Informativa sul trattamento dei dati personali (ai sensi dell’art. 13 Regolamento UE 2016/679)
La vigente normativa in materia di trattamento dei dati personali definita in conformità alle previsioni contenute nel Regolamento UE 2016/679 del 27 aprile 2016 relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati (Regolamento generale sulla protezione dei dati, di seguito “Regolamento Privacy UE”) contiene disposizioni dirette a garantire che il trattamento dei dati personali si svolga nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali delle persone fisiche, con particolare riguardo al diritto alla protezione dei dati personali.
Finalità del Trattamento e base giuridica
Il trattamento dei dati personali è finalizzato a:
– fornire il servizio e/o prodotto richiesto dall’utente, per rispondere ad una richiesta dell’utente, e per assicurare e gestire la partecipazione a manifestazioni e/o promozioni a cui l’utente ha scelto di aderire (richiesta e acquisto abbonamento periodici; richiesta e acquisto libri; servizio di fatturazione; invio periodici in abbonamento postale, invio newsletter rivolte a studiosi e professionisti).
– inviare newsletter promozionale di pubblicazioni a chi ne ha fatto richiesta; ferma restando la possibilità per l’utente di opporsi all’invio di tali invii in qualsiasi momento.
– inviare all’utente informazioni promozionali riguardanti servizi e/o prodotti della Società di specifico interesse professionale ed a mandare inviti ad eventi della Società e/o di terzi; resta ferma la possibilità per l’utente di opporsi all’invio di tali comunicazioni in qualsiasi momento.
– gestire dati indispensabili per espletare l’attività della società: clienti, fornitori, dipendenti, autori. Pacini Editore srl tratta i dati personali dell’utente per adempiere a obblighi derivanti da legge, regolamenti e/o normativa comunitaria.
– gestire i siti web e le segreterie scientifiche per le pubblicazioni periodiche in ambito medico-giuridico rivolte a studiosi e professionisti;
Conservazione dei dati
Tutti i dati di cui al successivo punto 2 verranno conservati per il tempo necessario al fine di fornire servizi e comunque per il raggiungimento delle finalità per le quali i dati sono stati raccolti, e in ottemperanza a obblighi di legge. L’eventuale trattamento di dati sensibili da parte del Titolare si fonda sui presupposti di cui all’art. 9.2 lett. a) del GDPR.
Il consenso dell’utente potrà essere revocato in ogni momento senza pregiudicare la liceità dei trattamenti effettuati prima della revoca.
Tipologie di dati personali trattati
La Società può raccogliere i seguenti dati personali forniti volontariamente dall’utente:
nome e cognome dell’utente,
il suo indirizzo di domicilio o residenza,
il suo indirizzo email, il numero di telefono,
la sua data di nascita,
i dettagli dei servizi e/o prodotti acquistati.
La raccolta può avvenire quando l’utente acquista un nostro prodotto o servizio, quando l’utente contatta la Società per informazioni su servizi e/o prodotti, crea un account, partecipa ad un sondaggio/indagine. Qualora l’utente fornisse dati personali di terzi, l’utente dovrà fare quanto necessario perchè la comunicazione dei dati a Pacini Editore srl e il successivo trattamento per le finalità specificate nella presente Privacy Policy avvengano nel rispetto della normativa applicabile, (l’utente prima di dare i dati personali deve informare i terzi e deve ottenere il consenso al trattamento).
La Società può utilizzare i dati di navigazione, ovvero i dati raccolti automaticamente tramite i Siti della Società. Pacini editore srl può registrare l’indirizzo IP (indirizzo che identifica il dispositivo dell’utente su internet), che viene automaticamente riconosciuto dal nostro server, pe tali dati di navigazione sono utilizzati al solo fine di ottenere informazioni statistiche anonime sull’utilizzo del Sito .
La società utilizza i dati resi pubblici (ad esempio albi professionali) solo ed esclusivamente per informare e promuovere attività e prodotti/servizi strettamente inerenti ed attinenti alla professione degli utenti, garantendo sempre una forte affinità tra il messaggio e l’interesse dell’utente.
