Osservazioni sulla revocazione per (accertate) violazioni della CEDU.

Di Sergio Menchini -

1.La riforma Cartabia introduce nell’ordinamento la revocazione delle decisioni passate in giudicato il cui contenuto è stato dichiarato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo contrario alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) ovvero ad uno dei suoi Protocolli (art. 391-quater p.c.)[1].

Poiché il ricorso alla Corte europea è consentito solo dopo l’esaurimento delle impugnazioni interne, la revocazione non solo è mezzo di impugnazione straordinario, ma è ammessa esclusivamente contro i provvedimenti passati in giudicato (o, comunque, definitivi).

Sebbene in un ambito circoscritto (sentenze aventi ad oggetto diritti di stato della persona), è stabilita la cedevolezza del giudicato interno, che la Corte ha accertato essere stato reso in contrasto con la convenzione; infatti, la misura riparatoria della riapertura del processo è realizzata per mezzo della revocazione della sentenza e comporta il travolgimento del giudicato.

L’intervento avviene mediante le seguenti disposizioni: i) art. 391-quater c.p.c., che indica i presupposti e gli effetti del rimedio (la revocazione); ii) art. 362, ultimo comma, c.p.c., per il quale l’impugnazione deve essere proposta alla Corte di cassazione; iii) art. 375, comma 1, c.p.c., secondo il quale “nei casi di cui all’art. 391-quater” la Corte pronuncia in pubblica udienza; iv) art. 391-ter, secondo comma, c.p.c., richiamato dall’art. 391-quater, secondo comma, c.p.c., che riguarda la decisione della Corte di cassazione; v) art. 397, ultimo comma, c.p.c., che attribuisce la legittimazione ad impugnare (anche) al procuratore generale presso la Corte di cassazione; vi) art. 15, comma 01-bis del decreto legge 4 ottobre 2018, n. 113, che fa obbligo all’agente del Governo di comunicare a tutte le parti del processo che ha dato luogo alla sentenza italiana sottoposta all’esame della Corte europea, nonché al Procuratore generale presso la Corte di cassazione, la pendenza del procedimento promosso innanzi alla Corte europea; vii) articoli 2652, comma 9-bis, c.c. e 2960, comma 6-bis, c.c., che consentono la trascrizione delle domande di revocazione contro le sentenze soggette a trascrizione, riguardanti rispettivamente beni immobili e mobili registrati, e disciplinano l’efficacia della sentenze che accolgono tali domande (trascritte).

Con queste norme, il legislatore ha inteso dare attuazione agli articoli 41 e 46 Cedu: per l’art. 46, paragrafo primo, “le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie di cui sono parti”; per l’art. 41, “se la Corte dichiara che vi è stata violazione della convenzione o dei suoi protocolli e se il diritto dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa”.

Le sentenze della Corte Edu hanno efficacia dichiarativa, accertano se vi è stata violazione della convenzione o dei suoi protocolli; è obbligo degli Stati, nei cui confronti sono state emesse, conformarsi ad esse.

Nel sistema convenzionale, non spetta alla Corte Edu indicare allo Stato contraente le misure da adottare per dare esecuzione alla sentenza, ma è riservata allo Stato la determinazione dei mezzi e dei modi di attuazione delle decisioni della Corte europea.

Per la legge 4 agosto 1955, n. 848, con cui è stata autorizzata la ratifica della convenzione, tutti gli organi dello Stato italiano, comprese le autorità giurisdizionali (civili e non), se responsabili di una violazione accertata dalla Corte europea, devono adottare le misure necessarie per porvi rimedio, cessando il comportamento lesivo e rimuovendo le conseguenze ad esso riconducibili.

La Corte Europea, con giurisprudenza consolidata, ha affermato che l’obbligo di conformazione alle proprie sentenze comporta, a carico degli Stati membri, anche cumulativamente, oltre al pagamento alla parte lesa dell’equa soddisfazione, ove attribuita dalla Corte ai sensi dell’art. 41 Cedu, l’applicazione delle misure individuali necessarie all’eliminazione delle conseguenze della violazione accertata e dei rimedi generali volti a far cessare la violazione e ad evitare violazioni future.

La Corte ha anche precisato che: a) le misure individuali sono quelle dirette a consentire la restitutio in integrum, al fine di porre, per quanto possibile, il ricorrente in una situazione equivalente a quella in cui si troverebbe se non vi fosse stata una inosservanza della Convenzione; b) non spetta ad essa indicare le misure individuali atte a realizzare la restitutio in integrum e le misure generali necessarie a porre fine alla violazione convenzionale, restando gli stati contraenti liberi di determinare gli strumenti per adempiere all’obbligo conformativo previsto dall’art. 46 Cedu.

Le misure individuali sono: la restitutio in integrum, da privilegiare e costituente la via maestra; l’equa soddisfazione, che può essere disposta dalla Corte a carico dello Stato, anche in via cumulativa con il primo strumento.

L’equa soddisfazione ha carattere sussidiario rispetto alla restitutio in integrum ed è accordata direttamente dalla Corte di Strasburgo alla parte lesa quando non vi siano tutele di diritto interno capaci di rimuovere in modo perfetto le conseguenze della violazione convenzionale; ove, invece, tali mezzi vi siano, la Corte dichiara la violazione e lo Stato provvede a ripristinare la situazione violata (se lo Stato non provvede, la Corte può intervenire nuovamente).

