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Prolissità
Di Bruno Capponi -
1.- Leggendo l’autobiografia di Walter Pedullà (Il pallone di stoffa. Memorie di un nonagenario, Rizzoli, 2023, pag. 20) mi imbatto nella frase: «la prolissità non è reato e in quanto peccato non è punibile». Pedullà immagina di essere sottoposto al giudizio del tribunale dei lettori e reclama la sua innocenza («i miei sono peccati ma non reati e comunque mi rimetto alla vostra clemenza») dopo aver confessato «di non sapere» molto di sé e di poterne sapere di più, forse, soltanto una volta terminata l’autobiografia. Varie assonanze si affacciano confusamente: dal poeta cantore («la geometria non è un reato»), al filosofo che al non sapere consacrò un’intera scuola filosofica (A. Campanile, Vita di Socrate, in Vite degli uomini illustri, Rizzoli, 1975, pag. 15: «dove siamo arrivati. Oggigiorno montano in cattedra persino quelli che confessano di non sapere»), alla notissima e citatissima lettera di Pascal (Lettres Provinciales, 1656, n. 16: «Je n’ai fait celle-ci plus longue parceque je n’ai pas eu le loisir de la faire plus courte»), sulla grande fatica di essere brevi.
E noi giuristi, che peccato commettiamo?
L’art. 121 c.p.c., nel testo rimaneggiato dal d.lgs. n. 149/2022, vuole che «Tutti gli atti del processo sono redatti in modo chiaro e sintetico»; forse Campanile avrebbe chiosato che sarebbe parsa bizzarra l’affermazione contraria («oscuro e dispersivo»), il che fa sorgere più di un dubbio sulla effettiva portata della regola: norma di attività o di mero comportamento? Disperse qui e là le varie ricadute: l’art. 163, n. 4) c.p.c. vuole che i fatti e gli elementi di diritto siano esposti nella citazione «in modo chiaro e specifico»; formula che si ripete nel comma 1 dell’art. 167 c.p.c. a proposito della comparsa di risposta; l’art. 342, comma 1, c.p.c., vuole che certe prescrizioni dell’appello siano indicate «a pena di inammissibilità in modo chiaro, sintetico e specifico»; nel ricorso per cassazione, i riferimenti sono alla «chiara esposizione dei fatti della causa» [art. 366, n. 3) c.p.c.] e alla «chiara e sintetica esposizione dei motivi» [n. 4)], sempre sotto sanzione di inammissibilità. L’art. 46 disp. att. parla dei processi verbali e degli atti giudiziari «scritti in carattere chiaro e facilmente leggibile» (comma 1), avvertendo che la violazione delle specifiche tecniche non può incidere sulla validità degli atti.
Dai primi giorni di giugno, circola tra gli addetti ai lavori lo schema di d.m. Giustizia (trasmesso per il concerto al CSM e al CNF) annunciato dallo stesso art. 46 (Prot. n. 0003761 del 24 maggio 2023), che, tra l’altro, prevede (art. 10) l’istituzione presso l’ufficio legislativo di una commissione mista, formata anche da «esperti nella linguistica giudiziaria» (l’art. 9, comma 3, parla soltanto di «linguisti»), che ogni due anni dovrebbe suggerire modifiche per l’«aggiornamento» del d.m. Ci chiediamo se questi “linguisti” siano i giuristi-linguisti che in ambito eurounitario provvedono alla traduzione dei testi, ovvero se siano veri e propri esperti di lingua e letteratura (Accademia della Crusca); in ogni caso, che ogni due anni debba provvedersi all’aggiornamento del d.m. quanto alla funzionalità dei criteri introdotti pare un po’ eccessivo (sebbene la regola del biennio, in base all’art. 10, potrebbe essere riferita alla sola raccolta degli «elementi di valutazione ai fini dell’aggiornamento del presente decreto»: il testo del d.m. non risulta, sul punto, abbastanza chiaro e specifico).
