Riflessioni a margine della riforma sul processo civile di appello

Di Adele Ferraro -

[1] La sostanza del giudizio di appello, quale luogo di impugnazione, di merito e di rito, con pieno controllo sul fatto e sul diritto della decisione gravata, non muta con la riforma che, però, introduce una serie di innovazioni, taluna delle quali rappresenta la codificazione di arresti giurisprudenziali, altre, invece, che sono frutto di una nuova concezione dell’appello tale da modellarne l’iter e lo svolgimento[2].

Analizzando la novella apportata dalla Riforma Cartabia, introdotta dal D. Lvo  n. 149 del 10.10.2022, potrà immediatamente rilevarsi che mentre l’intervento del 1990 aveva riveduto il giudizio di secondo grado, prediligendo la concentrazione e l’oralità e, dunque, la trattazione collegiale dell’intero procedimento, con il temperamento poi introdotto dalla L. 183 del 2011 della possibile delega all’istruttore della sola assunzione dei mezzi di prova, oggi  proprio la figura del Presidente del collegio e dell’istruttore, ove nominato, rappresentano i due interlocutori nel procedimento, che pur sempre resta a decisione collegiale.

Tanto certamente tradisce una diversa visione del procedimento cui i tempi della pandemia ci hanno abituati, con una perdita di terreno dell’oralità a favore della “costruzione” e conoscenza scritta della causa, tralasciando un po’ quello che con sé porta l’oralità: la presenza delle diverse parti processuali in un luogo di confronto diretto.

Ormai la disciplina è entrata in vigore, abbiamo superato la “dead line” che la disciplina transitoria, novellata dall’art. 1, comma 380, della L. 197 del 29.12.2022, aveva fissato al 28.2.2023, prevedendo, sotto il profilo temporale, che le nuove disposizioni in materia di appello si applichino alle impugnazioni proposte successivamente a tale data, a prescindere dal momento in cui la causa sia stata originariamente introdotta.

In sintesi, non opera il tradizionale criterio “vecchio col vecchio, nuovo col nuovo”, e quindi, non vale la regola che il processo che in primo grado abbia seguito il rito precedente, seguirà lo stesso rito nei gradi successivi.

La norma transitoria richiama, infatti, alla nozione di “pendenza”, che per l’impugnazione coincide con il momento del perfezionamento della notificazione dell’atto di citazione o  del deposito del ricorso in grado di appello.

Nel giudizio con più parti, in cause inscindibili o scindibili, inoltre, l’impugnazione si intende introdotta allorquando sia stata proposta nei confronti di talune delle parti o da alcuna di esse, fatte salve ovviamente l’integrazione del contraddittorio ai sensi dell’art. 331 c.p.c. o la notificazione alle restanti parti ai sensi dell’art. 332 c.p.c.

Sotto il profilo  del valore  della causa, la novella, riformando l’art. 7 c.p.c., ha ampliato la competenza per valore del Giudice di pace e, dunque, correlativamente ristretto l’ambito di quella che l’art. 341 c.p.c. assegna per funzione della Corte di Appello; la norma, tuttavia, opererà per le controversie introdotte innanzi al Giudice di Pace secondo la competenza per valore ai sensi del nuovo art. 7 c.p.c., il cui provvedimento definitorio dovrà essere impugnato dinanzi al Tribunale, ridimensionando la competenza della Corte di Appello

Passando all’esame della veste dell’atto di impugnazione, l’art. 342 c.p.c. chiaramente ne identificava e ne identifica la forma con quella della citazione; il principio vale anche per le impugnazioni delle sentenze rese a conclusione del procedimento semplificato.

Nella precedente disciplina del rito sommario di cognizione non era individuata la forma dell’atto di appello e ricordiamo il lungo dibattito tra coloro che ritenevano dovesse applicarsi l’art. 342 c.p.c, e, dunque, che l’atto di citazione valesse quale forma ordinaria di introduzione del giudizio di gravame, non essendo stato diversamente disposto, e quelli per i quali il principio di ultrattività del rito contenuto nell’art. 359 c.p.c. imponesse l’introduzione dell’appello con ricorso.

Facendo richiamo al disposto di cui all’art. 342 c.p.c, e alla giurisprudenza formatasi per il rito sommario, nessun dubbio che anche per la decisione resa a seguito del rito semplificato l’appello si introduca con atto di citazione, atteso che, peraltro, il detto procedimento si definisce, ai sensi dell’art. 281 terdecies c.p.c.,  con sentenza, “da impugnare nei modi ordinari”, così da sgomberare il campo da ogni dubbio sul punto[3].

Il termine per la comparizione è espressamente indicato all’ultimo comma dell’art.  342 c.p.c, in non meno di 90 giorni liberi se il luogo della notificazione è in Italia e di 150 se si trova all’estero, non operando più il richiamo all’art. 163 bis dettato per la disciplina del giudizio di primo grado, essendo stati in quella sede ampliati i termini di comparizione. Anche il termine per la proposizione dell’appello incidentale, 20 giorni prima dell’udienza di comparizione – o di quella differita di 45 giorni, ai sensi dell’art. 349, u.c., c.p.c.- è stato espressamente indicato, dato che la riforma ha modificato anche i termini dell’art. 166 c.p.c. verso il quale operava il richiamo della disciplina precedente.  Ci si è posti l’interrogativo se il termine di 20 giorni rimanga immutato anche nel caso di impugnazione di sentenza resa a seguito di rito semplificato, atteso che ivi sono previsti termini dimidiati, dal momento che la formulazione dell’art. 347 c.p.c. per la costituzione in appello richiama i termini per il procedimento davanti al Tribunale, così da far ritenere che si possa propendere per la dimidiazione del termine di 20 giorni. Tuttavia, potrebbe essere anche trattarsi solo  di un difetto di coordinamento tra le norme, essendo preferibile la lettura di un  sistema con termini unificati.

Quanto al termine breve per l’impugnazione, è previsto che esso sia unico per il notificante e il notificato, prendendo a riferimento il momento in cui la notificazione si è perfezionata, andando così di contrario avviso al principio di scissione temporale degli effetti della notifica, in favore del principio di sincronicità degli effetti della notificazione.

E la discrasia temporale tra il momento della notifica e quello della ricezione dell’atto ben potrà permanere anche per il caso di notifica a mezzo pec, atteso che se la ricevuta di avvenuta consegna venga generata dopo le ore 21,00, la stessa si intenderà perfezionata il giorno successivo, alle ore 7,00, per entrambe le parti, ai sensi del novellato art. 147, comma 3, c.p.c.

Poiché, come è ovvio, l’attività di notifica della sentenza – ai fini del decorso del termine breve di impugnazione – precede l’impugnazione, l’operatività della norma novellata si avrà solo per quegli appelli proposti dopo il 28.2.2023, non dovendosi avere riguardo al momento in cui si è perfezionata la notificazione stessa.