Quando la violazione accertata dalla Corte europea è compiuta dall’autorità giudiziaria mediante un provvedimento giurisdizionale, la restitutio in integrum è ottenuta per mezzo della riapertura del processo: il giudicato nazionale è rimosso e si procede alla revisione della causa.

La Raccomandazione R(2000)2 del 19 gennaio 2000, sulla riapertura dei processi, adottata dal Comitato dei Ministri il 19 gennaio 2000, incoraggia gli Stati, anche nelle giurisdizioni diverse da quella penale, a prevedere questa misura, se “la Corte Edu abbia riconosciuto la sentenza domestica quale fonte di una violazione degli obblighi convenzionali per ragioni sostanziali o procedurali” e “la parte lesa continui a soffrire conseguenze negative molto serie a causa della decisione interna, che non possono essere adeguatamente rimosse attraverso l’equa soddisfazione prevista dall’art. 41 della Cedu”.

La Corte europea, con riferimento a violazioni causate da provvedimenti giurisdizionali civili e amministrativi, pur stimolando gli Stati contraenti ad adottare le misure necessarie a consentire la revisione del giudizio, ha confermato l’orientamento generale, precisando che la Convenzione non obbliga gli Stati ad adottare la misura ripristinatoria della riapertura del processo, la quale si rivela, però, opportuna (se non necessaria) in quei casi in cui l’equa soddisfazione, non ponendo la parte in una situazione equivalente a quella in cui si troverebbe se non vi fosse stata la violazione accertata, non è idonea a rimuovere in modo perfetto gli effetti della violazione.

Sebbene per l’efficacia del sistema della Convenzione sia da auspicare l’esistenza di procedure nazionali che permettano il riesame del caso, spetta, tuttavia, agli Stati contraenti individuare il modo più efficace per dare attuazione alle sentenze della Corte europea; la scelta circa i rimedi da adottare è nella discrezionalità degli Stati, i quali sono chiamati a compiere il bilanciamento tra la necessità di garantire alla parte lesa tutela piena ed effettiva, ammettendo una nuova decisione che le riconosca il bene della vita ingiustamente negato dal giudicato anticonvenzionale, e l’esigenza di non stravolgere i principi della res iudicata e della certezza del diritto e di salvaguardare gli interessi dei soggetti in buona fede, che, pur avendo ricevuto protezione dalla sentenza interna, non hanno preso parte al processo dinanzi alla Corte Edu.

Peraltro, secondo la Corte europea, nel caso di violazione delle norme sul giusto processo (art. 6 Cedu), la riapertura del procedimento rappresenta, in linea di principio, il mezzo più appropriato per ripristinare la situazione soggettiva lesa; è stato sottolineata “l’importanza, per l’efficacia del sistema della Convenzione, dell’esistenza di procedure nazionali che permettano la revisione di una causa alla luce della constatazione che vi è stata violazione delle garanzie di un equo processo offerte dall’articolo 6” (in ultimo, Corte Edu, 20 agosto 2021, caso Beg s.p.a. c. Italia).

2. L’equa soddisfazione è disposta, su istanza di parte, dalla Corte europea, se il diritto dello Stato contraente “non permette, se non in modo imperfetto, di rimuovere le conseguenze della violazione”; il rimedio è applicato in quei casi in cui l’ordinamento dello Stato non prevede la misura ripristinatoria della riapertura del processo oppure tale misura, sebbene in astratto ammessa, non può essere adottata nel caso concreto per impedimenti di carattere giuridico o materiale (nel sistema convenzionale, la regola è la revisione del giudizio e l’eccezione è l’equa soddisfazione).

L’equa soddisfazione ha per contenuto il riconoscimento di un indennizzo, liquidato in via equitativa, che è ordinato a favore della parte lesa; l’obbligato è lo Stato, convenuto nel processo convenzionale, ed il titolo è l’illecito compiuto dalla Stato, per il tramite di un suo apparato, il quale, con un atto legislativo, amministrativo o giurisdizionale, ha violato la convenzione.

Questa tutela, essendo di tipo indennitario, risponde alla logica dell’equa riparazione e, quindi, non coincide con la tutela per equivalente, che ha carattere risarcitorio e funzione ripristinatoria.

La riapertura del processo comporta il travolgimento del giudicato e il riesame del caso; essa è attuata mediante l’impugnazione del provvedimento interno anticonvenzionale, che, di solito, assume le forme della revocazione.

Le parti del procedimento di revocazione sono le parti del processo interno dal quale è scaturita la sentenza che, in quanto dichiarata contraria alla convenzione, è oggetto dell’impugnazione; gli effetti della sentenza resa in questo giudizio (vuoi circa la parte rescindente, vuoi circa la parte rescissoria) colpiscono in modo diretto tali soggetti, e, in caso di esito positivo del giudizio per la parte ricorrente, l’altra parte perde il bene della vita che il giudicato interno le aveva attribuito.

Nel processo convenzionale, le parti necessarie sono il ricorrente e lo Stato, mentre i soggetti che sono stati parte del giudizio interno non solo non sono parti necessarie, ma non hanno neppure il diritto di intervenire (art. 36, paragrafo 2, della Convenzione).

