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Procedimento in cassazione per la decisione accelerata dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati e terzietà del giudicante. La questione alle Sezioni Unite.
Di Roberta Tiscini -
1.Con ordinanza del 18 settembre 2023, la Prima Presidente della Corte di cassazione sottopone alle Sezioni Unite la questione di particolare importanza sul dubbio “se, nel procedimento [per la decisione accelerata dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati] dell’art. 380 bis c.p.c.[1] il consigliere che ha redatto la proposta di decisione accelerata possa entrare a comporre, nella veste di relatore, il Collegio giudicante”.
Era prevedibile (e previsto[2]) che il nuovo grimaldello processuale dell’art. 380 bis c.p.c. rischiasse di confliggere con la garanzia di terzietà e imparzialità; profilo problematico accentuato dalla scelta di campo a favore del “giudice monocratico in cassazione”[3], assoluta novità nel giudizio di legittimità (che non ha mancato di stimolare le osservazioni critiche dei più[4]).
Quella dell’alterità del giudicante è tra le più battute garanzie costituzionali intorno al processo (pure prima che l’art. 111 comma 2 Cost. ne esplicitasse i contenuti[5]); a tratti, anzi, oggetto di eccessiva attenzione, non mancando, al cospetto di qualsiasi modello procedimentale articolato in fasi/gradi, il sospetto di non imparzialità per chi esercita il potere giudiziario. Nel fiorire di una intensa attività giurisprudenziale[6], anche il livello di attenzione della legge è andato crescendo; sicché, a scanso di equivoci, le riforme più recenti hanno previsto espressamente le incompatibilità[7]. Così è accaduto pure nella riforma Cartabia del d.lgs. n. 149/2022, in relazione alle ordinanze degli artt. 183 ter e 183 quater c.p.c. nelle quali, in caso di accoglimento del reclamo avverso l’ordinanza, rispettivamente, di accoglimento o di rigetto, «il giudizio prosegue davanti a un magistrato diverso da quello che ha emesso l’ordinanza»[8].
Nell’art. 380 bis c.p.c., invece, regna il silenzio.
2.I piani di riflessione intorno alla questione sottoposta all’attenzione delle Sezioni Unite possono articolarsi sia sul metodo che sul merito. Quanto al metodo, ci si può chiedere se la decisione delle Sezioni Unite sia appagante o se invece non si debba in ogni caso percorrere la strada del rilievo della questione di costituzionalità davanti alla Consulta. A me sembra che le due strade non siano incompatibili perché l’una è pregiudiziale rispetto all’altra. L’assegnazione del consigliere che ha formulato la proposta al collegio che poi deve rendere la decisione camerale è problema di organizzazione interna alla Corte; problema, quindi, che quest’ultima può risolvere per via interpretativa, autoimponendosi regole che prevedano l’alterità, ovvero, al contrario, non prevedendole (e così consentendo sotto il profilo soggettivo la continuità tra consigliere proponente e collegio decidente). Il dubbio può allora sciogliersi – prima ancora che diventi motivo di incostituzionalità – attraverso la costruzione di un diritto vivente in linea con i precetti costituzionali ad opera delle stesse Sezioni Unite.
Tuttavia, in quanto questione nuova – in assenza proprio di un diritto vivente – si può anche immaginare la diversa strada del rilievo dell’incidente di costituzionalità; anche qui, però, il sospetto, in principio sollevato dal ricorrente, deve passare per una decisione della Corte di cassazione, verosimilmente dopo l’intervento delle Sezioni Unite che abbiamo fatto proprio il dubbio e al contempo, non appagate dalla soluzione “interna”, rinviino la questione alla Consulta (con conseguente sospensione del giudizio a quo).
