, da una forte e significativa tensione civile, come subito vedremo: un poeta, oltre che un filosofo il cui impegno civile non è bisognoso di particolari sottolineature.

In realtà, l’origine retorica del canone[12] non ne esclude, contrariamente a quanto si possa ritenere, la sua rilevanza giuridica, posto quel si è appena detto, sulla scorta del Crifò, quanto ai rapporti che intercorrono tra i giuristi classici e la retorica greca[13]. Tuttavia, ciò che conta non è tanto l’origine in quanto tale, ma quel che dalla constatazione che da tale origine discende, e che colloca il canone in questione all’interno della società nel quale si è radicato, e, di conseguenza all’interno della relativa cultura e quindi dell’esperienza comune di quella società.

A queste considerazioni si deve aggiungere che, sebbene il canone audiatur et altera pars sia un cardine del processo[14], esso non si esaurisce sul piano delle strutture processuali che si risolvano in precetti tecnicamente immanenti alla procedura, né può essere ridotto a elemento del catalogo dello strumentario del diritto di difesa, quantunque quest’ultimo costituisca un istituto ineliminabile del capitolo della tutela dei diritti. In altre parole, del canone che impone audire et alteram partem, il diritto di difesa costituisce solo una delle specificazioni — e segnatamente, una specificazione soggettiva —, ma non coincide con quel diritto[15]; invero, quel canone ha rilievo costitutivo oggettivo, produttivo di precetti, tale da collocarsi nel rapporto tra la società civile e le regole che la governano, costitutive esse pure, nonché le strutture di essa società; tra queste strutture si deve annoverare la controuersia, nella sua consistenza di strumento dell’agire civile, che ricomprende la funzione deliberativa generale tanto quanto la funzione decisionale dei conflitti, nella quale rientra la generale funzione giurisdizionale[16].

E, certamente, non è circoscrivendolo nello specifico perimetro del diritto di difesa che si può comprendere il senso del richiamo del canone audiatur et altera pars nella Medea di Seneca, come il senso delle altre occorrenze che su questo tema compaiono nella sua opera di drammaturgo; drammaturgo, dico, piuttosto che filosofo, perché non è il teorico che parla in Medea, o nell’Apocolocintosi, o anche in Edipo, come vedremo, ma il poeta, che rivolge l’attenzione della sua coscienza critica all’esercizio di un potere che si desidererebbe non autocratico, e non autoreferenziale,  proteso piuttosto verso la conoscenza delle ragioni di tutti i portatori d’interesse contrapposti prima di prendere una  decisione che li concerna — si iudicas cognosce, intimerà Medea a Creonte, come vedremo.

2.D’altro canto, mantenendoci nel solco della ricerca delle origini, più feconda sembra la considerazione dei primi tre precetti della Lex XII tabularum, che non sembrano perseguire la tutela del diritto di difesa nel processo[17]:

[1.] Si in ius uocat, [ito]. Ni it, antestamino: igitur em capito. [2.] Si caluitur pedemue struit, manum ento iacito. [3.] Si morbus aetauitasue uitium escit, [qui in ius uocabit] iumentum dato. Si nolet, arceram ne sternito»[18].

Come si può constatare già ad una prima lettura, queste tre prescrizioni sono evidentemente mirate alla salvaguardia del contraddittorio, che, anche in considerazione della collocazione di questi precetti nella prima delle dodici tavole, costituisce evidentemente un istituto ritenuto essenziale all’esperienza del processo già nel diritto romano più antico (la redazione della Lex è ascritta al 451 a. C.).

Non è possibile approfondire la relativa rilevanza delle norme che ho appena richiamato proprio con riferimento alla questione della tutela dei diritti e del processo. Si può solo dire che in questa disciplina della chiamata in giudizio è presupposta una funzione del contradditorio connotata nella sua rilevanza costitutiva del processo: senza la partecipazione del convenuto il processo non inizia, sicché esso convenuto, se renitente — ni it —, previa convocazione di testimoni che attesteranno la renitenza — antestamino — può essere condotto in ius iniecta manu — vale a dire coercitivamente: igitur em(=eum) capitur.

Tuttavia, qui la necessità della comparsa del convenuto, quindi la necessità della sua costituzione in giudizio ha una funzione complessa non riconducibile esclusivamente alla problematica del contraddittorio, funzione che non può essere indagata in questa occasione; basterà dire che in essa rientra anche la problematica delle garanzie a tutela dell’adempimento del convenuto in caso di soccombenza, quando, più in generale, non vi venga coinvolto anche lo iussus populi di cui la lex (questa stessa lex XII tabularum, dunque) è espressione, al quale iussus non si può disobbedire rifiutando di comparire se chiamati in giudizio, come rammenta la Rhetorica ad Herennium 2,13,19[19]: «Lege ius est id quod populi iussus sanctum est; quod genus, ut in ius eas cum uoceris».

Quale che sia il nesso che si dispiega tra il canone audiatur et altera pars e le norme che disciplinano la costituzione delle parti nel processo nella Lex XII tabularum, non c’è dubbio che comune ad entrambi è un presupposto logico funzionale: che il giudicante può decidere la lite solo in quanto disponga degli elementi nei quali si articolano le ragioni delle parti in conflitto, la cui presenza attiva è condizione necessaria per il suo svolgimento; tenuto conto di ciò, la probatio costituisce lo strumento processuale indirizzato a fornire al giudicante questi elementi; ma la probatio, in tanto è funzionale al processo così inteso — all’ordo iudicii —, in quanto, ancora una volta, si dispieghi in contraddittorio, o, meglio, nel contraddittorio delle parti.

 

3.Possiamo così tornare al testo di Seneca, che di tutto questo sostrato è letteralmente intriso, un sostrato che invera quella cultura civile di Roma, alla quale sopra ho fatto riferimento; se la testimonianza della Lex XII tabularum è rilevante e attendibile per la costruzione di un discorso sul contraddittorio, nella misura nella quale questo è sintetizzabile nel canone audiatur et altera pars, di quella tale cultura civile e del suo radicamento nella società romana possiamo essere certi così da comprendere meglio perché è in Seneca che troviamo riaffermato ripetutamente quel canone. Invero in almeno tre suoi testi teatrali, quantunque diversissimi, questo poeta inserisce la considerazione del conflitto come confronto tra partes che il soggetto investito della funzione del decidere deve ascoltare se non vuole far degradare la decisione in arbitrio. Si tratta della farsesca e corrosivamente satirica Apolococyntosis diui Caudii [Ludus de morte Claudii o ancora Divi Claudii apotheosis per saturam, (lett. apoteosi di quella zucca del divo Claudio, composta tra il 54 e il 59)] e delle tragedie Medea (da collocare probabilmente tra il 54 e il 60, ossia nel cosiddetto quinquennium Neronis)] ed Edipo.

Si può affermare che dei testi sopra indicati, soprattutto in Medea la rappresentazione del conflitto tra l’eroina eponima e Creonte contiene letteralmente l’intarsio di una impostazione controversiale di marca retorica. Il che vuol dire che il discorso che riguarda Medea e Creonte, e dunque il loro rapporto, per un significativo segmento della tragedia — quasi un centinaio di versi, dal 192 al 280 — è configurato da Seneca seguendo le linee di una silloge di materiale argomentativo utile per un’esercitazione di diritto processuale, un esempio di ciò che retori del calibro di Cicerone e Quintiliano intendono per una controuersia, in senso proprio. Di conseguenza, la struttura della rappresentazione che Seneca imprime al conflitto tra i due è — per usare la nomenclatura proposta da Alessandro Giuliani, studioso appunto della controversia, come ho ripetutamente ricordato — una questione civile su una causa determinata per la soluzione della quale si fa ricorso ad «una logica della scelta opportuna, un metodo di ricerca nel dominio dei valori»[20]. Quella tra Creonte e Medea, dunque, si presenta come una questione civile su una causa determinata: Creonte ha dato in moglie la propria figlia Glauce a Giasone sposo di Medea rescindendone le nozze; successivamente, postulandone la pericolosità sociale, anche a causa della di lei fama di esperta di arti magiche, condanna Medea all’esilio, con la conseguenza di perdere anche i propri figli. È qui che s’innesta una controuersia con funzione giudiziale, ossia tale da vertere sull’interpretazione e applicazione della legge — quella in base alla quale è decretato l’esilio — tenuto conto della natura delle cose, ossia dei fatti che dovrebbero giustificare la decisione con la quale Creonte bandisce Medea[21].