2.- La violazione dei criteri di chiarezza e sinteticità (cui si aggiunge, abbiamo visto, la specificità) determina inammissibilità soltanto nell’ambito delle impugnazioni. La spiegazione è di tipo tecnico (la categoria giuridica ha cittadinanza soltanto in quei contesti), ma forse dietro la regola tecnica c’è altro.
Dal 1990 è stata attribuita centralità al giudizio e alla sentenza di primo grado; di qui i passaggi della rivelatrice Cass., SS.UU., 19 giugno 2012, n. 10027, che conviene ricordare: «col riconoscere provvisoria esecutività tra le parti alla sentenza di primo grado il legislatore ha determinato una cesura tra la posizione delle parti in controversia tra loro nel giudizio di primo grado … e la situazione in cui le stesse parti vengono poste dalla decisione del giudice di primo grado, che conosciuta la controversia, dichiara lo stato del diritto tra loro. L’ordinamento, anche allo scopo di scoraggiare il protrarsi della lite, che al contrario risulterebbe favorito se all’impugnazione si attribuisse l’effetto d’un ripristino delle posizioni di partenza, proclama il valore del modo di composizione della controversia, che è dichiarato conforme a diritto dal giudice, terzo ed imparziale (art. 111 Cost., comma 2). Il diritto pronunciato dal giudice di primo grado qualifica la posizione delle parti in modo diverso da quello dello stato originario di lite e giustifica sia l’esecuzione provvisoria, quando a quel diritto si tratti di adeguare la realtà materiale, sia l’autorità della sentenza di primo grado nell’ambito della relazione tra lite sulla causa pregiudiziale e lite sulla causa pregiudicata».
In diversi termini, la sentenza di primo grado concreta il “diritto dichiarato” da un soggetto terzo e imparziale e vincola senz’altro le parti salvo i possibili controlli nelle sedi delle impugnazioni, che però debbono essere organizzate in modo tale da scoraggiare il protrarsi della lite al fine di realizzare il più velocemente possibile l’effetto di “esaurimento” (tra le tante, SS.UU. n. 9069/2003). Si tratta di una “filosofia” che, in modo scoperto, dopo aver posto al centro dell’esperienza giudiziaria il processo di primo grado ravvisa nelle impugnazioni quasi un espediente destinato a prorogare inutilmente i contenziosi, nonostante lo “stato del diritto” sia già stato dichiarato con effetti vincolanti tra le parti.
3.- Di norma, chiarezza e sinteticità sono percepite come un’endiadi o come se l’una fosse il risultato dell’altra. È bene dubitarne, e una riprova si ha osservando la tecnica di redazione delle sentenze costituzionali. Chiunque può constatare che al “ritenuto in fatto”, in cui la Corte espone la questione sollevata e lo svolgimento del giudizio costituzionale, segue un “considerato in diritto” in cui si riprendono, spesso con l’uso degli stessi termini, le espressioni dello svolgimento in fatto fin quando la Corte – ma dopo due premesse pressoché identiche – entra finalmente nel merito della questione sollevata. Se tutti i giudici adottassero questo schema, le dimensioni dei provvedimenti decisori raddoppierebbero. Invece sappiamo tutti che dal 2009 (legge n. 69) la tecnica di redazione della sentenza ha premiato la sinteticità (sebbene il costo sia stato quello della eterointegrazione del titolo giudiziale: SS.UU., 2 luglio 2012, n. 11067).
Dunque, la sentenza costituzionale non risponde al canone della sinteticità, ma ciò non significa che non risponda a quello della chiarezza.
4.- È inutile dire che, parlando di fattispecie aperte, non è affatto chiaro cosa significhino i richiami degli artt. 121, 163, 167, 342, 366 e 46 disp. att.; l’unica certezza è che sarà il giudice a stabilire quando un atto sia tale da violare il contenuto precettivo di quelle norme.
