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Note sulla nuova revocazione di cui all’art. 391 quater c.p.c. per contrarietà del giudicato alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo
Di Giuliano Scarselli -
Sommario: 1. Premessa. 2. L’art. 391 quater c.p.c. costituisce un corpo estraneo alla nostra tradizione giuridica. 3. La Corte costituzionale, con la sentenza 26 maggio 2017 n. 123, e poi con le sentenze 2 febbraio 2018 n. 19 e 27 aprile 2018 n. 93, aveva infatti già dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 395 e 396 c.p.c. nella parte in cui non prevedevano una revocazione per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte EDU. 4. Gli obblighi europei e il nuovo art. 391 quater c.p.c. 5. Gli aspetti processuali della nuova revocazione: la legittimazione ad agire. 6. Segue: il procedimento e l’oggetto del giudizio. 7. Segue: la scelta del necessario intervento della Corte di Cassazione per far venire meno una decisione già ritenuta dalla Corte EDU in contrasto con la Convenzione dei diritti dell’uomo.
1.Nel commentare la nuova disposizione di cui all’art. 391 quater c.p.c., che prevede l’impugnazione straordinaria per revocazione dinanzi alla Suprema Corte di Cassazione contro decisioni passate in giudicato che abbiano violato la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, desidero partire da un dato: all’aprile del 2024, ovvero ad un anno circa dall’entrata un vigore dell’ultima riforma del processo civile, vi sono stati 39 casi di rinvio pregiudiziale ex art.. 363 bis c.p.c. e nessun caso di revocazione ex art. 391 quater c.p.c.
Si tratta di una constatazione di non secondaria importanza: evidentemente, mentre la novità del rinvio pregiudiziale ha trovato ampio consenso presso la magistratura, la nuova revocazione stenta a decollare, e appare, al momento, un istituto che potremmo definire fantasma.
Tuttavia non ritengo inutile studiare e commentare tale norma, poiché essa offre, a mio sommesso parere, molti spunti per riflettere sulla situazione attuale del nostro processo civile.
2.Da rilevare, immediatamente, che la norma si presenta come un corpo estraneo alla nostra tradizione giuridica, poiché si pone in contrasto con alcuni principi fondamentali del nostro sistema; principi che nessuno, fino ad ieri, pensava, in verità, di poter mettere in discussione.
Esattamente:
a) il primo concerne la cosa giudicata e la regola del ne bis in idem.
Sul presupposto che la violazione della convenzione europea dei diritti dell’uomo nient’altro è se non una violazione di legge (ovvero è la violazione di una norma sovranazionale), appare conseguentemente in contrasto con le nostre regole giuridiche immaginare che una violazione di legge possa far venir meno una decisione passata in giudicato.
Da un punto di vista giuridico il giudicato è (sarebbe, nel nostro sistema) decisione da ritenere sempre corretta, e non a caso le impugnazioni c.d. straordinarie non hanno mai avuto ad oggetto una denunciata violazione di legge, bensì circostanze di fatto eccezionali in forza delle quali consentire, in taluni rari casi, la riapertura del processo.
La prima forzatura è ammettere, quindi, che vi siano dei giudicati in contrasto con la legge.
b) La seconda forzatura è il dover prendere atto che non tutte le fonti di diritto sono eguali ai fini del decidere.
Ed infatti, se una decisione passata in giudicato è stata pronunciata (supponiamo) in violazione di una norma del codice civile, lì il giudicato prevale sulla (presunta) violazione di legge, e nessuno pretende che si riapra un processo perché è stato violato il codice civile; mentre, se il giudicato ha violato la convenzione europea dei diritti dell’uomo, lì al contrario il giudicato salta, e prevale la contrapposta idea che il giudicato deve cedere alla necessità di rivedere, ancora una volta, e contro il principio del ne bis in idem, se quella norma è stata rispettata o meno.
Abbiamo così due tipi di norme, quelle interne e quelle comunitarie: le prime non sono in grado di compromettere il giudicato; le seconde, evidentemente più importanti, sono invece in grado di farlo.