Comprendiamo così il senso del contenuto del v. 192 della tragedia senechiana: dopo la sequenza di schermaglie che si collocano sul piano dei preliminari con funzione introduttiva, Medea esplicita una richiesta tipica, che imprime all’azione tragica una forma specifica e originale (v. 192): Quod crimen aut quae culpa multatur fuga?

Dico “tipica” la richiesta dell’eroina perché possiamo dire che, pur considerando il fatto che qui ci troviamo dinnanzi ad un testo poetico e drammaturgico, dunque letterario, al v. 192 si può dire che prenda l’avvio un vero e proprio dibattimento giudiziario — anche se sussistono alcune ambiguità derivanti dal fatto che Creonte è simultaneamente accusatore e giudice, vale a dire decisore della controuersia; ma in realtà, forse, un più avvertito contegno analitico c’imporrebbe di considerare Creonte come accusatore essendo chi assiste alla rappresentazione il giudice/decisore. Ma mi sia consentito di non soffermarmi ulteriormente su questo punto specifico. Tenendo conto dei ruoli come li si sono stilizzati or ora, in un dibattimento giudiziale uno dei tipici passaggi introduttivi consiste nella identificazione del fatto illecito contestato all’accusato. Ed è precisamente questo ciò che Medea al v. 192 chiede a Creonte; il quale, entrando in scena, l’aveva aggredita con parole violente, chiedendole conto del perché ancora non abbia lasciato Corinto, quantunque ne sia stata bandita (vv. 179-191):

Medea, Colchi noxium Aeetae genus,

nondum meis exportat e regnis pedem?

molitur aliquid: nota fraus, nota est manus.

Cui parcet illa quemue securum sinet?

abolere propere pessimam ferro luem

equidem parabam: precibus euicit gener.

Concessa uita est, liberet fines metu

abeatque tuta. †† fert gradum contra ferox

minaxque nostros propius affatus petit. ††

Arcete, famuli, tactu et accessu procul,

iubete sileat. regium imperium pati

aliquando discat. Vade ueloci uia

monstrumque saeuum horribile iamdudum auehe.

In questa perorazione Creonte affastella accuse e sospetti, senza ordine né fondamento, sicché sembra ragionevole che Medea pretenda che il re dichiari il capo d’imputazione che la riguarda, con la contestazione dell’accusa formale che comporta la pena dell’esilio e dei suoi fondamenti. E si deve riconoscere che, a fronte del disordinato discorso di Creonte, Medea in questo v. 192, riporti la questione su un piano di razionalità e formula due istanze processualmente molto precise, puntuali e, ancora una volta, tipiche: qual è il fatto (doloso o colposo) che mi si imputa — crimen aut culpa — e qual è il fondamento giuridico in base al quale il crimen o la culpa sono punite — mulctatur —  con l’esilio?

I versi che seguono contengono un duro confronto tra i due personaggi, nel quale le rispettive contrapposte posizioni trasferiscono il conflitto fuori dell’emotività dell’espressionismo tragico, all’interno del quale, invece, rimane in Euripide, e lo collocano sul piano delle asserzioni di rilevanza civile d’indole oggettiva. La Medea di Seneca, infatti, non aveva esitato a indicare in Creonte l’unico responsabile del conflitto, identificando il punto di diritto controverso: l’aver sciolto i coniugia che la legavano a Giasone con un atto dispotico, atto che costituisce espressione di incontrollata libidine di comando (vv. 143-144): Culpa est Creontis tota, qui sceptro impotens/coniugia soluit. E va sottolineato quell’impotens che indica il soggiacere di Creonte alla sua brama sregolata di potere.

4.Paragonando la tragedia senechiana con la versione di Euripide, il Paré-Rey[22] nota acutamente che la disputa con Creonte di Corinto, in Seneca è collocata sul piano politico e giuridico, mentre Euripide l’aveva collocata su quello delle qualità intellettuali d’un’eroina incompresa[23].

Nel testo di Seneca, il modo con il quale la contesa è condotta ha, dunque, un rilievo specifico che fa leva sul metodo della decisione che condanna Medea al bando e sulle forme di tale decisione.

Il segmento della disputa che è interessante commentare qui, si può dire che sia introdotto, come ho sopra rilevato, dalla richiesta di Medea che nei suoi confronti sia formulato il capo d’accusa (v. 192) sulla base del quale è bandita da Corinto: Quod crimen aut quae culpa multatur fuga?  cui segue la risposta duramente sarcastica di Creonte (v. 193): Quae causa pellat, innocens mulier rogat.

A questo punto Medea ricorda al re che, nella misura nella quale egli intende formulare un giudizio (si iudicas) è tenuto a istruire la questione e acquisirne gli elementi di conoscenza (cognosce); d’altra parte la formulazione del precetto, dell’ordine, del comando (iube) è espressione dell’esercizio delle funzioni regali (si regnas), atto d’impero (v. 194): si iudicas, cognosce, si regnas, iube. Si tratta di una sententia[24] dotata di una certa complessità la cui relativa ambiguità si dovrebbe risolvere nel contesto. Presa alla lettera, sembrerebbe contrapporre lo iudicare allo iubere, sicché questo verso dovrebbe significare: o ti comporti come uno iudex, e allora acquisisci gli elementi di conoscenza (che vorrebbe anche dire: stai a sentire cosa ho da dirti); se invece ti comporti come un re, impartisci i tuoi ordini senza altro indugio. Ma mi sembra grossolano attribuire a questo testo il senso di una secca dicotomia, di una contrapposizione antinomica. Medea, certamente qui intende porre Creonte dinnanzi alle sue contraddizioni, che consistono nella sua reale intenzione di bandire Medea da Corinto per proteggere la propria figlia, data in sposa a Giasone — che, peraltro, è sposo di Medea —  dalle possibili rappresaglie di una donna che da Creonte riceve un atroce tradimento, ma che, al contempo, è temibile in quanto dotata di poteri magici e segnata dalla fama di essere spietata. In realtà, Creonte vuol far passare il bando da Corinto per atto di giustizia, quando la sua verace intenzione è quella di liberarsi di un incomodo, qual è Medea, per perseguire le sue trame con Giasone[25], senza peraltro subire le conseguenze derivanti da una reazione dell’eroina tradita. In altre parole, il bando non è la giusta punizione per un delitto commesso, ma serve a prevenire un maleficio possibile, anzi probabile, data la pessima fama che grava sull’eroina (vv. 179-191), conseguenza dell’ingiustizia che questa subisce e della quale Creonte è l’autore. Sicché, non si può escludere, e, anzi, si deve presumere che il v. 194, più che una contrapposizione strenua tra due contegni alternativi, contenga il richiamo di Medea rivolto al re all’esercizio corretto di una funzione, quella di re, appunto, nella duplice articolazione di iudicarecognoscere e di regnareiubere in relazione consecutiva[26].

Dalla concatenazione di tali sententiae, dunque, e dall’intero contesto si evince che l’argomentazione di Medea è indirizzata a ricordare al re che il potere precettivo, lo iubere, che segue allo iudicare in tanto è esercitato correttamente dal re in quanto egli abbia una corretta cognizione della questione —in quanto abbia una corretta cognitio della causa, si potrebbe dire, ricorrendo alla terminologia processuale romana. Ha dunque senso che Creonte, per tutta risposta, rammenti a Medea che l’osservanza dell’imperium regis non è subordinata alla condizione del suo essere aequus (v. 195): Aequum atque iniquum regis imperium feras: aequus o iniquus che sia, all’ordine del re si deve soggiacere; del resto, Creonte poco sopra aveva affermato che era ora che Medea imparasse a sottostare ai precetti del re: regium imperium pati/aliquando discat (v. 189 s).

Né l’obiezione di Medea, secondo la quale i regni che si reggono sull’iniquità non durano in eterno (v. 196) — iniqua numquam regna perpetua manent —, turba Creonte, il quale, anzi, la invita seccamente ad andare a lamentarsi dai Colchi (v. 197) — I, quaerere Colchis —; al che Medea ribatte (v. 197): ci torno, sì, nella Colchide, ma mi ci deve condurre chi da lì mi ha portato via — Redeo: qui auexit, ferat — vale a dire Giasone: e questo è un punto sul quale Medea insisterà nella perorazione della sua difesa (infra, vv. 272-280).