Con l’ordinanza del 18 settembre 2023 per il momento siamo nella prima fase, prospettandosi la questione di particolare importanza, e così abilitando la Prima Presidente a sollecitare l’intervento nomofilattico delle Sezioni Unite. Ci sono buone ragioni per pensare che il percorso potrebbe concludersi così. Pur volendo prescindere dagli effetti più distorsivi prodotti dalla rimessione alla Corte costituzionale (soprattutto in relazione alla sospensione del giudizio a quo), resta fermo che l’unico organo abilitato a sollevare il dubbio è la stessa Corte di cassazione, la quale, così come può chiedere l’intervento della Corte costituzionale, non diversamente può costruire un diritto vivente che offra soluzioni conformi alla Carta fondamentale per via interpretativa. La situazione richiama la lunga storia del ricorso straordinario in cassazione, la cui costruzione è stata oggetto di un monopolio assoluto ad opera della Corte Suprema, pur ruotando il rimedio intorno all’interpretazione di un precetto costituzionale (art. 111 comma 7 Cost.)[9].
3. Vengo al merito. Volendo riassumere, in estrema sintesi, le caratteriste con cui da tempo la giurisprudenza di costituzionalità e quella di legittimità ricostruiscono la terzietà del giudicante, si dirà che quest’ultima si imponga ogni qualvolta vi sia un passaggio tra “gradi” del giudizio, ove però l’accezione di grado va ben oltre quella intesa in senso tecnico, per estendersi a qualsiasi duplicazione di valutazioni ricadenti sulla medesima res iudicanda, in cui il passaggio dall’un (grado) all’altro assolve alla funzione della revisio prioris instantiae. Restano fuori dalla regola i meccanismi processuali che si dipanano in più fasi (l’una autonoma e distinta dall’altra) privi di consequenzialità[10].
Calata tale definizione nel caso dell’art. 380 bis c.p.c., occorre innanzi tutto premettere che l’invocazione delle regole tradizionali – quelle che esprimono orientamenti consolidati – necessitano di un inevitabile riadattamento, in ragione della assoluta novità del meccanismo. Qui abbiamo infatti una prima “fase” stante nella formulazione di una “proposta” – da parte del presidente di sezione o del consigliere delegato – che potenzialmente è in sé dotata di una autonomia e visibilità esterna del tutto originali, dal momento che, in assenza di esplicita richiesta da parte del ricorrente nel senso di avere la decisione, «il ricorso si intende rinunciato e la Corte provvede ai sensi dell’art. 391» (art. 380 bis comma 2 c.p.c.). A ben guardare, siamo in presenza di una “decisione” camuffata dietro le vesti di una “proposta”[11] perciò potenzialmente conclusiva del giudizio. Qualora essa sia seguita dalla richiesta una nuova decisione, la successiva propaggine procedimentale ha lo scopo di riportare il collegio sulla medesima res iudicanda con un approccio non dissimile dalla revisio prioris instantiae (seppure con mutate vesti). Vale la pena insistere, infatti, non tanto sulla natura impugnatoria o meno della seconda fase, quanto su ciò che è oggetto di sindacato ad opera del collegio, alla luce dei poteri delle parti di contraddire. Quanto a quest’ultimo profilo, l’attuale art. 380 bis.1 c.p.c. stabilisce che, una volta fissata la modalità camerale, le parti possono depositare delle “sintetiche memorie illustrative”: atti giudiziari evidentemente incapaci di ospitare non solo nuovi motivi di ricorso (il che sarebbe ovvio), ma neanche più approfondite ricostruzioni dei medesimi motivi già proposti, bensì solo una mera “illustrazione” (tra l’altro “sintetica”) di quanto addotto negli atti introduttivi.
Tenuto conto dell’impossibilità per le parti di presentare alcunché di nuovo – nel transito dalla proposta alla decisione camerale – la seconda fase davanti al collegio finisce per essere null’altro che una revisio prioris instantiae, quale ritorno su valutazioni già espresse dal consigliere nella proposta.
Si può allora ritenere che la duplicazione della cognitio sulla medesima res iudicanda – guardata congiuntamente all’impossibilità per le parti di proporre novità, neppure sul piano argomentativo – impone di dare un significato alla successione procedimentale di fasi (altrimenti esattamente sovrapponibili) proprio incidendo sull’alterità del giudicante. Assicurare infatti che il consigliere (o il presidente) che ha formulato la proposta non sia colui che partecipa al collegio che decide è espressione, in primis, della garanzia di terzietà – secondo la lettura costituzionalmente orientata – ma poi anche è l’unico modo per dare valore ad una seconda fase altrimenti destinata a rivelarsi priva di significato nella dinamica del procedimento; con l’ulteriore precisazione che l’incompatibilità sussiste (e funge da garanzia ineliminabile) sia nel caso in cui il consigliere proponente sia poi relatore nel collegio medesimo, sia anche qualora egli non assuma nell’organo collegiale la veste di relatore (ma vi partecipi).