Pertanto, vi è un disallineamento, sotto l’aspetto soggettivo, tra il processo interno e quello convenzionale, con la conseguenza che colui che non è stato parte di quest’ultimo procedimento si vede opposta, nel giudizio di revocazione, l’efficacia di una decisione (quella della corte europea), che è il frutto di una vicenda giurisdizionale alla quale non ha preso parte e alla quale non è stato posto in condizione di partecipare.

La restitutio in integrum ha il suo campo di elezione nelle controversie relative a diritti a contenuto non patrimoniale, rispetto ai quali la tutela per equivalente può essere non satisfattiva o non pienamente satisfattiva.

Sino ad oggi, l’ordinamento italiano, con riferimento al processo civile, non ha previsto la tutela in forma specifica per mezzo dell’impugnazione della sentenza civile, il cui contenuto è stato dichiarato dalla Corte europea contrario ad una disposizione della Cedu..

La Corte costituzionale, richiamando anche la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, dapprima con la sentenza n. 123/2017, con riguardo alla giurisdizione amministrativa, e poi con la sentenza n. 93/2018, con riferimento alla giurisdizione civile, ha concluso che “nelle materie diverse da quella penale, non emerge la necessità per gli Stati membri di adottare la misura della riapertura del processo; la decisione di prevederla è rimessa agli Stati contraenti, i quali, peraltro, sono incoraggiati a provvedere in tal senso, pur con la dovuta attenzione ai confliggenti interessi in gioco” (punto 15 della sentenza n. 123/2017) (invece, la Corte, con la sentenza 7 aprile 2011, n. 113, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 c.p.p., nella parte in cui “non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, par. 1, della convenzione europea dei diritti dell’uomo, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo”)..

Pertanto, è stata dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 395 e 396 del codice di procedura civile sollevata dal giudice remittente (la Corte di appello di Venezia), in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione al parametro interposto dell’articolo 46, paragrafo 1, della Cedu (sentenza n. 93 del 2018).

La Corte, però, ha dato alcune importanti indicazioni.

In primo luogo, ha affermato che deve essere tenuta distinta la posizione di coloro che hanno adito vittoriosamente la Corte di Strasburgo rispetto a quella di coloro che non hanno fatto ricorso al rimedio convenzionale ma versano nella medesima situazione; per questi ultimi soggetti si è formato il giudicato, la loro vicenda è ormai definita, per cui non sussiste alcun spazio per il riesame del loro caso (sentenza n. 123/2017, punto 8).

In secondo luogo, ha osservato come, nell’individuare le misure da adottare, occorra avere cura di non stravolgere i principi della res iudicata e della certezza del diritto.

In terzo luogo, ha evidenziato che la riapertura del processo civile (e amministrativo) esige il bilanciamento fra l’interesse del ricorrente e l’interesse dei terzi; l’ammissione della revocazione della sentenza, della quale è stata accertata una violazione convenzionale, non può prescindere dal coinvolgimento dei terzi nel processo davanti alla Corte Edu, dovendo in qualche modo essere rivisitata la regola che vede come parti necessarie di questo giudizio il ricorrente e lo Stato, mentre l’intervento degli altri soggetti che hanno preso parte al processo interno, ai quali peraltro il ricorso non deve essere notificato, è rimesso alla valutazione discrezionale del Presidente della Corte, il quale può invitare ogni persona interessata diversa dal ricorrente a presentare osservazioni per iscritto o a partecipare alle udienze (art. 36, paragrafo 2, Cedu).

La Corte ha sottolineato la necessità del coordinamento, sotto l’aspetto soggettivo, tra il giudizio convenzionale e quello interno; infatti, la (eventuale) rimozione del giudicato può avere l’effetto di ledere diritti acquisiti da terzi in buona fede.

Per questi motivi, la Corte Costituzionale ha auspicato un intervento non soltanto del legislatore interno, teso ad assicurare la piena attuazione delle sentenze della Corte Edu, ma anche del legislatore convenzionale, al fine di modificare la disciplina dell’art. 36 Cedu circa il potere di intervento dei terzi nel processo di fronte alla Corte di Strasburgo; peraltro, la rivisitazione della disciplina della Convenzione può avvenire, ragionevolmente, soltanto in via interpretativa ad opera della Corte europea, attesa l’estrema difficoltà di modificare la Convenzione, essendo necessario il consenso unanime di tutti gli Stati firmatari.

3. Nell’ambito della riforma della giustizia civile, prevista dal PNRR, la legge delega 26 novembre 2021, n. 206, all’art. 10, comma 1, lettere a), b), c), d), e), f), ha autorizzato il Governo a prevedere un nuovo motivo di revocazione straordinaria a seguito di sentenze emesse dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

Il legislatore delegato ha dato attuazione alla delega con il d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, il quale ha introdotto le norme in precedenza richiamate.

Sulla base di quanto disposto dall’art. 35, comma 1, di tale decreto, come modificato dalla legge 29 dicembre 2022, n. 197, le nuove norme hanno effetto a decorrere dal 1° gennaio 2023 e si applicano ai giudizi introdotti con ricorsi notificati a decorrere da tale data.

