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Premesse concettuali allo studio della prova contraria
Di Chiara Naimoli -
Sommario: 1. Radice epistemologica-argomentativa della prova contraria. – 2. Confutazione e verifica della verità di un enunciato. – 3. La prova contraria nel quadro delle fonti. – 4. Il giudizio di segno opposto sulla prova affermativa. – 5. Gli enunciati fattuali integranti il thema probandum. – 6. Antagonismo probatorio. Prospettiva generale. – 6.1. Antagonismo probatorio sul fatto principale. – 6.2. Antagonismo probatorio mediato. – 6.3. Antagonismo logico-argomentativo
1.Radice epistemologica-argomentativa della prova contraria
Il bisogno di intendere il fenomeno probatorio nel giudizio, tra differenti culture e vari modelli processuali[1], ha impegnato la dottrina sin da tempo risalente, venendo di regola associato al processo di “fissazione del fatto”[2], dalla cui dimostrazione le parti intendono trarre conseguenze in ordine alla fondatezza della propria pretesa.
Le varie e complesse teorizzazioni, in particolare intorno a questioni definitorie[3], rilevano come lo studio della prova in campo giudiziale implichi il coinvolgimento delle categorie proprie dell’ambito giuridico-positivo, ma anche dai paradigmi del settore filosofico-scientifico dell’epistemologia giudiziaria[4].
Il concetto giuridico di prova si è, infatti, storicamente sviluppato intorno a due prospettive, che rappresentano le accezioni più chiaramente apprezzabili del fenomeno probatorio: quella dimostrativa e quella argomentativa, ossia la connotazione finalisticamente proiettata nella dimensione epistemologica di ricostruzione del fatto[5], e la connotazione strutturalmente legata alla logica argomentativa[6].
Il tema della prova contraria, centrale nello studio sulla prova e nel ragionamento che fonda il discorso del giudice nell’accertamento del fatto, più d’ogni altro – si vedrà – mostra questo legame tra funzione conoscitiva e funzione argomentativa del momento probatorio.
Il generale, il diritto alla prova contraria viene particolarmente invocato a garanzia dei principi fondanti e delle strutture modellanti il nostro sistema processuale, perché precipitato di un processo giusto, regolato dalla legge, che preservi parità tra accusa e difesa dinanzi al giudice terzo ed imparziale. Invero, il contro-provare ha origini antiche e più che emblema del moderno assetto processuale, rappresenta la premessa culturale su cui esso si sviluppa[7].
Alcuni dei principi che definiscono la struttura del processo accusatorio, quali quello della terzietà del giudice, dell’oralità, della pubblicità, del contraddittorio, non possono dirsi scoperte di un passato recente, ma risalgono alla raffinata tradizione retorica e topica dell’ars disserendi, inveniendi e iudicandi del periodo classico[8]. L’analisi storica mostra che sull’induzione giudiziaria si sono venuti delineando i fondamenti della logica greca e la metodologia della ricerca empirica; e ciò proprio attraverso la configurazione della tecnica della disputa per prova ed errore, elaborata per le controversie giuridiche, come logica o teoria generale dell’indagine induttiva[9].
Il riferimento è alla logica afferente alla sfera del “probabile”, o dell’”opinabile” o del “verosimile”, distinta dalla logica deduttiva di tipo analitico o apodittico, e all’interno della tradizione che colloca la prova, più che nella dimensione propriamente “logica”, quale fondamento razionale delle ipotesi sul fatto, nella dimensione “retorica” dell’argomentazione diretta a convincere il giudice a ritenere esistente quel fatto[10]. Al di là dei rilievi che pur sono stati mossi a tale teoria[11], si afferma che «la razionalità consiste nel processo di costruzione: ed è una conoscenza che si attua attraverso l’opposizione di valori»[12]. Si intuisce, cioè, l’importanza del metodo dialettico di vedere i pro e i contra di ogni questione: «in una retorica dominata dal problema della adesione dell’interlocutore, una grande importanza era attribuita alla prova della verità mediante l’utilizzazione degli stessi principi dell’avversario»; si riconosce, in sostanza, una certa autonomia fra le parti del discorso al momento della confutazione come un «giudizio» della parte[13].
E’ chiaro che il rimedio più efficace contro la capziosità dell’argomentazione è l’imitazione del metodo scientifico e l’utilizzazione della struttura sillogistica[14], partendo dalle opposte premesse probabili[15]. La confutazione è considerata come la prova della proposizione contraddittoria ad una certa conclusione, modellata sulla struttura sillogistica del ragionamento «e pertanto la sua falsità può essere stabilita in relazione ad una proposizione singola, tutte le volte che questa non riconosce la necessità del discorso»[16].
Dialettica e retorica pur nella loro differenza (perché l’una ha lo scopo di controbattere l’avversario, l’altra di persuaderlo)[17], trovano nell’arte di provare in generale, e provare attraverso confutazione in particolare, la loro similarità[18], rivelando l’errore[19] nel considerare, nel ragionamento giuridico, la retorica come svincolata dalla logica, quantunque le tecniche del processo reagiscono alla struttura di quest’ultima[20].
Senza pretese di esaustività, nella mirata riflessione sulla prova contraria, si può notare come, anche quando si affievolisce l’interesse verso la struttura sillogistica del ragionamento[21], la confutazione assume un posto autonomo fra le parti del discorso[22], funzionale per la selezione delle prove e degli argomenti rilevanti, e per l’individuazione degli errori nel ragionamento: non si presenta come un sillogismo, ma piuttosto come una “indagine” intorno alle vie errate del ragionamento avversario[23].
Si è consapevoli che nel corso del tempo, non appena emerge una nozione più «tecnica» di prova, il modello retorico perde ogni rilievo perché altri strumenti e modelli concettuali prevalgono nella cultura giuridica europea[24]; ma gli aspetti retorici-argomentativi dell’attività probatoria in giudizio, proprio in tema della prova contraria, restano strettamente connessi con il ragionamento del giudice nella ricostruzione dei fatti rilevanti nel processo, e – come si accennava – si accentuano nel momento della confutazione, non distinguendosi dai profili epistemici: la logica del ragionamento è risultante dal contrasto di due forze che collidono e dovrebbero ricomporsi nel discorso del giudice, quando essa si formi lungo tutto il processo e nel contraddittorio tra le parti[25]. Quel modus procedendi dialogico e controversiale, che è tipico del rito accusatorio, si lega alla dimensione dialettico-retorica: le parti esibiscono le loro prove, argomentando ciascuna le proprie tesi, dinanzi ad un giudice terzo ed imparziale chiamato a una risposta giurisdizionale.
La concezione classica del processo come disputatio o competizione dilemmatica tra opposte ragioni, articolata e risolta per confirmationes e refutationes, incorpora i valori democratici e liberali della contrapposizione tra opposte ragioni come metodo maieutico di discussione e di ricerca, dell’uguaglianza e del diritto della parola[26] che escludono verità autoritative e postulano la parità delle posizioni processuali, delle tesi e delle tesi antagoniste.
Per questo motivo, la ricerca della verità affidata alle argomentazioni delle parti secondo lo schema dialettico della contradictio tra probationes o confirmationes e confutationes o reprehensiones – che, per l’appunto, riflette una contesa giudiziaria argomentativa, per prova ed errore affidata all’ars opponendietrespondendi delle parti[27]– rappresenta il presupposto umanistico da cui trae origine la struttura del moderno sistema accusatorio[28]: si pensi all’onere della prova a carico dell’accusa[29], alla presunzione di innocenza, al contraddittorio tra le parti come metodo di ricerca della verità[30], all’imparzialità e all’estraneità del giudice rispetto alla controversia, alla prudenza[31] e al dubbio come metodo investigativo e stile intellettuale[32], ai criteri di esclusione delle prove inattendibili per la fonte o irrilevanti per l’oggetto, nonché al libero convincimento del giudice argomentato iuxta alligata et probata[33].
2.Confutazione e verifica della verità di un enunciato
La prova – in senso lato, tralasciando distinzioni finalisticamente orientate dalle differenti scansioni processuali – introduce un fattore o elemento di conoscenza che orienta la formulazione di un giudizio relativo all’attendibilità di un’asserzione o di un insieme di asserzioni su fatti rilevanti per la decisione operando quale elemento di controllo delle ipotesi formulate sul fatto (secondo il modello di trialanderror che trova spazio nel processo)[34]e quale fattore di conferma o di smentita delle stesse; fonda così argomenti che giustificano l’accettazione di una tesi o che giustificano un suo rifiuto.
Ogni dato probatorio che si accorda con un’ipotesi esplicativa può essere considerato come una sua conferma che ne aumenta il grado di plausibilità; al contrario, ogni dato che non si accorda con quell’ipotesi ma ad essa si oppone, ne rappresenta per l’appunto una smentita: la ricerca delle conferme e delle falsificazioni delinea la forma di controllo dell’indagine induttiva[35].
In estrema semplificazione, la struttura logico-argomentativa della prova giudiziaria fonda la giustificazione dell’induzione fattuale[36] perché traccia il valore delle conferme dell’ipotesi accusatoria basata su dati o fatti probatori; consente la confutazione di quella, contraddicendola con controprove coerenti con l’ipotesi alternativa, che a sua volta l’accusa ha il potere di infirmare; e dirige la decisione giudiziale che accoglie l’ipotesi accusatoria in quanto verificata attraverso le prove e resistente alle controprove.
E’ noto che il concetto di prova giudiziaria è fisiologicamente connesso all’accertamento della verità dei fatti, ossia alla verifica della verità delle affermazioni che hanno per oggetto i fatti[37]: si ha la prova di un fatto quando si hanno elementi di conoscenza idonei a fondare la veridicità dell’enunciazione di quel fatto e l’assenza, o l’irrilevanza degli stessi, ai fini della relativa smentita; precisando tuttavia, che di una ipotesi è impossibile dimostrare la verità, essendo solo possibile confermarla o falsificarla. A tal fine «tutte le implicazioni dell’ipotesi devono essere esplicitate e saggiate, onde ne siano possibili non solo le prove ma anche le controprove. E la ricerca di queste dev’essere tutelata e favorita non meno della ricerca di quelle»[38].
E’ stato detto anche che le radici del diritto di controdedurre in facto si rinvengono nel «bisogno di infrangere il connubio tra autorità e verità, che si produce quando la prima pretende di porsi a fondamento o a garanzia della seconda»: la prova contraria è fondamento per il controllo contro affermazioni autoritativamente poste nel concreto esercizio della potestas puniendi[39].
L’attuale codice di rito, temperando rispetto al passato[40], non fa espressa menzione del concetto di verità come scopo proprio dell’attività probatoria, ma utilizza l’espressione «asettica»[41] di “accertamento del fatto”, puntando sulla dialettica del contradditorio dibattimentale e del metodo orale.
Ma, con le precisazioni che saranno di seguito esposte, quel fine resta l’aspirazione del processo, e i principi garantisti introdotti con il nuovo codice sono ritenuti rispondenti a quella medesima esigenza. La verità, come corrispondenza ai fatti o alla realtà, è una connaturale pretesa del sistema processuale[42], e rappresenta un irrinunciabile criterio regolativo per il giudice[43], la cui ricerca giustifica l’esercizio della pretesa punitiva da parte dello Stato[44]. Difatti, ritenere che il sistema attuale non abbia quell’ossessione di verità che aveva qualificato il codice abrogato[45], non significa affermare che il nuovo processo di parti di stampo tendenzialmente accusatorio, ad essa non tenda[46]. Se prove servono a stabilire se i fatti rilevanti per la decisioni si siano effettivamente verificati[47], si tratterà, piuttosto, di precisare l’estensione di quel concetto, nel rapporto tra verità tout court e verità processuale, o, per meglio dire, tra verità “materiale” e verità “formale”, l’una appartenente al mondo dei fenomeni reali o settori dell’esperienza diversi dal processo; l’altra stabilita nel processo attraverso gli strumenti conoscitivi rappresentati dalle prove giudiziarie[48].