Trattamento dei dati
A fini di trasparenza e nel rispetto dei principi enucleati dall’art. 12 del GDPR, si ricorda che per “trattamento di dati personali” si intende qualsiasi operazione o insieme di operazioni, compiute con o senza l’ausilio di processi automatizzati e applicate a dati personali o insiemi di dati personali, come la raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la strutturazione, la conservazione, l’adattamento o la modifica, l’estrazione, la consultazione, l’uso, la comunicazione mediante trasmissione, diffusione o qualsiasi altra forma di messa a disposizione, il raffronto o l’interconnessione, la limitazione, la cancellazione o la distruzione. Il trattamento dei dati personali potrà effettuarsi con o senza l’ausilio di mezzi elettronici o comunque automatizzati e comprenderà, nel rispetto dei limiti e delle condizioni posti dal GDPR, anche la comunicazione nei confronti dei soggetti di cui al successivo punto 7.
Modalità del trattamento dei dati: I dati personali oggetto di trattamento sono:
trattati in modo lecito e secondo correttezza da soggetti autorizzati all’assolvimento di tali compiti, soggetti identificati e resi edotti dei vincoli imposti dal GDPR;
raccolti e registrati per scopi determinati, espliciti e legittimi, e utilizzati in altre operazioni del trattamento in termini compatibili con tali scopi;
esatti e, se necessario, aggiornati;
pertinenti, completi e non eccedenti rispetto alle finalità per le quali sono stati raccolti o successivamente trattati;
conservati in una forma che consenta l’identificazione dell’interessato per un periodo di tempo non superiore a quello necessario agli scopi per i quali essi sono stati raccolti o successivamente trattati;
trattati con il supporto di mezzi cartacei, informatici o telematici e con l’impiego di misure di sicurezza atte a garantire la riservatezza del soggetto interessato cui i dati si riferiscono e ad evitare l’indebito accesso a soggetti terzi o a personale non autorizzato.
Natura del conferimento
Il conferimento di alcuni dati personali è necessario. In caso di mancato conferimento dei dati personali richiesti o in caso di opposizione al trattamento dei dati personali conferiti, potrebbe non essere possibile dar corso alla richiesta e/o alla gestione del servizio richiesto e/o alla la gestione del relativo contratto.
Comunicazione dei dati
I dati personali raccolti sono trattati dal personale incaricato che abbia necessità di averne conoscenza nell’espletamento delle proprie attività. I dati non verranno diffusi.
Diritti dell’interessato.
Ai sensi degli articoli 15-20 del GDPR l’utente potrà esercitare specifici diritti, tra cui quello di ottenere l’accesso ai dati personali in forma intelligibile, la rettifica, l’aggiornamento o la cancellazione degli stessi. L’utente avrà inoltre diritto ad ottenere dalla Società la limitazione del trattamento, potrà inoltre opporsi per motivi legittimi al trattamento dei dati. Nel caso in cui ritenga che i trattamenti che Lo riguardano violino le norme del GDPR, ha diritto a proporre reclamo all’Autorità Garante per la Protezione dei Dati Personali ai sensi dell’art. 77 del GDPR.
Titolare e Responsabile per la protezione dei dati personali (DPO)
Titolare del trattamento dei dati, ai sensi dell’art. 4.1.7 del GDPR è Pacini Editore Srl., con sede legale in 56121 Pisa, Via A Gherardesca n. 1.
Per esercitare i diritti ai sensi del GDPR di cui al punto 6 della presente informativa l’utente potrà contattare il Titolare e potrà effettuare ogni richiesta di informazione in merito all’individuazione dei Responsabili del trattamento, Incaricati del trattamento agenti per conto del Titolare al seguente indirizzo di posta elettronica: privacy@pacinieditore.it. L’elenco completo dei Responsabili e le categorie di incaricati del trattamento sono disponibili su richiesta.
Ai sensi dell’art. 13 Decreto Legislativo 196/03 (di seguito D.Lgs.), si informano gli utenti del nostro sito in materia di trattamento dei dati personali.
Quanto sotto non è valido per altri siti web eventualmente consultabili attraverso i link presenti sul nostro sito.
Il Titolare del trattamento
Il Titolare del trattamento dei dati personali, relativi a persone identificate o identificabili trattati a seguito della consultazione del nostro sito, è Pacini Editore Srl, che ha sede legale in via Gherardesca 1, 56121 Pisa.
Luogo e finalità di trattamento dei dati
I trattamenti connessi ai servizi web di questo sito hanno luogo prevalentemente presso la predetta sede della Società e sono curati solo da dipendenti e collaboratori di Pacini Editore Srl nominati incaricati del trattamento al fine di espletare i servizi richiesti (fornitura di volumi, riviste, abbonamenti, ebook, ecc.).
I dati personali forniti dagli utenti che inoltrano richieste di servizi sono utilizzati al solo fine di eseguire il servizio o la prestazione richiesta.