Ciò significa che la revocazione è ammessa anche contro decisioni passate in giudicato anteriormente al 1 gennaio 2023, la cui violazione della disciplina convenzionale è successivamente accertata da una sentenza della Corte Edu; poiché il ricorso si propone nel termine di sessanta giorni dalla comunicazione o, in mancanza, dalla pubblicazione della sentenza della Corte europea (art. 391-quater, comma 2, c.p.c.), è preclusa, allo stato, l’impugnazione di provvedimenti emessi anteriormente al 1° gennaio 2023 e contrari a sentenze della Corte pubblicate prima di tale data, i quali sono impugnabili, però, ove sopravvenga una pronuncia che dichiari il loro contenuto in contrasto con la convenzione.

In disparte i criteri direttivi riguardanti le regole di procedura in senso stretto (art. 1, comma 10, lettere c), d),  e), f) della legge delega), i principi indicati dal delegante riguardano (art. 1, comma 10, lettere a), b) della legge delega): i) il tipo di rimedio: la revocazione; ii) il vizio: “una volta formatosi il giudicato, il contenuto della sentenza sia successivamente dichiarato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo contrario, in tutto o in parte, alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali ovvero a uno dei suoi Protocolli”; iii) le condizioni: “non sia possibile rimuovere la violazione tramite tutela per equivalente”; iv) i limiti: “ferma restando l’esigenza di evitare duplicità di ristori”; v) gli effetti: debbono essere “fatti salvi i diritti acquisiti dai terzi in buona fede che non hanno partecipato al processo svoltosi innanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo”.

Nel sistema della legge delega, con un capovolgimento di prospettiva rispetto a quello della Convenzione, la riapertura del processo ha carattere, oltre che alternativo, sussidiario rispetto all’equa soddisfazione, posto che l’impugnazione per revocazione è permessa solo se “non sia possibile rimuovere la violazione tramite tutela per equivalente” e ferma restando “la salvezza dei diritti acquistati dai terzi in buona fede che non hanno partecipato al processo” davanti alla Corte europea.

La regola è la tutela per equivalente; l’eccezione è la tutela in forma specifica mediante il travolgimento del giudicato e un nuovo giudizio.

Come subito dirò, questa impostazione è stata conservarta dal legislatore delegato.

Passando all’esame delle nuove norme e cominciando dall’ambito di applicazione, il motivo di revocazione opera esclusivamente nel campo della giurisdizione civile, mentre non vale per la giurisdizione amministrativa e per quella tributaria.

Infatti, per l’art. 362, ultimo comma, c.p.c., possono essere impugnate per revocazione, quando il loro contenuto è stato dichiarato dalla Corte europea contrario alla Convenzione ovvero ad uno dei suoi Preotocolli, le decisioni dei giudici ordinari passate in giudicato; chiaro ed esplicito è il riferimento alle sole decisioni dei giudici ordinari.

Oltre a ciò, non a caso si è preferito introdurre una disposizione autonoma, ossia l’art. 391-quater, c.p.c., anziché integrare l’art. 395 c.p.c., inserendo un nuovo numero per prevedere il nuovo motivo di revocazione; così facendo, nel rispetto della delega, oggettivamente circoscritta al processo civile, si è evitato di estendere alla giurisdizione amministrativa e al contenzioso tributario la figura di revocazione in esame, la quale, invece, sarebbe stata recuperata in forza del richiamo dell’art. 395 c.p.c., effettuato rispettivamente dall’art. 106, comma 1, del codice del processo amministrativo e dall’art. 64 del d.lgs. n. 546 del 1992, se fosse stata adottata la tecnica della novellazione dell’art. 395 c.p.c.

Sono impugnabili le decisioni passate in giudicato il cui contenuto è stato dichiarato dalla Corte europea contrario alla Convenzione (art. 391-quater, comma 1, c.p.c. e 362, ultimo comma, c.p.c.); ciò che assume rilievo è il provvedimento lesivo della situazione del ricorrente e non il provvedimento sul quale si è formato il giudicato sostanziale.

L’azione di fonte alla Corte europea presuppone l’esaurimento delle vie di ricorso interno (art. 35 Cedu), per cui la revocazione, di regola, colpisce i provvedimenti della Corte di cassazione, anche di rigetto, sebbene, in tale ultimo caso, il giudicato si vada a formare sulla sentenza (di appello) impugnata.

Conferma di ciò è data dalla collocazione dell’art. 391-quater c.p.c.; questa norma è inserita dopo gli articoli 391-bis e 391-ter c.p.c., i quali disciplinano la revocazione delle sentenze della Corte di cassazione.

Fanno eccezione i casi in cui il provvedimento che ha carattere definitivo è reso da un giudice di merito, in quanto contro di esso non è ammesso il ricorso per cassazione, neppure ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost. (ad esempio, taluni provvedimenti camerali di volontaria giurisdizione).

Il vizio è il seguente: il contenuto della decisione è stato dichiarato dalla Corte europea contrario alla Convenzione ovvero ad uno dei suoi Protocolli (art. 391-quater, comma 1, c.p.c.