La questione si pone con riferimento al procedimento con pluralità di parti; qui, per le cause inscindibili, opera la regola sancita dalla Suprema Corte[4] per la quale “Nei processi con pluralità di parti, quando si configuri l’ipotesi di litisconsorzio necessario, ovvero di litisconsorzio processuale (cd. litisconsorzio “unitario o quasi necessario”), è applicabile la regola, propria delle cause inscindibili, dell’unitarietà del termine per proporre impugnazione, con la conseguenza che la notifica della sentenza eseguita da una delle parti segna, nei confronti della stessa e della parte destinataria della notificazione, l’inizio del termine breve per impugnare contro tutte le altre parti, sicché la decadenza dall’impugnazione per scadenza del termine esplica effetto nei confronti di tutte le parti”.

Nel caso di cause scindibili, la previsione vale per ciascuna delle parti, ma resta ferma la regola generale fissata dall’art. 326 c.p.c. e, dunque, il termine per l’impugnazione proposta contro una parte fa decorrere il termine nei confronti dello stesso soccombente per proporla anche nei confronti delle altre parti.

Più  sottile appare la problematica connessa alla modifica all’art. 334 c.p.c. che,   sebbene recepisca il precedente orientamento giurisprudenziale che, con riferimento agli effetti dell’appello incidentale tardivo, accomunava l’ipotesi di improcedibilità all’ipotesi di inammissibilità, sancendo in entrambi i casi l’inefficacia dell’appello incidentale tardivo, ha mancato di dare la regola espressa per il caso di rinuncia, che pure aveva agitato la giurisprudenza sino alla composizione della questione nella pronuncia delle SSUU del 2011[5].

Orbene, la ratio sottesa alle due ipotesi – inammissibilità e improcedibilità-, pur diversa, era stata considerata sovrapponibile, assimilandone gli effetti rispetto ad un appello – quello incidentale tardivo – che era stato proposto a seguito di quello principale.

L’assimilazione ora codificata tra inammissibilità ed improcedibilità non risolve ancora il problema delle sorti dell’appello incidentale tardivo nel caso di rinuncia all’appello principale, non potendo ammettersi a cuor leggero che le stesse dipendano dalla condotta dell’appellante principale, pena il rischio di incremento delle ipotesi di appello principale da parte di chi, altrimenti, sarebbe rimasto in attesa della decisione dell’altra parte e avrebbe impugnato solo in via incidentale, a quel punto tardivamente.

Né può dirsi che l’interesse (ad agire) a proporre l’impugnazione incidentale tardiva sorga a seguito della proposizione dell’impugnazione principale e, dunque, sia inesorabilmente legato ad essa, in quanto l’interesse all’impugnazione discende dalla soccombenza e sussiste a monte e a prescindere dall’appello principale che rappresenta (solo) il presupposto processuale per la proposizione dell’appello incidentale.

Se si facesse rientrare l’ipotesi di rinuncia all’atto di appello principale  nella nuova previsione dell’art. 334 c.p.c., la riforma mancherebbe il suo obiettivo deflattivo, reificando un interesse della parte parzialmente soccombente a proporre – in ogni caso – l’appello in via principale; tanto a maggior ragione qualora da una pronuncia ex art. 334, comma 2, c.p.c., possa discendere una regolamentazione  pregiudizievole  in tema di spese anche per l’appellante in via incidentale, con una compensazione disposta  a conclusione  del giudizio; pertanto, nel caso di rinuncia all’appello principale,  verrà a definirsi la posizione del solo appellante in via principale, ma il giudizio proseguirà con riferimento all’appello incidentale tardivo.

Passando all’esame del contenuto dell’atto di appello, con la riforma dell’art. 342 c.p.c. la sanzione dell’inammissibilità consegue all’(in) sussistenza nei motivi di appello del “capo della sentenza appellato”, delle “ragioni di fatto e (meglio dire “o”) di diritto poste a base dell’impugnazione”;

Volutamente si è tralasciato di specificare le modalità di proposizione dell’appello, in modo chiaro, sintetico e specifico, e ciò al fine di evitare possibili fraintendimenti e tentazioni interpretative che li colleghino tout court alla sanzione dell’inammissibilità.

La triade aggettivale sintetico, chiaro e specifico, allora, è volta a consentire al giudice di individuare immediatamente il o i punti controversi di cui si sollecita la diversa ricostruzione, senza sforzi interpretativi o divinatori delle intenzioni dell’appellante.

Chiarezza e sinteticità sono concetti con i quali ci si è da tempo confrontati: chiara è un’esposizione intellegibile, non oscura; sintetica è la prospettazione non prolissa o ripetitiva. Nulla di nuovo, quindi, rispetto alla lunga evoluzione giurisprudenziale maturata con riferimento al giudizio di cassazione[6].

Una riflessione a parte merita la specificità, che è lo strumento attraverso il quale si concretizza la devoluzione del riesame dei singoli capi della decisione appellata[7].

Orbene, data la previsione, in via generale, con la novella dell’art. 121 c.p.c., del criterio della chiarezza e sinteticità per tutti gli atti – di parte e del giudice -, all’apparente superfluità del richiamo potrebbe conseguire la tentazione interpretativa di ricollegarlo all’inammissibilità.

Ma ad escludere tale lettura è la stessa legge delega, che ha precisato come la sanzione della inammissibilità non possa derivare dalle modalità di redazione dell’atto.

L’unica sanzione possibile in conseguenza del mancato rispetto di sinteticità e chiarezza potrà individuarsi, per la legge delega, nella regolamentazione delle spese del processo (cfr art. 1, comma 17, lett. e della legge delega).

Quanto al difetto di chiarezza nell’atto di appello, la mancanza potrebbe determinarne la nullità, allorquando renda incerto il petitum e la stessa causa petendi.

Qui il suggerimento contenuto della relazione del Massimario è di ricorrere all’art. 164 c.p.c. per disporne l’integrazione; tuttavia, il richiamo deve fare i conti con l’efficacia ex nunc di una siffatta integrazione, e dunque con la maturazione dei termini ad impugnare[8].

Per la (non) sinteticità dell’atto, invece, si potrebbe far ricorso ai poteri del giudice ex art. 175 c.p.c. al fine di garantire il sollecito e leale svolgimento del processo.

Vero è che occorre un mutamento di impostazione nella redazione degli atti processuali, non solo per la necessità di realizzare una leale collaborazione tra le parti in vista della durata ragionevole del processo, ma anche nella prospettiva che la “modalità chiara e sintetica” di redazione degli atti sia funzionale al rispetto dei campi nella progettualità dell’inserimento di informazioni nei registri informatici del processo.

Orbene, l’art. 46 Disp. Att. c.p.c., come innanzi anticipato, demanda al Ministero della Giustizia, sentiti il CSM e il CNF di definire schemi informatici degli atti giuridici con la strutturazione di campi necessari per l’inserimento delle informazioni nei registri del processo e la fissazione dei limiti dei medesimi.

Tale procedimento richiama le regole tecniche del PCT che devono, invece, essere adottate dal Ministero della Giustizia di concerto con il Ministero della Pubblica Amministrazione e innovazione, sentito il centro Nazionale per l’informatica nella PA (Agid) e il garante per la protezione dei dati personali; dunque, due procedure articolate, la cui attuazione potrebbe pensarsi per successivi steps, nelle diverse fasi e dinanzi ai singoli protagonisti dell’iter procedimentale.

Ovviamente, la sinteticità non potrà in alcun modo comprimere il diritto di difesa, per cui anche la previsione di schemi e campi dovrà tener conto della tipologia dell’atto, del valore della causa, della complessità della stessa del numero delle parti e della natura degli interessi coinvolti.