Secondo la recente Cass., Sez. II, 16 marzo 2023, n. 7600, «l’inosservanza del requisito di sinteticità e chiarezza pregiudica l’intellegibilità delle questioni, rendendo oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata e, pertanto, comporta la declaratoria di inammissibilità del ricorso, ponendosi in contrasto con l’obiettivo del processo, volto ad assicurare un’effettiva tutela del diritto di difesa»; ciò si riscontra in caso di ricorso «ponderoso, ipertrofico, con una mescolanza di elementi di fatto ed elementi di diritto che rendono incomprensibile le ragioni delle doglianze», in cui i motivi «sono formulati in maniera farraginosa, disordinata, confusa, con una prosa involuta, difficilmente comprensibile, appesantita da continue e ridondanti ripetizioni e sovrapposizioni di elementi di fatto e di diritto, rendendo impossibile per il Collegio di discernere le critiche rivolte alla sentenza impugnata in vista del controllo di legittimità», e addirittura «i fatti di causa non vengono sinteticamente esposti dal ricorrente ma sono ricostruiti in modo del tutto disorganizzato demandando all’interprete di ricercarne gli elementi, se del caso ricostruendo una connessione logica tra i plurimi argomenti confusamente dedotti». Di qui il principio di diritto: «in tema di ricorso per cassazione, il mancato rispetto del dovere di chiarezza e sinteticità espositiva degli atti processuali che, fissato dall’art. 3, comma 2, del c.p.a., esprime tuttavia un principio generale del diritto processuale, destinato ad operare anche nel processo civile, espone il ricorrente al rischio di una declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione, non già per l’irragionevole estensione del ricorso (la quale non è normativamente sanzionata), ma in quanto pregiudica l’intellegibilità delle questioni, rendendo oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata, ridondando nella violazione delle prescrizioni di cui ai nn. 3 e 4 dell’art. 366 c.p.c. (ex plurimis Sez. 5, Ord. n. 8009 del 2019)».
Senonché, i vizi riscontrati dalla S.C. sembrano talmente gravi da non poter essere estesi a una parte rilevante del contenzioso di legittimità; laddove le nuove regole (non c’è più bisogno di far capo al CPA) non possono che avere portata generale, sulla cui concreta applicazione ci si interroga.
5.- La lettura della Ord. n. 7600/2023 conferma quanto si deduce dall’osservazione della tecnica di redazione delle sentenze costituzionali: al centro del problema c’è la chiarezza, rispetto alla quale il requisito della sinteticità (o specificità) è elemento ulteriore, la cui funzione è forse soltanto di facilitare lo smaltimento del contenzioso.
Il canone di sinteticità ha una sua propria funzione, contro cui, tuttavia, militano le regole della trattazione civile. Le riforme che si sono succedute dopo il 1990 non pongono limiti agli scritti di parte: dal 2005 (legge n. 80), si è stabilito che dopo gli atti introduttivi (citazione, comparsa di risposta), occorrono ben tre memorie (art. 183, comma 6, c.p.c., vecchio testo) per ottenere l’accesso all’udienza istruttoria, e, seppure non vengano autorizzati nuovi scambi a norma dell’art. 170 c.p.c., non mancherà l’occasione di altri due scritti nel contesto della fase decisoria (comparsa conclusionale e di replica: art. 190 c.p.c.). È quindi sin dall’inizio del giudizio e per tutta la sua durata che l’avvocato viene condotto a ri-scrivere il già scritto e, fatalmente, a ri-leggere il già letto: nei casi normali, per indirizzare una causa in decisione (qualsiasi sia la sua natura e difficoltà) occorrerà scrivere, e leggere, ben sei atti. L’avvocato non si sottrae mai al compito di scrivere o riscrivere, e, richiesta una spiegazione, darà una risposta sorprendente: egli scrive tanto, sempre di più, riscrive e duplica perché in cuor suo dubita che il giudice legga. E ancora perché paventa che il giudice, dalla scarsa mole degli scritti, possa dedurre lo scarso interesse della parte a coltivare le proprie ragioni, o l’acquiescenza alle ragioni rappresentate (magari violando il canone di sinteticità) dall’avversario, o ancora la scarsezza di argomenti a fondamento delle proprie tesi giuridiche. Così tende a riproporre tutto, a tutto ripetere in ogni singolo atto nella speranza che il giudice ne legga almeno uno (si tratterà, in genere, della comparsa conclusionale, o della memoria finale). Questa operazione di ri-scrittura, o sovra-scrittura, quasi mai produce il risultato di selezionare le effettive questioni controverse (canone della chiarezza): piuttosto di affastellarle le une sulle altre sull’implicito presupposto che una selezione verrà fatta alla fine, al momento della decisione, secondo un ordine non preventivabile e fors’anche casuale, e in ogni caso rimesso alle autonome valutazioni del giudice.
