Note sull’art. 380 bis c.p.c.

Di Romano Vaccarella -

L’attuale testo dell’art. 380 bis è – come tutte le numerose versioni che di esso si sono susseguite dal 2006 in poi – figlio dell’idea che l’alto numero dei ricorsi che continua  – nonostante gli sforzi del legislatore – a pervenire alla Suprema Corte è indice di ottusa litigiosità dei cittadini e come tale va affrontato: l’idea che sia, viceversa, indice di scarsa qualità delle sentenze rese dai giudici di merito (incentivata dalla insindacabilità della motivazione), e in particolare dalle Corti d’Appello (anello ormai fradicio, e tuttavia obbligatorio, del meccanismo della giustizia civile) non sfiora la mente dei Ministri che si sono susseguiti dopo le riforme del 2006.

Così all’«opinamento» previsto dal D. Lgs. n. 40/2006 – e cioè il progetto di sentenza che, sottoposto alle parti, consentiva loro di esprimersi sia con memoria, sia partecipando alla camera di consiglio, e consentiva alla Corte o di far proprio il progetto (evidentemente assai meditato dal relatore per il confronto che su di esso si svolgeva) o di rinviare alla pubblica udienza la decisione – la riforma del 2009 ha aggiunto la creazione di una sottosezione (la cui “produttività” era valutata in termini di percentuali di inammissibilità dichiarate!), ma lasciando alle parti (e al P.M.) la facoltà di depositare memorie a commento della “concisa relazione” e di essere sentite in camera di consiglio, sperando in un rinvio alla pubblica udienza. La scomparsa del P.M. dalla scena di questo procedimento (D.L. 21/6/2013, n. 89) si coniugava perfettamente con l’ambiente – la sottosezione – in cui si svolgeva la vicenda.

È sempre la sottosezione a costituire lo sfondo della riforma della legge n. 197/2016, di conversione del D.L. n. 168/2016: il relatore si limita a indicare se «è stata ravvisata un’ipotesi di inammissibilità, di manifesta infondatezza o di manifesta fondatezza del ricorso» (grazie al Protocollo il relatore butta là “i numeri” di qualche sentenza più o meno pertinente) e le parti – “orientate” dai “numeri” dati dal relatore – «hanno facoltà di presentare memoria non oltre cinque giorni prima»: la Corte in camera di consiglio può rinviare alla pubblica udienza.

Fermo che l’evoluzione normativa appena descritta è stata fortemente voluta dalla Corte di Cassazione (che, ormai, come ha fatto il Consiglio di Stato con il D. Lgs. n. 104/2010, detta direttamente al legislatore le leggi processuali che la riguardano: a quelle citate merita di esser aggiunta la legge n. 134/2012 che ha soppresso il fastidioso sindacato sulla motivazione) – è evidente l’insofferenza verso soluzioni troppo rispettose del ruolo (e, direi, della dignità) degli altri protagonisti del processo civile: del che offre evidente conferma il confronto tra il procedimento che si svolgeva davanti alla sesta sezione, come da ultimo in vigore, e il procedimento varato dalla Ministra Cartabia (la quale, pur se inconsapevole di questioni processuali, è peraltro, o dovrebbe essere, gelosa custode della Costituzione repubblicana).

Vediamo come operava il relatore 6° e come opererà il relatore C(artabia).

Sia il relatore 6ª, che il relatore C avanzano una proposta di soluzione della controversia, ma quella del relatore C può non arrivare mai al Collegio, a differenza di quella del relatore 6ª che – anche nel silenzio totale delle parti – doveva sempre e necessariamente essere condivisa (o rifiutata) dal Collegio.

Davanti al silenzio del ricorrente la proposta del relatore C acquista valore decisorio, quale rinuncia ipso jure al ricorso: il Collegio non può far altro che dichiarare l’estinzione. Sia formalmente, sia sostanzialmente la Corte non  può (= non ha il potere di) pronunciarsi sul ricorso, ma deve prendere atto della “rinuncia”.

Il ricorrente che non voglia rinunciare al ricorso non può limitarsi a chiedere che la Corte si pronunci, ma deve farsi rilasciare una nuova procura speciale dalla parte; fingiamo per un momento di non capirne l’intento – di mortificazione del difensore, implicito nell’evaporazione della prima procura – ma in termini strettamente giuridici cosa significa la sopravvenuta, totale inefficacia della prima procura?

La proposta del relatore determina, ipso jure, l’estinzione del mandato conferito dalla parte al difensore, aggiungendo alle ipotesi elencate nell’art. 1722 c.c. quella della incapacità del mandatario di «eseguire il mandato con la diligenza» da esso richiesta: la richiesta al mandante di una nuova procura implica il riconoscimento della causa dall’estinzione della prima procura e la richiesta di una nuova manifestazione, da parte del cliente, di fiducia nel proprio avvocato. Si tratta di una ingerenza nei rapporti tra avvocato e cliente intollerabile: e certamente l’annunciato inserimento in Costituzione della funzione difensiva svolta dagli avvocati nulla toglie alla squallida immagine che del difensore in Cassazione fornisce l’incivile norma appena descritta.

Mentre il relatore 6ª formula una proposta sulla quale, sempre (salva l’ipotesi di rinuncia espressa ex art. 390 c.p.c.), dovrà pronunciarsi il Collegio, la proposta del relatore C  è accompagnata dall’avvertenza che, in caso di conferma della proposta da parte del Collegio, si applicherà la responsabilità aggravata di cui al terzo e al quarto comma dell’art. 96 c.p.c.: nel rilascio della nuova procura, soppesi la parte questa circostanza quale potenziale, ulteriore costo implicato dal rinnovo della fiducia al difensore (sia quello cessato ex lege dall’incarico per incapacità, sia un eventuale nuovo difensore).

Astenendoci dal qualificare in termini penalistici la norma varata dalla ex Presidente della Corte Costituzionale (!!!), crediamo sia veramente arduo non percepire che il relatore C, quando formula la sua proposta, mette in gioco la sua immagine assai più del relatore 6ª: se, sia pure ex ore dell’ultimo comma dell’art. 380 bis, la sua proposta di definizione della causa è accompagnata anche dalla (oggettiva) minaccia di sanzioni pecuniarie assai pesanti, è evidente che la sconfessione della sua proposta è evenienza per lui, per la sua immagine professionale, decisamente sgradevole; è evidente che per difendere la sua proposta in Camera di Consiglio il relatore C si batterà con particolare vigore – anche se fosse non già relatore, ma solo membro del collegio – perché in quella causa è in gioco la sua immagine professionale.

Il relatore C ha “interesse nella causa” ex art. 51, n. 1, c.p.c., perché l’interesse sussiste ogni volta che il giudice propugni una soluzione per ragioni ulteriori e diverse da quella consistente nell’imparziale applicazione della legge: l’apparato di effetti che automaticamente conseguono alla proposta, e che hanno nella proposta la loro causa efficiente, fanno sì che chi ha formulato la proposta non possa non averla attentamente meditata e che, pertanto, difenda – prima e più che una proposta di soluzione della causa – il proprio operato, perché la difesa della proposta si identifica con quella della propria immagine professionale.

Si aggiunga che, essendo la proposta provvedimento potenzialmente idoneo a definire il giudizio, la richiesta di decisione avanzata dal ricorrente è, funzionalmente, un’impugnazione alla quale si applica l’art. 51 n. 4 c.p.c.