Possiamo indignarci rispetto alla sollecitazione alla chiarezza e concisione, ma sicuramente fanno il passo con la definizione più celere della causa.

La specificità, si diceva, è previsione collegata all’onere di indicazione puntuale dei singoli capi della decisione impugnati che precede l’esposizione analitica delle ragioni della censura, potendo far calare il giudicato sul capo della decisione non specificamente gravato.

Vero è che la specificità potrà attuarsi solo qualora il provvedimento sia articolato e puntuale, in quanto – a fronte di una motivazione stereotipata e seriale – sarà difficile riuscire a proporre un’impugnazione puntuale, potendosi l’appellante limitare a riproporre le questioni poste dinanzi al Giudice di primo grado, sempre che contenga una critica adeguata alla sentenza impugnata[9].

Sono, dunque, recepiti gli arresti giurisprudenziali che ritenevano si formasse il giudicato sui capi della sentenza impugnata per mancato raggiungimento dello scopo di devolvere al giudice la cognizione e il riesame degli stessi, e ciò pur senza reintrodurre la redazione di progetti alternativi di decisione. E se i “capi” sono le statuizioni rese dalla pronuncia sui quali può formarsi il giudicato, mentre le “parti” i singoli percorsi argomentativi che portano a sostenere la decisione trasfusa nei capi, e rispetto ai quali non può formarsi il giudicato, appare correttamente tecnica la sostituzione del termine capi al precedente termine parti.

Dunque, la chiesta specificità può determinare l’inammissibilità solo allorquando la sua mancanza si concreti in un atto inidoneo a determinare l’effetto devolutivo proprio dell’appello, o altrimenti essere correlata alla sola mancanza dei requisiti indicati ai punti, 2) e/o 3) (ben potendo la censura riguardare questioni di fatto o solo di diritto) dell’art. 342 c.p.c.

Se queste sono le considerazioni che possono trarsi   dalla lettura della norma, concordiamo con la pronuncia della Suprema Corte di Cassazione n. 27199/2017 per la quale lo scopo di una norma non deve essere quello di trovare una scorciatoia per costruire una nuova questione di inammissibilità, ma di spingere verso la decisione di merito efficace e veloce.

Accanto all’ipotesi di inammissibilità di cui all’art. 342 c.p.c.,  non può che salutarsi con favore  la disciplina ormai unitaria di inammissibilità e manifesta infondatezza della proposta impugnazione, ai sensi del novellato art. 348 bis c.p.c., laddove, ad un siffatto vaglio, è ricollegato il modulo decisorio semplificato previsto dall’art. 350 bis c.p.c, a seguito di discussione orale.

Appare ultronea la specificazione che tale pronuncia consegua ad una valutazione sia relativa all’appello principale che a quello incidentale, dovendosi, in caso contrario, procedere alla valutazione delle impugnazioni proposte.

La riforma fa giustizia delle perplessità suscitate dalla novella del 2012, allorquando la pronuncia di inammissibilità – pronuncia di carattere marcatamente processuale – era conseguente alla valutazione degli appelli che non avevano una ragionevole probabilità di essere accolti, che ovviamente implicava una valutazione di merito. La decisione di merito, con provvedimento definitorio nella forma della sentenza, esclude pure tutte le questioni – sotto il profilo delle impugnazioni- poste con la precedente formulazione normativa che prevedeva la definizione con ordinanza.

Orbene, prima di passare all’esame del giudizio, occorre chiarire come sia cambiata la disciplina in ordine alla istanza di sospensiva.

Al momento della proposizione dell’atto di impugnazione potrà proporsi istanza di sospensione dell’esecutorietà o dell’esecuzione della pronuncia impugnata, momento topico della trattazione in appello. La disciplina chiude il giudizio di 1^ grado, ma la circostanza che essa possa essere ovviamente richiesta solo proposto l’appello principale o incidentale ne suggerisce l’analisi in questa sede.

Il legislatore, con la riforma, ne potenzia il ruolo, ne rivaluta i presupposti, il momento in cui essa va proposta, le sanzioni a seguito del rigetto, l’organo giudiziario deputato alla trattazione e alla decisione a rendersi nel procedimento.

Quanto ai presupposti, la valutazione demandata al giudice è la verifica della manifesta fondatezza dell’impugnazione proposta, operando un giudizio prognostico sull’esito dell’impugnazione, elemento che è ormai sufficiente di per sé, così recependo un percorso avviato da tempo dalla giurisprudenza, ovvero – l’esistenza di un pregiudizio grave e irreparabile  che dall’esecuzione della sentenza possa derivare, anche in relazione  alla possibilità di insolvenza di una delle parti pur quando vi sia condanna al pagamento di una somma di danaro (dunque, anche per condanna ad un facere o a un pati).

La verità è che la decisione sulla sospensiva è fondata su un giudizio prognostico circa l’esito della causa e  sulla valutazione del periculum, che è moltiplicatore del fumus: tanto più  alto è il rischio che può derivare dall’esecuzione della sentenza di primo grado, tanto più alta è l’ipotesi che il giudice sospenderà.

Questo principio dei “vasi comunicanti” tra fumus e periculum ha operato a lungo  e potrebbe ritenersi continuerà ad operare, nonostante l’inserimento della disgiuntiva “o” della novella normativa.

La previsione che il pregiudizio sia connesso al rischio di insolvenza, invece, suggerisce la riflessione che il rischio da valutare possa essere collegato alla posizione del debitore o del creditore, recitando la norma “di una delle parti”, da qui la necessità di aver riguardo non solo alla parte che debba conseguire la prestazione, ma anche a quella che debba adempiere; dunque, si impone una valutazione complessiva delle posizioni di tutti i contendenti.

Accedendo a tale lettura, anche la cauzione potrebbe essere imposta sia all’una o all’altra delle parti, dovendosi ritenere che essa possa rappresentare lo strumento per assicurare il ripristino dello status quo ante nel caso di riforma della decisione.

Ed, ancora, la valutazione dell’insolvenza sembra connessa alla sola sentenza di condanna al pagamento di una somma di danaro, ma siffatta lettura non appare da prediligere sol che si valuti una possibile insolvenza a seguito della necessità di attuare una rimessione in pristino dello status quo ante anche rispetto ad una prestazione, ad esempio, di facere.

Quanto al “tempo della proposizione”, l’innovazione introdotta dalla norma va salutata con favore; sebbene il dato testuale del primo comma dell’art. 283 c.p.c.  reciti che la sospensiva possa essere introdotta “su istanza di parte proposta con l’impugnazione principale o con quella incidentale”,  così sembrando relegare sempre nel momento iniziale  la relativa richiesta,  il comma terzo chiarisce che la richiesta può essere proposta e riproposta, per il mutamento  nelle circostanze, da indicare a “pena di inammissibilità”. Sinora, l’istanza non poteva essere riproposta, anche al mutare delle circostanze, e questo era un vero e proprio vulnus  nella disciplina.

Se, dunque, è ora consentita la possibilità di riformulare l’istanza, la dizione letterale “mutamento delle circostanze” porta ad escludere che possano considerarsi  rilevanti fatti anteriori non conosciuti o non prospettati dalla parte.