6.- Le cose non sono cambiate con la riforma introdotta dal d.lgs. n. 149/2022, che ha riscritto la fase preparatoria. Le parti, infatti, si scambiano obbligatoriamente (scompare la richiesta del comma 6 dell’abrogato art. 183 c.p.c., che del resto era stata cancellata nell’applicazione pratica che vedeva di norma il giudice assegnare i termini anche d’ufficio) prima dell’udienza le memorie integrative dell’art. 171-ter c.p.c., il quale altro non fa che reiterare la triplice già collocata nel comma 6 dell’art. 183 c.p.c., con termini computati a ritroso (quaranta giorni, venti e dieci rispetto alla data della prima udienza); il giudice, per parte sua, entro quindici giorni dalla scadenza del termine di tempestiva costituzione del convenuto (art. 166 c.p.c.), adotta con decreto i provvedimenti ortoprocessuali di cui era già traccia, in buona parte, nell’art. 183, comma 1, c.p.c., vecchia versione. Il decreto può anche sollevare d’ufficio questioni che le parti tratteranno nelle memorie integrative (art. 171-bis, comma 1, ultimo periodo) e può comportare – nei casi contemplati negli artt. 102, comma 2, 107, 164, commi 2, 3 e 4, 167, commi 2 e 3, 171, comma 3, 182, 269, comma 2, 291 e 292 – il rinvio della prima udienza di trattazione. Se ne deduce che, a seconda dei casi, il decreto potrà confermare o rinviare l’udienza di prima comparizione già fissata, ma l’uso dell’indicativo presente nell’art. 171-bis («il giudice […] verificata d’ufficio […] pronuncia […] indica») non è sufficiente per poter ritenere che siamo dinanzi a un adempimento obbligatorio (del resto, la sua omissione non produce conseguenze). Anche perché, mentre taluni rilievi non risentono dello scambio delle memorie integrative (si pensi alla nullità dell’atto di citazione), altri rilievi (si pensi a quelli d’ufficio di questioni) potrebbero essere indotti proprio da queste ultime; ragion per cui, è nell’ordine naturale delle cose che la prima udienza non possa essere del tutto sterilizzata rispetto alle questioni preliminari, dal momento che le parti hanno a disposizione, dopo quelli introduttivi, altri scritti “integrativi” in cui il thema decidendum potrà essere precisato e in parte modificato.
Insomma, anche dopo il d.lgs. n. 149/2022 si scrive in tempi diversi, ma si continua a scrivere esattamente come prima. A scrivere e ri-scrivere, a discapito dei tanto invocati requisiti di chiarezza e sinteticità. Ma anche della ragionevole durata, perché un processo che rinuncia all’oralità e dissemina la trattazione di scritture non può pretendere di essere celere.
E non può non notarsi quanto sia stato bizzarro, per un legislatore delegato che ha riscritto nei termini indicati gli artt. 121, 163, 167, 342, 366 e 46 disp. att., l’aver confermato l’eccesso di trattazione scritta che della sinteticità (e forse anche della chiarezza) è il più sicuro e sperimentato avversario.