Se ne ricava che: i) la violazione deve essere stata dichiarata dalla Corte europea; il vizio ha per oggetto non la semplice violazione, ma la dichiarazione della stessa da parte della Corte Edu; la Corte di Cassazione non ha alcun autonomo potere valutativo circa la sussistenza o meno della violazione, deve soltanto verificare se il contenuto della sentenza impugnata è stato dichiarato dalla Corte di Strasburgo contrario alla convenzione; ii) assume valore qualunque tipo di violazione, di carattere sia sostanziale sia processuale, a prescindere dalla sua gravità; iii) se la violazione dichiarata è di tipo processuale, riguardando in particolare i canoni del giusto processo (art. 6 Cedu), la restitutio in integrum implica la celebrazione di un nuovo processo, nel rispetto delle regole in precedenza violate.

Il primo comma dell’art. 391-quater c.p.c. ammette l’impugnazione per revocazione “se concorrono le seguenti condizioni: 1) la violazione accertata dalla Corte europea ha pregiudicato un diritto di stato della persona; 2) l’equa indennità eventualmente accordata dalla Corte europea ai sensi dell’art. 41 della Convenzione non è idonea a compensare le conseguenze della violazione”.

Il legislatore delegato ha compiuto una scelta chiara: il rimedio di portata generale continua ad essere l’equa soddisfazione; la riapertura del processo è tutela speciale, confinata in una materia sostanziale particolare (diritto di stato della persona) e subordinata alla circostanza che la parte lesa non abbia ricevuto pieno ristoro dalla Corte europea mediante il riconoscimento dell’equo indennizzo.

La restitutio in integrum è accordata in ragione dell’interesse leso, ossia la causa deve avere ad oggetto un diritto di stato della persona, rispetto al quale, di norma, la tutela per equivalente non è (pienamente) satisfattiva e si rende necessaria, piuttosto, la tutela in forma specifica; opportunamente, a mio parere, non è stata neppure accolta l’indicazione della Corte europea, per la quale, nel caso in cui la violazione accertata riguardi le regole del giusto processo (art. 6 Cedu), il rimedio più adeguato sarebbe la revisione del giudizio (non è stato dato rilievo, cioè, al tipo di violazione, ma solo al tipo di situazione sostanziale pregiudicata).

Ho detto “opportunamente”, in quanto, nelle fattispecie in cui la Corte abbia ravvisato un contrasto con l’art. 6 Cedu, da un lato, talvolta, il solo rimedio concebibile è l’equo indennizzo (così, ad esempio, se la violazione concerne il principio della ragionevole durata) e, dall’altro lato, se oggetto della sentenza anticonvenzionale è un diritto a contenuto patrimoniale, la tutela per equivalente, per lo più, è satisfattiva.

La Corte di cassazione, dovendo concorrere entrambe le condizioni indicate, nella fase resindente, deve compiere un duplice controllo, verificando se il diritto violato sia un diritto di stato della persona e se la Corte europea abbia attribuito al ricorrente un equo indennizzo e se questo, ove eventualmente disposto, sia idoneo a compensare le conseguenze della violazione.

Pertanto, da un lato, l’avvenuta attribuzione di un indennizzo da parte della Corte di Strasburgo non è di per sé sufficiente ad escludere la revocazione (è consentito, cioè, il cumulo dei rimedi, nella misura in cui l’equa soddsfazione non sia pienamente sattisfattiva, sul presupposto che la parte lesa ha diritto alla rimozione di tutti gli effetti pregiudizievoli; peraltro è evitatata anche la duplicazione dei ristori, come richiesto dalla legge delega, posto che la revocazione è sì compatibile con l’equo indennizzo, ma solo se questo non è idoneo ristorare del tutto le conseguenze dannose della vilolazione); dall’altro lato, il legislatore, consapevole della funzione meramente indennitaria dell’equa soddisfazione, attribuisce alla Corte di cassazione il delicato compito di valutare se le conseguenze della violazione possono considerarsi oppure no integralmente rimosse e  riparate in forza di quanto disposto dalla Corte europea (tale giudizio, spesso, è già compiuto da quest’ultima Corte, la quale indica alla Stato le iniziative che debbono essere assunte per eliminare totalmente le conseguenze della violazione).

Il numero 1 del primo comma dell’art. 391-quater c.p.c. richiede il pregiudizio di “un diritto di stato della persona”; la formula è non tecnicamente perfetta (invero, è più appropriato parlare di “stato della persona”), ma la volontà della legge è inequivoca: oggetto del giudicato (interno) anticonvenzionale deve essere uno stato della persona (di famiglia, quale il matrimonio, la filiazione, l’unione civile, ovvero di cittadinanza); il riferimento normativo più immediato è l’art. 70, comma 1, n. 3, c.p.c., laddove è previsto l’intervento obbligatorio del pubblico ministero nelle “cause riguardanto lo stato della persona”.

Pertanto, il rimedio è ammesso in presenza non di ogni diritto a contenuto non patrimoniale pur protetto dalla convenzione, ma soltanto per una specifica categoria di diritti di questo tipo, ossia deve trattarsi di “uno stato personale”.

Il legislatore ha identificato negli stati della persona il nucleo dei diritti fondamentali dell’uomo, meritevoli della tutela in forma specifica; l’interpretazione di questo concetto deve essere rigorosa, considerato che il rimedio revocatorio, per la legge, ha carattere di eccezione rispetto alla tutela per equivalente.

Per questo motivo, deve escludersi che la restitutio in integrum possa essere ammessa con riferimento a diritti della persona, che non abbiano consistenza di stati della persona in senso proprio; si pensi, ad esempio, alla responsabilità genitoriale o agli obblighi alimentari.