Ovviamente, la possibilità di una rivalutazione è offerta al solo appellante, non potendosi riproporre a cura dell’appellato che abbia subito la sospensione.

Ed, infatti, in quanto ordinanza non impugnabile, per espressa previsione normativa, essa non è revocabile ai sensi del 177, comma 3 n. 2, c.p.c.; tuttavia, con l’introduzione di una facoltà di riproposizione dell’istanza, pur al mutare delle circostanze, si viene a creare una asimmetria tra la posizione dell’appellante che può riformulare istanza di sospensiva e l’appellato che non può sollecitare il giudice ad un ripensamento.

Tale discrasia nelle posizioni delle parti a maggior ragione si acuisce se si dovesse accedere alla prospettazione, pur possibile valutando la ratio della disciplina novellata, di ritenere le nuove circostanze sopravvenute non solo quelle in fatto o in diritto, ma anche quelle che discendano da una novità verificatasi nel giudizio. Si pensi ad una nuova CTU che abbia ribaltato l’esito della valutazione sulla base della quale era stata resa la prima pronuncia.

Orbene, se è vero che attualmente il legislatore per la concessione della sospensiva ha posto l’accento su una valutazione prognostica dell’esito della causa, appare probabile possa essere consentita una valutazione anche delle circostanze sopravvenute nel processo, le nuove risultanze emergenti dai mezzi di prova, quale può essere il diverso esito della CTU, a fini della rivalutazione della misura,; ma l’esigenza di una rivalutazione può concretamente valere per entrambe le parti processuali.

La previsione di una sanzione, poi, rappresenta il contrappeso alla possibilità di riproporre nel corso del giudizio l’istanza, tanto per moralizzare il ricorso a tale strumento.

Vero è che sarebbe bello pensare al processo come il luogo di confronto e di dialogo tra le parti, ma se la sanzione è stata introdotta è per la consapevolezza della sussistenza di un rischio di abuso dello strumento processuale.

E’ a discrezione del giudice valutare se applicare la sanzione e la quantificazione della stessa, ovviamente valutando il grado di fondatezza dell’istanza dell’appellante, l’eventuale reiterata riproposizione, il valore della controversia.

La pronuncia sulla sanzione processuale è revocabile solo con la sentenza che definisce il giudizio, e ciò a prescindere da un automatismo rispetto alla soccombenza della parte, essendo la ratio sottesa alla sanzione l’autoresponsabilizzazione di esse rispetto all’abuso del processo, di tal che ben sarà possibile che la parte vittoriosa nel merito resti destinataria, comunque, di una sanzione pecuniaria.

L’organo deputato alla pronuncia sulla sospensione dell’esecutività della sentenza è sempre il collegio, anche se la discussione sia stata fissata dal Presidente dinanzi all’istruttore e non al Collegio.

E’, dunque, demandato al Presidente di decidere se fissare la comparizione delle parti innanzi al collegio o al consigliere istruttore nominato. Resta, comunque, presidenziale la pronuncia della sospensiva nel caso di urgenza e inaudita altera parte, che potrà essere poi revocata, modificata o confermata a seguito della comparizione delle parti.

Poco convince, tuttavia, il dover discutere la causa dinanzi ad un giudice diverso da quello che dovrà deciderla, sebbene sia quello che accadeva ordinariamente per la decisione di merito   nelle cause di primo grado con riserva di collegialità e che oggi potrà accadere nel giudizio di appello, ma tanto risponde in effetti a quel ruolo non più primario dell’oralità che sembra stare sullo sfondo della riforma.

Il raccordo già esistente tra inibitoria e decisione di merito, volta a non sprecare l’attività di studio e approfondimento  necessario a delibare sull’istanza di sospensiva e  a scongiurare il rischio anche  del cambio del collegio, ha portato alla novella dell’art. 351 c.p.c.

Allorquando la sospensiva sia discussa alla I^ Udienza (1^ comma art. 351 c.p.c.) la Corte può – una volta valutata la fondatezza/ infondatezza della domanda ai fini della sospensiva – provvedere ex art. 281 Sexies c.p.c. e rendere decisione nel merito; se la comparizione si è svolta dinanzi all’istruttore designato dal Presidente, con l’ordinanza che decide sulla sospensiva, il Collegio può fissare udienza ex art. 281 sexies, assegnando termine per le note conclusive.

Se si è svolta la comparizione delle parti prima della udienza di trattazione, con l’ordinanza che decide la sospensiva viene fissata l’udienza ex art. 281 sexies, tenendo conto del termine per la costituzione del convenuto.

Orbene, la novella non si è fatta carico di affrontare il tema della previsione, nella decisione in ordine alla sospensione dell’efficacia esecutiva della decisione, della pronuncia su domande accessorie o del fatto che l’esecuzione potrebbe pregiudicare taluna delle parti rispetto ad altre nella stessa posizione processuale, in sintesi della possibilità di una “sospensiva parziale”.

In questo caso, allora, a fronte dell’impossibilità di rendere una pronuncia di sospensiva “parziale”, la decisione immediata ex art. 281 sexies c.p.c. rappresenta la soluzione per contenere il rischio che possa derivare dalla pronuncia sull’esecuzione e che possa pregiudicare taluna delle parti.

Infine, qualche riflessione sul rito.

Il modulo decisorio pensato e scritto per il giudizio di appello è assai duttile e muta in ragione delle esigenze del caso concreto e del singolo procedimento, favorendo la snellezza e celerità della decisione, riservando i modelli processuali più articolati alle cause il cui grado di complessità lo renda necessario.

La figura del consigliere istruttore (art. 349 bis c.p.c.) diviene il perno della trattazione delle cause ove si profili la necessità di un’attività istruttoria.

Viene reintrodotta, infatti, la figura del consigliere istruttore; simpatico che l’art. 349 bis segua il 349, abrogato dalla riforma del 1950 e che aveva la medesima rubrica.

Il nuovo ruolo assegnato al CI porterà alla necessità di ridefinizione dei confini tra questi ed il  Collegio.

Lo scopo perseguito dal legislatore è quello del risparmio di risorse, per un verso, ma il rito mostra l’opzione di fondo di prediligere un modello decisorio ispirato ad un’impostazione cartolare del processo.

Altra considerazione è che se certamente innanzi alla Corte di Appello le ipotesi di istruttoria sono assai contenute (considerazione che vale solo  per talune materie, in quanto per altre – si pensi alla materia della famiglia- l’istruttoria  in appello è tutt’altro che episodica), è pur vero che, limitando le ipotesi di rimessione al primo giudice (per il caso di erronea pronuncia di estinzione del processo o per la verifica della sussistenza della giurisdizione erroneamente declinata dal primo giudice o anche per il caso di  vizio della vocatio in  ius del convenuto, non rilevato dal giudice  ex art. 164 c.p.c,  e dedotto come motivo di gravame[10]), andranno ad aumentare i casi in cui dovrà svolgersi l’intera istruttoria innanzi alla Corte d’Appello e  lo svolgimento dinanzi al solo istruttore potrebbe rendere l’iter processuale più rapido.