Non basta. A ben vedere, la scelta legislativa di dirottare il giudizio (dopo la richiesta di decisione ad opera del ricorrente) verso la modalità camerale piuttosto che la pubblica udienza aggrava ulteriormente la situazione e induce a valutare il profilo dell’incostituzionalità anche (e più in generale) in relazione al diritto di difesa e alla garanzia del contraddittorio (art.24 e 111 cost.). Il vicolo cieco verso cui è condotto il ricorrente che non si accontenti della proposta è evidente: al cospetto della totale assenza per quest’ultimo di armi per dialogare fattivamente con il collegio (privato di ogni potere di discutere in una udienza pubblica), è inevitabile pensare che la possibilità per le parti di non fermarsi alla proposta ma di andare avanti (nonostante questa) sia una mera illusione che prolunga i tempi e non offre alcuna garanzia di risultato.
4. Il tema della terzietà del giudicante si era già posto nelle precedenti formulazioni del procedimento camerale nel giudizio di cassazione. La questione interessa la relativa disciplina, sia nella versione anteriore alla riforma del 2016[12], sia in quella ad essa successiva. Con riferimento al regime vigente in presenza della sesta sezione, occorreva infatti distinguere il rito camerale che si svolgeva davanti alla sezione semplice da quello che si svolgeva davanti alla sezione sesta, il secondo connotato da una complessità maggiore di quella del primo. In quest’ultimo caso, l’“adunanza camerale di Sesta” veniva fissata solo a seguito della formulazione di una proposta da parte del consigliere relatore; passaggio, questo, assente presso la sezione semplice. Inoltre, nel procedimento camerale di sesta l’ipotesi decisoria (“inammissibilità”, “manifesta infondatezza”, “manifesta fondatezza”) andava anticipata ai difensori proprio con la proposta del relatore. Una tale dinamica, volta a porre in risalto la formulazione della proposta, non emergeva nel procedimento camerale davanti alla sezione semplice ordinaria, in quanto qui l’opzione per la camera di consiglio non era preceduta da alcuna “proposta” del relatore, né il decreto del presidente della sezione che fissa l’adunanza doveva contenere indicazioni in ordine al possibile esito del giudizio.
In entrambi i casi, anche quando, nella scelta per il modello camerale di sesta, voleva attribuirsi una autonoma visibilità alla formulazione della proposta, era evidente come quest’ultima non chiudesse il procedimento, il cui unico atto finale era comunque l’ordinanza camerale. Piuttosto, qui la formulazione della proposta aveva un significato suo proprio, richiamando – come rilevato da autorevole dottrina[13] – l’antico modello dell’”opinamento”, quale prospettazione di un “dubbio” di cui la sentenza rappresentava la risposta[14].
D’altra parte, che il rito camerale – pure quello da applicarsi davanti alla sesta sezione (ante riforma del 2016) – fosse esente dal rischio di pregiudicare la terzietà del giudicante era conclusione su cui si era assestata la giurisprudenza di legittimità, la quale più volte aveva dichiarato «manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 377 e 380 bis c.p.c., con riferimento all’art. 52 c.p.c. ed in relazione all’art. 111, secondo comma, Cost., nella parte in cui consentono che il giudice relatore possa comporre il collegio giudicante, nel giudizio camerale di cassazione»[15]. Si osservava infatti come «la relazione prevista dall’art. 380 bis c.p.c. non è un segmento di decisione sottoposto all’approvazione del collegio, né una qualificata opinione versata agli atti, ma una mera proposta di definizione processuale accelerata, che indica alle parti e al collegio la possibile ricorrenza delle condizioni di cui all’art. 375 c.p.c., favorendo il pieno dispiegarsi del contraddittorio e la celerità della decisione»[16].