L’inserimento dei dati personali dell’utente all’interno di eventuali maling list, al fine di invio di messaggi promozionali occasionali o periodici, avviene soltanto dietro esplicita accettazione e autorizzazione dell’utente stesso.
Comunicazione dei dati
I dati forniti dagli utenti non saranno comunicati a soggetti terzi salvo che la comunicazione sia imposta da obblighi di legge o sia strettamente necessario per l’adempimento delle richieste e di eventuali obblighi contrattuali.
Gli incaricati del trattamento che si occupano della gestione delle richieste, potranno venire a conoscenza dei suoi dati personali esclusivamente per le finalità sopra menzionate.
Nessun dato raccolto sul sito è oggetto di diffusione.
Tipi di dati trattati
Dati forniti volontariamente dagli utenti
L’invio facoltativo, esplicito e volontario di posta elettronica agli indirizzi indicati su questo sito comporta la successiva acquisizione dell’indirizzo del mittente, necessario per rispondere alle richieste, nonché degli eventuali altri dati personali inseriti nella missiva.
Facoltatività del conferimento dei dati
Salvo quanto specificato per i dati di navigazione, l’utente è libero di fornire i dati personali per richiedere i servizi offerti dalla società. Il loro mancato conferimento può comportare l’impossibilità di ottenere il servizio richiesto.
Modalità di trattamento dei dati
I dati personali sono trattati con strumenti manuali e automatizzati, per il tempo necessario a conseguire lo scopo per il quale sono stati raccolti e, comunque per il periodo imposto da eventuali obblighi contrattuali o di legge.
I dati personali oggetto di trattamento saranno custoditi in modo da ridurre al minimo, mediante l’adozione di idonee e preventive misure di sicurezza, i rischi di distruzione o perdita, anche accidentale, dei dati stessi, di accesso non autorizzato o di trattamento non consentito o non conforme alle finalità della raccolta.
Diritti degli interessati
Ai soggetti cui si riferiscono i dati spettano i diritti previsti dall’art. 7 del D.Lgs. 196/2003 che riportiamo di seguito:
1. L’interessato ha diritto di ottenere la conferma dell’esistenza o meno di dati personali che lo riguardano, anche se non ancora registrati, e la loro comunicazione in forma intelligibile.
2. L’interessato ha diritto di ottenere informazioni:
a) sull’origine dei dati personali;
b) sulle finalità e modalità del trattamento;
c) sulla logica applicata in caso di trattamento effettuato con l’ausilio di strumenti elettronici;
d) sugli estremi identificativi del titolare, dei responsabili e del rappresentante designato ai sensi dell’articolo 5, comma 2;
e) sui soggetti o delle categorie di soggetti ai quali i dati personali possono essere comunicati o che possono venirne a conoscenza in qualità di rappresentante designato nel territorio dello Stato, di responsabili o incaricati.
3. L’interessato ha diritto di ottenere:
a) l’aggiornamento, la rettificazione ovvero, quando vi ha interesse, l’integrazione dei dati;
b) la cancellazione, la trasformazione in forma anonima o il blocco dei dati trattati in violazione di legge, compresi quelli di cui non è necessaria la conservazione in relazione agli scopi per i quali i dati sono stati raccolti o successivamente trattati;
c) l’attestazione che le operazioni di cui alle lettere a) e b) sono state portate a conoscenza, anche per quanto riguarda il loro contenuto, di coloro ai quali i dati sono stati comunicati o diffusi, eccettuato il caso in cui tale adempimento si rivela impossibile o comporta un impiego di mezzi manifestamente sproporzionato rispetto al diritto tutelato.
4. L’interessato ha diritto di opporsi, in tutto o in parte:
a) per motivi legittimi al trattamento dei dati personali che lo riguardano, ancorché pertinenti allo scopo della raccolta;
b) al trattamento di dati personali che lo riguardano a fini di invio di materiale pubblicitario o di vendita diretta o per il compimento di ricerche di mercato o di comunicazione commerciale.