Fino ad oggi, perdere una causa per violazione di una norma di primo rango (ad esempio costituzionale) oppure per ultimo (un uso o una consuetudine) non comportava differenza, poiché tutte le fonti di diritto erano da considerare eguali ai fini di giustizia; oggi invece scopriamo che non tutte le fonti di diritto sono eguali, poiché alcune sono così forti da vincere sulla cosa giudicata, mentre altre no.
Ci sono infatti violazioni di norme di diritto che fanno venir meno il giudicato, e violazioni di norme di diritto che non fanno venir meno il giudicato.
c) Infine, fino a ieri, così come non v’era differenza tra norma e norma, non v’era nemmeno differenza tra giudice e giudice: se il giudicato era (come si diceva un tempo) del Pretore di Roccacannuccia oppure della Corte di Cassazione niente cambiava se la questione era stata discussa nel contraddittorio tra le parti ed era definitiva; oggi invece si prende atto che ci sono questioni di diritto che possono essere decise in modo vincolante solo da certi giudici, ovvero solo dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, quale unica Corte che può giudicare in modo valido e stabile sulla Convenzione relativa.
Ed infatti, a nulla servirebbe asserire che della Convenzione vi era già stata discussione tra le parti (per esempio) in Cassazione, e la Cassazione aveva già pronunciato su ciò; anche quel giudicato non avrebbe alcun valore, poiché solo la Corte europea dei diritti dell’uomo può dire come stanno le cose, cosicché la pronuncia della Corte di Cassazione salta anche nelle ipotesi nelle quali la questione era già stata oggetto di decisione da parte di quel giudice.
Dunque, non solo le norme non sono più tutte eguali, ma nemmeno i giudici lo sono più.
3.Ora, proprio per tutti i dubbi che può suscitare l’idea di rimuovere la cosa giudicata per un errore di diritto, la nostra stessa Corte costituzionale, con la sentenza del 26 maggio 2017 n. 123, aveva infatti dichiarata infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 395 e 396 c.p.c. nella parte in cui non prevedono un diverso caso di revocazione della sentenza quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, par. 1 della CEDU, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte EDU[3].
Esattamente, la Corte costituzionale, richiamata in via preliminare la sentenza della Grande Camera del 5 febbraio 2015, Bochan contro Ucraina, la quale affermava che “deve essere rimesso agli Stati medesimi la scelta di come meglio conformarsi alle pronunce della Corte, “senza indebitamente stravolgere i princìpi della res iudicata o la certezza del diritto nel contenzioso civile, in particolare quando tale contenzioso riguarda terzi con i propri legittimi interessi da tutelare” (paragrafo 57)”, concludeva che, nelle materie diverse da quella penale[4], “non emerge, allo stato, l’esistenza di un obbligo generale di adottare la misura ripristinatoria della riapertura del processo, e che la decisione di prevederla è rimessa agli Stati contraenti, i quali, peraltro, sono incoraggiati a provvedere in tal senso, pur con la dovuta attenzione per i vari e confliggenti interessi in gioco”.
Ed ancora: “Nel nostro ordinamento la riapertura del processo non penale, con il conseguente travolgimento del giudicato, esige una delicata ponderazione, alla luce dell’art. 24 Cost., fra il diritto di azione degli interessati e il diritto di difesa dei terzi, e tale ponderazione spetta in via prioritaria al legislatore”.
4.Poi cosa è successo?
E’ successo che l’Italia, come altri paesi europei, ha dovuto necessariamente adeguarsi sul punto, e riconoscere che la violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, accertata dalla Corte EDU, deve consentire la riapertura del processo e far venir meno il giudicato difforme.
Tuttavia, visto che l’introduzione di una simile regola aveva difficoltà ad inserirsi armoniosamente nel sistema, il nostro legislatore ha provveduto a ciò, a mio sommesso parere, in modo non del tutto convinto, e ha introdotto una norma che, infatti, rende assai difficile e rara la possibilità di attivare questa revocazione in concreto.