D’altro canto, privare la parte del doppio grado di giudizio di merito non va contro il dettato costituzionale, non avendo il doppio grado di giudizio di merito copertura costituzionale.

Sotto il profilo della Giurisdizione, l’ambito  di rilevanza del difetto  di Giurisdizione è  stato decisamente ridimensionato in virtù del richiamo al principio della durata ragionevole  del processo e dell’economia processuale; dunque, il novellato art. 37 c.p.c. esclude la  possibilità di una  rilevazione d’ufficio del difetto di giurisdizione se la questione  sia stata risolta, anche implicitamente, dal primo Giudice  che abbia pronunciato nel merito, e  il  vizio non sia stata oggetto di impugnazione specifica[11],  facendo  eccezione il solo caso in cui avrebbe dovuto provvedere la PA, profilandosi in tal caso una vera e propria invasione delle attribuzioni proprie di altro potere dello Stato.

Né per il difetto di giurisdizione potrà impugnare l’attore che ha introdotto il giudizio, non essendo meritevole di tutela l’interesse di questi a diminuire la propria soccombenza nel merito di primo grado, in una soccombenza in appello in rito, che gli consentirebbe la riproposizione della domanda innanzi ad altra giurisdizione.

Tornando al procedimento, ripercorriamo l’iter che la Corte di Appello dovrà seguire.

Al primo esame del fascicolo, effettuato un vaglio sommario, il Presidente valuta se l’impugnazione è inammissibile o manifestamente infondata. In tal caso fissa l’udienza ex art. 281 sexies (art. 349 bis c.p.c.).

Dunque, una sorta di filtro che in ogni caso può portare ad una definizione del giudizio con sentenza.

Se, invece, la valutazione si presenta negativa, il Presidente nomina l’istruttore cui è demandata la trattazione della causa.

Il vaglio preliminare è operato dal Presidente che si trova dinanzi al bivio se nominare l’istruttore o fissare l’udienza ex art. 282 sexies c.p.c.

Tale vaglio è immediato, allo stato degli atti, dunque solo con l’atto di appello e senza neppure la comparsa di costituzione (si pensi all’appello tardivo, o che sia meramente formale) e consente di effettuare un immediato invio della causa verso la decisione semplificata, così di fatto effettuando un solo passaggio innanzi al collegio.

Nell’udienza dinanzi al Collegio, che potrà essere differita fino a un massimo di 45 giorni ai sensi dell’art. 349 bis, u.c., dovranno essere svolti tutti gli accertamenti preliminari sulla costituzione delle parti, integrazione del contraddittorio, che spettano certamente al Collegio.

D’altro canto l’art. 350 c.p.c. sulla “Trattazione” fa riferimento al “giudice” (come vedremo oltre) e, in Corte di Appello, la trattazione è demandata all’istruttore solo ove sia stato nominato, altrimenti essa spetta al Collegio.

Se, effettuato il primo vaglio, il Presidente non ritenga l’appello manifestamente infondato o inammissibile, designa l’Istruttore che potrà differire la prima udienza di 45 gg , ai sensi dell’art. 349 bis, u.c. c.p.c..

L’istruttore effettua le attività volte alla verifica della corretta instaurazione del contraddittorio: regolare costituzione delle parti, dichiarazione della contumacia, rinnovazione della notificazione, riunione dei procedimenti di impugnazione avverso la medesima sentenza.

Sono indicate, dunque, una serie di attività dell’istruttore: ma ci sono ulteriori attività che potrà compiere?

Quid iuris nel caso sia proposta querela di falso, specificamente sull’interpello alla parte in ordine all’interesse all’utilizzo del documento, sulla rilevanza del documento e, poi, l’adozione  del provvedimento di sospensione del procedimento.

Credo che all’istruttore possa riservarsi l’interpello – se querelato di falso il documento ivi prodotto – ma la valutazione della rilevanza e la sospensione del processo dovrebbero demandarsi al collegio (anche se oggi è l’istruttore che effettua l’ammissione della prova, di tal che la rilevanza del documento ben potrebbe essere valutata da questi, afferendo l’attività al profilo istruttorio).

La sospensione del procedimento sembra da escludere e l’analoga questione si pone altresì per la sospensione nelle di ipotesi di pregiudizialità.

Con riferimento alla precedente disciplina, la giurisprudenza aveva ritenuto precluso al CI la pronuncia di sospensione per pregiudizialità, in quanto si determinava una sospensione della potestas iudicandi che non poteva demandarsi all’istruttore e tale impostazione sembra, allo stato, ricalcabile.

Tanto anche in considerazione del disposto dell’art. 42   c.p.c. che assimila alle sentenze che decidono sulla competenza le ipotesi di sospensione del processo per pregiudizialità.

L’istruttore, a sua volta, effettua un nuovo vaglio sull’inammissibilità o – questa volta – manifestamente (in)fondatezza dell’impugnazione (ipotesi che riecheggia l’art. 348 bis, sebbene ivi si dica manifesta infondatezza, e, nell’art. 350 si parli di manifesta fondatezza), e valuta l’opportunità della definizione ex art. 281 sexies per i casi in cui ritenga la causa di non particolare complessità ovvero urgente.

La valutazione e decisione del CI non necessitano di una motivazione sul punto, ma si svolge una verifica a contraddittorio pieno, avendo l’istruttore a disposizione anche le difese del convenuto e delle altre parti.

Orbene, la prima domanda che sovviene è  quale possa  essere il comun denominatore che accomuni  il caso di  urgenza della causa (cui poco potrebbe calzare,  se fosse complessa, il modulo definitorio e la motivazione semplificata)  e quello in cui la causa  sia  di ridotta complessità; non sembra sussistere una eadem ratio nell’assimilazione delle cause urgenti e di  quelle  di non particolare complessità, sebbene in entrambe tali ipotesi  sia consentito al CI di esercitare una discrezionalità  tale da  indirizzare la causa verso il modulo definitorio semplificato.

La ricerca di riferimenti che possano orientare il CI nell’esercizio di tale discrezionalità, relativamente alle controversie di non particolare complessità,  consentono probabilmente  di richiamare le ipotesi previste per il rito cd semplificato dell’art. 281 decies, comma 1, c.p.c., (quando i fatti di causa non sono controversi, o la domanda è fondata su prova documentale o è di pronta soluzione o richieda un’istruzione non complessa). Si prescinde, ad ogni modo, dal rito seguito nel primo grado di giudizio che non condiziona il modulo procedimentale e decisorio da seguire in grado di appello.

Quanto all’urgenza, poi, la stessa implica la valutazione dell’influenza del decorso del tempo sulla capacità della decisione di incidere con i propri effetti sulle situazioni giuridiche controverse.  Vero è che la sentenza non si è confrontata mai con il concetto di urgenza, essendo elemento emerso e rilevante al più per le pronunce cautelari o per l’inibitoria; ed infatti, potrebbe ritenersi sussistere l’urgenza quando si profili la necessità di contenere gli effetti che scaturiscono dal limite di non frazionare gli effetti della esecutività della decisione a fronte di posizioni differenti e alla preclusione ad una sospensione frazionata, ma la casistica saprà certamente offrire risposte a questi interrogativi.