Anche nell’ambito della categoria degli stati personali, la riapertura del processo non sempre è consentita.

Innanzitutto, può accadere che, in ragione del tipo di violazione, il solo ristoro concepibile sia l’equa soddisfazione; se, ad esempio, la violazione accertata riguarda la ragionevole durata del processo (art. 6 Cedu), da un lato, non si ha alcuna lesione diretta di un bene della vita sostanziale, suscettibile di essere oggetto di reintegrazione in forma specifica, e, dall’altro lato, il pregiudizio derivante dal tempo perduto può soltanto essere ristorato mediante il riconoscimento di un equo indennizzo (non è possibile, infatti, restituire alla parte vittoriosa il tempo passato in attesa della sentenza).

Poi, la restitutio in integrum può essere materialmente o giuridicamente impossibile.

Quanto al primo aspetto (impossibilità materiale), si consideri il caso che il soggetto che ha subito la lesione di uno stato personale sia successivamente deceduto: la tutela sarà esclusivamente quella per equivalente a favore degli eredi.

Quanto al secondo profilo (impossibilità giuridica), la violazione di un diritto sostanziale protetto dalle norme della Cedu può derivare da una lacuna normativa di diritto sostanziale; in tale ipotesi: i) la rinnovazione del giudizio non ha alcun senso, poiché il giudice interno, nella fase rescissoria, dovrebbe applicare le medesime norme già poste a base del giudicato interno anticonvenzionale; ii) per il riconoscimento del diritto soggettivo violato, è necessario un rimedio non semplicemente individuale ma generale, vale a dire lo Stato deve introdurre norme sostanziali che, conformandosi alla convenzione, riconoscano ai cittadini quei diritti e quelle tutele sostanziai che la Corte europea ha indicato essere necessarie in forza delle disposizioni (violate) della convenzione; iii) sulla base del (carente e illegittimo) sistema sostanziale interno, la sola forma di ristoro possibile, in assenza di un adeguato apparato di norme sostanziali, è la tutela per equivalente.

4. Debbo occuparmi ora degli effetti della sentenza che, accogliendo la revocazione, ha un contenuto opposto a quello del provvedimento revocato e della disciplina del procedimento.

Quanto al primo profilo, il problema che si è posto al legislatore è di stabilire l’efficacia della sentenza di merito nei confronti delle parti del processo interno che non hanno partecipato al giudizio europeo, nonché rispetto ai terzi aventi causa.

Alla prima categoria di soggetti sembra fare riferimento, in modo precipuo, l’art. 391-quater, ultimo comma, c.p.c.: “l’accoglimento della revocazione non pregiudica i diritti acquisiti dai terzi in buona fede che non hanno partecipato al giudizio svoltosi innanzi alla Corte europea”.

Con questa disposizione, sono state recepite le raccomandazioni al legislatore interno della Corte europea e della Corte costituzionale circa la necessità di salvaguardare i diritti dei terzi in buona fede, che non debbono essere pregiudicati dalla sentenza che travolge il giudicato; come già ho detto, le Corti ricomprendono nella categoria dei terzi che debbono essere protetti, in quanto il loro diritto di difesa, garantito dalla Costituzione e dalla Convenzione, non può essere violato, tutti coloro che, pur avendo partecipato al giudizio nazionale, non hanno assunto il ruolo di parte in quello europeo.

Invero, tali soggetti non sono parti necessarie del procedimento davanti alla Corte di Strasburgo; la loro presenza in tale procedimento è meramente eventuale, anzi per prassi è esclusa, posto che, secondo l’art. 36, paragrafo 2, della Convenzione, il presidente della Corte può sì invitare “ogni persona interessata diversa dal ricorrente a presentare osservazioni per iscritto o a partecipare alle udienze”, ma solo “nell’interesse di una corretta amministrazione della giustizia”.

Proprio allo scopo di favorire l’esercizio del diritto di difesa, nel giudizio di fronte alla Corte europea, delle parti del processo interno diverse da colui che ha proposto ricorso alla Corte, per il nuovo art. 15, comma 01-bis, d.l. n. 113 del 2018, “l’agente del Governo comunica a tutte le parti del processo che ha dato luogo alla sentenza del giudice italiano sottoposta all’esame della Corte europea, nonché al Procuratore generale presso la Corte di cassazione, la pendenza del procedimento promosso innanzi alla Corte europea stessa”.

La parte che, nonostante sia risultata destinataria di questa comunicazione, sia rimasta inerte e non abbia assunto alcuna iniziativa nel procedimento di fronte alla Corte Edu, non può essere considerata in buona fede; pertanto, questo soggetto, ove sia accolta l’impugnazione per revocazione e sia resa una nuova decisione di merito dal contenuto per lui sfavorevole, non può essere considerato in buona fede e subisce gli effetti della sentenza che lo pregiudica.

Parimenti, non pone problema alcuno il caso che la parte vittoriosa di fronte al giudice italiano abbia chiesto al presidente della Corte di essere autorizzata a intervenire in giudizio e a presentare osservazioni e che tale autorizzazione sia stata concessa; il suo diritto di difesa nel processo convenzionale è rispettato, nessuna contestazione essa può muovere, nel procedimento di revocazione, circa la opponibilità della pronuncia che ha accertato la violazione.