Che in quest’ultimo caso l’incompatibilità non poteva ravvisarsi era dimostrato dal fatto che la relazione non aveva alcuna autonomia all’interno del meccanismo, assumendo un ruolo solo se collocata entro il procedimento stesso, quale sua vicenda. Mancavano cioè alla relazione i caratteri del provvedimento giudiziale, che (ancorché inserito in un più ampio procedimento) fosse capace di incidere direttamente sulla posizione delle parti. Si trattava in altri termini di una proposta priva di una visibilità sua propria fintanto che non fosse recepita, con autonomo provvedimento ed autonoma decisione, dal Collegio (qualora quest’ultimo ritenesse di condividerne i contenuti).
Vi era piuttosto il rischio inverso. Imporre al giudice relatore l’obbligo di astenersi dal partecipare al collegio giudicante avrebbe significato snaturare il procedimento camerale facendone venire meno i vantaggi in termini di accelerazione: si sarebbe rinunciato in questo modo alla posizione qualificata del relatore – chiamato a formulare un “opinamento” – per sostituirla con quella di un diverso giudice chiamato pur sempre a rendere la relazione (questa volta, nella prospettiva della decisione collegiale).
La situazione attuale è molto diversa. Qui il bene da preservare non è la continuità tra la proposta e la successiva decisione camerale, bensì è la garanzia che nel passaggio da una fase all’altra vi sia una qualche novità da apprezzare intorno alla ponderazione della decisione, proprio attraverso l’alterità del giudicante. A fare la differenza, qui, soccorrono diversi indici sintomatici: in primo luogo, non si può attribuire alla proposta la veste – già assunta nel vecchio procedimento camerale dalla relazione – di “opinamento” volto ad indirizzare la procedura verso il rito camerale[17]. Inoltre (e di contro), la formulazione della proposta spezza oggi il procedimento e mostra proprio quella “autonomia” che era mancata nella precedente versione, dal momento che – nel silenzio del ricorrente – essa è destinata a condurre verso l’estinzione del giudizio. Quello dell’estinzione è un effetto così devastante, nell’interesse del ricorrente, da esprimere con evidenza la totale cesura tra proposta e la successiva fase camerale.
D’altra parte, che si tratti di un provvedimento che separa in maniera drastica la prima fase dalla seconda e che ha una sua autonoma identità – tanto da essere qualificato proprio come una “decisione”[18] – è dimostrato dalle conseguenze che tale provvedimento produce sulla procura alle liti. Se il ricorrente vuole insistere per la decisione, egli deve farsi rilasciare un’altra procura: quanto di più chiaramente riconducibile ad un nuovo “giudizio” (fase o grado che dir si voglia), al punto da richiedere l’instaurazione di un diverso vincolo contrattuale tra cliente ed avvocato.
5. In chiusura di queste brevi riflessioni, merita spazio qualche altro profilo di criticità sollevato dal procedimento dell’art. 380 bis c.p.c. proprio con riferimento alla necessità della nuova procura[19].
Va premesso che, ancorché all’apparenza il rito assicuri – quanto meno sotto questo profilo[20] – il contraddittorio (il comma 1 art. 380 bis c.p.c. prevede la comunicazione della proposta ai difensori delle parti, nonché il diritto del ricorrente di chiedere la decisione), la solidità con cui la Corte (rectius, il giudice monocratico) terrà ferma la proposta stessa pure nel silenzio del ricorrente sarà la cartina di tornasole di quanto la successione tra proposta e decisione camerale siano effettivamente frutto di più ponderate riflessioni, piuttosto che l’una l’inutile doppiaggio di quanto già deciso nell’altra.
Vi è poi l’ulteriore aspetto – gravemente problematico – che ruota intorno al significato attribuito al silenzio del ricorrente (al cospetto della formulazione della proposta). Viola le più genuine garanzie in cui si estrinseca il contraddittorio dare al silenzio del ricorrente un significato così invasivo sugli esiti del giudizio. Si sa che il comportamento processuale delle parti nel giudizio di cassazione, in quanto fondato sull’impulso d’ufficio, ha un ruolo recessivo. È allora in contrasto con il diritto di difesa accordare in tale fase un dirompente significato processuale al silenzio[21].