Due sono i punti da sottolineare al riguardo:
a) il primo concerne i tempi, poiché il secondo comma del nuovo art. 391 quaterp.c. prevede che: “Il ricorso si propone nel termine di sessanta giorni dalla comunicazione o, in mancanza, dalla pubblicazione della sentenza della Corte europea ai sensi del regolamento della Corte stessa“.
Non v’è bisogno di sottolineare che il termine breve per impugnare dei sessanta giorni dipende, di regola, dalla notificazione del provvedimento, e non certo dalla sua comunicazione di cancelleria, ne’ tanto meno dalla sua pubblicazione, della quale la parte potrebbe non essere a conoscenza.
Va da sé che porre un termine così breve, e financo aleatorio, rende assai difficile l’esercizio di questo tipo di impugnazione, e va parimenti da sé che la scelta dei termini ex art. 391 quater c.p.c. non è stata conforme a quella usata dal legislatore negli altri casi di impugnazione per revocazione dinanzi alla Corte di Cassazione, poiché infatti l’art. 391 bis c.p.c. statuisce diversamente che: “La revocazione può essere chiesta entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla notificazione ovvero di sei mesi dalla pubblicazione del provvedimento”.
b) La seconda limitazione riguarda lo stesso ambito di applicazione di questa nuova revocazione, poiché l’art. 391 quaterp.c. dispone (si ritiene prendendo spunto dalla Francia)[5], che, in tanto la revocazione sia esperibile, in quanto: “la violazione accertata dalla Corte europea abbia pregiudicato un diritto di stato della persona”.
E qui si crea, se si vuole, una nuova discriminazione, poiché non si comprendono le ragioni per le quali, se la violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo ha ad oggetto un diritto di stato della persona questa comporti la revocazione e la rimozione della cosa giudicata, mentre se la violazione della Convenzione abbia ad oggetto altra materia del contendere, allora lì la violazione non ha conseguenze sulla decisione presa dai giudici italiani.
Si è detto, nella relazione illustrativa della riforma, che ciò dipende dal fatto che per i diritti della persona il rimedio monetario spesso non è idoneo a soddisfare il diritto all’integrale risarcimento del danno.
Ma, a parte la circostanza che la violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo dovrebbe comportare in ogni caso, e per tutti i diritti, il risarcimento del danno, e non solo per quelli di carattere personale, ma, a parte ciò, la norma, in verità, non fa riferimento ai diritti della persona ma ai diritti di stato della persona; e non credo sia necessario illustrarne le differenze.
Cosicché, se la violazione della Convenzione dei diritti dell’uomo sia caduta, ad esempio, su controversie aventi ad oggetto la filiazione, oppure l’adozione, o ancora la cittadinanza, la rettificazione degli atti di stato civile, ecc….lì è possibile ricondurre il contenzioso al diritto di stato della persona, e quindi chiedere la revocazione della sentenza; ma se il diritto è semplicemente della persona, come, ad esempio, può avvenire nel mondo del lavoro, nel diritto di famiglia, oppure con riferimento al diritto al nome, all’immagine, ecc….., lì non siamo nel campo dei diritti di status, e quindi la violazione della Convenzione relativamente a quei diritti non ammette, e non rende esperibile, la nuova revocazione di cui all’art. 391 quater c.p.c.
Ne’ sembra possibile dare una lettura interpretativa del n. 1 dell’art. 391 quater c.p.c. nel senso di far ricomprendere nell’espressione diritto di stato della persona semplicemente ogni diritto della persona, poiché una simile esegesi si porrebbe in chiaro contrasto con il tenore letterale della norma, e quindi in totale difformità della regola imposta dall’art. 12 delle preleggi, secondo la quale alla norma: “non si può attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole”.
In breve, pochissime sono le controversie sugli status, e quindi pochissime saranno le revocazioni del nuovo art. 391 quater c.p.c.
In una certa misura, in questo modo, sono salvi capre e cavoli: per l’Europa la norma l’abbiamo fatta; in Italia però la stessa non si darà (quasi) mai.