Consapevoli della complicata opera di definizione di ciò che si intende per verità giudiziale e verità storica, e in che misura la prima sia autonoma o speciale rispetto alla seconda[49]; ai nostri fini, preme evidenziare che le peculiarità della verità processuale che derivano dall’essere collocata concettualmente entro un contesto specifico e giuridicamente determinato, più che fondare una caratterizzazione autonoma sono funzionali a definire all’interno di quel contesto in quale rapporto la decisione giudiziale si ponga con i fatti.
La verità giudiziale, in quanto «conseguita nel giudizio, inteso come fase processuale o “luogo” in cui dialetticamente si realizza […], derivante dal giudizio, inteso tanto come attività di ricerca degli elementi su cui si fonda una deliberazione quanto come formazione di quest’ultima […], manifestata tramite il giudizio, inteso come decisione e sua definitiva pronuncia giurisdizionale»[50], è presupposto per una giusta decisione, affinché l’insieme delle scelte definite dall’ordinamento sia «rispettato lungo tutto l’arco del procedimento anche per garantire il consenso dei cittadini alla sua conclusione, … non può assurgere a meta ultima ed assoluta, cui tutto sia subordinato, dell’attività giurisdizionale, ma va considerata come il risultato del parallelogrammo delle forze, individuali e collettive, che interagiscono nello svolgimento processuale»[51].
Ciò senza che alternative puramente ideologiche, definite dal modello processuale, possano indirizzare verso conclusioni non appropriate.
E’ diffusa, infatti, l’opinione di associare la ricerca della verità sui fatti ad una logica inquisitoria, e di negare tale scopo nel processo di stampo accusatorio. C’è da dire che l’idea chimerica[52] della verità oggettiva, muove dall’errore epistemologico di considerare il fatto come un oggetto materiale[53], da accertare nella sua «datità», anziché considerarlo come individuale ed irripetibile[54]. Ed è vero che prediligere l’accertamento dei fatti reali onde pervenire ad una verità materiale (che, peraltro, evoca una ricerca ad ogni costo ottenuta[55], fisiologicamente refrattaria al rispetto delle garanzie)[56] anziché alla verità giudiziale[57] che è possibile conseguire attraverso la logica dialettica del contraddittorio e nel rispetto di rigorose regole metodologiche e processuali coerenti con il modello, ripropone la contrapposizione tra ricerca unilaterale della verità (che abbraccia i canoni dell’inquisitorio) e ricerca epistemologica fondata sulla dialettica (vicina ai prismi dell’accusatorio), con accentuazione del primo rispetto al secondo.
Tuttavia, così come non è detto che il sistema inquisitorio sia indiscutibilmente incardinato nel senso di assicurarne il conseguimento, non è neanche vero che il sistema accusatorio sia necessariamente con esso incompatibile, a maggior ragione se si considera la realtà di sistemi misti come quello attuale, così come il previgente[58].
La tensione verso il vero è la meta di un percorso di ricostruzione processuale del fatto, il cui grado di approssimazione alla realtà dell’accadimento passato, dipende dalle prove acquisite e dalla quantità e qualità delle informazioni che esse includono[59].
Si può in sostanza ritenere che associare la verità al fine del processo dovrebbe alludere alla tensione verso la corrispondenza del fatto empirico con l’enunciato giudiziale, all’interno del rigoroso rispetto del metodo legale di formazione del convincimento, perché quest’ultimo condiziona il risultato epistemologico. Il rispetto della disciplina legale di formazione della prova – della quale l’imparzialità dell’organo giudicante, la presunzione di non colpevolezza e il principio del contraddittorio sono temi essenziali – funge da limite oltrepassato il quale è sensibilmente avvertito il rischio di non conformità con le garanzie costituzionali promananti dai principi del giusto processo. I limiti che il giudice penale incontra nello stabilire la verità sui fatti (rectius verità dell’affermazione di esistenza del fatto)[60] oggetto d’accusa dipendono dal rapporto che la legge processuale istituisce tra imputazione e sentenza: dichiarando l’imputato responsabile, il giudice afferma oltre ogni ragionevole dubbio la verità dell’enunciato fattuale contenuto nell’imputazione; dichiarando l’imputato non colpevole non occorre che i fatti posti a fondamento dell’accusa si siano rivelati inesistenti[61].
Sulla base di tali premesse, la prova contraria, implicando una partecipazione all’accertamento dei fatti, ripudia il formarsi di verità processuali unidirezionalmente invocate, e riflette un scenario paritetico di tutela dei diritti e di impegno epistemologico all’interno di precise regole processuali. E’ evidente, del resto, il legame con il contraddittorio probatorio, metodo euristicamente preferibile per l’accertamento dei fatti onde pervenire alla verità processuale[62], attraverso la logica dialettica e nel rispetto delle rigorose regole metodologiche e processuali coerenti con il modello.
Si ripropone la ricerca epistemologica fondata sul dialogo antagonista della prova e della controprova. In quest’ultima si fondono la forza maieutica del dialogo e i fattori di marca topico-retorica volti alla costruzione dell’argomentazione nella dialettica giudiziaria[63]; si rilevano cioè le potenzialità epistemiche del metodo dialogico fondato sulle posizioni confliggenti dinanzi al giudice terzo, che rende tanto più accurata la decisione quanto maggiore e profondo è l’urto tra le tesi antagoniste e le ragioni poste a supporto delle stesse. Se alla prova in senso lato si accosta la replica avversaria si declina la logica falsificazionista quale criterio di controllo dell’affidabilità della conoscenza e fondamento di verificazione[64].
Nella precisazione del concetto di verità giudiziale, si profila la dimensione della prova, come strumento per raggiungere quel fine, per accertare «la consistenza (o verità parziale) della fattispecie oggetto del processo; in altre parole, per sciogliere i nodi conoscitivi che si identificano nel thema probandum»[65].
3.La prova contraria nel quadro delle fonti
Nella ricostruzione del fondamento della prova contraria, sulle tracce delle considerazioni appena svolte in tema di accertamento della verità processuale e nel circuito definitorio dei valori che circondano il tema, il piano epistemologico intreccia quello più prettamente politico quale canone di giustizia a tutela dell’individuo nei rapporti con lo Stato.
A tutela della libertà dell’individuo dinanzi a pretese autoritative incardinate in accertamenti della verità unilaterali, il diritto di interloquire sulle prove avversarie accentua l’esigenza di parità tra le parti, e valorizza il contraddittorio propriamente inteso. E’, infatti, sotto il paradigma della par condicio e della dialettica processuale che la prova contraria ha trovato la sua più immediata esplicazione tra i principi a tutela della fairness processuale[66].
Nelle fonti sovranazionali, il diritto alla prova contraria trova esplicazione quale presidio dell’accusato nel processo penale, come previsto dall’art. 6, comma 3 lett d c.e.d.u., quanto dall’art. 14 comma 3 lett. e del Patto internazionale sui diritti civili e politici, nell’implicito fondamento del metodo dialettico nell’assunzione della prova: l’interessato deve essere posto nella condizione di «farsi sentire»[67] , cioè di poter esporre le ragioni proprie e controbattere sulle ragioni avversarie. L’attenzione converge per «l’eguaglianza o parità di armi» incardinata nel diritto di esaminare o far esaminare i testimoni a carico, mediante la tecnica cosiddetta «adversary», ritenuta la più idonea affinché emerga la verità degli enunciati, in quanto volta a garantire a ciascuna parte di poter presentare all’altra ed al giudice, l’insieme dei dati ritenuti più idonei a sostenere la propria tesi, interloquendo su analoghi argomenti presentati dall’altra[68].
E’, infatti, nella logica della par condicio, e nella contrapposizione di mezzi probatori rispetto alle prospettazioni avversarie, ossia nel diritto alla prova contraria, che vive il «diritto al contraddittorio» pieno ed inviolabile nei confronti di tutte le parti processuali[69], che deve essere garantito in riferimento a qualunque processo, non solamente a quello penale.
In questa prospettiva, il diritto di difesa si pone quale aspetto del contraddittorio, rappresentando il primo una garanzia di concreta osservanza del secondo[70]. E il principio dell’uguaglianza delle armi – come espressamente affermato dalla Corte edu, – costituisce uno degli aspetti del più ampio concetto di fair trial, che include anche il fondamentale diritto che il processo penale possieda caratteri adversarial, ciò implicando che, in una causa penale, tanto all’accusa quanto alla difesa dev’essere data l’opportunità di avere conoscenza e di interloquire sulle osservazioni fatte e sulle prove addotte dall’altra parte, ancorché, poi, sia possibile utilizzare a tal fine forme e metodi diversi[71].
Nella sua versione riformata, l’art. 111 Cost. si pone in linea di continuità con quanto previsto dalla norma convenzionale, là dove si prevede che la legge assicuri, fra l’altro, la facoltà dell’accusato, davanti al giudice, di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa.
La norma consacra il canone di parità tra le parti nell’ambito di un rapporto tra condizioni di ammissione e acquisizione delle prove a discarico rispetto a quelle a carico; e, valorizzando il diritto di difesa attraverso le facoltà attribuite a quest’ultima in sostanziale equilibrio con quelle di cui gode l’accusa, implicitamente fonda l’indice di rilevanza costituzionale del riconoscimento del diritto alla prova contraria[72].
Nella norma si traggono due distinte e correlate connotazioni del principio del contraddittorio[73], espressione da un lato del diritto individuale dell’imputato riconducibile alla sfera del diritto di difesa – in linea, si accennava, con la prospettiva emergente dalle fonti sovranazionali –; dall’altro, del metodo privilegiato per la conoscenza dei fatti, preordinato ad assicurare la correttezza e, quindi, la “giustizia” dell’accertamento processuale in sede penale[74].
Il comma 3 dell’art. 111 Cost., rinsalda il nucleo di garanzie probatorie prevedendo che “l’accusato abbia altresì la facoltà di ottenere l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore”, posto che, in armonia con la presunzione di non colpevolezza, valorizza il diritto alla prova in funzione difensiva. La norma parrebbe tracciare un distinto potere, espressione anche della diversa collocazione normativa in un’autonoma previsione, di introduzione di prova contraria per l’imputato, e così nutrire la riflessione su un distinto raggio di estensione del giudizio di ammissione della prova contraria in ottica difensiva rispetto a quello previsto in ottica accusatoria[75].
Il dettato costituzionale riconnette, peraltro, l’effettività del contraddittorio, implicitamente promuovendo il diritto alla prova contraria, alla necessaria predisposizione per l’imputato «del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa»; garanzia che nella dinamica probatoria si incentra sulla discovery delle fonti di prova. E’ questa la norma da cui prendere le mosse per affrontare la fondamentale premessa in tema di richieste di ammissione di prove: quale sia la base dello sviluppo dell’antagonismo probatorio nel contesto dibattimentale, e se i risultati investigativi possano rappresentare l’ancoraggio di iniziative a confutazione.