Ed ancora, il CI potrà svolgere il tentativo di conciliazione e tanto consentirebbe di assimilare tale ipotesi alla mediazione demandata dal giudice, solo che quest’ultima comporta una sospensione del giudizio che potrebbe ritenersi, più propriamente, attività del Collegio.

Al CI è demandato espressamente il compito della pronuncia di improcedibilità, con ordinanza impugnabile dinanzi al Collegio che decide con sentenza (l’art. 348 u.c. rinvia all’art. 178 c.p.c.,  come avviene nel procedimento in primo grado con riserva di collegialità).

Non è esplicitato se l’estinzione del giudizio in appello possa essere pronunciata dal CI (art.  309 c.p.c., o per tardiva riassunzione del processo interrotto), che potremo tuttavia ritenere disciplinato in modo analogo, con possibilità della pronuncia del CI e poi eventuale reclamo al collegio, anche se non espressamente previsto.

In merito, può richiamarsi l’art. 178 c.p.c. sulla base di un rinvio a tale norma ai sensi dell’art. 359 c.p.c. che consente l’applicazione delle norme dettate per il giudizio di primo grado in appello, se non incompatibili e qui non pare vi sia incompatibilità.

La novità della riforma è nella devoluzione all’istruttore del potere di ammettere le prove -che implica l‘esercizio di un potere valutativo – e fermo il potere del Collegio di rivalutare l’ammissione delle prove non ammesse e l’assunzione di tali prove o la riassunzione delle prove già assunte dal CI – che consentirà un incremento dell’efficienza della decisione di appello, senza illudersi che tali effetti possano essere conseguenza della sola riscrittura di una norma.

Orbene, l’art. 350 c.p.c.  è norma che opera, si diceva, anche per il collegio.

Si parla del “giudice” perché si rivolge sia al Tribunale che al Giudice di appello, ma non specifica in linea generale e nell’appello se il riferimento sia al Collegio o al CI; in realtà non può che essere riferita anche al collegio che deve comunque svolgere le sue attività di verifica dell’integrità del contraddittorio, riunione e quanto altro indicato nel novellato art. 350 c.p.c.

La fase decisoria, poi, può seguire due modelli; il modulo orale e a trattazione scritta (quest’ultimo segue l’eventuale integrazione istruttoria svolta, risultando altrimenti superfluo).

In ogni caso, la decisione è sempre collegiale, anche dopo l’istruzione dinanzi all’istruttore o alla precisazione delle conclusioni innanzi allo stesso.

Il modulo decisorio semplificato ex art. 281 sexies è richiamato dall’art. 350 bis c.p.c. e richiama i casi di cui al 348 bis e 350 comma 3.  Le previsioni iniziali del 350, comma 3, di improcedibilità o di manifesta infondatezza, indicano le ipotesi in cui deve attuarsi un passaggio obbligato alla discussione orale; diversamente, per il caso di urgenza o contenuta complessità, garantiscono un potere discrezionale al giudice, cosicché in queste due ultime ipotesi la scelta del rito è demandata al CI.

Se la decisone segue la trattazione orale, il CI invita le parti a precisare le conclusioni e rimette al collegio per discussione orale, con termine per note conclusionali (termine per il deposito di note non previsto nel caso in cui la discussione orale sia stata fissata direttamente dal Presidente); innanzi al Collegio il CI svolgerà la relazione.

Non appare condivisibile ritenere che fuori dai casi del 349 bis e 350, comma 3, c.p.c.  non possa usarsi il modulo decisorio semplificato ex art. 281 sexies c.p.c.  atteso che la norma indica le ipotesi in cui possa utilizzarsi tale modello decisionale, ma non esclude possa esser adottato anche in ipotesi diverse.

Già prima era possibile il ricorso alla decisione ex art. 281 sexies c.p.c., per cui non sembrano sussistere ragioni per le quali non possa farsi ricorso a tale modulo decisorio; d’altro canto, gli artt. 349 bis e 350 indicano i casi in cui si procede con decisione semplificata, ma non affermano che tali casi siano i soli in cui ad essa possa darsi luogo.

E, comunque, in parte è consentito il passaggio da un modulo decisorio all’altro, pur restando escluso possa procedersi con modulo ibrido.

L’art. 350, comma 3, c.p.c., infatti, prevede che seppur nominato l’istruttore, possa darsi corso alla decisione semplificata, e così pure in fase di decisione ex art. 281 sexies, ben può il collegio operare una diversa scelta ai sensi dell’art.  356 c.p.c.

L’art. 350 bis richiama l’art. 281 sexies; così, all’udienza ex art. 281 sexies, se la causa non è pronta per la decisione, la stessa sarà rinviata su istanza di parte e si potranno concedere i termini per note (ipotesi non codificata ma anche oggi ratificata dalla prassi) e anche fissarsi il termine di 30 giorni per il deposito della motivazione.

Non si potrà, ovviamente, procedere alla concessione dei tre termini di cui al 352 che è norma che vale solo per l’istruttore e non per il collegio.

Qualora l’istruttoria innanzi al CI sia conclusa, questi fissa l’udienza per la rimessione della causa al collegio e pone tre termini: – non superiore a 60 gg per note nelle quali precisare le conclusioni;- non superiore a 30 giorni per il deposito  delle comparse conclusionali; –  non superiore a 15 giorni per le memorie di Replica.

I termini fissati sono riducibili, con il limite della ragionevolezza.  Le parti, come avviene ora, tutte le parti, possono rinunciarvi e non è possibile una rinuncia a taluni termini e non ad altri.

Il CI fissa udienza successiva e la causa è trattenuta in decisione con riserva di riferire al collegio e termine per il deposito della motivazione di 60 gg.

Quale è la novità di tale nuovo modulo decisorio ordinario?

Innanzi tutto si elimina il passaggio indefettibile  dinanzi al collegio per la decisione della causa e, poi, si effettua un’inversione del momento del deposito degli scritti conclusivi rispetto alla  comparizione dinanzi all’istruttore (utile in quanto all’udienza fissata, avendo già studiato  e avendo chiaro il quadro delle difese, il CI può chiedere chiarimenti, oltre ad escludere la necessità della  rimessione su ruolo per eventi sopravvenuti e prospettati dalle parti negli scritti conclusivi).

Sono sempre possibili sentenze parziali o non definitive con rimessione della causa in istruzione, atteso che sono rimasti invariati gli artt. 360, comma 3, e 361 c.p.c. relativi alla disciplina dell’impugnazione innanzi alla Suprema Corte di Cassazione.

Il collegio, ai sensi dell’art. 356 c.p.c., può comunque provvedere ad effettuare la rinnovazione o l’integrazione dell’istruzione svoltasi in primo grado o procedere all’assunzione di nuove prove. Anche in questo caso, allorquando il Collegio abbia proceduto ad ammettere le prove, può delegarne l’assunzione al CI, ove nominato, o al relatore ovvero, qualora ne ravvisi la necessità, potrà persino rinnovare innanzi a sé uno o più mezzi di prova assunti dal CI.

Un modulo dinamico, dunque, che certamente non destina al solo CI la fase istruttoria.