5.Venendo agli aspetti più strettamente processuali, il primo da affrontare è quello della legittimazione ad agire.
Su essa niente dice l’art. 391 quater c.p.c. e due sembrano le questioni da porre.
a) Intanto: la legittimazione spetta a tutte le parti processuali del giudizio chiusosi con la cosa giudicata o solo a quelle che si siano rivolte con successo alla Corte EDU?
E’ ovvio che non sempre vi può essere identità di soggetti, poiché, ad esempio, contro cinque litiganti nella vicenda interna solo uno o due potrebbero rivolgersi alla Corte di Strasburgo.
Quid iuris per gli altri?
La Corte costituzionale, nella sentenza 26 maggio 2017 n. 123, scriveva in proposito: “Vi è, infatti, “una radicale differenza tra coloro che, una volta esauriti i ricorsi interni, si sono rivolti al sistema di giustizia della CEDU e coloro che, al contrario, non si sono avvalsi di tale facoltà, con la conseguenza che la loro vicenda processuale, definita ormai con la formazione del giudicato, non è più suscettibile del rimedio convenzionale” (così la citata sentenza n. 210 del 2013)”.
Qualcosa di analogo si trova altresì nella legge delega, la quale prescriveva di: “prevedere che, nell’ambito del procedimento per revocazione a seguito di sentenza emessa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, la legittimazione attiva a promuovere l’azione di revocazione spetti alle parti del processo svoltosi innanzi a tale Corte, ai loro eredi o aventi causa e al pubblico ministero”.
Dunque, messe insieme le posizioni, si può preferibilmente sostenere che la legittimazione attiva ad adire la Corte di Cassazione ai sensi dell’art. 391 quater c.p.c. non spetti a tutte le parti del giudizio ma solo a quelle che si siano rivolte con successo alla Corte EDU[6].
b) V’è poi la questione della legittimazione del pubblico ministero, già prevista nella legge delega.
Essa ha trovato conferma nel nuovo secondo comma dell’art. 397 c.p.c., per il quale: “Nei casi di cui all’articolo 391 quater, la revocazione può essere promossa anche dal procuratore generale presso la Corte di Cassazione”.
Si tratta di una legittimazione straordinaria che va oltre il limiti di cui all’art. 363 c.p.c., poiché nei casi dell’art. 363 c.p.c. la legittimazione della Procura generale si giustifica con l’esigenza di far pronunciare alla Corte di Cassazione un principio di diritto, mentre qui non v’è da pronunciare alcun principio di diritto.
Inoltre la rimozione del giudicato comporta le ripristinazioni per le parti, ma certo è da escludere che il procuratore generale possa chiedere, oltre alla rimozione del giudicato, anche le ripristinazioni per le parti.
La procura generale richiederà allora solo la rimozione del giudicato, nient’altro può chiedere, e la Corte di Cassazione, preso atto dell’esistenza di una decisione della Corte EDU che ha accertato la violazione della Convenzione, semplicemente rimuoverà quel giudicato.
A cosa serva tutto questo in assenza di una iniziativa di parte (e considerato che, al contrario, se le parti prendono iniziativa la Procura generale è comunque parte necessaria del giudizio secondo le comuni regole dei procedimenti in Cassazione), a me personalmente non è dato facilmente di capire.
Si è detto che la legittimazione della Procura generale si giustifica in considerazione del superiore interesse dell’ordinamento alla rimozione delle violazioni alla Convenzione dei diritti dell’uomo da parte di decisioni giurisdizionali accertate come tali dalla Corte EDU.
Sinceramente, a me sembra che l’interesse alla rimozione sia delle parti che pretendono le ripristinazioni per essere risarcite di quella ingiustizia, e a loro spetti attivarsi.
Il resto mi sembra un po’ un eccesso pubblicistico, tipico del periodo che stiamo vivendo, dove sempre vi è un interesse superiore dell’ordinamento che si antepone, e si vuole separato, agli interessi individuali delle parti.