Nel quadro generale, se l’apporto dialogico contribuisce ad un accertamento del fatto tanto più accurato ed affidabile quanto maggiore sia stato l’urto dialettico tra le parti dinanzi al giudice terzo ed imparziale, ciò implica che il dato conoscitivo debba seguire rigorose modalità di formazione[76]. E, trasponendo tali principi nel sistema processuale, si nota come, in chiave di netta contrapposizione rispetto all’impostazione che caratterizzava il codice del 1930, il nuovo codice di rito nel disciplinare gli aspetti regolamentari della prova, accentua la generale esigenza di legittimità che impernia tutto il procedimento probatorio. Si assiste, cioè, alla progressiva spinta verso la creazione di un contesto paritetico, dal punto di vista dei poteri probatori, incline ad evitare la subalternità di posizione nel procedimento probatorio e la “lontananza” dalla prova, e ad assicurare alla difesa opportunità di ammissione della prova in giudizio, di rappresentazione probatoria e di valutazione da parte dell’organo decidente, speculari rispetto a quelle godute dall’accusa in ordine alle proprie prove[77].
4. Il giudizio di segno opposto sulla prova affermativa
Il codice di rito non offre nessuna definizione del termine «prova contraria», né del termine «prova», lasciando all’interprete l’attribuzione di significato anche in riferimento al contesto normativo entro cui opera.
Il termine “prova contraria” lascia facilmente evocare la forza probatoria di contrasto e resistenza rispetto alla prova avverso cui si rivolge, convogliando tendenzialmente su quest’ultima il relativo apprezzamento[78].
In via di principio si può, infatti, delineare la caratteristica basilare della prova contraria incardinata nel rapporto antagonista con la prova che ha per oggetto l’affermazione del fatto che intende dimostrare, quale prova che dirige un complessivo giudizio di segno opposto, pur non necessariamente motivato dalla negazione dello stesso: come la prova positiva[79], o principale[80], o diretta[81], dimostrerebbe l’esistenza di un fatto, così la prova contraria negherebbe l’esistenza di quel fatto.
Prima di addentrarci nella complessità definitoria, si pone una premessa lessicale. Se la struttura logica della prova contraria dipende fisiologicamente dalla deduzione della prova alla quale si correla, la prova prioritariamente dedotta, non necessariamente è di segno positivo (così come non necessariamente la prova contraria è di segno negativo), ben potendo la prima dimostrare il fatto che intende provare negando la sussistenza di altro fatto incompatibile; come del pari la prova contraria negare l’esistenza di un fatto affermando la sussistenza di altro incompatibile. Pur con tale precisazione, incentrando l’attenzione sul rapporto di deduzione della prova principale rispetto alla prova ad essa antagonista, si ritiene comunque preferibile denominare la prima come prova affermativa, e la seconda come prova non affermativa o, per l’appunto, contraria.
Tanto premesse, l’obiettivo di contrastare l’enunciato probatorio sottoposto a verifica, può dirsi raggiunto non solo attraverso prove che vertono su fatti contraddittori rispetto a quelli oggetto di altro mezzo istruttorio, anche attraverso fatti contrari, o fatti diversi[82].
Più precisamente, aderendo ai concetti della logica, si definiscono contraddittorie quelle “proposizioni che non possono essere né entrambe false né entrambe vere”; si definiscono contrarie quelle “proposizioni che potrebbero essere entrambe false, ma che se una è vera, l’altra è necessariamente falsa”; ancora, sono diverse e compatibili quelle “proposizioni che potrebbero essere entrambe vere e che se risultano tali falsificano la conclusione del ragionamento inferenziale che da una di esse prende avvio”[83]. Il comune denominatore è rappresentato dalla finalizzazione della prova a dimostrare induttivamente un fatto che, attraverso nessi inferenziali, introduce elementi di prova, ossia unità logiche autonomamente valutabili delle proposizioni che descrivono dati sensibili[84], che fonda un giudizio opposto a quello introdotto dalla prova affermativa. In ragione di tale comune denominatore, si procede ad indicare le varie ipotesi di prova contraria distinguendo in base il fatto oggetto della prova su cui si fonda il rapporto di conflittualità, riunendo il grado logico di discordanza implicito nei concetti di contraddittorietà, contrarietà, diversità nell’unitario concetto di antagonismo probatorio.
5. Gli enunciati fattuali integranti il thema probandum
L’antagonismo tra prove confliggenti, nella cornice della ricerca della verità giudiziale, descrive il confronto di elementi di conferma e di smentita della proposizioni fattuali, che fonda il ragionamento del giudice nella ricostruzione del fatto: attraverso il metodo dialettico del contraddittorio[85], nella relazione dialogica tra il provare e il controprovare, si evidenzia quella mescolanza tra l’aspetto logico-inferenziale e quello argomentativo-retorico[86].
Il ragionamento del giudice, infatti, non può essere ricondotto ad una struttura esclusivamente logico-deduttiva[87], dovendosi riconoscere che è intessuto di elementi «di volta in volta definibili secondo una o più forme logiche, oppure secondo schemi di qualificazione quasi logici o puramente topici, valutativi o retorici»[88]: attraverso inferenze essenzialmente di carattere induttivo e abduttivo[89], muovendo dalle premesse probatorie, il percorso di accertamento della verità dell’enunciato oggetto di prova si sviluppa lungo la linea inferenziale che conduce retrospettivamente all’affermazione da provare[90]. La ricostruzione fattuale, attraverso le contrapposte enunciazioni delle parti[91], vede i dati conoscitivi introdotti nel processo filtrati tanto da passaggi inferenziali che conducono alle conclusioni circa la loro efficacia a fondare la decisione, quanto da ineliminabili momenti «in cui si esprimono (né potrebbero evitarlo) le soggettività del giudice e delle parti, offrendo, nell’ambito delle relative competenze, il proprio contributo di ricerca e di scelta degli elementi considerati necessari per la migliore ricostruzione del fatto»[92].
La complessità del giudizio sulla verità di un enunciato fattuale risiede non soltanto nel trarre conclusioni dalle premesse, ma nella fissazione delle premesse stesse[93], perché presuppone una decisione sulle molteplici questioni di fatto ottenute per via inferenziale, che si riversa sull’ambito di estensione della prova contraria.
Come è stato giustamente osservato, rispetto a ciascuna delle classi di proposizioni fattuali che costituiscono oggetto di prova, «il tema di prova si rappresenta come il cerchio concentrico di proporzioni minori», che varia in relazione al «concreto atteggiarsi della realtà»[94]; la prova è funzionale a consentire l’accertamento della verità dell’enunciato fattuale integrante il thema probandum, composto quest’ultimo dall’insieme delle proposizioni rappresentative del “fatto” giuridicamente rilevante.
Normalmente quando si parla di tema di prova, si correla l’affermazione a “fatti da provare”, intesi come quel complesso di fatti che rappresentano l’oggetto dell’accertamento giudiziale; ma, l’analisi sulla struttura logica del fenomeno probatorio, rileva come nel processo è necessario conseguire la prova di un complesso di fatti legati da reciproci rapporti; laddove la prova, invece, tende a dimostrare l’esistenza di un singolo fatto, pur eventualmente articolato in una serie di accadimenti o circostanze[95].
In sostanza la categoria degli enunciati fattuali ricomprende una varietà di fatti che pur non essendo elementi costitutivi dell’imputazione sono ad essa riferibili per la prova dei medesimi. Per tale motivo, prima di addentrarci nei diversi sviluppi della prova contraria, occorre precisare che la dialettica probatoria non verte solo sul fatto principale, quale «referente “storico” cui si connette la domanda e che integra la fattispecie astratta reputata ad esso confacente»[96]; ma concerne anche altre asserzioni fattuali per le quali emerga il bisogno di verifica.
Se il probandum consiste in ciò che deve essere provato perché il giudice possa decidere la causa nel merito, dichiarando la sussistenza delle conseguenze giuridiche affermate dall’una o dall’altra parte, esso equivale al complesso delle proposizioni relative ai fatti che devono essere provati in giudizio a fondamento delle domande[97].
Ma mentre il thema probandum in senso stretto è unico, vi sono, invece, tanti oggetti di prova quante sono le singole prove dedotte, proprio perché sono costituiti dalle proposizioni che descrivono il fatto, della cui esistenza si dovrebbe fornire la dimostrazione[98]; o vi sono tanti oggetti di prove quanti sono i gruppi di prove «correlate a un’identica affermazione, dato che quest’ultima può essere verificata con esperimenti plurimi»[99].
In questa prospettiva, nella dinamica introduzione del giudizio di segno opposto, influisce la distinzione tra fatto principale quale «referente “storico” cui si connette la domanda e che integra la fattispecie astratta reputata ad esso confacente»[100]; c.d. primari, in quanto realizzanti gli elementi di una tale fattispecie, e in quanto utili per la decisione, corrispondenti agli elementi della fattispecie astratta il cui insieme compone il “fatto principale” (thema probandum in senso stretto)[101]; e fatti semplici, costituiti dagli elementi, corrispondenti ai vari casi della vita, posti a fondamento delle ricostruzioni delle parti o del giudice, magari utilizzati allo scopo di valutare fonti e/o mezzi di prova[102].
In dottrina, rilevando la problematicità e opacità della questione[103], più comune è la distinzione che vede da un lato i fatti c.d. “principali”, “giuridicamente rilevanti” o “costitutivi” (ma anche estintivi, impeditivi o modificativi), e “fatti secondari”[104] o “probatori”[105]. La prima classe di termini riflette la funzione giuridica di quelle circostanze che rappresentano la condizione o il presupposto per il verificarsi degli effetti giuridici previsti dalla norma; la seconda classe di termini, acquista significato nel processo soltanto se da essi si può trarre qualche argomento intorno alla verità o falsità di un enunciato vertente sul fatto principale: i fatti secondari giungono attraverso uno scarto logico, ossia attraverso la mediazione di criteri inferenziali di carattere induttivo o abduttivo, assumendo centralità nell’attività di accertamento probatorio[106]. Questi ultimi, quindi, non integrano il tema ultimo dell’accertamento, ma consentono di pervenirvi attraverso il notorio, o attraverso una mediazione intellettiva che si avvale, a seconda dei casi, di massime di esperienza o di leggi scientifiche.
La categoria dei fatti secondari non si presenta come omogenea, pur nella comune caratteristica di non comprendere i fatti principali: essa può variare in funzione della diversa incidenza che essi possono avere sulla prova del fatto principale, in funzione, cioè, della diversa efficacia probatoria di tali fatti, a sua volta connessa con il diverso tipo di inferenze probatorie che consentono di formulare[107].
Il carattere confutabile delle proposizioni fattuali, e l’esposizione dialettica all’eterogeneità dei fatti secondari, si riflette sul raggio di estensione della prova contraria, volta ad intaccare la verità del fatto principale; oppure volta a minare la capacità esplicativa del fatto secondario di provare quello principale. In sostanza, il fenomeno processuale delle prove confliggenti si apre a vari scenari possibili in presenza di prove riferibili al medesimo tema probatorio, ma in conflitto tra loro, perché talune funzionali ad affermare l’esistenza di un fatto, talaltre a negarlo, tanto direttamente, quanto indirettamente, dando luogo a figure di prova contraria variamente atteggiate che presuppongono la venuta in rilievo non solo dei fatti che compongono il thema probandum in senso stretto, ma, nel generale contesto del probandum, anche di fatti secondari funzionali alla prova del fatto principale.
6. Antagonismo probatorio. Prospettiva generale
Già nella semplice accezione “prova contraria” si rinviene l’essenza d’urto che la contraddistingue rispetto alla prova alla quale fisiologicamente si correla, e la finalità oggettiva volta alla dimostrazione dei fatti che si intende provare induttivamente in senso opposto a quella; in tal modo instaurando quel rapporto di conflittualità.