Dopo questo secco, rapido, quasi rabbioso scambio di battute, il testo torna ad un tenore d’indole formale, reso da una lingua mirabile, ad un tempo stringatissima, che, tuttavia, è connotata da un notevole tecnicismo giuridico. Creonte, infatti, non trova altro di meglio da contestare a Medea se non che è decaduta dal diritto di opporsi al bando per decorso del tempo (v. 198) — Vox constituto sera decreto uenit. Medea, tuttavia, non respinge il terreno formale sul quale è trasceso Creonte, ma eccepisce a sua volta, per così dire, un vizio procedurale radicale (vv. 199-200): il bando è stato deliberato senza contraddittorio, e chi decide inaudita altera parte, per quanto possa aver deciso ciò che è aequum, non è stato aequus.

A questo punto Creonte, dopo aver rammentato a Medea che nemmeno lei ha previamente ascoltato le ragioni di Pelia prima di infliggergli il supplizio, tuttavia le concede di esporre le sue ragioni, con accenti ancora una volta sarcastici (vv. 201-202)[27].

Non interessa qui proseguire l’esposizione della contesa tra Medea e Creonte: basterà dire che l’eroina esporrà le proprie ragioni, ma, ovviamente, invano, ché Creonte, come sappiamo, rimane irremovibile, limitandosi a concedere a Medea solo la proroga di un giorno.

Ciò premesso, si può concentrare l’attenzione sui vv. 199-200, ricordando preliminarmente che si tratta di una delle testimonianze più antiche e più interessanti del canone del contraddittorio, sul quale qui si sta indagando[28]: testimonianza certamente arcinota, ma tuttavia bisognosa di ulteriore analisi. Ecco il distico (vv. 199-200):

Qui statuit aliquid parte inaudita altera,

aequum licet statuerit, haud aequus fuit.

Dico preliminarmente che Medea, opponendosi all’ordine di Creonte che le ingiunge l’esilio, non eccepisce la violazione di un precetto positivo. Ella postula una questione di dialettica procedurale: la necessità, per chi deve decidere, di acquisire previamente la conoscenza delle ragioni di tutte le parti in conflitto. Medea non postula, dunque, la violazione della sua facoltà di difendersi, ma una necessità d’indole oggettiva che grava su Creonte, in quanto autore della decisione; la mancata soddisfazione di tale necessità vizia la decisione. Del resto, poco prima (v. 194), ricordo che la stessa Medea aveva richiamato il re ad un contegno coerente con le funzioni di cui è investito: Si iudicas, cognosce, si regnas, iube.

5. Analizziamo, tuttavia, il distico dei vv. 199-200.

Come si sarà notato, sopra ho reso il tenore dei due versi così: chi decide inaudita altera parte, per quanto il contenuto della decisione possa essere ciò che è aequum — per quanto ciò che ha deciso sia aequum —, non è stato aequus; in particolare, ho evitato di tradurre il vocabolo aequus, nelle sue articolazioni, nelle quali è usato nella tragedia: più precisamente sottolineo che non ho ritenuto corretto tradurre aequum e, rispettivamente, aequus con “giusto”. Certamente, non è questo il luogo per un’analisi differenziale di iustus e di aequus ovvero di iustitia e aequitas; sebbene i rispettivi significati tendono a convergere — si pensi all’endiadi «iustitiae aequitatisque» di C.3,1,8, ma ampiamente diffusa nella compilazione e, in genere, nelle fonti — iustitia e aequitas evidentemente non coincidono, né mi sembra corretto considerarli sinonimi[29]. Invero, è sull’aequitas che sembra insistere Seneca e, di fatto, non è sulla conformità alla giustizia della statuizione, ciò su cui Seneca/Medea vogliono attrarre l’attenzione, ma sulla sua conformità ad aequitas, vista da un punto di vista del contenuto della decisione — aequum — e poi dal punto di vista del procedimento, o, meglio, del contegno dell’autore della decisione — aequus. E, che si tratti di autentica questione di principio, quella qui enunciata da Seneca per bocca di Medea, risulta dalla prosecuzione della vicenda, perché quantunque Creonte conceda a Medea di esporre le proprie ragioni — quantunque, dunque, accetti di audire partem alteram — nulla di sostanziale scaturisce da questo accoglimento del re all’eccezione di Medea: come ho già accennato, l’eroina perorerà la sua causa, ma non ne riceverà alcun vantaggio, salvo quello di veder rimandata l’esecuzione del bando di un sol giorno.

In particolare, è necessario precisare che il vocabolo aequum del primo emistichio del v. 200 non è un aggettivo, ma un sostantivo neutro, e si può rendere con “ciò che è equo”; invece, l’aequus del secondo emistichio è predicato nominale di chi ha statuito — qui statuit — e deriva dall’aggettivo aequus; questo secondo emistichio, dunque, si può rendere con: “non si è comportato in modo conforme all’essere equo”, o, forse meglio, “non si è comportato in modo conforme ad equità”, quell’equità che deve essere osservata nel procedimento decisorio. In altre parole, quantunque riferito al soggetto che decide, quell’aequus attiene ad un connotato oggettivo del suo contegno, ossia la conformità al corretto e razionale procedimento.

Qual è, dunque, il senso del distico che sto commentando? In primo luogo, guardando al testo in questione in modo analitico, si può dire che qui Seneca scinde la qualità del contenuto della decisione presa parte inaudita altera — l’aliquid aequum —, che può anche essere appunto corretto[30], dal contegno del suo autore — haud aequus fuit —, contegno che è apparentemente inerente all’autore della decisione, ma concerne la decisione nel suo connotato funzionale, nel senso secondo il quale l’aequus esse imprime al procedimento della decisione la razionalità che deriva dalla conformità all’aequitas. Medea eccepisce la necessità del rispetto di ciò che le è dovuto — audiatur sua pars, si potrebbe dire parafrasando —, in ottemperanza non di un precetto giuridico, come ho già osservato, ma perché l’autore della statuizione dovrebbe decidere in conformità alla recta ratio; l’audire previamente la pars altera è decidere secundum rationem. Con maggiore precisione si deve dire che qui non entra in gioco né un elemento volontaristico, né un atteggiamento soggettivo: aequus esse chiama in causa il procedimento e la sua funzionalità obiettiva alla razionalità della decisione. In certo senso, qui Medea prosegue il discorso intrapreso con il precedente v. 194, dove aveva invitato Creonte a cognosceresi iudicas, cognosce —, prima di iuberesi regnas, iube —, o, in altre parole, a cognoscere per iudicare e solo dopo procedere con lo iubere, secondo l’interpretazione che ho sopra proposto. Audire et partem alteram realizza quel cognoscere che è necessario prima di iudicare e, di conseguenza, esercitare le potestà di governo con lo iubere: un altro modo per dire che è aequus colui che, dovendo decidere rispetta il procedimento in tutti i suoi passaggi, senza di che è lecito dubitare che la decisione sia secundum rationem.

Insomma, guardando le cose in modo più ampio, si può dire che il richiamo al rispetto del contraddittorio che Seneca pronuncia per bocca di Medea con questo distico dei vv. 199-200 mette in risalto quanto sia necessario che il decidere sia proceduralmente guidato dalla ratio, e che passi per la conoscenza delle cose, in funzione della consapevolezza di ciò di cui il decidere consiste, avuto riguardo al genus causarum, che può consistere o nel deliberare, o nel dimostrare, o nel giudicare[31]. Inoltre, questo connotato procedurale ha valore per sé.

È qui che prende consistenza il rilievo funzionale che concerne l’autore della decisione e il suo proprio contegno: infatti, audire et partem alteram, sebbene non precostituisca la garanzia assoluta della correttezza della decisione, la quale può essere tale anche in assenza del contraddittorio, è tuttavia sintomo del contegno psicologico e, dunque, pratico del suo autore[32]; il che può avvenire solo dopo aver acquisito una conoscenza soddisfacente dell’intera questione che non si può conseguire senza aver ascoltato entrambe le parti in gioco.