Dati degli abbonati
I dati relativi agli abbonati sono trattati nel rispetto delle disposizioni contenute nel D.Lgs. del 30 giugno 2003 n. 196 e adeguamenti al Regolamento UE GDPR 2016 (General Data Protection Regulation) a mezzo di elaboratori elettronici ad opera di soggetti appositamente incaricati. I dati sono utilizzati dall’editore per la spedizione della presente pubblicazione. Ai sensi dell’articolo 7 del D.Lgs. 196/2003, in qualsiasi momento è possibile consultare, modificare o cancellare i dati o opporsi al loro utilizzo scrivendo al Titolare del Trattamento: Pacini Editore Srl – Via A. Gherardesca 1 – 56121 Pisa. Per ulteriori approfondimenti fare riferimento al sito web http://www.pacinieditore.it/privacy/
Subscriber data
Subscriber data are treated according to Italian law in DLgs, 30 June 2003, n. 196 as updated with the UE General Data Protection Regulation 2016 – by means of computers operated by specifically responsible personnel. These data are used by the Publisher to mail this publication. In accordance with Art. 7 of the above mentioned DLgs, 30 June 2003, n. 196, subscribers can, at any time, view, change or delete their personal data or withdraw their use by writing to Pacini Editore S.r.L. – Via A. Gherardesca 1, 56121 Ospedaletto (Pisa), Italy. For further information refer to the website: http://www.pacinieditore.it/privacy/
Cookie
Che cos’è un cookie e a cosa serve?
Un cookie e una piccola stringa di testo che un sito invia al browser e salva sul tuo computer quando visiti dei siti internet. I cookie sono utilizzati per far funzionare i siti web in maniera più efficiente, per migliorarne le prestazioni, ma anche per fornire informazioni ai proprietari del sito.
Che tipo di cookie utilizza il nostro sito e a quale scopo? Il nostro sito utilizza diversi tipi di cookie ognuno dei quali ha una funzione specifica, come indicato di seguito:
TIPI DI COOKIE
Cookie di navigazione
Questi cookie permettono al sito di funzionare correttamente sono usati per raccogliere informazioni su come i visitatori usano il sito. Questa informazione viene usata per compilare report e aiutarci a migliorare il sito. I cookie raccolgono informazioni in maniera anonima, incluso il numero di visitatori del sito, da dove i visitatori sono arrivati e le pagine che hanno visitato.
Cookie Analitici
Questi cookie sono utilizzati ad esempio da Google Analytics per elaborare analisi statistiche sulle modalità di navigazione degli utenti sul sito attraverso i computer o le applicazioni mobile, sul numero di pagine visitate o il numero di click effettuati su una pagina durante la navigazione di un sito.
Questi cookie sono utilizzati da società terze. L’uso di questi cookie normalmente non implica il trattamento di dati personali. I cookie di terze parti derivano da annunci di altri siti, ad esempio messaggi pubblicitari, presenti nel sito Web visualizzato. Possono essere utilizzati per registrare l’utilizzo del sito Web a scopo di marketing.
Come posso disabilitare i cookie?
La maggior parte dei browser (Internet Explorer, Firefox, etc.) sono configurati per accettare i cookie. Tuttavia, la maggior parte dei browser permette di controllare e anche disabilitare i cookie attraverso le impostazioni del browser. Ti ricordiamo però che disabilitare i cookie di navigazione o quelli funzionali può causare il malfunzionamento del sito e/o limitare il servizio offerto.
Per avere maggiori informazioni
l titolare del trattamento è Pacini Editore Srl con sede in via della Gherardesca n 1 – Pisa.
Potete scrivere al responsabile del trattamento Responsabile Privacy, al seguente indirizzo email rlenzini@pacinieditore.it per avere maggiori informazioni e per esercitare i seguenti diritti stabiliti dall’art. 7, D. lgs 196/2003: (i) diritto di ottenere la conferma dell’esistenza o meno di dati personali riguardanti l’interessato e la loro comunicazione, l’aggiornamento, la rettificazione e l’integrazione dei dati, la cancellazione, la trasformazione in forma anonima o il blocco dei dati trattati in violazione di legge; (ii) diritto di ottenere gli estremi identificativi del titolare nonché l’elenco aggiornato dei responsabili e di tutti i soggetti cui i suoi dati sono comunicati; (iii) diritto di opporsi, in tutto o in parte, per motivi legittimi, al trattamento dei dati relativi all’interessato, a fini di invio di materiale pubblicitario o di vendita diretta o per il compimento di ricerche di mercato o di comunicazioni commerciali.
Per modificare le impostazioni, segui il procedimento indicato dai vari browser che trovi alle voci “Opzioni” o “Preferenze”.
Per saperne di più riguardo ai cookie leggi la normativa.