Ciò che forse è peggio è quanto si annida nell’obbligo dell’avvocato, che voglia chiedere la decisione, di farsi rilasciare una nuova procura. Siamo in presenza di uno dei tanti espedienti utilizzati dal legislatore per coartare la volontà delle parti (dei loro difensori) verso una strategia processuale piuttosto che un’altra, ma con la novità che qui si vuole incidere sul valore accordato alla procura alle liti quale diaframma tra parti (sostanziali) ed avvocato; essa segna un passaggio essenziale nella dinamica del giudizio esprimendo un vincolo fiduciario che coinvolge non solo le parti ed il loro legale, ma anche il giudice (il quale, proprio in virtù della procura, può dialogare con il professionista). Imporre una nuova procura significa spezzare quel vincolo fiduciario, gettare un’ombra nelle relazioni che ruotano intorno al processo[22].
Si dirà che è questo un modo per selezionare i ricorsi fondati da quelli infondati o (ancora peggio) inammissibili o improcedibili, inducendo gli avvocati a desistere dal proporli ad ogni costo. Mi chiedo tuttavia se la ragione della nuova previsione sia solo questa o se non ve ne siano altre: certamente decongestionare il contenzioso, ma forse anche scoraggiare la professione forense di alcune categorie di legali poco avvezzi al giudizio di legittimità. Si dirà, ancora, che si tratta di ragioni nobili che prevalgono su qualunque relazione intima tra i protagonisti del processo. Senonché, anche sotto questo profilo le perplessità non mancano. Ci si è voluti insinuare nel profondo del vincolo contrattuale tra avvocato e cliente che viaggia su binari diversi da quelli su cui si muove il processo. Una cosa è il legame basato sulla fiducia tra cliente e avvocato (consacrato nella procura), altra cosa sono le capacità del legale di soddisfare in concreto le richieste delle parti. Se il ricorso alla fine sarà rigettato o dichiarato inammissibile (secondo le vie ordinarie), l’effetto boomerang sul legale si avvertirà ugualmente: un avvocato destinato ripetutamente a perdere i ricorsi per cassazione, nella selezione naturale della professione forense e secondo le leggi del mercato, con difficoltà riuscirà ad emergere. Si dovrebbe evitare però che in questa selezione naturale ad alterare non poco il corso delle cose si insinui un giudice, quand’anche di legittimità, con l’avallo della legge processuale che dovrebbe essere a tutt’altro scopo destinata (con il rischio che alla fine le leggi di natura neppure riescano bene a funzionare).
Al cospetto di una così invasiva scelta del legislatore, le giustificazioni finiscono per essere sfuggenti ed il sistema si mostra ancor più precario se si immagina che nel transito dal primo (che si conclude con la proposta) al secondo segmento procedimentale (che conduce alla decisione camerale) non vi sia neppure un mutamento soggettivo nell’organo decidente. Forse, la sostituzione del giudice (imponendo per via interpretativa l’alterità del giudicante) riesce a dare quel minimo di significato allo sdoppiamento dell’iter in due fasi inframezzate dall’(altrimenti incomprensibile) rilascio di nuova procura.
[1] Sul tema per tutti, Luiso, Il nuovo processo civile. Commentario breve agli articoli riformati del codice di procedura civile, Milano, 2023, 218; Besso, Riforma Cartabia: il nuovo processo civile (I parte) – le modifiche al giudizio di cassazione, in Giur. it., 2023, 474; Capponi, Il giudice monocratico in Cassazione, in Foro it., 2023, V, 23; Id., Una novità assoluta per il giudizio di legittimità: il giudice monocratico nel procedimento “accelerato” (art. 380 bis c.p.c.), in Id, Legittimità, interpretazione, merito. Saggi sulla Cassazione civile, Napoli, 2023, 261 ss.; Id, Dei giudici monocratici in Cassazione, in www.judicium.it, 11 gennaio 2023; Graziosi, Le nuove norme sul giudizio di cassazione e sulla revocazione, in Riv. dir. proc., 2023, 667 ss.; Carratta, Le riforme del processo civile. l. lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, in attuazione della l. 26 novembre 2021, n. 206, Torino, 2023, 121; Bernini, Il procedimento innanzi alla Corte di cassazione, in Cecchella (a cura di), Il processo civile dopo la riforma. d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, Bologna, 2023, 373; F. Santagada, Commento all’art. 380 bis, in Tiscini (a cura di), La riforma Cartabia del processo civile, Pisa, 2023, 575 ss.; Damiani F.S., La riforma del giudizio di cassazione, in Dalfino (a cura di), La riforma del processo civile. L. 26 novembre 2021 n. 206 e d.leg. 10 ottobre 2022, n. 149, fasc. speciale n. 4/22 del Foro it., 2023, 219 ss., spec. 233; Acierno-Sanlorenzo, La Cassazione tra realtà e desiderio. Riforma processuale ed ufficio del processo: cambia il volto della Cassazione?, in Quest. giust. trim., n. 3/2021, speciale su La riforma della giustizia civile secondo la legge delega 26 novembre 2021, n. 206, 96 ss; De Stefano, La riforma prossima ventura del giudizio di legittimità – note a lettura immediata sulla legge 206/21, in www.giustiziainsieme.it.