La tradizionale definizione si fonda, infatti, sul principio logico di non contraddizione perché è tale la prova che riferendosi allo stesso fatto dedotto dalla prova affermativa, rappresenta una situazione che si oppone a quella, negando – si accennava – la sussistenza del fatto stesso; ovvero, contrasta l’affermazione contenuta nella prova cui si riferisce deducendo elementi di diversità nella ricostruzione di quello[108]: le due proposizioni, che sono una la negazione dell’altra, in quanto contraddittorie, non possono essere né entrambe vere, né entrambe false[109].
Sotto il profilo dinamico della dialettica processuale, nella medesima finalizzazione antagonista rispetto fatto principale tipica della prova che direttamente lo contesta, rientra anche la prova che contrasta l’esistenza del fatto dedotto dalla prova affermativa attraverso l’affermazione di esistenza di un altro fatto storicamente incompatibile con il primo per qualche ragione di ordine generale, fisica, logica o anche giuridica: una incompatibilità che deriva da «qualche principio esistente nel contesto concettuale ed epistemologico nel quale si colloca il problema della conoscenza del fatto; essa è quindi relativa a tale contesto»[110].
Si è in presenza, in questo caso, di ipotesi contraddittorie perché confermano l’esistenza di fatti diversi, più che versioni diverse dello stesso fatto; attraverso la mediazione di una regola di incompatibilità storica[111].
Si ravvisa il carattere proprio della prova contraria anche nella contro affermazione di un fatto non incompatibile rispetto a quello affermato dalla prova principale, ma in direzione di negazione di quello, qualora il primo sia in grado di incidere sulle sue conseguenza giuridiche del secondo. E’ l’ipotesi dell’allegazione di un fatto estintivo, modificativo o impeditivo degli effetti che derivano dal fatto costitutivo, che presuppone sì una connessione ma che si realizza tra ipotesi autonome su fatti diversi: tra il fatto costitutivo adotto dalla prova affermativa e il fatto allegato in controprova, sussiste solo una relazione giuridica (non logica, epistemologica o materiale)[112].
Sotto il profilo della ricostruzione fattuale il conflitto sul medesimo fatto oggetto della prova affermativa, può altresì manifestarsi non negando lo stesso, bensì opponendo che esso si sia verificato con modalità diverse. L’antagonismo risiede nella finalizzazione della prova volta ad incidere sulla capacità esplicativa della prova affermativa, al fine di «negare la verità»[113] di quell’ipotesi.
Restando in una prospettiva ancora generale, la versione di segno opposto potrà essere accreditata non solo dalla prova che ex se sarà dotata dell’idoneità a negare il fatto sottoposto a verifica ed oggetto della prova affermativa; ma anche dalla prova che si pone a sostegno di un complesso di prove che, per l’appunto, cumulativamente concretizzano un giudizio antagonista rispetto a quello che altra o altre prove intendono dimostrare. Infatti, sul piano della connessione tra elementi di prova e ipotesi sul fatto, vuoi che si tratti di prove che confermano una direzione probatoria ( o la negano), o che sostengono (o negano) tutte proprio la medesima versione, può qualificarsi come prova contraria quella che ancorché non dotata di un’autonoma valenza screditante o contrastante il fatto addotto dalla prova affermativa, si oppone al cumulo di prove dalle quali emerge la conferma (o la negazione) dell’ipotesi esplicativa, perché idonea a fornire elementi dimostrativi volti ad accreditare un giudizio opposto rispetto a quella che quel complesso di altre prove tende invece a confermare (o a negare): «purché la prova non sia irrilevante rispetto al tema, essa non dovrebbe sfuggire, quale che sia il tasso della sua potenziale efficacia, all’alternativa della ordinazione o nel quadro del cumulo di prove o nel quadro antagonistico della “controprova” (o prova confliggente o prova collidente)»[114].
6.1. Antagonismo probatorio sul fatto principale
Si è detto in precedenza che il thema probandum in senso stretto racchiude quel complesso di fatti giuridicamente rilevanti per la decisione, ossia i fatti principali.
Quando la prova contraria verte sulla contestazione del fatto principale, si rappresenta in un circuito più ristretto che trova la sua tradizionale collocazione nel settore processualcivilistico lega concettualmente la controprova alla contestazione del fatto allegato dall’attore, restando nel perimetro del thema probandum[115].
Si pensi alla dichiarazione principale del testimone oculare che sostiene di aver visto l’imputato compiere una data azione normativamente qualificata; e la dichiarazione contraria di altro testimone oculare che sostiene di aver visto l’imputato non compiere quella data azione: mentre la prova affermativa intende sostenere il giudizio di esistenza del fatto principale, la prova contraria in ottica inversa intende sostenere il giudizio di non esistenza dello stesso. In questo caso la prova contraria sarà implicitamente rilevante, e una volta ritenuta attendibile in fase di valutazione, paleserà la propria potenzialità antagonista, volta ad escludere il giudizio veicolato dalla prova affermativa.
Anche entro questa limitata cornice, la relazione antagonista può manifestarsi, seppur attraverso un confronto mediato, con l’introduzione di un fatto diverso (impeditivo, modificativo ed estintivo), o comunque incompatibile con quello principale, atto ad opporsi alla verifica di quest’ultimo; oppure per il tramite della prova di diverse modalità esplicative di quello.
In entrambi i casi il giudizio di segno opposto non mira a negare la sussistenza del fatto, ma a minare la rilevanza giuridica dello stesso all’interno della fattispecie concreta attraverso la prova di altro fatto, o di una diversa modalità, che abbia quella potenzialità antagonista. Si pensi alla prova che intenda dimostrare, rispetto al fatto principale addotto dalla prova affermativa, la sussistenza di una causa di giustificazione, o qualsivoglia variante che nel caso concreto incida (non sulla sussistenza del fatto, ma) sulla potenzialità esplicativa in ordine alla res iudicanda.
In questo contesto, sulla scia dell’antagonismo probatorio mediato appena menzionato, può farsi rientrare – in ragione della potenzialità probatoria di incidere sulla rilevanza giuridica del fatto principale addotto dalla prova affermativa – anche la prova contraria che verte su un frammento della proposizione probatoria che ha ad oggetto quest’ultimo, finalizzata ad infirmare l’attendibilità della narrazione che da esso discende.
Si pensi alla dichiarazione del testimone oculare che sostiene di aver visto l’imputato compiere una data azione (priva di rilevanza giuridica); e la dichiarazione contraria di altro teste oculare che nega di aver visto l’imputato compiere quella data azione; o un supporto fotografico che mostrerebbe la difficoltà o l’impossibilità di vedere l’imputato in procinto di compiere quella data azione dalla prospettiva rilevata. Qui la prova contraria introduce un elemento che nega mediatamente il fatto introdotto con la prova affermativa perché mina l’attendibilità di quest’ultima; o mina la verosimiglianza della relativa conclusione probatoria, pur non vertente né sul fatto principale, perché elemento estraneo alla fattispecie, né su un fatto secondario, perché non autonomamente in grado di fondare alcuna inferenza utile alla prova del fatto principale[116].
In questi casi la prova contraria può vertere su un fatto non integrante il probandum, ma in grado di esercitare la forza d’urto propria della controprova, perché indirettamente proiettata ad incidere negativamente sul fatto principale: si pensi alla prova di coordinate spazio-temporali differenti del dichiarante, che infirmano la genuinità del contributo dichiarativo descritto; oppure la prova della falsità o alterazione dei verbali o di materiale probatorio[117].
La forza d’urto della prova contraria si declina, pertanto, non sul piano della ricostruzione fattuale, ma su quello valutativo dell’affidabilità o astratta idoneità della prova affermativa a rappresentare il fatto principale, per il tramite la prova altri fatti, o stati di cose, che incidono sulla premessa dell’inferenza e conseguentemente ne attenuano o elidono il peso dimostrativo. Il giudizio di segno opposto, per il tramite dell’allegazione di fatti specifici squalificanti[118] del rapporto tra fonte di prova ed elemento di prova, è finalisticamente proiettato all’esclusione dell’apporto conoscitivo o della genuinità dell’enunciato tratto dalla prova affermativa.
E’ evidente che il peso probatorio della controprova e, correlativamente la smentita dell’affermazione dell’ipotesi sul fatto principale, dipende dal grado di attendibilità che la prova contraria attribuisce all’affermazione sul fatto allegato e dal grado di attendibilità del criterio di inferenza che si adopera per derivare dall’asserzione su quello conclusioni idonee a rappresentare elementi di smentita del fatto principale.
6.2. Antagonismo probatorio mediato
Nell’area dell’antagonismo probatorio, si è visto come la negazione del fatto addotto dalla prova affermativa possa avvenire mediante un confronto dialogico immediato sul medesimo oggetto di quella, dimostrando una conclusione di segno contrario. Tuttavia, ad ampliare il terreno della relazione conflittuale è l’attività probatoria sul medesimo fatto la cui negazione non è diretta, ma è conclusione di una inferenza meno stringente, tale da rappresentare «l’obiettivo della prova, più che il suo oggetto».[119] Ciò implica un diverso rapporto di incidenza della discordanza, e una differente latitudine della prova contraria, a seconda se questa si oppone direttamente al fatto oggetto della prova affermativa, o se si propone di farlo attraverso ulteriori passaggi logici inferenziali che conducono alla dimostrazione induttiva in senso opposto.
E’ il caso della prova contraria che verte su c.d. fatti secondari, i quali, a differenza dei fatti principali, si è detto, acquistano significato in quanto se ne possa trarre qualche argomento intorno alla verità o alla falsità di un enunciato vertente sul fatto principale.
Il rilievo accordato ai fatti secondari, si trasporta nel rapporto conflittuale e si articola nel passaggio inferenziale che conduce a negare il fatto affermato in via principale.
Nel quadro dell’antagonismo mediato, l’articolazione del rapporto dialogico si plasma, peraltro, in dipendenza del nesso tra il fatto, oggetto della prova affermativa e il fatto oggetto del thema probandum in senso stretto. Questo perché la prova contraria può correlarsi alla prova affermativa che ha ad oggetto non il fatto principale ma, a sua volta, un fatto secondario, estendendo ulteriormente il raggio di azione del giudizio di segno contrario.
Si è detto che quest’ultimo è funzionale alla prova del fatto oggetto del thema probadum, e consente di pervenirvi attraverso il notorio, o attraverso una mediazione intellettiva che si avvale di massime di sperienza o di leggi scientifiche.
Nel primo caso, si rientra nella categoria dei fatti c.d. probatori, che non entrano a far parte della rappresentazione del fatto giuridicamente rilevante (per tale motivo sono, del resto, inclusi nel più ampio genus dei fatti secondari)[120]. Essi rappresentano accadimenti individuali, storicamente precisati o precisabili, la cui fondatezza seppur riconosciuta con maggiore facilità, può essere anche probatoriamente negata: non si esclude un intervento demolitorio attraverso la prova contraria il cui oggetto sarà la negazione della sussistenza del fatto stesso che si pretende notorio e subordinatamente la sua notorietà.
Nel secondo caso, la prova contraria che verte su fatti secondari, può fondarsi sulla critica della regola inferenziale su cui poggia l’affermazione che conduce alla verifica del fatto principale.
E’ noto, infatti, che nel processo vengono comunemente utilizzate le massime di esperienza e le leggi scientifiche, quali strumenti conoscitivi nell’attività di ricostruzione del fatto.
Le prime, in quanto definizioni o giudizi ipotetici di contenuto generale, precipitato dell’esperienza, sono indipendenti dal caso concreto e dalle sue circostanze singole, e autonome rispetto ai singoli casi dalla cui osservazione sono tratte[121]; esse si fondano sulla generalizzazione ottenuta attraverso l’individuazione di caratteri “comuni” presupposti come presenti in eventi passati assunti come dati di partenza[122], in funzione dell’inclusione di altri casi che in quella vi rientrano.