Non è dunque la giustizia della decisione, quella che è messa in discussione, se per iustitia — e, appunto giustizia — s’intende la conformità al diritto e, segnatamente, al diritto positivo, ossia ad una norma statuita; se Seneca qui si riferisce all’essere aequus dell’autore della decisione, nella fattispecie Creonte, e insiste nel considerare ciò che è conforme a aequitas e non ciò che è conforme a iustitia, con una precisione, ma anche con una insistenza che sembra avere indole terminologica, giustapponendo l’aequum all’aequus, è perché intende sottolineare che la tutela del contraddittorio attiene ad un corretto e razionale svolgimento di una controversia, in virtù del quale chi ha delle ragioni da esporre e difendere sia messo nelle condizioni di poterlo fare: solo dopo di ciò è aequus deliberare.

La giustapposizione aequum/aequus, anche con riferimento alla iustitia sarà ripresa, non sorprendentemente, qualche secolo dopo, nella Scuola di Bologna: il Piacentino e poi Azzone sosterranno che aequitas uertitur in rebus, id est in dictis et factis hominum, iustitia autem quiescit in mentibus iustorum: inde est quod, si proprie uelimus loqui, dicimus aequum iudicium, non iustum[33].

Del resto, Cicerone, Topica 4,23, assegna all’aequitas la funzione, in base alla quale quae paribus in causis paria iura desiderat[34]; invero, poche righe sopra questo stesso testo specifica che quod in re pari ualet, ualeat in hac quae par est. Ora, applicando il criterio che risulta da queste sentenze alle modalità di svolgimento di una controversia, non è difficile vedere che se una delle parti — poniamo l’accusatore (qui Creonte) — ha facoltà di esporre i termini dell’accusa, sulla base dei quali  giustificare la decisione punitiva, non sarebbe aequus che l’altra parte — quella che l’accusa riceve e deve subire la sanzione (qui Medea) — non potesse esporre le sue ragioni; la soppressione di questa facoltà è (sarebbe), prima di ogni altra considerazione, irrazionale, in quanto è irrazionale che una delle parti di una controversia si trovi in situazione di svantaggio rispetto all’altra, o viceversa. In questo caso, ciò in cui consiste la controversia[35], ciò che la connota, ovvero, come subito vedremo, la sua dignitas esige che le decisioni siano prese in condizioni di parità — paribus in causis —, e dunque, sul piano operativo, audita et altera parte. Da tali considerazioni si conferma quel che ho già rilevato sopra, riguardo al rapporto tra il canone audiatur et altera pars e diritto di difesa. Quest’ultimo, infatti, come già rilevato, è solo uno degli aspetti della necessità che ogni pars della controuersia sia ascoltata, necessità che, semmai, per la sua funzionalità nei confronti della parità delle partes nella controuersia, ne tutela e ne garantisce, come abbiamo visto, la razionalità anche perché ne tutela l’aequitas.

Questa complessiva visione delle cose risulta coerente con quella definizione di iustitia dettata dalla Rhetorica ad Herennium[36]Iustitia est aequitas ius unicuique rei tribuens pro dignitate cuiusque —, nella quale all’aequitas è attribuita appunto una funzione di razionalità avuto riguardo alla dignitas delle res[37], di ciascuna delle res oggetto di disciplina giuridica — qui la controuersia —, sicché la iustitia assume, secondo il Corbino, la configurazione di un contegno «operativo», tale da attuare «equità attraverso l’attribuzione di una disciplina giuridica a ciascuna res, attenta alla considerazione oggettiva (alla quale allude l’uso di dignitas, espressione che rimanda senza dubbio alla connotazione di cose e persone, quale resa percepibile dalla relativa considerazione sociale delle stesse)» [38], che la riguarda, e dunque pro dignitate cuiusque. In altre parole, una disciplina giuridica che ha riguardo al rilievo e alla qualità propria di ciascuna res, ovvero al rilievo di ciò che è conforme alla qualità intrinseca di ciascuna res e alla sua struttura giuridica, ossia al rilievo di ciascun affare così come questo è socialmente considerato e giuridicamente disciplinato[39].

6.È interessante notare che questa considerazione della tutela del contraddittorio, espressa nella formula dell’audire et alteram partem — e, correlativamente, del divieto di decidere inaudita altera parte — compare, anche questa volta denunciandone la violazione, in un altro testo di Seneca. Nell’Apocolocyntosis Diui Claudii[40] il giudice Aeacus, il cui tribunale ha sede negli Inferi, e dinnanzi al quale il defunto Diuus Claudius è stato appunto deferito per rispondere, alla stregua alla lex Cornelia de sicariis, dei misfatti compiuti in vita (avendo fatto uccidere trentacinque senatori e duecentoventuno cavalieri), non solo non concede a P. Petronius, unico difensore disposto a patrocinare per l’imperatore, i termini a difesa, ma, questo stesso Èaco, homo iustissimus — secondo la sarcastica qualifica affibbiatagli da Seneca — non esita a pronunciare la condanna di Claudio, avendo ascoltato le imputazioni che l’accusatore Pedo Pompeius ha formulato con grande clamore, ma senza ascoltare le ragioni dell’imputato: altera tantum parte audita, condemnat[41].

Del resto, l’imperatore è assoggettato da Seneca ad un autentico contrappasso; infatti, la persistente violazione del contraddittorio era stata perpetrata dal diuus Claudius stesso, durante l’esercizio dei suoi poteri in vita, come è denunciato nell’inno recitato durante la cerimonia funebre dell’imperatore, il quale, osserva il poeta, ut uidit funus suum, intellexit se mortuum esse[42], compiacendosi, tuttavia, della celebrazione delle esequie; nell’inno in anapesti, intonato, per così dire, in sua apoteosi, tra le virtù del princeps, tra l’altro è detto[43]:

Deflete uirum, quo non alius
potuit citius discere causas,
una tantum parte audita,
saepe et ne utra. Quis nunc iudex
toto lites audiet anno?

Seneca evidentemente annette alla questione una notevole rilevanza, visto che, con atroce sarcasmo, a carico del giudice che presiede il tribunale competente per l’applicazione a Claudio della Lex Cornelia de sicariis è detto: Èaco è homo iustissimus per il suo intero contegno: in primo luogo per il tenore della decisione — l’imperatore deve subire lo stesso trattamento che ha inflitto agli altri —, il che fa sì che la decisione lasci tutti stupefatti per la sua originalità[44]; ma, in secondo luogo, Èaco è iustissimus anche, e non secondariamente, perché conduce il dibattimento in modo altrettanto sorprendente, non permettendo alcuna difesa dell’imputato, nemmeno quella consistente nell’esporre le proprie ragioni. Il fatto che Seneca si soffermi con una certa insistenza su questo particolare d’indole processuale, qualificandolo come inusitato, dimostra che l’audire et alteram partem e dunque, in negativo, l’audire tantum unam partem costituisce non un dettaglio processualmente trascurabile, meramente formalistico, ma un punto cruciale, un indice della qualità del contegno del giudicante[45]. Ed è certamente interessante sottolineare come egli consideri, sia pure con ironia, che condannare qualcuno senza nemmeno ascoltarlo sia sorprendente se non, addirittura inusitato.

 

7.Alle testimonianze di Medea e dell’Apocolocintosi è interessante e concludente aggiungere quella di Edipo nell’eponima tragedia sempre di Seneca[46]. Qui, durante il dialogo, nel quale Creonte (di Tebe, questa volta) riferisce ad Edipo quel che è stato rivelato dall’ombra di Laio interrogato da Tiresia, rivelazione che lo induce a rinunciare al regno, dinnanzi al dubbio avanzato da Edipo sulla sua lealtà, Creonte obietta[47]: dovrei essere giudicato colpevole (nocens) senza processo (incognita causa)? cui Edipo risponde lamentando, per parte sua, di non aver potuto dare conto della sua propria vita e, soprattutto, del fatto che da parte di Tiresia non sia stata audita la propria causa di Edipo — nostra — e nondimeno egli appare come colpevole[48].