[2] Capponi, Il giudice monocratico in Cassazione, cit., 23; Id, Capponi, Una novità assoluta, cit., 261 ss.). Nel medesimo senso Graziosi, Le nuove norme sul giudizio di cassazione e sulla revocazione, cit., 678; Damiani F.S., La riforma del giudizio di cassazione, cit., 239.
[3] Parla di giudice monocratico (o giudice singolo) in Cassazione, Capponi, Una novità assoluta, cit., 261 ss.; Id., Il giudice monocratico in Cassazione, cit., 23.
[4] Alla considerazione – da parte dei fautori di tale novità (Acierno-Sanlorenzo, La Cassazione tra realtà e desiderio, cit.; De Stefano, La riforma prossima ventura, cit.) – che si tratterebbe di una mera “proposta”, e non di una decisione (proposta che le parti sarebbero sempre libere di accettare), si può agevolmente obiettare nel senso che è questa una proposta così caldeggiata, per tutte le conseguenze che ne derivano, da essere nella sostanza difficilmente rifiutabile (Capponi, Una novità assoluta, cit., 268). Gli effetti sui profili economici del giudizio – sia per il caso di accettazione della proposta (dimezzamento del contributo unificato), sia per quello di rifiuto (applicazione dell’art. 96 commi 3 e 4 c.p.c. congiuntamente) – sono la cartina di tornasole di quanto l’iniziativa del consigliere (o del presidente) incida sull’esito del giudizio. Come rileva più avanti, nel paragrafo 4, in fine, anche la necessità di munirsi di nuova procura del cliente dimostra la “serietà” della proposta.
[5] All’esito della riforma della l. cost. n. 2/1999, l’art. 111 comma 2 Cost. assicura che il processo per essere giusto si debba svolgere “davanti a giudice terzo e imparziale”; tuttavia, a conclusioni non dissimili si giungeva nella vigenza della versione originaria della Carta costituzionale ritenendo la terzietà del giudicante un bene protetto dall’art. 24 Cost. per il tramite dell’art. 51 n. 4 c.p.c. quale norma interposta.
[6] Mi limito al più recente intervento di costituzionalità: Corte Cost. 17 marzo 2023, n. 45, in www.giustciv.com, 14 aprile 2023, con nota di Limongi, che ha dichiarato illegittimo l’art. 630 comma 3 c.p.c., per contrasto con il principio di terzietà del giudice, nella parte in cui, individuando il reclamo al collegio quale mezzo di impugnazione dell’ordinanza che ha statuito sull’estinzione, non esclude che del collegio possa far parte lo stesso magistrato che ha pronunciato il provvedimento reclamato. Sul tema cfr. anche Limongi, L’affermata natura impugnatoria del reclamo ex art. 630 c.p.c. e le sue conseguenze, in Il processo, 2023, 199 ss.
[7] Si pensi ad esempio, all’interno del codice di rito, all’art. 669 terdecies comma 2 c.p.c. in ipotesi di reclamo cautelare, all’art. 186 bis disp. att. in materia di opposizione agli atti esecutivi, all’art. 739 c.p.c. (come modificato dal d.lgs. n. 149/2022), in relazione al reclamo contro i decreti del giudice tutelare. Non diversamente, poi, nelle procedure concorsuali, avendo il codice della crisi di impresa e dell’insolvenza recepito le esigenze – già mostrate nella legge fallimentare – di assicurare la terzietà del giudicante in diversi subprocedimenti.