In questa prospettiva, la relazione antagonista articolata attraverso la prova contraria vertente su di essa, sarà finalisticamente orientata all’esclusione o svalutazione di quei casi, e quindi a smentire la forza esplicativa della massima di esperienza, di modo che la generalizzazione non possa ritenersi idonea a fondare senza incertezza la conclusione inferenziale sul fatto oggetto della prova affermativa.
Del pari, qualora non si intendesse negare l’inclusione del fatto in quella massima di esperienza, il giudizio opposto può essere il risultato della dimostrazione dell’impossibilità logica di assolutizzare una conclusione soltanto relativa[123]; o della compressione della potenzialità strumentale del nesso inferenziale in ragione della semplice ipoteticità congetturale su cui si fonda. La dimostrazione, cioè, che «il massimo che si può indurre dalla osservata regolarità di caratteristiche presenti in un certo numero di eventi particolari, è un’illazione ipotetica circa l’eventualità che le stesse caratteristiche si presentino o si siano presentate nei casi non osservati»[124]
Per quanto attiene agli strumenti conoscitivi attinti dalla scienza, la peculiarità delle leggi scientifiche di essere calate all’interno di un sistema di asserti generalmente accettato, a differenza delle massime d’esperienza che vengono riconosciute come sussistenti o no ciascuna indipendentemente dalle altre, fa si che si sottraggano alle limitazioni delle generalizzazioni meramente empiriche[125].
Nonostante ciò, può ugualmente contestarsi l’“assolutezza” di una legge scientifica, ancorché a carattere universale, sulla falsariga di quanto sostenuto per le massime di sperienza, atteso che tanto le une quanto le altre poggiano su un procedimento induttivo concludentesi con una generalizzazione di dati empirici[126]: ad ambedue potrebbe opporsi il «rilievo che l’esperienza empirica non è di per sé in grado di pervenire ad asserzioni generali, e si limita necessariamente a constatare delle uniformità nel verificarsi di eventi tra loro abbastanza simili»[127].
A maggior ragione, laddove si tratti di leggi scientifiche a carattere non universale, il rapporto conflittuale veicolato dalla prova negativa può incentrarsi sulla dimostrazione dell’applicabilità al fatto storico di differenti regole scientifiche; o di differenti metodi scientifici che prospettino una soluzione alternativa; o dell’assenza di verificazione alla luce di altre leggi scientifiche che ne intacchino l’affidabilità.
Infine, nel quadro delle possibili forme di antagonismo probatorio mediato, va inclusa la prova di diverse modalità dei fatti secondari, o la prova di decorsi causali alternativi di questi ultimi, che – come nelle ipotesi su menzionate – mostra la medesima potenzialità conflittuale orientata alla compressione dell’idoneità esplicativa della prova cui si correla.
6.3. Antagonismo logico-argomentativo
Dinanzi ad una prova affermativa che si propone di dimostrare direttamente il fatto principale, lo spazio della prova contraria che intende avversare quel fatto, può assumere connotati più sfuggenti sia quando la negazione dello stesso è conclusione di ulteriori nessi inferenziali[128]; sia quando la negazione probatoria sia rivolta ad un fatto secondario, perché diretta a contrastare la premessa della catena dimostrativa che conduce alla prova del fatto principale; ossia quando verte su a premessa della ricostruzione di un determinato decorso causale mediante una serie di passaggi inferenziali.
Si pensi al fatto addotto dalla prova affermativa avente valore di dato indiziante: la fisiologica distanza dal fatto principale e logica ricostruzione mediante inferenze, travolge anche lo spazio di incidenza della prova contraria: all’aumentare del numero delle passaggi inferenziali necessari per indurre dalla prova alla conclusione del fatto imputato, diminuisce il grado di probabilità dell’induzione probatoria e aumenta lo spettro della prova contraria.
Si pensi alla prova di fatti successivi che interrompono il nesso esplicativo tra fatto secondario e fatto principale[129]; o si pensi alla prova contraria che sia idonea a diminuire o escludere la forza probatoria del fatto secondario in quanto incidente sulla capacità probante o precisione del dato probatorio oggetto della prova principale[130].
Come è stato correttamente notato, più la prova antagonista si appunta sull’allegazione che il fatto secondario legittimi la ricostruzione di un decorso causale diverso e alternativo, tanto più il terreno dell’antagonismo probatorio sul medesimo fatto (secondario) attinge alla sfera dell’argomentazione in ordine alle regole esplicative (massime di esperienza); così che la ricostruzione del fatto principale avrà luogo non disgiuntamente da una “disputa” che ha per oggetto non solo la maggiore o minore adeguatezza al caso concreto, ma talvolta la stessa validità generale di criteri esplicativi o massime di esperienza avanzati in quanto ritenuti plausibilmente idonei a costruire il “ponte” per la ricostruzione in via induttiva del fatto principale[131].
In questa ipotesi il rapporto dialogico verte sull’utilizzo della regola inferenziale, come una massima di esperienza sprovvista del carattere generalizzante, o dotata di un discutibile carattere condiviso; o sull’utilizzo di una legge scientifica non universalmente accreditata, o maggiormente esposta a critiche in ragione di una non diffusa accettazione; o sull’ utilizzo di massime di esperienza sia pur dotate di idoneità esplicativa generalizzante, o di leggi scientifiche largamente accreditate, ma nell’uno come nell’altro caso, dotati di scarsa concludenza e non funzionali a fungere da soliti criteri inferenziali per la prova del fatto principale.
E’ evidente che nei casi appena delineati il campo di incidenza della prova contraria sconfina il terreno di confutazione puramente fattuale, ed invade quello della confutazione logico-inferenziale, con tutte le conseguenti ripercussioni sullo spessore della rilevanza nel giudizio di ammissione delle prove avversarie.
[1] V. al riguardo G.VERDE, Prova, Teoria generale e diritto processuale civile, in Enc. Dir., XXXVII, Milano, 1988, 579 ss.;
[2] F. CARNELUTTI, La prova civile (1915), Roma, 1947, 13 nt. 1, «la parola ‘prova’… è ormai abituale nel linguaggio giuridico per indicare il processo di fissazione del fatto»,
[3] Per i vari significati si ricorda tra i tanti M. NOBILI, La teoria delle prove penali e il principio della «difesa sociale», in Materiali per una storia della cultura giuridica raccolti da G. Tarello, IV, Bologna, 1974, 417; cfr. F. CORDERO, Codice di procedura penale, Torino, 1992, 227, che definisce le prove «come ogni dato utile alla decisione sul tema storico»; A. NAPPI, Guida al nuovo codice di procedura penale, Milano, 1996, 139 «un’argomentazione che, movendo dall’affermazione di un fatto noto, consente di pervenire all’affermazione di un fatto incerto»; D. SIRACUSANO, Prova, in Enc. giur., XXV, 1991, 1 ss.: «Posto un thema le prove sono gli strumenti impiegati per verificarlo secondo le regole del processo»; G. UBERTIS, Fatto e valore nel sistema probatorio penale, Milano, 1979, 89, si intende «quel meccanismo, quell’insieme di elementi e attività aventi la funzione di consentire l’accertamento della verità, o meno, di uno degli enunciati fattuali integranti il thema probandum»; A. GIULIANI, Il concetto di prova. Contributo alla logica giuridica, Milano, 1961, 1 ss.
[4] UBERTIS, Fatto e valore nel sistema probatorio penale, cit., 55.
[5] Si v. A. MELCHIONDA, voce Prova in generale (dir. proc. pen.), in Enc. dir., XXXVII, 1997, 840 e ivi richiamato F. CARNELUTTI, La prova civile, cit., 53: «la prova della affermazione intorno all’esistenza di un fatto si fa mediante la conoscenza del fatto medesimo; la conoscenza non è la prova ma dà la prova della affermazione»; per l’A. «Provare non significa tanto conoscere, quanto riconoscere qualche cosa, per mezzo di un’esperienza, come dotata di una certa qualità […] la prova è uno strumento elementare del diritto, senza il quale il diritto non potrebbe raggiungere il suo scopo» (Id., Prova civile e penale, in Enc. it., XXVIII, 1935, 390).
[6] Per una riflessione a partire dal conetto «classico» di prova, che valorizza la dimensione retorica della prova come argomentazione diretta a convincere il giudice a ritenere il fatto come esistente v. l’opera di A. GIULIANI, Il concetto di prova, cit., 1 ss.; v. anche M. TARUFFO, La prova dei fatti giuridici: nozioni generali, Milano, 1992, 325: la prova si colloca nell’analisi del discorso retorico, oltre che in quella del discorso giudiziario, e non si distingue chiaramente da altri argomenti di cui l’avvocato-retore si serve ma che non sono prove in senso stretto. L’A. rifuggendo da una definizione univoca e astratta di “prova”, in base ad un approccio meno concettualistico e più ricognitivo, propone tre distinzioni (non esclusive né esaustive) inerenti al significato di “prova” e al modo in cui tale significato viene solitamente inteso nel processo: la prova «come dimostrazione e prova come esperimento», ossia la prova come dimostrazione della verità di un fatto, e la prova come test o controllo di un’ipotesi nell’ambito della procedura sperimentale; b) la prova come elemento di controllo delle ipotesi già formulate sul fatto e come fattore di scoperta, quale base per la costruzione di ipotesi nuove e diverse (attenendo questa distinzione «al rapporto tra la prova e il fatto cui essa si riferisce, e alle funzioni che la prova svolge nell’ambito di questo rapporto»; c) la prova nella sua dimensione polisemica correlata ai diversi aspetti del fenomeno probatorio «sicché appunto il significato del termine cambia a seconda dei casi». Cfr. anche A. MELCHIONDA, Prova in generale (diritto processuale penale), in Enc. dir., XXXVII, 1988, 650 «il concetto di prova non è isolabile da quello di una relazione o connessione tra due entità; pure i suoi sinonimi (verifica, dimostrazione) suscitano l’idea di un confronto paradigmatico nel quale la prova svolge un ruolo strumentale o finalistico». Il termine «verifica», infatti, allude al riconoscimento (o accertamento) di un tema o di un fatto; il termine «dimostrazione», nella sua accezione etimologica, sta proprio per «conoscenza indotta».
[7] Cfr. L. FERRAJOLI, Diritto e ragione, Teoria del garantismo penale, 1989, Roma-Bari, 115 s.
[8] Si fa riferimento alla tradizione che ebbe origine in Grecia classica ad opera degli oratori attici poi sviluppata da Aristotele (Retorica, I, 2, 1357b, 11 ss.), ripresa da Ermagora di Temno, da Cicerone e dai giuristi romani di età imperiale e poi tramandata alla cultura giuridica medievale dei secoli IX-XIII. Per un’ampia ricostruzione della prova nella sua evoluzione dalla formazione del concetto «classico» alla concezione «moderna» v. A. GIULIANI, Il concetto di prova, cit., 3 ss.
[9] V. L. FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., 116.
[10] La riflessione sul procedimento con cui “dalla presenza di qualche cosa possiamo arguire la esistenza di qualcos’altro che non è presente o apparente” – riflessione sui “segni” quali mezzi del giudizio – , ruotava intorno al concetto di prova come “argomentum”). Sul tema tra tutti A. GIULIANI, Il concetto di prova, cit., 3 ss.; ID., voce Prova (filosofia), in Enc. dir., XXXVII, 1988, 518 ss.; v. anche C. PERELMAN-L. OLBRECHTS-TYTECA, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Torino, 2001, con prefazione di N. Bobbio; F. CAVALLA, voce Topica giuridica, in Enc. dir., vol. XLIV, 1992, 720 ss.; R. ALEXY, Teoria dell’argomentazione giuridica, Milano, 1998.