7.- Le norme che stiamo esaminando guardano al problema dalla prospettiva del giudice; in pochi considerano che anche l’avvocato è vittima della violazione dei criteri su cui stiamo ragionando. La facile riproducibilità degli scritti grazie agli strumenti informatici ha creato nella “narrazione” giudiziaria (che può considerarsi un aspetto di quella letteraria, nonostante la SS.UU. 16 gennaio 2015, n. 642) problemi nuovi, e anzitutto l’irrazionale appesantimento degli atti quale frutto dell’abuso del copia-incolla. L’avvocato è la prima vittima in ordine di tempo perché legge, di norma, prima del giudice, del quale diviene poi, in sequenza, carnefice. L’opera di affastellamento indiscriminato e irrazionale, che è alla base della produzione degli attuali atti giudiziari, s’aggrava inevitabilmente col passaggio dei gradi, perché la preoccupazione che prevale è quella di dar conto di tutto e di non cadere in errori per omissione: nel tentativo non di convincere il lettore, ma forse di tramortirlo, di anestetizzarlo. Forse la finalità contundente di molti scritti di parte è memoria del tempo in cui i contenziosi giudiziari si definivano col duello, assoldando abili picchiatori.
8.- In questa situazione, non sorprende che lo schema di d.m. Giustizia non sia stato accolto con grande entusiasmo (sappiamo bene che esistono altre ragioni, qui non accennate per gli intrinseci limiti di questo scritto): non sono chiari i presupposti stessi di norme che – le si intenda come si vuole – conservano un imponderabile margine di indeterminatezza. Nonostante esse siano state preparate, nel tempo, dall’attività degli Osservatori con le loro linee-guida, estese addirittura all’uso di un linguaggio “non ostile” (L. Breggia, Per un linguaggio non ostile dentro e fuori il processo. Il potere delle parole. Avere cura delle parole, in www.questionegiustizia.it dal 5 novembre 2022).
Le riforme degli ultimi dieci anni sono state e sono fonte di grave preoccupazione per l’Avvocatura, che non può non considerare, ora, gli obiettivi del PNRR sulla durata dei contenziosi e sulla riduzione dell’arretrato. E forse, in un contesto così magmatico, sarebbe stato saggio non fare dei requisiti in esame, corrispondenti a istituti sui quali non può dirsi conclusa la riflessione culturale (perché di questo si tratta), altrettante prescrizioni “a pena di inammissibilità” dei gravami.
Il discorso acquista concretezza se posto in relazione alle statistiche ufficiali della Corte di cassazione sugli esiti dei ricorsi. Secondo l’Annuario statistico 2022 (periodo 1° gennaio 2022/31 dicembre 2022 e serie storiche dal 2012 al 2022), pubblicato dall’Ufficio di statistica presso la Corte di cassazione nel gennaio 2023, le declaratorie di inammissibilità, dal 2012 al 2022, sono cresciute più di tre volte. Se nel 2012 venivano definiti con declaratoria di inammissibilità l’11,9% dei ricorsi, nel 2022 tale esito ha riguardato il 27,3% dei ricorsi. E giacché le statistiche riguardano la definizione del giudizio, e non anche le inammissibilità di singoli motivi che non precludono l’esame nel merito di altri motivi giudicati ammissibili, può affermarsi con sicurezza che l’esito dell’inammissibilità, attualmente, riguarda più di un terzo dei motivi di ricorso per cassazione proposti, e quasi un terzo dei ricorsi. Si tratta di un numero importante, che rende chiara la variazione del rapporto tra regola ed eccezione: se, fino a poco prima del 2012, l’inammissibilità era un esito eccezionale, attualmente è un esito che si attinge almeno nel 30% dei casi.
È interesse di tutti che chiarezza, sinteticità e specificità non diventino le nuove forche caudine per l’accesso ai gravami.