Nell’Edipo, dunque, come nell’Apocolocintosi, e soprattutto nella Medea, Seneca intarsia il testo tragico di parole giuridiche[49], e, occorre osservare, parole giuridiche molto appropriate e competenti: quel causa incognita di Creonte, per esempio, vale come dire: senza processo, e dunque senza che abbia potuto far ascoltare le mie ragioni. Quel che Seneca fa dire a Edipo non è meno pregnante e terminologicamente preciso: le locuzioni reddere rationem e soprattutto audire causam nostram riporta, come nella Medea e nell’Apocolocintosi, alla fenomenologia di un giudizio, cui, tra l’altro, segue una condanna — sontes uidemur —, senza che sia stata audita la pars che subisce l’accusa e quel che essa ha da dire, ossia la sua causa, secondo la terminologia retorica: per Cicerone, infatti, la causa è una res quae habeat in se controuersiam in dicendo positam, cum personarum certarum interpositione[50]. Obliterare la considerazione della causa da parte di un giudice vuol dire obliterare il contraddittorio. Ma obliterare il contraddittorio significa eliminare la controuersia come luogo del confronto tra eguali, strumentale alla decisione razionale e adeguata alla realtà delle cose relativa ad una questione civile. Non si tratta di sviluppare la propria difesa —ovvero, anche di questo si tratta—, ma si tratta di creare le condizioni necessarie e sufficienti per il giudicante affinché possa decidere in modo razionale, conforme all’aequitas.

In Medea, soprattutto, come si è ampiamente visto sopra, Seneca dichiara espressamente che la soppressione del contraddittorio si traduce nella violazione dell’equità in quanto l’autore della decisione non ha rispettato l’aequitas del procedimento — haud aequus fuit —, e trasforma la decisione in un atto arbitrario, espressione forse del potere regio, e dunque nello iussus regio, ma tale da dispiegarsi impotens, senza ritegno, sfrenato. Non è in questione il merito di questo atto d’impero, che può forse anche essere aequum; in questione è l’esercizio di questo potere, che si esplica disordinatamente, smoderatamente e senza freni, ma che è anche sintomo di stupidità, com’è stupido il diuus Claudius che, imbattendosi nel corteo funebre che lo riguarda, ne desume di essere morto e tuttavia si compiace della sua apoteosi, anche se sarcasticamente vi si celebra senza pietà il modo arbitrario con il quale egli amministrava la giustizia in vita (del quale, peraltro è vittima lo stesso Claudio per opera di Èaco). Di questa sfrenatezza disordinata Seneca dà una rappresentazione che per essere ridicola non è meno atroce: il diuus Claudius e il giudice Aeacus che meritatamente lo condanna appartengono ad uno stesso ordine di cose, il processo stesso si svolge in mezzo alla gazzarra generale, in mezzo a incontrollabili clamori; tutto quel che concerne l’imperatore defunto e il contorno appare come espressione di stupidità e di mancanza di misura, di smoderatezza, di quell’impotentia alla quale soggiace Creonte agli occhi di Medea, il matrimonio della quale egli osa sciogliere per un interesse privato, un fine patentemente iniquo — non aequus.

Il contraddittorio, dunque, attiene all’ordo dello iudicare, o, forse, meglio, appartiene allo iudicare e, in generale, al deliberare come ordo, come razionale svolgersi della contrapposizione dialettica di due posizioni in conflitto dinnanzi al giudicante, ovvero all’autore della decisione, al fine della sua formulazione; la sua soppressione è per se perturbativa di questo ordine, lo sovverte e getta una luce ambigua sull’autore della decisione: per esempio, non possiamo essere certi del fatto che questi sia propenso a tribuere unicuique suum alle rispettive parti in contesa perché subisce un deficit di conoscenza che di per sé è ostativo al formarsi del giudizio.

8.Ci sono interazioni tra testi drammaturgici classici così sensibili ai contenuti della retorica, ma anche del diritto, quali sono quelli di Seneca fin qui visti, e, appunto, i testi giuridici della tarda antichità? e, intendo, interazioni quanto al modo con il quale è configurato e composto il testo giuridico tardoantico, per stare al tema del nostro convegno? In altre parole, ci sono testimonianze che pervengano fino all’età tardoantica che rispecchino questa visione delle cose quanto alla persistenza del canone audiatur et altera pars, che siano testimonianza del principio di vita civile, secondo il quale qualsiasi decisione, e segnatamente quelle di natura giudiziaria, devono essere prese previo l’ascolto delle partes coinvolte? il che vale a dire che devono essere prese nel contraddittorio delle parti?

È, ovviamente, un campo da arare, un abbastanza consistente oggetto di ricerca, questo, e qui posso dire di essermi limitato ad iniziare a dissodarlo; ma qualche indizio presumo di averlo individuato; si tratta di testimonianze, che mi sembra opportuno non sottovalutare e che la loro qualità giustifica ulteriori indagini.

Un frammento di Marciano (II-III sec.; età dei Severi) tratto dal liber secundus publicorum e raccolto nel Digesto[51] mi sembra degno di essere segnalato qui a corollario del lungo esame di una parte delle opere di Seneca.

Recita D. 48,17,1 pr.,:

Divi Severi et Antonini magni rescriptum est, ne quis absens puniatur: et hoc iure utimur, ne absentes damnentur: neque enim inaudita causa quemquam damnari aequitatis ratio patitur.

Il titolo è De requirendis uel absentibus damnandis, quindi, sostanzialmente, una sedes materiae. La struttura del frammento è tale da meritare per sé un’analisi compiuta che qui si può solo iniziare ad abbozzare. Il precetto imperiale, attribuito al diuus Seuerus e ad Antoninus magnus formulato in un rescritto — se ne denuncia così l’occasione giudiziaria — è perentorio, e ordina che non sia irrogata la pena a colui che aveva presumibilmente invocato l’intervento del princeps sul proprio caso, poiché, in quanto assente evidentemente non aveva potuto essere ascoltato. Marciano trae da ciò una norma — ius —, secondo la quale nei confronti di coloro che non sono presenti in giudizio non si può pronunciare una condanna[52]— e si noti che dal singolare del caso dedotto nel rescritto si passa al plurale dello ius, quo utimur —; Marciano, tuttavia, compie un passo ulteriore, perché enuncia il fondamento di questa norma e la identifica nell’aequitas: condannare qualcuno senza ascoltare, nella forma e con le modalità proprie di un procedimento, le sue ragioni — causa — viola l’aequitas; ovvero, per usare le parole del giureconsulto: la ratio aequitatis non sopporta che qualcuno sia condannato senza che si siano ascoltate le sue ragioni — inaudita causa. Questa impostazione di Marciano, col rinvio esplicito all’aequitas e alla ratio, supera la contingenza propria di un caso dedotto dinnanzi al princeps, che ha dato origine al rescritto, per proiettare il precetto contenuto nel provvedimento imperiale relativo al caso dedotto sul piano non tanto dei principi positivi, ma di quelli propri della convivenza civile.

Marciano, tuttavia, compie un’operazione interpretativa ulteriore, che, partendo dal precetto imperiale — ne quis absens puniatur —, ne trae lo ius quo utimur che quel precetto sorregge — hoc iure utimur —: questo ius è identificato tramite la formula ne absentes damnentur; Marciano, però, non si accontenta di questo risultato, ma si pone alla ricerca di una disciplina di respiro più generale portando alle sue conseguenze il precetto imperiale visto come applicazione dello ius quo utimur e perviene a indicarne il fondamento razionale, che identifica nell’aequitas; in tal modo può superare la fattispecie relativamente contingente dell’absens — quella espressamente prevista dal rescritto —,  facendola diventare una delle ipotesi di una norma più generale che scaturisce dall’operatività della ratio aequitatis. In altre parole, in tanto il precetto ne quis absens puniatur si regge, in quanto è specificazione di uno ius di uso comune che si può enunciare così: ne absentes damnentur, in tal modo il punire imperiale è configurato come specificazione del damnare che scaturisce dallo ius quo utimur in quanto il precetto imperiale ne è a sua volta appunto specificazione; ma in tanto questo è vero in quanto esiste una ratio aequitatis che può essere enunciata con la locuzione ne quisquam damnetur inaudita causa, con superamento della absentia. In conseguenza di questo superamento si perviene a enunciare una norma che ricomprenda tutti i casi in cui la damnatio avvenga nei confronti di coloro, dei quali, indipendentemente dalla absentia — quindi anche se presenti —, non è stata ascoltata la causa; secondo questa norma damnare inaudita causa confligge con la ratio aequitatis e dunque è vietato[53].