[11] M. TARUFFO, La prova dei fatti giuridici, 330 s., si critica nella misura in cui sia utilizzata per fini decisori sulla base dell’assunto che non esiste un “fatto” come qualcosa di esterno o assoluto, ma questo si identifica col procedimento di ricerca ed è condizionato dalla esistenza di prove che sono a sostegno di una certa ipotesi.
[13] Vi era alla base la sfiducia verso le affermazioni unilateralmente favorevoli. A. GIULIANI, op. ult. cit., 17.
[14] Cfr. A. CARLINI, v. Problema, Enciclopedia Filosofica, vol. III, Roma-Venezia, 1957, 1635.
[15] “La dialettica pare pertanto connessa con la disputa, di cui lo Stagirita cerca di delineare i limiti: non può essere oggetto di ricerca ciò che non risponde alla opinione di nessuno o ciò che risponde alla opinione di tutti. Ed il principale limite è rappresentato proprio dal «problema» inteso come una questione insoluta, intorno a cui è possibile costruire sillogismi contrari: il valore delle opinioni è nel loro confronto con il discorso apofantico”. Cfr. A. GIULIANI, op. ult. cit., 24 s.
[17] In argomento L. LOMBARDO, La prova giudiziale, Milano, 1999, 115, che specifica la distinzione sul piano pratico, in quanto le argomentazioni dell’una e quelle dell’altra sono applicate a contesti diversi: la dialettica è l’arte di attaccare e di confutare, presuppone un dialogo e un interlocutore che ribatta, pur essendo un’attività collaborativa e non individualistica, finalizzata ad ottenere il consenso da parte dell’interlocutore. La retorica, al contrario, prescinde dalla collaborazione e presuppone uno o più monologhi, rivolti ad un soggetto terzo, a un uditorio che rimane muto e del quale non occorre conquistare il consenso.
[18] Sul rapporto tra retorica e dialettica v. A. GIULIANI, Op. ult. cit., 27 s.: la vera arte retorica si basa sulle prove: «Le prove costituiscono l’essenza dell’arte retorica e tutto il resto è accessorio» Rhet., A, 1, 1354 a 13.
[19]Per una critica alla contrapposizione dei concetti di logica e retorica G. ROSSI, Logica ed epistemologia della prova penale, in Metodo e processo. Una riflessione filosofica , S.C. Sagnotti, a cura di Margiacchi-Galeno, 2005, 1 ss.
[20] “Non esiste retorica senza logica così come non esiste logica senza retorica, ma, quand’ anche esistessero (come nella teoria di Perelman), esse non sarebbero altro che modelli deboli tanto di logica quanto di retorica […] una retorica senza logica perde la sua forza, così, una logica senza retorica, ridotta allo stato di formula pura, è, in realtà, inutilizzabile”, S.C. SAGNOTTI, Retorica e logica. Aristotele, Cicerone, Quintiliano, Vico, con presentazione di G. Carcaterra, Torino, 1999, pp. 24-25.
[23] Chiarisce A. GIULIANI, Op. ult. cit.,25 che “l’invenzione è strettamente legata al giudizio, è essa stessa un giudizio, in quanto ci permette di «correggere» la prospettiva dell’avversario”.
[24] Così si esprime M. TARUFFO, Prova dei fatti giuridici, 325, richiamando sul punto A. GIULIANI, Op. ult. cit., 93.
[25] Cfr. R. POLI, Logica del giudizio di fatto, standard di prova e controllo in Cassazione, in Lo statuto del giudice e l’accertamento dei fatti, Atti del XXXII Convegno nazionale, Messina, 27-28 settembre 2019, 389. V. anche M.MANZINI, Quale logica per il processo penale?, in L’argomentazione giudiziale e il suo controllo in Cassazione, Roma, 2012, 67; L. LOMBARDO, La prova giudiziale. Contributo alla teoria del giudizio di fatto nel processo , Milano, 1999, 103 ss.
[29] Cfr. G. PUGLIESE, L’onere della prova nel processo romano per formulas, 1956, in Scritti giuridici in memoria di Piero Calamandrei , III, Padova, 1958, 178 ss.
[30] L. FERRAJOLI, Op. ult. cit., 172 nota 48. La dialettica medievale riprende questo schema, configurando la controversia come conflitto tra positiones e oppositiones idoneo in quanto tale «ad eruendam veritatem»: la positio di parte ammessa in giudizio comportava l’obbligo di respondere, ma anche il diritto alla reprobatio, cioè alla controprova. Sul nesso tra l’idea del contraddittorio come tecnica di ricerca della verità e la teoria dialettica delle positiones penetrata nel processo romano-canonico attraverso la retorica cfr. A. GIULIANI, Op. ult. cit., 138 ss.
[31] Il riconoscimento del carattere probabile e incerto di ogni prova e la preoccupazione della fallibilità di ogni giudizio sono alla base della massima in dubio pro reo, v. L. FERRAJOLI, Op. ult. cit.,, 172
[34] Così M. TARUFFO, La prova dei fatti giuridici, cit., 417.
[35] Così L. FERRAJOLI, Op. ult. cit., 122 “Possiamo esprimere tutto questo affermando che non disponiamo di un metodo di scoperta o di verificazione, ma solo di un metodo di conferma e di falsificazione. Una scoperta […] non è mai deducibile meccanicamente né può dirsi mai assolutamente vera, ma può essere solo preferita a tutte le ipotesi concorrenti sulla base dei due criteri di verificazione (da non confondere con il significato del termine vero) […] la sua «coerenza» con il maggior numero di conferme e la sua «accettabilità giustificata» dalla sua resistenza al maggior numero di controprove e dalla soccombenza a queste di tutte le altre”.
[36] Cfr. L. FERRAJOLI, Op. ult. cit., 123 in ordine alla struttura della prova per “modus ponens” e smentita per “modus tollens”.
[37] Cfr. M. TARUFFO, Note per una riforma del diritto delle prove, in Riv. dir. proc., 1986, 239 ss.; e Id., La prova dei fatti giuridici, cit., 1 ss., «Per certi versi sarebbe anzi possibile considerare le numerose teorie e definizioni della prova come null’altro che riformulazioni, di volta in volta condizionate dai più diversi fattori culturali e tecnico-giuridici, di questa idea fondamentale». Sulle teorie della verità nel processo penale v. anche L. FERRAJOLI, Op. ult. cit.,, cit., 20 ss; P. FERRUA, Il giudizio penale: fatto e valore giuridico, in AA. VV., La prova nel dibattimento penale, Torino, 2010, 47 ss.; ID., Contraddittorio e verità nel processo penale, in Id., Studi sul processo penale, II, Anamorfosi del processo accusatorio, Torino, 1992, 47 s. R.E. KOSTORIS, Giudizio (dir. proc. pen), voce Enciclopedia giuridica Treccani, Roma, agg. 1997, IV, 8 ss; A. TARSKI, La concezione semantica delle verità e i fondamenti della semantica, in AA. VV., Semantica e filosofia del linguaggio, a cura di L. Linsky, Milano, 1969, 30 ss.; G. UBERTIS, La ricerca della verità giudiziale, in G. Ubertis, La conoscenza del fatto nel processo penale, Milano, 1992, 57 ss.
[39] T. RAFARACI, La prova contraria, Torino, 2004, 4, precisando che la prova contraria assicura un sindacato cognitivo sulle verità processuali “unilaterali” che si presenta quale proiezione diretta dell’istanza politica di moderazione, temperamento e “relativizzazione” del potere istruttorio dell’autorità penale.
[40] La funzione del processo come mezzo per accertare la verità era frutto di un’elaborazione consapevole che trovava radice nel dibattito risalente al codice del 1913 (si v. U. FERRARI, La verità penale e la sua ricerca nel diritto processuale italiano, Milano, 1927, 15 ss. e 20). E il richiamo alla “verità” è contenuto, infatti, nella Relazione ministeriale per la riforma dei codici penali contrapponendo le due accezioni di verità formale e verità materiale, con accento proprio su quest’ultima : “in materia penale la verità materiale deve prevalere su quella formale” (Lavori preparatori del codice penale e del codice di Procedura penale, I, Roma, 1928, 26).Nel codice di rito abrogato la formula si rinviene negli art.: 296 comma 2 (facoltà del pretore delegato dal giudice istruttore a compiere anche atti eccedenti la delega, se appaiono necessari o utili per l’accertamento della verità); 299 (obbligo del giudice istruttore di compiere tutti ma soltanto gli atti necessari per l’accertamento della verità); 306 comma 1 (facoltà dell’offeso dal reato di proporre elementi di prova e indagini per l’accertamento della verità); 368 (dovere di investigazione su quanto dichiarato dall’imputato, in quanto utile all’accertamento della verità); 402 comma 3 (riapertura dell’istruzione se le nuove prove serviranno all’accertamento della verità); 409 comma 3 (il decreto a giudizio del pretore deve indicare i testimoni a carico e a discarico purché utili all’accertamento della verità); 457 (il giudice del dibattimento può disporre l’accesso in loco o l’assunzione di nuove prove, purché assolutamente necessari per l’accertamento della verità).
[41] F. M. IACOVIELLO, La motivazione della sentenza penale e il suo controllo in cassazione, Milano, 1997, 135.
[42] Cfr. R. ADORNO, La fisionomia del thema probandum nel processo penale, in Foro it., 2013, 133 s. Si ricorda che la stessa Consulta, nei primi anni di vigore del codice nel retaggio di una cultura inquisitoria, mostra di privilegiare l’aspirazione al vero, quale «fine primario ed ineludibile del processo penale», Corte cost., 3 giugno 1992, n. 255, in Cass. pen., 1992, 2022, con nota di F.M. IACOVIELLO, Prova e accertamento del fatto nel processo penale riformato dalla Corte Costituzionale.
[43] R. E. KOSTORIS, Giudizio (diritto processuale penale), in Enc. giur. Treccani, vol. XV, 1997, 9, il quale chiarisce che rappresenta un criterio anche per il legislatore «nell’individuazione del metodo di accertamento», e per il cittadino «nella critica di procedure e di decisioni ritenute ingiuste». In generale sul tema cfr. R. ADORNO, La fisionomia del thema probandum nel processo penale, cit., 133 s.
[44] P. FERRUA, Il «giusto processo», Bologna, 2005, 51.
[45] Così A. GAITO, Il procedimento probatorio (tra vischiosità della tradizione e prospettive europee), in A. Gaito (a cura di), La prova penale, vol. I, Torino, 2008, 99.
[46] G. UBERTIS, «Prova: II) teoria generale del processo penale», in Enc. giur. Treccani, XXV, Roma, 1991, ricorda che la legge delega 16 febbraio 1987, n. 81, al’art. 2 n. 73 si affermi espressamente la ricerca della verità. Aggiungendo come la verità della ricostruzione fattuale rilevi in ambito processuale quale fondamento per l’emanazione di una decisione giusta: “L’accertamento della verità non è quindi, in sé e per sé, il fine ultimo del processo, ma il presupposto per poter adeguatamente decidere quale sia la legge applicabile nel caso concreto. Non per nulla, il nesso (e pertanto il rifiuto di una omologazione) tra verità è giustizia viene anche normativamente confermato dalla formula del giuramento prevista per i giudici popolari (art. 30 , 1° co., l. 10-4-1951, n. 287 ), dove si scolpiscono i caratteri della sentenza, prescrivendo appunto che essa «riesca quale la società deve attenderla: affermazione di verità e di giustizia».”V. GAROFOLI, Il concetto di verità tra diritto e processo, relazione svolta nell’ambito del convegno dal titolo “Ragione, verità e giustizia”, Bari, 2009.