Più delicata è l’ipotesi opposta: il presidente della Corte europea ha rigettato l’istanza, non autorizzando la parte diversa dal ricorrente a partecipare all’udienza e a presentare osservazioni per iscritto.

Questo soggetto, di certo, è in buona fede, in quanto ha fatto tutto ciò che era possibile per difendersi nel giudizio europeo; poiché gli è stato impedito di difendersi ed è stato violato il contraddittorio, non può essere pregiudicato dalla sentenza interna, che, accogliendo la revocazione, abbia accolto le richieste dell’altra parte.

Però, la nuova decisione, per fornire tutela in forma specifica alla parte lesa dal giudicato (interno) rimosso, deve provvedere nuovamente sul diritto di stato pregiudicato e, se la domanda è accolta, contiene un accertamento che si sostituisce, travolgendolo, all’accertamento anteriore, dichiarato contrario alla convenzione, ma favorevole all’altro soggetto.

Mi domando, allora: è possibile che il soggetto pregiudicato dal primo giudicato ottenga, nel successivo processo interno, il bene della vita, al quale secondo la Corte europea, sulla base della convenzione, ha diritto, senza che la sentenza produca effetti nei confronti della parte (in buona fede) che non è stata posta in condizione di difendersi nel processo davanti alla Corte Edu.

La risposta a questo dubbio, non può che essere questa: l’attore in revocazione riceve dalla sentenza ciò a cui aspira solo se il provvedimento di merito vincola tutte le parti del precedente giudizio (interno), riconoscendo, con effetto per tutte, il diritto di stato in precedenza negato ovvero negando il diritto di stato anteriormente affermato esistente.

Delle due, l’una: o il terzo, pur in buona fede, è pregiudicato, oppure la sentenza che accoglie nel merito l’impugnazione per revocazione è inutiliter data, con la conseguenza che la parte lesa, risultata vincitrice nel giudizio europeo, può ricevere soltanto tutela per equivalente verso lo Stato.

Vi sono, poi, i terzi aventi causa della parte che è risultata vincitrice nel processo interno, dal quale è originata la sentenza impugnata per revocazione, dichiarata dalla Corte europea in contrasto con la convenzione; se il giudizio di revocazione ha un esito opposto a quello anteriore e produce una pronuncia dal contenuto differente rispetto a quella revocata, qual’è la sorte del diritto del terzo avente causa della parte soccombente nel secondo processo?

Della posizione di questi soggetti si occupano, oltre all’art. 391-quater, ultimo comma, c.p.c., gli articoli 2652, comma primo, numero 9-bis, c.c. e 2690, comma primo, numero 6-bis, c.c., i quali attribuiscono effetti prenotativi alla trascrizione della domanda di revocazione e determinano l’efficacia della sentenza verso i terzi aventi causa del convenuto.

L’at. 391-quater, ultimo comma, c.p.c. esprime la regola generale: l’avente causa, il cui titolo è anteriore alla domanda di revocazione, se in buona fede, non è pregiudicato dalla sentenza il cui contenuto è sfavorevole al suo dante causa.

Invece, se il titolo di acquisto è posteriore alla domanda di revocazione, l’avente causa è a tutti gli effetti un successore nel diritto controverso, per cui, ai sensi dell’art. 111, ultimo comma, c.p.c., la sentenza resa in esito al giudizio di revocazione spiega i suoi effetti contro di lui, salve le norme sull’acquisto in buona fede dei mobili e sulla trascrizione.

Gli articoli 2652, comma primo, numero 9-bis, c.c. e 2690, comma primo, numero 6-bis, c.c., integrano queste disposizioni con riguardo alle domande di revocazione di sentenze riguardanti, rispettivamente, beni immobili e beni mobili registrati.

Le due norme debbono essere coordinate e, in disparte il refuso che vi è nella seconda parte dell’art. 2690, comma primo, 6-bis, c.c., la disciplina è la medesima per entrambe le fattispecie: a) le domande di revocazione contro le sentenze soggette a trascrizione per le cause previste dall’articolo 391-quater c.p.c. debbono essere trascritte al fine della realizzazione degli effetti prenotativi; b) la sentenza che accoglie la domanda non pregiudica i diritti acquistati dai terzi in buona fede in base ad un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione della domanda; c) la trascrizione della sentenza che accoglie la domanda prevale sulle trascrizioni e iscrizioni eseguite contro il convenuto dopo la trascrizione della domanda.

Pertanto, considerato che la revocazione è ammessa solo per la lesione di un diritto di stato della persona, non è facile immaginare ipotesi in cui questa disciplina possa essere applicata, riguardando la circolazione dei diritti a seguito di acquisti a titolo derivativo.

5. Rimane da esaminare il procedimento.

Quanto al giudice, conformemente a quanto previsto dagli altri ordinamenti europei, la scelta è caduta sulla  Corte di cassazione (art. 362, ultimo comma, c.p.c.); si tratta di una competenza funzionale, poiché la revocazione deve essere proposta alla Cassazione, a prescindere dal fatto che il provvedimento impugnato provenga da questo (come avviene di regola) oppure da un altro giudice (eventualità questa circoscritta a pochi casi).