6.Quanto al procedimento, direi che la revocazione si introduce con normale ricorso per Cassazione, secondo le regole dell’art. 366 c.p.c.; parimenti niente cambia per il controricorrente, che si difenderà, se del caso, con controricorso ex art. 370 c.p.c.
Il procedimento seguirà le regole processuali ordinarie, e tuttavia esso sarà sempre deciso in udienza pubblica, in forza del nuovo art. 375, 1° comma c.p.c., per il quale “La Corte pronuncia in pubblica udienza…….nei casi di cui all’articolo 391 quater”.
Il problema principale, a mio parere, è dato dall’individuazione dell’oggetto del giudizio.
Il giudizio sembra aver ad oggetto: a) l’esistenza della decisione della Corte EDU; b) la sussistenza dei presupposti di cui ai nn. 1 e 2 dell’art. 391 quater c.p.c.; c) infine le c.d. ripristinazioni, che non dovranno in ogni caso pregiudicare i diritti acquisiti dai terzi di buona fede, così come dispone l’ultimo comma della norma[7].
Ora, il 2° comma dell’art. 391 quater c.p.c., statuisce altresì che al procedimento “si applica l’articolo 391 ter, comma secondo”, ovvero: “La Corte decide la causa nel merito qualora non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto; altrimenti, pronunciata la revocazione, rinvia la causa al giudice che ha pronunciato la sentenza cassata”.
E su quest’ultimo punto, a me sembra assai difficile che a fronte della decisione della Corte EDU, che rappresenta sempre un fatto nuovo, la nostra Corte di Cassazione, adita ai sensi dell’art. 391 quater c.p.c., possa decidere senza accertamento di ulteriori fatti; ovvero, direi, che la condizione di poter decidere senza che siano necessari ulteriori accertamenti di fatto non si realizzerà quasi mai in questi casi, poiché mi sembra assai raro e assai difficile che la Corte di Cassazione possa statuire sulle ripristinazioni dovute ad una nuova decisione senza alcuna nuova indagine.
Va da sé che la regola sarà, allora, semplicemente quella che la Corte di Cassazione provvederà alla rimozione del giudicato, e per tutto il resto rinvierà alla Corte di Appello per i dovuti incombenti, come avviene di regola nei normali giudizi di rinvio.
7.Ma, se così sarà quasi sempre (o forse sempre), trovo discutibile, allora, non solo, come già detto, la scelta compiuta dal legislatore di affidare la legittimazione all’impugnazione anche alla Procura Generale, bensì, più radicalmente, proprio la scelta di affidare la competenza di questo giudizio alla Corte di Cassazione.
Che senso ha andare in Corte di Cassazione se non c’è nessuna questione di diritto da decidere ma solo prendere atto dell’esistenza di una decisione della Corte EDU, e tutte le altre questioni da decidere non sono di diritto, bensì di fatto, e attengono alle ripristinazioni conseguenti all’accertata violazione della Convenzione dei diritti dell’uomo?
E’ vero che l’art. 391 quater c.p.c. pone come condizione di ammissibilità della revocazione la circostanza che “l’equa indennità eventualmente accordata dalla Corte europea ai sensi dell’art. 41 della Convenzione non sia idonea a compensare le conseguenze della violazione”; ma si tratta, pur sempre, di un accertamento di fatto, non di diritto, che non v’era bisogno, sempre a mio parere, di affidare alla Corte di Cassazione.
Era più semplice introdurre una disposizione di legge in base alla quale la decisione della Corte EDU in materia di status automaticamente fa venir meno il giudicato in senso contrario; le parti poi, se vogliono e credono, possono rivolgersi al corrispondente giudice dell’appello per la decisione sulle ripristinazioni, compresa quella di valutare che l’indennità già accordata non sia sufficiente a risarcire le conseguenze della violazione.
In questi modo non si sarebbe scomodato ne’ la Corte di Cassazione, ne’ la Procura generale presso di essa.