L’ipotesi di rimessione al primo giudice è stata prevista per i soli casi di “violazione del contraddittorio”, in ossequio alle indicazioni della legge delega, atteso che la logica acceleratoria e deflattiva  della riforma ha suggerito di ritenere rilevanti solo i vizi essenziali della decisione afferenti non solo la mancata instaurazione del contraddittorio  con il destinatario della domanda, ma anche  quella di mancata integrazione del contraddittorio con una parte necessaria;  rilevanti saranno, dunque, le ipotesi di nullità della notificazione al convenuto dell’atto introduttivo del giudizio, la mancata integrazione del contraddittorio con il litisconsorte necessario (a meno che questo non dichiari di intendere accettare la lite nello stato in cui essa si trova), ovvero l’estromissione erroneamente operata di una parte nel corso del giudizio (sempre che non sia stata disposta con la decisione appellata atteso che in tal caso non si sarebbe determinata, in concreto, alcuna violazione del diritto di difesa).

Quanto, poi, all’ulteriore ipotesi della nullità per mancanza di sottoscrizione  della sentenza, ai sensi dell’art. 161 c.p.c., si tratta di eventualità che con il deposito telematico  degli atti è per lo più scongiurata, poiché il deposito segue la firma e controfirma apposta dal magistrato; è vero, infatti, che sarebbe possibile che il relatore proceda alla firma e, nella designazione del collegio,  malamente indichi il nome del Presidente, di tal che l’atto venga inviato  ad altro Presidente e poi sottoscritto da Presidente  del collegio diverso da quello che ebbe a comporre il collegio.

Sul punto appare evidente l’incidenza della disciplina della firma digitale come espresso da ultimo dalla Suprema Corte che ha precisato come “La sentenza redatta in formato elettronico, recante la firma digitale del giudice a norma dell’art. 15 del d.m. 21 febbraio 2011, n. 44, non è affetta da nullità per difetto di sottoscrizione, attesa l’applicabilità al processo civile e ai documenti informatici adottati nel suo ambito del d.lgs. n. 82 del 2005 (cd. “Codice dell’amministrazione digitale”), sicché, in applicazione dell’art. 23 d.lgs. cit., deve ritenersi provata fino a querela di falso la sottoscrizione da parte del giudice della sentenza redatta in formato elettronico, quando su ogni pagina della copia estratta su supporto analogico vi siano i segni grafici (coccarda e stringa) che attestano la presenza della firma digitale. (così Cass. Sez. 1 , Ordinanza n. 11306 del 29/04/2021).

Inoltre, sempre in tema di sottoscrizione, deve richiamarsi l’orientamento della Suprema Corte che “La sentenza emessa dal giudice in composizione collegiale priva di una delle due sottoscrizioni (nella specie, del componente più anziano che avrebbe dovuto firmare in luogo del presidente deceduto) non è inesistente bensì nulla in quanto la sottoscrizione non è omessa ma solo insufficiente” (così Cass. Sez. 5, Sentenza n. 19323 del 18/07/2019 e prima Cass.  n. 5725 del 12/1/2016 e Cass. SSUU, Sentenza n. 11021 del 20/05/2014).

Se così è, la mancanza di una delle due sottoscrizioni – del Presidente del collegio ovvero del relatore – determina una nullità sanabile ai sensi dell’art. 161, comma 1, c.p.c., trattandosi di sottoscrizione insufficiente e non mancante, di tal che, considerato che l’atto telematico è certamente riferibile quanto meno al relatore, non può ritenersi la decisione nulla ai sensi dell’art. 161, comma 2, c.p.c.  essendo siffatta interpretazione considerata lesiva dei principi del giusto processo e della ragionevole durata.

È rimasto fermo il termine di 3 mesi per la riassunzione del processo dinanzi al primo Giudice, fermo restando la sospensione del procedimento nel caso di ricorso per Cassazione ed il riavvio del decorso del termine a far data dal pronuncia della Suprema Corte.

Si segnala, poi, la limitazione posta alla proposizione di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 n. 5 nel caso in cui sia stata resa sentenza di appello conforme a quella di primo grado, il che implica non solo che debbano essere coincidenti i fatti ricostruiti nelle decisioni, ma anche le ragioni poste a base della decisione stessa.

La pronuncia attualmente resa di manifesta infondatezza, essendo pronuncia di merito, è idonea a valere quale decisione, a tutti gli effetti, utile per la doppia conforme.

Orbene, quando l’art. 360 n. 5 c.p.c. permetteva la censura della decisione per vizio di motivazione, effettivamente, a fronte di una sentenza di primo e secondo grado convergenti, l’adeguatezza della motivazione poteva considerarsi un problema di secondario momento a fronte di due pronunce e motivazioni conformi. Tuttavia, se l’art. 360 n. 5 consente la censura per un omesso esame di un fatto decisivo e se il giudice di primo e di secondo grado hanno omesso l’esame di quel fatto, pur discusso tra le parti, appare incongruo escludere la possibilità del ricorso per cassazione pur a fronte di una doppia conforme.

Potrebbero essere ipotesi marginali e la soluzione rinvenirsi in sede di interpretazione, facendo rientrare il vizio nell’ipotesi di cui all’art. 360 n. 4 c.p.c., in relazione all’art.  132, per esservi un fatto decisivo non analizzato, rilevante sotto il profilo della nullità della sentenza.

Infine, in richiamo all’istituto della rimessione immediata al Giudice di Legittimità, ammessa allorquando il giudice di merito debba sottoporre alla Suprema Corte una questione necessaria alla definizione del giudizio, che presenti gravi difficoltà interpretative  e sia suscettibile di porsi in numerosi casi; la disposizione, tuttavia, non  sembra possa trovare applicazione in appello  in primo luogo in quanto sembra poco sensato che tanto avvenga in un giudizio  di merito che, successivamente, in sede di impugnazione, approderà innanzi alla Suprema Corte.

A prescindere da tale considerazione, comunque, il dato interpretativo dirimente sembra rinvenirsi nell’ u.c. dell’art. 363 bis c.p.c., laddove si afferma che il principio di diritto è vincolante tra le parti nel procedimento nel quale è stata rimessa la questione e, se questo si estingue, anche nel processo in cui è proposta la medesima domanda tra le stesse parti, eventualità che non può realizzarsi nel procedimento di appello, atteso che all’estinzione consegue, di regola, la stabilizzazione della decisione di primo grado ai sensi dell’art. 338 c.p.c.

E, in chiusura una domanda. Ma tutto questo, era proprio necessario?

[1] Relazione svolta al Congresso Giuridico Forense per l’aggiornamento professionale, Roma, 3 marzo 2023.