Non sfuggirà il parallelismo tra l’argomentazione di Marciano e quella che Seneca fa pronunciare a Medea che, come ho mostrato sopra, ricorda a Creonte che haud aequus fuit colui che statuit aliquid parte inaudita altera; e ho sottolineato come nella tragedia l’aequitas evocata sia stata violata nella modalità della decisione, tale che il procedimento ne risulta viziato, fatto salvo il suo contenuto; il che presenta  caratteri di analogia con il damnari quemquam inaudita causa, poiché per entrambe le ipotesi ci troviamo in ambiente per così dire procedurale, se non proprio giudiziario (non è formalmente giudiziario in Seneca, anche se lo sguardo del poeta ad un giudizio è rivolto).

Ma non sfuggirà nemmeno la terminologia retorica che caratterizza sia i versi di Seneca sopra ampiamente commentati, sia il testo di Marciano, con il richiamo della causa che evidentemente ha il significato che troviamo nel De inuentione di Cicerone[54] e nelle Institutiones oratoriae di Quintiliano[55]. In particolare, nell’affinità terminologica che innerva le parole di Marciano e quelle di Seneca, che troviamo distribuite nelle opere che ho preso in considerazione — aequitas, audire, causa, pars — consiste il tessuto connettivo dei testi qui messi a confronto, che ci permette di riconoscere la loro appartenenza ad una stessa esperienza civile; questa sta alla base dell’esperienza giuridica, della quale tali testi sono espressione, in quanto costituisce quell’esperienza comune, della quale, secondo l’insegnamento del Capograssi, l’esperienza giuridica è specificazione, ma senza la quale questa si condanna all’indeterminatezza[56].

Certo, Marciano non è tardoantico, però tardoantico è il Digesto nel quale il frammento è collocato dai giustinianei, i quali — al netto di possibili interpolazioni che però non sembrano risultare —, evidentemente si sono riconosciuti non solo nel precetto sancito con D. 48,17,1 pr., ma anche nei principi che lo innervano e che nel passo di Marciano sono richiamati, veicolati da un tessuto terminologico molto preciso, di evidente matrice retorica.

Una raccolta assai in voga in età tardoantica, anche se imputata ad un giurista classico, quali sono le Sententiae di Paolo reca questa icastica preclusione a carico di decisioni pronunciate altera parte absente[57]:

Ea, quae altera parte absente decernuntur, uim rerum iudicatarum non obtinent.

Su tutt’altro versante, che ricolloca il canone audiatur et altera pars tra i principi propri della vita civile prima ancora che tra quelli relativi all’attività processuale, è la testimonianza di Agostino d’Ippona, che sembra alludere al canone in questione quando intende giustapporre due argomenti diversi e in parte contraddittori[58].

Il fatto che quelle parole — Audi partem alteram — siano usate per così dire discorsivamente non è sufficiente per sottovalutarne il tessuto terminologico, all’interno del quale è certamente rivelatore la comparsa del termine pars; del resto, sulla raffinata formazione del Padre della Chiesa non c’è bisogno d’insistere.

9.Alcune considerazioni per concludere.

In primo luogo, riconosco che manca un’indagine sul materiale proveniente dal Codice che dei testi tardoantichi è evidentemente una delle fonti imprescindibili. Sicché sotto questo aspetto, il discorso qui svolto è certamente incompleto.

In secondo luogo, è forse opportuno notare che il canone audiatur et altera pars, per la verità, trova preferibilmente espressione nelle fonti nella sua forma negativa del divieto di decidere inaudita altera partedamnare inaudita causa, recita il passo di Marciano di D. 48,17,1 pr. È una notazione da mettere da parte, bisognosa com’è d’indagine e approfondimento specifici sia da un punto di vista delle occorrenze testuali, sia, se dal punto di vista delle possibili ipotesi che si possano formulare in ordine a ciò di cui questa notazione potrebbe essere testimonianza.

Infine, da quanto si è venuto dicendo fin qui risulta evidente che il nesso tra la ratio e l’aequitas, del quale Seneca è strenuo testimone[59], è indissolubile e bisognoso di ulteriore analisi; per questo, mi sembra opportuno richiamare le parole che il filosofo stoico deposita nel De ira[60]:

Ratio id iudicare uult quod aequum est: ira id aequum uideri uult quod iudicauit.

Sebbene non specificamente riferite al tema del contraddittorio, la riflessione di Seneca risulta stabilmente ancorata al binomio aequitas—ratio proprio con specifico riferimento allo iudicare, ovviamente inteso nel senso, diffuso tra gli stoici, di existimare, putare, aestimare[61], quindi valutare.

[1] G. Crifò, Introduzione a Th. Viehweg, Topik und Jurisprudenz, München, 1953, ed. it a cura di G. Crifò, Topica e giurisprudenza, Milano, 1962, VII. L’opera dello Stroux, cui il Crifò allude è J. Stroux, Summum ius summa iniuria. Ein Kapitel aus der Geschichte der Interpretatio iuris, in Festschrift Speiser-Sarasin, Leipzig-Berlin, 1926, trad. it. di G. Funaioli, con pref. di S. Riccobono, in Annali dell’Università di Palermo, 12, 1929, 647-691), cit. alla nota 1 di p. VII insieme con altra bibliografia dello stesso autore.

[2] G. Capograssi, Analisi dell’esperienza comune [1930], in Opere, II, Milano, 1959, 1-207.

[3] G. Crifò, Introduzione cit., IX.

[4] A. Giuliani, Il concetto di prova. Contributo alla logica giuridica, Milano, 1961.

[5] Relativamente alla quale, nella sua specifica rilevanza retorica, v. A. Giuliani, La controversia. Contributo alla logica giuridica, Pavia, 1966; in cosa consista la controversia, nella sua rilevanza giudiziale, il G., anticipando i risultati dell’indagine, ma circoscrivendone l’ambito, propone questa risposta (p. 83): «la controversia giudiziale — intesa come modello dei problemi pratici — appartiene al dominio della temporalità e della qualità. Non pare possibile ‘definire’ la controversia, perché la nozione stessa è controversa. Essa è piuttosto una ‘situazione’ che un problema: il risultato di una combinazione di atti, di opposizioni, di giudizi che rendono tale problema estremamente complesso e dinamico» (corsivi nel testo).

[6] G. Crifò, Introduzione, cit., XIV circa la struttura della giurisprudenza che «può essere determinata  unicamente dal problema»; quest’ultimo può essere ricondotto al problema della giustizia, intesa, questa, secondo quanto specificato a p. XXIII, come «valore strutturalmente efficiente», che tuttavia non mi sembra «non costituisca un interesse programmatico del giurista, ma è centro dell’interesse del filosofo del diritto» (p. XXIII); forse si può dire almeno che quello della giustizia è un valore anche per il giurista; ma è discorso da riprendere in luogo opportuno. V. anche XIX e nota. 2.

[7] G. Crifò, Introduzione, cit., XI. Ciò è perfettamente coerente con l’essere la topica, che del ragionamento retorico è elemento cardinale, «tecnica della discussione».

[8] G. Crifò, Introduzione, cit., XIV, dove è sottolineato che «problema perenne della giurisprudenza […] è quello della giustizia. Ma questo vuol dire che la giurisprudenza è orientata problematicamente».

[9] G. Crifò, Introduzione, cit., XII.

[10] D. Liebs, Lateinische Rechtsregeln und Rechtssprichwörter, München, 1983, 32, nota. 106.

[11] V., per esempio, M. Manzin, Del contraddittorio come principio e come metodo, in Aa. Vv. Audiatur et altera pars. Il contraddittorio fra principio e regola, a cura di M. Manzin e F. Puppo, Torino, 2008, 3-21, rist. come cap. sesto sotto il titolo Audiatur et altera pars in M. Manzin, Argomentazione giuridica e retorica forense. Dieci riletture sul ragionamento processuale, Torino, 2014, 109-122; o, per un ulteriore esempio, F. Longchamps de Bérier, Audiatur et altera pars. Eine fehlende Säuleninschrift am Warschauer Justizpalast und die Bedeutung der Parömie im polnischen Recht, in Aa. Vv., Inter cives necnon peregrinos. Essays in honour of Boudewijn Sirks, Göttingen, 2014, 429-442; in part. 433 s. dove, relativamente all’origine romana della paremia in questione, il Longchamps richiama il frammento del Digesto — D. 48,17,1 pr. —, per il quale v. qui infra. Analoghe considerazioni nel ricco e interessante saggio di A. Bonandini, Inaudita parte altera. Il giudizio in assenza dell’imputato da prassi giuridica a strumento retorico, in Athenaeum. Studi periodici di letteratura e storia dell’antichità, 102/1, 2014, 79-103, spec. 79 s.; questo saggio, tuttavia, da un canto impernia il canone in questione nel diritto di difesa; d’altro canto, si concentra sul problema dell’absentia del reus e, di conseguenza, sul problema della contumacia. Naturalmente sia il diritto di difesa sia la absentia nel processo sono rilevanti per il canone in questione, ma non vi si esauriscono; in realtà la sua ascendenza retorica e la sua connessione organica con la controuersia come forma civile di regolazione del conflitto d’interessi retoricamente configurato e impostato, come modo d’essere della vita sociale e, dunque, dell’esperienza giuridica ne fanno un prius rispetto alle sue applicazioni istituzionali nel diritto di difesa e nella problematica dell’absentia. Per questo è opportuno osservare che il vettore scelto da parte della storiografia dal diritto alla retorica andrebbe diametralmente invertito.