[8] Argomento questo invocato anche nell’ordinanza della Prima presidente del 18 settembre 2023.
[9] In quest’ultima vicenda, è stata proprio la Corte suprema a voler trattenere la questione al suo interno definendo i confini dell’art. 111 comma 7 Cost. attraverso linee interpretative che sono presto divenute diritto vivente. Sia consentito rinviare sul tema a Tiscini, Il ricorso straordinario in Cassazione, Torino, 2005, passim.
[10] Vd. significativamente Corte Cost. 15 ottobre 1999, n. 387, in Riv. dir. proc. 2000, 1188, con nota di Giorgetti; Corr. giur. 2000, 40, con note di Consolo e di Tiscini; Foro it. 1999, I, 3441, con nota di Scarselli. Cfr. anche, ex pluribus, Corte Cost. 31 maggio 2001, n. 176.
[11] Si osserva in dottrina: «il provvedimento del giudice singolo […] è dunque una decisione vera e propria, una anticipazione di giudizio in forma sommaria (perfettamente idonea a definirlo) che dovrebbe produrre una vera e propria incompatibilità del consigliere proponente a far parte del collegio giudicante, qualora la parte, nonostante tutto, intenda richiedere una decisione nel merito del ricorso» (Capponi, Il giudice monocratico in Cassazione, cit., 23; Id, Capponi, Una novità assoluta, cit., 261 ss.). Nel medesimo senso Graziosi, Le nuove norme sul giudizio di cassazione e sulla revocazione, cit., 678, sospettando che il giudice che formula la proposta di definizione del giudizio «perde inevitabilmente la sua posizione di terzietà ed imparzialità rispetto alla causa che potrebbe essere chiamato a decidere, se la proposta non viene accettata dal ricorrente che chiede comunque la decisione del ricorso ai sensi dell’art. 380-bis, comma 2°, c.p.c.».
[12] Di cui al d.l. n. 168/2016, conv. in l. n. 197/2016 (per tutti, Damiani, Il procedimento camerale in Cassazione, Napoli, 2011, passim).
[13] Picardi, L’ordinanza “opinata” nel rito camerale in Cassazione, in Giusto proc. civ., 2008, 321 ss.
[14] Sicché, “la relazione si risolve in una vera e propria ordinazna opinata” (Picardi, op. cit., 329).
[15] Cass. 16 aprile 2007, n. 9094, in Riv. dir. proc., 2008, 1128, con nota di Tiscini e in Corr. Giur., 2007, 755 con nota di Carbone; Cass. 5 ottobre 2007, n. 20965; Cass. 2 luglio 2008, n. 18047.
[16] Cass. 16 aprile 2007, n. 9094, cit. Cfr. sul tema, proprio in relazione alle analogie con l’opinamento, Picardi, op. cit., 330.
[17] Va infatti ricordato che l’opinione del relatore – non vincolante per il collegio giudicante – poteva essere disattesa da quest’ultimo, il quale, se riscontrava la non sussistenza delle fattispecie idonee alla decisione camerale, rinviava la causa alla pubblica udienza. Anche in questo è evidente la distanza tra il vecchio modello e quello attuale nel quale, come si è visto (retro § 3) la prospettiva della pubblica udienza resta un miraggio.
[20] Per gli altri dubbi di contrasto con la garanzia del contraddittorio, retro, § 3.
[21] Per non dire che una evidente lacuna sul piano del contraddittorio risiede nel mancato coinvolgimento del pubblico ministero nei cui confronti la legge non contempla alcuna comunicazione o informativa circa l’avvenuta formulazione della proposta (Capponi, Una novità assoluta, cit. 269).
[22] Immagino con difficoltà quali argomenti potrà utilizzare l’avvocato caparbio, ma convinto della bontà delle proprie ragioni, e perciò intenzionato ad insistere nella richiesta di decisione, per giustificare al cliente la necessità di rilasciargli una nuova procura; una difficoltà, invero, non diversa da quella richiesta per giustificare la condanna al pagamento del doppio del contributo unificato o ad altre pesanti conseguenze sulle spese di lite che l’attuale formulazione dell’art.96 c.p.c. non esita ad imporre.