E al riguardo, da segnalare infine, che il decreto correttivo della riforma del processo civile in corso di approvazione definitiva, premesso che nella sua relazione di presentazione asserisce che: “Il presente intervento correttivo ……. si inserisce armonicamente nel solco della riforma già realizzata”, per quanto poi attenga in concreto alla novità di cui all’art. 391 quater c.p.c. esso niente dice e/o corregge, e passa da una piccolissima modifica dell’art. 384 c.p.c. (punto n), ad altra piccolissima modifica dell’art. 399 (punto o).
Vedremo cosa succederà appena arriverà presso la Corte di Cassazione il primo ricorso ex art. 391 quater c.p.c.
[1] Relazione tenuta all’incontro di studio organizzato a Roma da AGI, Associazione italiana giuslavoristi, il giorno 19 aprile 2024, dal titolo Il ricorso per cassazione civile – La revocazione per contrarietà alla CEDU.
[2] In argomento si veda già, comunque, GRAZIOSI, Le nuove norme sul giudizio di cassazione e sulla revocazione, Riv dir. proc., 2023, 667 e ss.; e D’ALESSANDRO, Revocazione per contrarietà alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Giur, it., 2023, 479.
[3] In senso analogo possono essere ricordate le successive pronunce della Corte costituzionale 2 febbraio 2018 n. 19 e 27 aprile 2018 n. 93, per la quale, quest’ultima: “Non sussiste violazione della legittimità costituzionale degli artt. 395 e 396 c.p.c., nella parte in cui non prevedono tra i casi di revocazione delle sentenze civili nelle more passate in giudicato l’ipotesi dell’adeguamento ad una sopravvenuta pronuncia della Corte Edu di segno contrario, per asserita violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione al parametro interposto dell’art. 46, par. 1, della Cedu, dovendo, in proposito, essere ribadita la differenza tra processi penali e civili e la necessità, con riferimento a questi ultimi, di tutelare i terzi, la cui posizione processuale non è assimilabile a quella delle vittime dei reati nei procedimenti penali”..
[4] Per i soggetti che viceversa adiscono vittoriosamente la Corte di Strasburgo in sede penale la Corte costituzionale riconosceva già l’esistenza dell’obbligo convenzionale di riapertura del processo con la sentenza n. 113 del 2011; e ciò comportava l’introduzione nell’art. 630 del codice di procedura penale di una specifica nuova ipotesi di revisione della sentenza passata in giudicato.
[5] Il legislatore francese, con la legge 18 novembre 2016 n. 1547, avente ad oggetto la: ”modernisation de la justice du XXIe siècle”, introduceva infatti, nel “Code de l’organisation judiciaire”, la possibilità di chiedere la revocazione delle sentenze civili rese in materia di stato delle persone in caso di condanna da parte della Corte EDU, laddove, per la sua natura e gravità, la violazione convenzionale avesse creato un danno non risarcibile con l’equa soddisfazione.
[6] In senso contrario v. però GRAZIOSI, Le nuove norme sul giudizio di cassazione e sulla revocazione, cit., 679.
[7] Al fine della tutela dei terzi, la riforma è intervenuta altresì con una modifica dell’art. 2652 c.c. nel punto 9 bis, secondo cui sono atti trascrivibili altresì: “le domande di revocazione contro le sentenze soggette a trascrizione per le cause previste dall’art. 391 quater del codice di procedura civile” e “ la sentenza che accoglie la domanda non pregiudica i diritti acquisiti dai terzi di buona fede in base a un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione della domanda”; e con ulteriore modifica all’art. 2690 del punto 6 bis, secondo il quale dovranno essere trascritte, qualora si riferiscano ai diritti menzionati dall’art. 2684 c.c., anche: “le domande indicate dal numero 9 bis dell’articolo 2652 c.c. per gli effetti ivi disposti” ed in questi casi “la trascrizione della sentenza che accoglie la domanda prevale sulle trascrizioni o iscrizioni eseguite contro il convenuto dopo la trascrizione della domanda” (v. anche in tema M. PAGNOTTA, La nuova ipotesi di revocazione della sentenza civile, in questa rivista).