[12] alla quale accenna F. Longchamps de Bérier, Audiatur et altera pars, cit., 432, attribuendo questa opinione a Witold Wołodkiewicz.

[13] V. supra, nota 9 e il relativo testo.

[14] E davvero non si vede in che misura possa essere rilevante stabilire se si tratta del processo penale o anche civile; cfr. A. Wacke, ‘Audiatur et altera pars’. Zum rechtlichen Gehör im römischen Zivil- und Strafprozeß, in M. J. Schermaier, Z. Végh, Festschrift für Wolfgang Waldstein zum 65. Geburstag, Stuttgart, 1993, 369-399; v. anche F. Longchamps de Bérier, Audiatur et altera pars, cit., 437-438.

[15] Per questo non mi sembra persuasivo identificare, tra le testimonianze extragiuridiche, o extraromanistiche del canone audiatur et altera pars il passo di Act. Apost. 25,16 che, secondo la tesi del F. Longchamps de Bérier, Audiatur et altera pars, cit., 435-438, sarebbe una delle testimonianze più antiche del canone; e non perché i testi evangelici non siano idonei a fornire testimonianze attendibili di norme o di principi del diritto romano, ma perché il testo neotestamentario in questione è tutto polarizzato appunto sul diritto di difesa dell’apostolo Paolo, come letteralmente rivela il testo in questione: « […] quia non est consuetudo Romanis donare aliquem hominem, priusquam is, qui accusatur, praesentes habeat accusatores locumque defendendi se ab accusatione accipiat». Scelgo qui la versione della Noua Vulgata, che, del resto, sembra rispecchiare il testo greco; la Vulgata Clementina, reca «damnare aliquem», che probabilmente si può ritenere lectio facilior, mentre il problema giuridico agitato da Festo è quello della consegna o meno di Paolo al Sinedrio, a fronte della sua richiesta di non essere sottratto alla giurisdizione cesarea; del resto, quel «donare» sembra rispecchiare meglio il testo greco, nel quale si parla di «χαριζέσται».

[16] A. Giuliani, La controversia, cit., 83, che, ricordiamolo, identifica la controuersia come una situazione che consiste nel «risultato di una combinazione di atti, di opposizioni, di giudizi che rendono tale problema [ossia il problema della controversia] estremamente complesso e dinamico».

[17] Il primo dei quali evocato dal F. Longchamps de Bérier, Audiatur et altera pars, cit., 431 s.

[18] Fira, I, Leges, II, Lex XII tabularum, 26.

[19] Cfr. Fira, cit., 26, nota 1.A.

[20] A. Giuliani, La controversia, cit, 113.

[21] A. Giuliani, La controversia, cit., 121 ss. Tuttavia, osserva il Giuliani, 121: «L’esperienza del giudizio rivela un permanente conflitto tra passato e futuro: e la controversia relativa alla interpretazione e alla applicazione della legge partecipa sia della struttura di una controversia valutativa, sia di quella deliberativa. Da un lato, infatti, la difficoltà di rendere presente il passato ci pone di fronte a problemi di giustificazione in cui è impossibile separare ciò che è da ciò che deve essere; dall’altro lato chi giudica non può ignorare le conseguenze della decisione: l’opportunità è un criterio di giudizio. È proprio la presenza confliggente del passato e del futuro che rende complesse le νοmικαί στάσειϛ», vale a dire, appunto, le controversie sull’applicazione della legge.

[22] P. Paré-Rey, Flores et acumina. Les sententiae dans les tragédies de Sénèque, Paris, 2012, 284 (consultato nella versione https://hal.archives-ouvertes.fr/hal-02289498).

[23] Eurip., Med., 294-295, dove è posto l’accento sulle qualità intellettuali «et l’habileté d’une héroïne incomprise»: P. Paré-Rey, Flores et acumina, cit., 284.

[24] Sulla costituzione di un corpus sententiarum del teatro di Seneca, v. P. Paré-Rey, Flores et acumina, cit., in part. quel che dichiara preliminarmente l’A. nella sua Introduction générale (9-12), dove, senza negare il connotato retorico del teatro senechiano, mette in luce la teatralità della funzione gnomica delle sententiae. Lo studio condotto dal Paré-Rey, dunque, è proprio indirizzato a «nourrir et éclaircir le débat sur la question des rapports entre l’œuvre philosophique et l’œuvre théâtrale de Sénèque. En effet, certaines sententiae ont une indéniable teneur politique, morale, ou philosophique. Est-ce à dire qu’elles véhiculent une thèse ou qu’elles instruisent le spectateur?» ( p. 10). E, difatti, l’A. sottolinea la difficoltà a rispondere a questa domanda, in quanto è necessario distinguere due problematiche: quella della creazione e quella della recezione delle sententia, con la precisazione che vi sono sententiae filosofiche e sententiae stoiche, e che, inoltre, è altrettanto necessario «apprécier enfin dans quelle mesure les sententiae ont un sens en dehors de leur contexte originel d’apparition» (p. 10).  Sulla base di queste considerazioni generali, l’A. compone il corpus sententiarum del teatro di Seneca. La nozione di sententia utilizzata dal Paré-Rey è tratta da Quint., Inst. VIII,5,3; sententiae (Flores et acumina, 10 s.)   — gnomas, in greco —; per Quintiliano, così si denominano le sententiae per il fatto di essere similes consiliis aut decretis. La sententia, dunque, specificamente, è uox uniuersalis, quae etiam citra complexum causae possit esse laudabilis, interim ad rem tantum relata […] interim ad personam. V., anche le considerazioni sviluppate alle pp. 10-12, con la conclusione, secondo la quale (p. 12), «Sénèque attribue une grande force aux sentences en vers, dont l’arta necessitas éclaire la pensée. Dès lors, il n’est plus paradoxal de se demander comment les armes que sont les sententiae théâtrales agissent, et comment opère leur charme». Sull’opera del Paré-Rey, v. la lettura critica di G. Flamerie de Lachapelle, Les sententiae dans le théâtre de Sénèque (À propos de: P. Paré-Rey, Flores et acumina. Les sententiae dans les tragédies de Sénèque, Lyon, 2012 […]), in Revue des études anciennes, 115, 1, 2013, 175-182.

[25] Lo sottolineano P. Paré-Rey-C. M. Mauduit, D’un exile l’autre. Espace et temporalité tragique dans la Médée d’Euripide et la Médée de Sénèque, in Bulletin de l’Association Guillaume Budé, 2 (2013), 19-81; v. in part. 19-21.

[26] G. Flamerie de Lachapelle, Les sententiae, cit., 177.

[27] Sen., Medea, vv. 201-202: «Auditus a te Pelia supplicium tulit?/sed fare, causae detur egregiae locus».

[28] Sen., Medea, vv. 199-200; ma v. tutto l’episodio dal v. 179 al v. 251.

[29] A titolo puramente esemplificativo v. la Rhet. ad Her. III, 3: «Iustitia est aequitas ius uni cuique re tribuens pro dignitate cuiusque».

[30] E. Forcellini, Lexicon, I, aequum, 126, col. c, n. 2.

[31] Cfr. Rhet. ad Her., I, 2, nonché II, 1; Cic., De inuentione, 1,8; Quint., Inst. or., 3,8,4; per la materia iudicialis v. ibidem, 3,11.