[2] Tra i primi contributi in materia, cfr. G. Califano, Il nuovo giudizio di appello (dopo la riforma di cui al decreto legislativo 149/2022), in Diritto Processuale Civile e Contemporaneo, n. 1/2023, p. 53 e ss.; V. Violante, sub art. 283 c.p.c., in Aa. Vv., La riforma Cartabia del processo civile, a cura di Roberta Tiscini, Pisa, 2023, p. 464 e ss.; A. Aniello, sub artt. 342-343 c.p.c., in Aa. Vv., La riforma Cartabia del processo civile, a cura di Roberta Tiscini, Pisa, 2023, p. 470 e ss.; M. Stella, La blanda riforma del giudizio di appello tra restatement e ritorni al passato, in Diritto Processuale Civile e Contemporaneo, n. 3/2022, p. 222 e ss.; L. Passanante, La Riforma delle impugnazioni, in Riv. trim dir. proc. civ., 202, p. 993 e ss.; A. Carissimo, Inefficacia dell’impugnazione incidentale tardiva per declaratoria di improcedibilità alla luce della legge 26 novembre 2021, n. 206. Questioni di opportunità e di equilibrio delle parti, in Diritto Processuale Civile e Contemporaneo, n. 2/2022, p. 164 ss.; E. Scoditti, Brevi note sul nuovo istituto del rinvio pregiudiziale in cassazione, in Questione Giustizia, n. 3/2021, p. 105 e ss.; G. Federico, “Il Giudizio di appello”, in Questione Giustizia, n. 3/2021, pp. 89-95. G. Finocchiaro, Termine per impugnare decorre da quando la notifica è perfetta. Le impugnazioni in generale, in Guida al diritto – Il Sole 24 Ore, n. 6, del 18 febbraio 2023, pp. 21-23.; Id., Introdotta la possibilità di reiterare l’istanza di inibitoria dell’esecutività. Sospensiva esecutività in appello, in Guida al diritto – Il Sole 24 Ore, n. 6, del 18 febbraio 2023, p. 24 e ss.; Id., L’appello chiaro e specifico è valido, la sintesi evita sanzioni pecuniarie. Gli atti introduttivi dell’appello, in Guida al diritto – Il Sole 24 Ore, n. 6, del 18 febbraio 2023, p. 30 e ss.; Id., Per il ‘filtro’ contro le cause inutili si passa alla manifesta infondatezza. I criteri di selezione in appello, in Guida al diritto – Il Sole 24 Ore, n. 6, del 18 febbraio 2023, pp. 39-41; Id., Corsie preferenziali discrezionali per approdare alla discussione orale. I poteri del consigliere istruttore, in Guida al diritto – Il Sole 24 Ore, n. 6, 18 febbraio 2023, p. 42 e ss.; Id., Discussione orale o scritta per la decisione del gravame. La fase di decisione in appello, in Guida al diritto – Il Sole 24 Ore, n. 6, del 18 febbraio 2023, p. 47 e ss.; Id, Meno rinvii al primo giudice per la celerità dei processi. I casi di rimessione, in Guida al diritto – Il Sole 24 Ore, n. 6, del 18 febbraio 2023, pp. 52 e ss.; F. Petrolati, La riforma del processo civile in appello. Le disposizioni innovate dal D. Lgs. n. 149/2022, www.giustiziainsieme.it, 18 gennaio 2023, p. 1 e ss.; L. Biarella, Impugnazioni: il consigliere istruttore posto al timone del nuovo appello, in Guida al diritto – Il Sole 24 Ore, n. 6, del 18 febbraio 2023, p. 14 e ss.; 20. G. Ichino, La “Riforma Cartabia” e processo d’appello, in www.questionegiustizia.it; G. Federico, Il giudizio di appello, in Questione Giustizia, n. 3/2021, p. 89 e ss.

[3] Peculiarità permane per il caso della sentenza di estinzione del giudizio resa ai sensi del 130 disp att c.p.c.  che, in quanto resa nel rito camerale, e per giurisprudenza consolidata, prevede che l’atto introduttivo del giudizio di impugnazione abbia la forma del ricorso, con tutte le conseguenze in tema di tempestività.

[4] Cass. Sez. 3 , Ordinanza n. 14722 del 07/06/2018 e Conf. Cass.  Sez. 6  – 3, Ordinanza n. 667 del 15/01/2021.

[5] Da ultimo Cass. Sez. 6 – L, Ordinanza n. 27631 del 21/09/2022, ma già Cass. SSUU 19.4.2011 n. 8925 per cui “In tema di ricorso per cassazione, la norma dell’art. 334, secondo comma, cod. proc. civ. – secondo cui, ove l’impugnazione principale sia dichiarata inammissibile, l’impugnazione incidentale tardiva perde efficacia – non trova applicazione nell’ipotesi di rinuncia all’impugnazione principale; poiché, infatti, la parte destinataria della rinuncia non ha alcun potere di opporsi all’iniziativa dell’avversario, l’ipotetica assimilazione di tale ipotesi a quelle dell’inammissibilità e dell’improcedibilità dell’impugnazione principale finirebbe per rimettere l’esito dell’impugnazione incidentale tardiva all’esclusiva volontà dell’impugnante principale.

[6]  Si rinvia a SSUU n. 27199 del 2017 nonché Cass. 13535 del 2018 e a Cass.  n. 7675 del 2019.

[7] Deve rilevarsi, in merito, che a specificità è pure indicata tra gli elementi dell’atto di citazione, ma non anche per la comparsa di costituzione, in primo grado, laddove in quel segmento processuale, certamente, essa sarà volta a garantire la specifica allegazione dei fatti al fine della operatività del principio di non contestazione.

[8] Cass. 1.10.2018 n. 23667  per la quale “Per effetto della disciplina di cui all’art. 164, comma 2, c.p.c., applicabile anche in appello ai sensi dell’art. 359 c.p.c., i vizi relativi alla “vocatio in ius” sono sanati con effetto “ex tunc” e quelli relativi alla “editio actionis” con effetto “ex nunc”, pertanto, nel rito del lavoro, l’assegnazione del termine per la rinnovazione della notifica dell’appello comporta una sanatoria con effetti che retroagiscono alla data del deposito del ricorso che, se avvenuto entro il termine di cui all’art. 327 c.p.c., non potrà essere dichiarato tardivo.

[9] Così Cass. n. 6033 del 23.2.2022.

[10]  Sez. U , Sentenza n. 2258 del 26/01/2022  che  ha previsto che “Nel caso di nullità della citazione di primo grado per vizi inerenti alla “vocatio in ius” (nella specie, per inosservanza del termine a comparire), ove il vizio non sia stato rilevato dal giudice ai sensi dell’art. 164 c.p.c. e il processo sia proseguito in assenza di costituzione in giudizio del convenuto, alla deduzione della nullità come motivo di gravame consegue che il giudice di appello, non ricorrendo un’ipotesi di rimessione della causa al primo giudice, deve ordinare, in quanto possibile, la rinnovazione degli atti compiuti nel grado precedente, mentre l’appellante, già dichiarato contumace, può chiedere di essere rimesso in termini per il compimento delle attività precluse se dimostra che la nullità della citazione gli ha impedito di avere conoscenza del processo, ai sensi dell’art. 294 c.p.c.)”

[11] Da ultimo Cass. SSUU 22.9.2022 n. 27744 e già Cass. SSUU. n.  5704 dell’11.4.2012 conf, a Cass. n. 24883 del 2008, per le quali   “ allorché il giudice di primo grado abbia pronunciato nel merito, affermando, anche implicitamente, la propria giurisdizione, la parte che intende contestare tale riconoscimento è tenuta a proporre appello sul punto, eventualmente in via incidentale condizionata, trattandosi di parte vittoriosa; diversamente, l’esame della relativa questione è preclusa in sede di legittimità, essendosi formato il giudicato implicito sulla giurisdizione (tra le varie pure Cass. sez. un. 28 gennaio 2011, n. 2067).