[47] Nel processo infatti non si può andare oltre la verifica “della verità di una proposizione”, CARRARA, Programma del corso di diritto criminale. Parte generale, III, Lucca, 1867, par. 900, 201. La prova in quanto tale, quindi, non riguarda un “fatto”, ma un “asserto”, cfr. G. UBERTIS, Prova, cit.; e ID., Conoscenza fattuale e razionalità della decisione giudiziale, in Argomenti di procedura penale, Milano, 2002, p. 82 che non sono i fatti a poter essere predicati come veri o falsi, ma solo le proposizioni che li descrivono, evidenziando l’equivoco contenuto nell’art. 395 comma 4 c.p.c., che allude a «fatti la cui verità è incontrastabilmente esclusa» o «positivamente stabilita». M. TARUFFO, Studi sulla rilevanza delle prova, 1970, Padova, 36 «il materiale su cui il giudice opera le proprie valutazioni, infatti, non è costituito da eventi concreti, colti nella loro realtà immediata, ma da proposizioni aventi ad oggetto i fatti. In altre parole, il giudice non entra in contatto con la concreta realtà del fatto affermato dalle parti, ma soltanto con la descrizione, che la parte gli propone, del modo in cui il fatto si è verificato».
[48] Cfr. F. CARNELUTTI, La prova, cit., 29, 56, 61. E M. TARUFFO, La prova dei fatti giuridici, cit., 4.
[49] CFR. M. TARUFFO, Op. ult. cit., 4 ss., l’A. precisa che sembra insostenibile l’idea di una verità giudiziaria che sia completamente «diversa» e autonoma per il solo fatto che viene accertata nel processo e per mezzo delle prove; l’esistenza di regole giuridiche e di limiti di varia natura serve sì per escludere verità assolute, ma non basta per differenziare totalmente la verità che si persegue nel processo da quella che si persegue dentro: “si potrà dire che la verità «del processo» ha alcune peculiarità rilevanti che derivano dal suo essere collocata concettualmente entro un contesto specifico e giuridicamente determinato, ma queste peculiarità non bastano a fondare un concetto autonomo di «verità formale».
[50] G. UBERTIS, Fatto e valore nel sistema probatorio penale, cit., 129
[51] G. UBERTIS, La ricerca della verità giudiziale, cit., 89.
[52] R. ADORNO, La fisionomia del thema probandum nel processo penale, cit., 134.
[53] P. FERRUA, I poteri probatori del giudice dibattimentale: ragionevolezza delle sezioni unite e dogmatismo della Corte costituzionale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1994, 1076.
[54] G. UBERTIS, La ricostruzione giudiziale del fatto tra diritto e storia, in Cass. pen., 2006, 1209, 1214. P. FERRUA, Il «giusto processo», cit., 33, «a differenza di un oggetto che, scoperto, documenta con la sua stessa presenza il buon esito della ricerca, niente può definitivamente garantire che il fatto attribuito all’imputato corrisponda a ciò che ‘è stato’».
[55] F.M. IACOVIELLO, Processo di parti e poteri probatori del giudice, in Cass. pen., 1993, 291.
[56] In argomento A. GIARDA, Teoria e prassi del processo penale di parti, in Id., Praxis criminalis. Cronache di anni inquieti. 1989-1993, Milano, 1994, 50 s.
[57] Sul concetto di «verità giudiziale» G. UBERTIS, Fatto e valore, cit. 129. Sulla verità «formale», in quanto «”non trovata” ma “elaborata” attraverso una metodologia» v. P. FERRUA, II «giusto processo», cit., 33.
[58] Sul tema si v. le considerazioni di M. TARUFFO, La prova dei fatti giuridici, 22: il modello dispositivo nel processo di parti nel quale il giudice non si dedica autonomamente al conseguimento di una decisione veritiera; e uno inquisitorio nel quale la riceva della verità è considerata un valore. Ma nello schema, si aggiunge, non c’è nulla di necessario e di indiscutibile: non è scontata la corrispondenza tra modello dispositivo e negazione della verità per un verso, e per altro verso tra ricerca della verità e modello inquisitorio. Peraltro, “l’argomentare con riferimento a modelli «puri» può essere utile sul piano teorico o può spiegarsi sul piano della polemica ideologica, ma implica il rischio di un distacco anche rilevante dalla realtà: questa conosce infatti, solitamente, modelli «misti» o versioni più o meno attenuate del modello dispositivo”
[59] Così R. ADORNO, La fisionomia del thema probandum nel processo penale, cit., 134; G. UBERTIS, Sistema dì procedura penale, I, Prìncipi generali, 2a ed., Torino, 2007, 53: la verità è “contestuale”, perché «dipendente dalle conoscenze date al momento in cui è perseguita».
[61] Cfr. F CAPRIOLI, Verità e giustificazione nel processo penale, in Riv. it.. dir. proc. pen., 2013, 2, 608 ss. «Non v’è dubbio che il processo penale soffra limiti cognitivi che spesso impediscono al giudice di pervenire a un’affermazione veritiera di responsabilità. La sua stessa struttura è intrinsecamente antiepistemica: ci sono tempi da rispettare, preclusioni, decadenze». Cfr. anche B. CAVALLONE, In difesa della veriphobia (considerazioni amichevolmente polemiche su un libro recente di Michele Taruffo), in Riv. dir. proc., 2010, p. 22, che parla del processo come di una macchina cognitiva «inevitabilmente rigida, formalistica, ludica […], inidonea a produrre gli stessi esiti di ‘verità’ che è legittimo aspettarsi da un laboratorio scientifico dotato di finanziamenti di entità e durata illimitate».
[62] P. FERRUA, Contraddittorio e verità nel processo penale, in Studi sul processo penale, II, Anamorfosi del processo accusatorio, Torino, 1992, 45. Sul nesso tra contraddittorio e approssimarsi della verità cfr. anche G. GIOSTRA, voce Contraddittorio (principio del), in Enc. giur. Treccani, vol. VIII, 1988, agg., 2001, 1 ss.; L.P. CAMOGLIO, Voce Contraddittorio, in Dig. disc. Priv. (sez. civ.), Vol. IV, 1989, 1 ss; G. CONSO, Considerazioni in tema di contraddittorio nel processo penale italiano, in Riv. It. Dir. proc. pen., 1966, 405
[64] In termini simili T. RAFARACI, Op. ult. cit., 12 «si eleva il dubbio, da ovvio e onesto punto di partenza di ogni ricerca guidata da un’ipotesi, al rango di criterio di controllo dell’affidabilità della conoscenza: : un criterio da prediligere perché è il più coerente con una gnoseologia finalmente consapevole dei propri limiti, e da attuare secondo lo schema del dialogo antagonistico in quanto un dialogo siffatto moltiplica i punti di vista offerti alla ricostruzione del giudice e agevola la scoperta e l’eliminazione dell’errore».
[65] A. MELCHIONDA, Prova in generale (diritto processuale penale),1988, cit., 653.
[67] UUBERTIS, Contraddittorio e difesa nella giurisprudenza della corte europea dei diritti dell’uomo, cit., 1093.
[68] Così E. NADIA LA ROCCA, Prova (prospettive europee), in Dig. disc. pen., 2008, 834 ss.
[69] A. MELCHIONDA, voce Prova in generale (dir. proc. pen.),1997, cit., 851.
[70] La possibilità di difendersi implica una dimensione dialettica tra le parti contrapposte, cfr. G.UBERTIS, Contraddittorio e difesa nella giurisprudenza della corte europea dei diritti dell’uomo, cit., 1093.
[71] C. Edu, Sent. 28 agosto 1991, Brandstetter c. Austria. Passo riportato da T. RAFARACI, Op. ult. cit., 23.
[73] Cfr. C. CONTI, Le due “anime” del contraddittorio nel nuovo art. 111 Cost., in Dir. pen. proc., 2000, p. 197 s.; P. TONINI, Il contraddittorio: diritto individuale e metodo di accertamento, in Dir. pen. proc., 2000, p. 1388 s.; V. GREVI, Ancora su contraddittorio e investigazioni difensive nel giudizio abbreviato, in Cass. pen., 2010, 4, 1287 ss., il quale precisa: «fermo restando che all’imputato dovesse riconoscersi la più ampia possibilità di esplicazione attiva del diritto al contraddittorio, in quanto esercizio del suo diritto di difesa (in particolare, quale “garanzia soggettiva” sul versante del necessario confronto con le fonti di prova a carico), appariva evidente come tale diritto non potesse porsi in contrasto con la piena attuazione del contraddittorio quale “regola” di accertamento dei fatti nel processo penale, ma anzi dovesse ritenersi attribuito all’imputato (anche) in vista del corretto funzionamento del metodo dialettico nella formazione della prova. Da questo angolo visuale, dunque, si può affermare che il contraddittorio come “garanzia soggettiva” costituisce il presupposto per la piena operatività della corrispondente “garanzia oggettiva”».
[74] Cfr. M. BARGIS, Commento all’art. 16 l. 1° marzo 2001, n. 63, in Leg. pen., 2002, p. 279 s., 284 s.; M. CHIAVARIO, Appunti sul processo penale, Torino, 2000, p. 12; P. FERRUA, Il processo penale dopo la riforma dell’art. 111 Cost., in Quest. giust., 2000, p. 54 s.; GIOSTRA, voce Contraddittorio (principio del), dir. proc. pen., in Enc. giur. it., vol. VIII, Ist. Enc. Treccani, 2001, p. 5 s.; MARZADURI, Commento all’art. 1 l. cost. 23 novembre 1999, n. 2, in Leg. pen., 2000, p. 790 s.
[81] Si precisa che per prova diretta non si allude al rapporto diretto tra oggetto di prova e fatto da provare, nel senso di provare direttamente il fatto, quanto la direzione probatoria rispetto al fatto che ne è oggetto. Si v. L.P. COMOGLIO, Preclusioni istruttorie e diritto alla prova, in Riv. Dir. proc., 1998, 993.
[82] R. APRATI, Le prove contraddittorie: id est il diritto al contraddittorio sul medesimo tema probatorio, in Dir. pen., proc., 2006, 5, 627 ss., a proposito dell’art. 495, comma 2 c.p.p. aggiunge che «La disposizione, non a caso, non indica i fatti che devono essere “oggetto” di ambedue le prove poste in relazione di contraddittorietà: essa dice piuttosto che i “fatti oggetto” di una prova a carico o a discarico possono essere contestati da una prova a discarico o a carico cosicché si istauri il rapporto di contraddittorietà fra i “fatti allegati” con i due mezzi di prova».
[83] In questi termini R. APRATI Le prove contraddittorie, 627 ss.
[84]Ibidem “ la qualifica di prove contraddittoria pertiene ad almeno due prove con “allegato” contraddittorio e ricomprende qualsivoglia ‘oggetto’ attraverso cui un allegato può essere provato e, di conseguenza, l’altro smentito”. In particolare – si afferma – con la richiesta di ammissione una prova con un certo “allegato” e un certo “oggetto” deve essere assunta sul presupposto che “l’allegato” coincide con un “factum probandum” e sul presupposto che “l’oggetto della prova” è idoneo a dimostrare il suo “allegato”. Poi per un approfondimento del concetto di “elementi di prova”, “oggetto di prova”, “fatti allegati” e “factum probandum”, si richiama M. TARUFFO, Studi sulla rilevanza della prova, cit., 34 ss.; e per un chiarimento lessicale A. CAPONE, Il principio di decisività, in Cass. pen., 2004, 1478 s.