L’attribuzione alla Suprema Corte di una potestà esclusiva e generalizzata trova giustificazione non soltanto in ciò che, di solito, il provvedimento da impugnare è reso dalla Cassazione, ma anche in ragioni nomofilattiche, per assicurare l’uniforme interpretazione ed applicazione delle norme che regolano questo (delicato) istituto.

Il ricorso si propone nel termine di sessanta giorni dalla comunicazione o, in mancanza, dalla pubblicazione della sentenza della corte europea che ha accertato la violazione; se la comunicazione della sentenza non è effettuata, il dies a quo è dato dalla pubblicazione della sentenza, la qual cosa impone alla parte di controllare con diligenza la (eventuale) pubblicazione, per non incorrere in decadenze.

La trattazione del ricorso avviene sempre con decisione in pubblica udienza, in ragione della rilevanza generale del rimedio, posto a presidio dei diritti fondamentali della persina (art. 375, comma 1, c.p.c.).

La fase rescindente si svolge sempre di fronte alla Corte di cassazione, la quale deve compiere le verifiche già indicate: esistenza di una sentenza della corte di Strasburgo che ha dichiarato la violazione della convenzione da parte del provvedimento impugnato; lesione di un diritto di stato della persona; eventuale riconoscimento, ad opera della Corte Edu, alla parte ricorrente di una equa indennità e attitudine dell’indennità accordata a compensare le conseguenze della violazione.

La fase rescissoria e la decisione di merito sono effettuate direttamente dalla Suprema Corte “qualora non siano necessari ulteriori accertamenti di merito”(così l’art. 391-ter, comma 2, c.p.c., richiamato dall’art. 391-quater, comma 2, c.p.c.).

A questo riguardo, si deve considerare che, in presenza di un vizio sostanziale, il giudice non deve fare altro che prenderne atto e rendere la nuova decisione, il cui esito è scontato; al contrario, se il vizio è processuale (ad esempio, la violazione accertata è il mancato rispetto del contraddittorio), il processo deve essere nuovamente svolto e potrà originare anche una pronuncia del medesimo contenuto di quella anteriore.

La legittimazione attiva a promuovere l’impugnazione spetta alle parti del processo svoltosi davanti alla Corte Edu, ai loro eredi ed aventi causa; legittimati passivi sono i soggetti che hanno assunto il ruolo di parte nel processo interno che ha originato la decisione impugnata per revocazione, i loro eredi e aventi causa, i quali, per non essere pregiudicati dagli effetti della sentenza, devono dimostrare la loro buona fede, vale a dire, la non conoscenza del processo europeo e della violazione.

Deve essere escluso che possano usufruire del rimedio i soggetti che non si sono avvalsi dello strumento processuale convenzionale, quantunque versino nella medesima situazione sostanziale di coloro che hanno proposto ricorso a Strasburgo ed hanno ottenuto l’accertamento nei confronti dello Stato della violazione di una norma convenzionale.

Il pubblico ministero, che abbia preso parte al processo interno dal quale è scaturita la sentenza impugnata, è parte necessaria del giudizio di revocazione; considerato che il diritto pregiudicato è uno stato personale, la partecipazione del pubblico ministero al procedimento anteriore (interno) è tutt’altro che remota.

Per l’art. 397, ultimo comma, c.p.c., “la revocazione può essere proposta anche dal procuratore generale presso la Corte di cassazione”, il quale è destinatario anche delle comunicazioni dell’Agente del Governo prescritte dal novellato art. 15 del d.l. n. 113 del 2018.

Queste ultime previsioni hanno il loro fondamento nel (riconosciuto) interesse pubblico alla rimozione dei provvedimenti dell’autorità giudiziaria, non diversamente da quelli degli altri apparati dello stato, che la Corte europea abbia dichiarato essere contrari alla disciplina convenzionale.

 

[1] Coerentemente allo scopo di questo scritto, che vuole essere una riflessione sulla base “di una prima lettura” delle nuove norme, eviterò di fare ricorso a note e citazioni di dottrina e di giurisprudenza, Per riferimenti e indicazioni, segnalo per tutti: 1) sullo stato dell’arte prima della riforma e sulle pronunce della Corte europea e della Corte costituzionale, D’Alessandro, L’attuazione delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo accertanti violazioni convenzionali perpetrate da un giudicato civile, in Riv.trim.dir.proc.civ., 2018, 711 ss.; Eadem, Il giudicato  amministrativo (e quello civile) per ora non cedono all’impatto con la Corte europea dei diritti dell’uomo,, in Foro It., 2017, I, 2180 ss.; Eadem, Violazione della Cedu e revocazione del giudicato civile: <<nihil novi sub sole>>, ivi, 2018, I, 2289 ss.; Auletta, Uno stress test per la revocazione, in Giusto proc.civ., 2020, 83 ss.; 2) sulla legge delega e sulle norme oggi in vigore, D’Alessandro, Revocazione della sentenza civile e Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Riv.dir.proc., 2022, 217 ss.; Luiso, Il nuovo processo civile, Milano 2023, 229 ss.; Merone, Revocazione a seguito di sentenze emesse dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, in La Riforma Cartabia, a cura di R. Tiscini, Pisa 2023, 609 ss.; Mengali, La Revocazione per contrarietà alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Il processo civile dopo la riforma, a cura di C. Cecchella, Bologna 2023, 403 ss.