[32] Contegno consistente nel dare suum unicuique, nulla partium studio commotus, neque legum uerbis obstrictus, sed recta ratione solummodo ductus secondo la sintesi che troviamo sul E. Forcellini, Lexicon, cit., I, aequus, 126, col. c, § 5, che così prosegue: «hinc aequus differt a iusto, ut aequitas a iustitia (V. Lexicon, cit, I, aequitas, II, 3)».

[33] Questo è il passo in questione nella sua interezza: «aequitas uertitur in rebus, id est in dictis et factis hominum, iustitia autem quiescit in mentibus iustorum: inde est quod, si proprie uelimus loqui, dicimus aequum iudicium, non iustum et hominem iustum, non aequum. Abutens tamen his appellationibus dicimus iudicem aequum, iudicium iustum»; v. Placentini Summa Institutionum, I, 1, nonché Azonis Summa Institutionum, n. 7, cit. in E. Cortese, La norma giuridica. Spunti teorici nel diritto comune classico, Milano, 1962-1964, II, 30, e nota 71;  è sempre il Cortese, La norma, cit., 30, a sottolineare che «equi sono i meri fatti, giusto è l’uomo».

[34] Questa concettualizzazione diviene patrimonio della Scuola di Bologna; v. la Summa Trecensis, § 3: «Equitas enim est rerum conuenientia, que cuncta coequiparat et in paribus causis paria iura desiderat»; v. anche. ibidem, la Summa Trecensis, nella quale viene sottolineata la rilevanza soggettiva della iustitia, nella sua qualità di habitus mentis, sicché: «Que [aequitas] et iustitia est ita demum, si ex uoluntate redacta sit: quicquid enim equum, ita demum iustum, si est uoluntarium»; cfr. H. Kantorowicz – W. W. Buckland, Studies in the Glossators of the Roman Law, Cambridge, 1938, rist. anast. Aalen, 1969, 234; v., inoltre, Materia Codicis secundum Irnerium in H. Kantorowicz – W. W. Buckland, Studies, cit., 234. Per un orientamento di massima, v., fra tutti, F. Calasso, Medioevo del diritto, Milano, 1954, spec. 469-502; E. Cortese, La norma giuridica, cit., spec. I, cap. II; II, cap. VI.

[35] V. ancora una volta A. Giuliani, La controversia, cit., spec. 97-130.

[36] Ad C. Herennium libri IV De ratione dicendi, 3, 2, 2-3, p. 162 dell’ed. Loeb.

[37] Sulla dignitas in Cicerone, v. G. Falcone, Ius suum cuique tribuere, in Studi in onore di Remo Martini, I, Milano, 2008, 971 ss., anche negli Annali dell’Università di Palermo, 52, 2007-2008,  135 ss.

[38] A. Corbino, Ius suum cuique tribuere. Osservazioni minime sulla definizione ulpianea di iustitia(D. 1.1.10 pr.-2 e Rhet. ad Her. 3.2.3), in Homenaje al Profesor Armando Torrent, Burgos, 2016, 155-165; v., qui, 164 e note 42, 43, 44.

[39] Aderisco, dunque, alla lettura che il Corbino, Ius suum cuique tribuere, cit., 163-165 propone del passo della Rhetorica ad Herennium con riferimento al significato da attribuire alla parola rei e all’interpretazione complessiva in senso oggettivo che in virtù di questa lettura la sentenza citata acquisisce.

[40] Sen., Diui Claudii Apocolocyntosis, XIV,2 (ed. R. Waltz, Paris, 1934, 16b); v. anche P. Paré-Rey, Flores et acumina, cit., 56, i luoghi paralleli relativi ai vv. 199-200 della Medea.

[41] Sen., Apocol. XIV, 2: «Aduocatum non inuenit. Tandem procedit P. Petronius, uetus conuictor eius, homo claudiana lingua disertus, et postulat aduocationem. Non datur.  Accusat Pedo Pompeius magnis clamoribus. Incipit patronus uelle respondere. Aeacus, homo iustissimus, uetat et illum, altera tantum parte audita, condemnat […]». Sulla descrizione del processo a Claudio v. anche l’esposizione che ne fa A. Bonandini, Inaudita parte altera, cit., 92-94.

[42] Sen., Apocol. XII,2.

[43] Sen., Apocol. XII,3.

[44] Sen., Apocol. XIV, 3: «Ingens silentium factum est. Stupebant omnes, nouitate rei attoniti; negabant hoc unquam factum. Claudio magis iniquum uidebatur quam nouum».

[45] Sen., Apol. XIV, 2-3.

[46] Anche A. Bonandini, Inaudita parte altera, cit., 95 ricorda le occorrenze relative al canone in questione nell’Edipo senechiano.

[47] Sen., Oed. v. 695: «incognita igitur ut nocens causa cadam?».

[48] Sen., Oed. v. 696-698: «num ratio uobis reddita est uitae meae?/ num audita causa est nostra, Tiresiae? tamen/ sontes uidemur».

[49] Anche A. Bonandini, Inaudita parte altera, cit., 95 rileva la precisione giuridica del lessico senechiano; v. anche la bibliografia cit. nella nota 67 di p. 94.

[50] Cic. De inuentione 1,8.

[51] Il frammento di Marciano è segnalato e commentato anche da F. Longchamps de Bérier, Audiatur et altera pars, cit., 433 ss.; nonché da A. Bonandini, Inaudita parte altera, cit., 81, 98 (dove è richiamata l’attenzione anche su un passo di Tacito, Annali, 4, 11, nonché 12,2 e 103.

[52] È interessante ricordare che l’art. 6 della CEDU (Convenzione europea dei diritti dell’uomo), specificamente al comma 3, lettere a e c positivizza sia il diritto dell’accusato di essere informato sulla natura e motivi dell’accusa, sia di difendersi personalmente e dunque di essere presente dinnanzi al tribunale.

[53] Sul procedimento interpretativo seguito da Marciano, in funzione essenzialmente normativa, consistente nell’identificazione del «problema pratico» —secondo la fraseologia del Betti—, che sta dietro il rescritto imperiale, cfr. E. Betti, Interpretazione della legge e degli atti giuridici (Teoria generale e dogmatica), sec. ed. riv. e ampl. a cura di G. Crifò, Milano, 1971, 20-22, nonché 264-266.

[54] V. supra nota 50.

[55] Quanto al termine causa, v. per es. Quint., Inst. orat. III, 10: «Ceterum causa omnis in qua pars altera agentis est, altera recusantis, aut unius rei controuersia constat aut plurium: haec simplex dicitur, illa coniuncta. Vna controuersia est per se furti, per se adulterii […]»; III, 27: «causam, cui plurimae subiacent lites, quotiens factum non negatur, sed quia iusta ratione sit factum defenditur».

[56] Mi riferisco soprattutto a G. Capograssi, Studi sull’esperienza giuridica [1932], in Capograssi, Opere, II, Milano, 1959, 209-373; ma v. anche Capograssi, Analisi dell’esperienza comun,e cit.

[57] Pauli Sententiae, 5.5A.5.

[58] Avgvstini Hipponensis De duabus animabus, 14, 22: «Quomodo igitur ex me nihil mali, si ego perperam feci? aut quomodo me recte poenitet, si ego non feci? Audi partem alteram: Quomodo ex me nihil boni est, cui bona uoluntas inest?».

[59] V., a questo proposito il ricco e interessante saggio di A. Bonandini, Inaudita parte altera, cit., 79-103.; il riferimento al De ira è a 96 e nota 79.

[60] Sen., De ira 1,18,1; questo è l’intero passo: «1. Ratio utrique parti tempus dat, deinde aduocationem et sibi petit, ut excutiendae ueritati spatium habeat: ira festinat. Ratio id iudicare uult quod aequum est: ira id aequum uideri uult quod iudicauit». Cfr. anche A. Bonandini, Inaudita parte altera, cit., 96 e nt. 79.

[61] E. Forcellini, Lexicon, iudico, II, § 1, con rif. a Cicerone: «Interdum est aestimare. Cic. 2 Off. 1,22,79: Non enim numero haec iudicantur, sed pondere. 2. Saepe est existimare, putare, iudicium facere. — a) cum accusatiuo rei Cic. 2. Diuinat. 43. 91: Oculorum fallacissimo sensu iudicant ea quae ratione et animo uidere debebant. Id. 2 Orat. 42. 178: Plura homines iudicant odio, aut amore, aut cupiditate, quam ueritate, aut praescripto, aut legibus […]».