[85] Cfr. P. FFERRUA, Contraddittorio e verità nel processo penale, cit., 75 ss. Per altri riferimenti v. supra paragrafo 3.
[86] Per il rilievo accordato all’aspetto argomentativo cfr. M. MENNA, Logica e fenomenologia della prova, Napoli, 1992, 137-138.
[87] G. UBERTIS, voce Prova (in generale), voce del Digesto pen., Torino, 1995, X, 300. Secondo l’A. la concezione dialettica evita «i limiti connessi all’accoglimento esclusivo della teoria della prova come dimostrazione, che implicherebbe, secondo un’impostazione vetero-positivistica, il riconoscimento di una completa autonomia al “mondo dei fatti” e di un passivo adeguamento a quest’ultimo da parte del giudice».
[88] M. TARUFFO, La motivazione della sentenza civile, Padova, 1975, 212.
[89]Sul tema della falsificazione per tutti K.R. POPPER, Logica della scoperta scientifica, Wien, 1934, London, 1959, Einaudi, 1970, 66 ss..
[93] G. CALOGERO, La logica del giudice e il suo controllo in Cassazione, Padova, 1937, 51.
[94] C. TAORMINA, Il regime della prova, Torino, 2007, 212; secondo quanto riportato da R. ADORNO, La fisionomia del thema probandum nel processo penale, cit., 135, il quale segnala anche la diversa terminologia utilizzata da G. UBERTIS, Sistema di procedura penale, cit., 50: «mentre il thema probandum è unico, gli oggetti di prova sono tanti quanti i singoli esperimenti probatori o i gruppi di essi correlati a un’identica affermazione».
[95] Così M. TARUFFO, Studi sulla rilevanza della prova, cit., 35.
[96] G. UBERTIS, voce Prova, cit., 300 ss.; ID., Fatto e valore nel sistema probatorio penale, cit., 71 ss.
[97] Sul punto M. TARUFFO, Studi sulla rilevanza della prova, cit., 40 ss., ritiene che il probandum consiste in ciò che deve essere provato perché il giudice possa decidere la causa nel merito, dichiarando la sussistenza delle conseguenze giuridiche affermate dall’una o dall’altra parte. In tal modo esso equivale al complesso di fatti principali della causa, negando la qualifica di giuridicità ai c.d. fatti semplici (v. infra).
[98] M. TARUFFO, Studi sulla rilevanza della prova, cit., 37 ss. il quale definisce “oggetto di prova” la proposizione che descrive il risultato cui la singola prova può pervenire in modo autonomo, indipendentemente dalla mediazione del procedimento logico che il giudice dovrà porre in essere per trarre conclusioni relative ad altri fatti. V. anche V. DENTI, La verificazione delle prove documentali, Torino, 1957, 7; F. CARNELUTTI, Teoria generale del diritto, III ed., Roma, 1951, 377.
[99] G. UBERTIS, voce Prova, cit., 300 ss. il quale precisa che l’insieme degli oggetti di prova concretamente sottoposti a verifica non corrisponde necessariamente al thema probandum, perché ci si potrebbe anche trovare nella situazione di non riuscire a individuare prove con riferimento a qualcuna delle proposizioni che compongono quest’ultimo.
[101] G. UBERTIS, Sistema dì procedura penale, cit., 48; e ID. voce Prova, cit., 300 ss.; R. ADORNO, La fisionomia del thema probandum nel processo penale, cit., 135, definisce i fatti primari come «temi di prova finali».
[103] M. TARUFFO, La prova dei fatti giuridici, cit., 97 ss.
[104]Ibidem; A. NAPPI, Guida al nuovo codice, cit., 126; T. RAFARACI, cit., 110; A. SCALFATI-D. SERVI, Premesse sulla prova penale, in Trattato di procedura penale diretto da G. Spangher, II.l, Le prove a cura di A. Scalfati, Torino, 2009, 19 s.; P. TONINI, Manuale di procedura penale, 13a ed., Milano, 2012, 218; C. VALENTINI, La prova decisiva, Padova, 2012, 81. G. UBERTIS, Sistema di procedura penale, cit., 48, che con la locuzione «fatti secondari», indica l’«insieme costituito dagli elementi, dalle fonti e dai mezzi di prova, nonché dai fatti notori».
[105] F.M. IACOVIELLO, La motivazione della sentenza penale, cit., 156. Cfr. G. UBERTIS, voce Prova, cit., 300 ss., secondo l’A. i fatti probatori costituiscono una sottoclasse dei fatti secondari.
[106] Del resto i fatti secondari rientrano a pieno titolo nell’oggetto di prova di cui all’art. 187, come espressamente affermato nella Relazione al Progetto preliminare c.p.p., cit., 60 «con la locuzione “i fatti che si riferiscono all’imputazione” […] si è voluto alludere anche alla prova indiziaria, cioè ai c.d. fatti secondari da cui si può risalire a quelli oggetto dell’accusa». Cfr. in argomento rafaraci pag. 118.
[107] Così M. TARUFFO, La prova dei fatti giuridici, cit., 101, definendo la categoria come omogenea solo per negazione, nel senso di comprendere i fatti non principali.
[108] Si pensi alla deduzione di differenti modalità di condotta suscettibili di rilevanza giuridica. Cfr. M. TARUFFO, La prova dei fatti giuridici, cit., 225.
[109] Cfr. R. APRATI, Le prove contraddittorie, cit., 627 ss. «E’ vero, certo, che le due proposizioni “risulta che“, “non risulta che“ non sono contraddittorie rispetto ai fatti, ma rispetto all’accertamento dei fatti. Ma ciò non toglie che le affermazioni “consta x” “non consta x” – come avviene per la coppia “consta x” “consta non x” – sono contraddittorie: né entrambe false né entrambe vere; solo una è falsa e solo una è vera, spetterà al giudice sciogliere l’alternativa»
[110] In questi termini M. TARUFFO, La prova dei fatti giuridici, cit., 229.
[111] “Invero, anche l’incompatibilità si regge su uno schema logico d’inflessibile coerenza (nel rapporto A e B, se A, allora non B, e viceversa), cosicché essa, in tanto potrà dirsi evocata a proposito per esprimere nei suoi termini tipici il rapporto che s’instaura tra diversi giudizi di fatto, in quanto l’osservazione secondo cui il verificarsi dell’uno esclude il verificarsi dell’altro sia inequivocamente sussumibile in una regola generale che possiede quel rigore”. T. RAFARACI, La prova contraria, cit., 105.
[112] M. TARUFFO, La prova dei fatti giuridici, cit., 230.
[114] T. RAFARACI, Op. ult. cit.. 109, il quale precisa che l’uso del modo condizionale si giustifica per tener conto anche delle possibili difficoltà che nella pratica possono pur sempre verificarsi, soprattutto prima che la prova sia effettivamente acquisita e se ne conoscano i risultati, quando si voglia leggere con esattezza l’effettiva direzione verso cui la rilevanza della prova si lascia apprezzare.
[115] Come ci ricorda T. RAFARACI, Op. ult. cit., 106, richiamando tra gli altri C. LESSONA, Trattato delle prove, vol IV; E.T. LIEBMAN, Manuale di diritto processuale civile. Principi, Milano, 1992, 344. Per l’A. nella negazione del fatto principale che la prova affermativa intende dimostrare induttivamente, si nota una connotazione statica, lontana dal dinamismo dell’urto dialettico proprio del sistema processualpenalistico, «a caratura e rilevanza teorico-giuridica di matrice essenzialmente logica»
[116] Nota T. RAFARACI, Op. ult. cit., trattasi di prova contraria su fatti semplici. L’A. ritiene che questo tipo di antagonismo probatorio si sviluppa più agevolmente nel contesto dialettico dell’esame e, soprattutto del controesame del dichiarante.
[117] Per tali esempi T. RAFARACI, Op. ult. cit., 116.
[118]Ibidem, 116 «La peculiarità dell’antagonismo probatorio in simili eventualità è data dal fatto che l’opportunità di “squalificazione” del rapporto tra fonte ed elemento di prova non resta affidata all’uso dei normali strumenti procedimentali previsti, nella prospettiva di garanzia della genuinità della prova (fra i quali, innanzitutto, quelli che realizzano il contatto diretto con la fonte di prova), ma è piuttosto assicurata dalla possibilità di allegazione tematica distinta di fatti specifici “squalificanti”, appunto come oggetto di prova autonoma, in questo senso antagonista».
[119]Ibidem, Aggiungendo che “a mano a mano che l’antagonismo delle prove si arricchisce di proposizioni basate su inferenze marcatamente probabilistiche, diminuisce l’incidenza della matrice puramente gnoseologica dell’antagonismo medesimo e cresce il tasso della sua funzione più prettamente euristica”.
[120] Cfr. G. UBERTIS, voce Prova, cit., 300 ss. «la funzione del “notorio” utilizzato come tale è analoga a quella dell’elemento di prova, mentre il loro comune genus è quello dei fatti probatori, intesi come l’insieme dei dati posti dall’autorità giudiziaria alla base della propria attività di verifica degli oggetti di prova».
[121] Tradizionale definizione offerta da F. CARNELUTTI, La prova civile, cit., 78; C. LEONE, Contributo allo studio delle massime di esperienza e dei fatti notori, in Annali della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bari, 1954, 5.
[123] «Perché corrisponde bensì o può corrispondere all’id quod plerumque accidit, ma non certo all’id quod semper necesse», così M. CAPPELLETTI, La testimonianza della parte nel sistema dell’oralità. Contributo alla teoria della utilizzazione probatoria del sapere delle parti nel processo civile, I, Milano, 1962, 175.
[124] M. TARUFFO, Studi sulla rilevanza della prova, cit., 207. Cfr. G. UBERTIS, voce Prova, cit., 300 ss.
[126]Ibidem, precisa l’A. che per effetto del loro riferimento ad un apparato nomologico o teorico, sono formulate «su basi almeno in parte diverse da quelle costituite dai dati d’esperienza, singolarmente o globalmente presi, e comunque si [va] oltre i limiti intrinseci dell’esperienza empirica» (nel virgolettato M. TARUFFO, Studi sulla rilevanza della prova, cit., 206).
[127] M. TARUFFO, Studi sulla rilevanza della prova, cit., 205.
[128] T. RAFARACI, Op. ult. cit.: “rappresenta l’obiettivo della prova, più che il suo oggetto”. Aggiungendo che “a mano a mano che l’antagonismo delle prove si arricchisce di proposizioni basate su inferenze marcatamente probabilistiche, diminuisce l’incidenza della matrice puramente gnoseologica dell’antagonismo medesimo e cresce il tasso della sua funzione più prettamente euristica”.
[129] T. RAFARACI, Op. ult. cit., 113 riporta tale esempio: “ipotesi in cui, provato che Tizio, imputato dell’omicidio di Caio avvenuto nella dimora di questo, sostò l’auto davanti tale dimora mezz’ora prima del delitto, si voglia provare che egli stesso poi la rimosse, rimanendovi alla guida, dieci minuti prima che il delitto fosse commesso.
[130] Si pensi all’ipotesi in cui si intenda provare la scarsa capacità probante del dato indiziante rappresentato dal rinvenimento di una traccia genetica; o un decorso causale alternativo che spieghi la ragione del relativo deposito della traccia per ragioni diverse ed indipendente dalla commissione del reato.
[131] In questi termini T. RAFARACI, Op. ult. cit., pag. 114.