Negoziazione assistita ed effettività della tutela giurisdizionale
Di Mariacarla Giorgetti -
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Effettività e personalizzazione della tutela. – 3. La negoziazione assistita tra collaborative practice e conventionde procédure participative. – 4. Trascrizione della domanda giudiziale e tutela cautelare nella negoziazione assistita obbligatoria. – 5. Durata massima dell’invito a stipulare la convenzione e del tentativo di negoziazione. – 6. L’effettività come qualità della tutela giurisdizionale a seguito del fallimento della negoziazione assistita. – 7. Spunti di diritto comparato per l’effettività della tutela. – 8. Osservazioni finali.
1.Introduzione.
La crescente attenzione prestata dal legislatore dell’ultimo decennio verso l’individuazione di soluzioni in grado di deflazionare il carico giurisdizionale ha comportato la progressiva e sempre maggiore valorizzazione di soluzioni stragiudiziali per la definizione delle controversie, alternative alla soluzione giurisdizionale del contenzioso.
In tale prospettiva si colloca anche l’ultima riforma della giustizia civile, che si inserisce nel solco tracciato da precedenti interventi normativi susseguitisi nell’ultimo decennio, con l’obiettivo di valorizzare forme di tutela delle situazioni giuridiche soggettive fondate sull’autonomia privata e sulla disponibilità delle parti a cooperare per la risoluzione del conflitto, come accade emblematicamente nei procedimenti di mediazione e di negoziazione assistita[1].
L’esigenza deflattiva del contenzioso giurisdizionale, in uno con la scelta, correlata, di rafforzare gli strumenti alternativi delle controversie – ADR o MARC[2] – pone, d’altro canto, una riflessione sotto il profilo dell’effettività della tutela soprattutto nel suo momento strettamente giurisdizionale. Per meglio dire, la linea perseguita dal legislatore impone una riflessione critica sul piano dell’effettività della tutela giurisdizionale non solo in relazione agli strumenti stragiudiziali, in sé considerati, ma anche, e soprattutto, con riguardo alla garanzia del diritto di azione e difesa in sede processuale. Occorre infatti interrogarsi se e in che misura la promozione di forme di giustizia alternativa possa incidere sulla piena realizzazione dei principi costituzionali di accesso alla giurisdizione (art. 24 Cost.) e del giusto processo (art. 111 Cost.), stante l’esigenza di arginare il rischio che la valorizzazione del consenso tra le parti si traduca in una compressione, anche solo indiretta, del diritto alla tutela giurisdizionale effettiva.
La questione si pone peraltro in termini particolarmente rilevanti nei casi in cui il tentativo stragiudiziale – specie se previsto quale condizione di procedibilità della domanda – non conduca ad un esito soddisfacente, rendendo comunque necessaria la introduzione del giudizio in sede contenziosa, e risulta, d’altro canto, implicata da quella stessa connotazione, tipica delle ADR, come sorta di anticamera della tutela giurisdizionale, alla quale è affidato in primis il compito di deflazionare il contenzioso e dunque sortire un effetto benefico in termini di durata dei processi.
È proprio in tale configurazione che si innesta il nodo critico della disciplina: l’incentivazione – in taluni casi l’imposizione – del ricorso a metodi stragiudiziali si pone in una relazione dialettica non solo con il principio di economia processuale, ma anche, e soprattutto, con quello della effettività della tutela giurisdizionale.
La promozione delle ADR, scelta in sé chiaramente meritevole, esige, d’altro canto, il bilanciamento tra l’obiettivo di una tutela giurisdizionale tempestiva e di accelerazione dei processi (in altre parole di economia processuale)[3], con il diritto, di rango costituzionale, all’accesso alla giustizia.
Soprattutto rispetto ai metodi stragiudiziali di risoluzione delle controversie il parametro della tempestività della tutela assume un ruolo centrale nel conferire contenuto sostanziale al principio di effettività della tutela giurisdizionale: la capacità delle ADR di sortire effetti benefici rispetto alla durata dei processi è tale soltanto nella misura in cui tali strumenti conducano ad una composizione effettiva della lite. Diversamente, il percorso stragiudiziale rischia di risolversi in un aggravio procedimentale, di fatto privo di utilità concreta, traducendosi in una mera dilatazione dei tempi complessivi della tutela. Ciò è tanto vero, che, come noto, il legislatore non ha mancato di prevedere, in tali ipotesi, la possibilità di adire comunque l’autorità giudiziaria al fine di ottenere, nella misura in cui ne ricorrano i presupposti, l’emanazione delle misure cautelari, anche in pendenza della fase stragiudiziale.
Quanto detto impone di rilevare che se, in generale, l’effettività della tutela, soprattutto negli ultimi tempi, dialoga in maniera sempre crescente anche con il canone della tempestività – una tutela effettiva deve anche essere una tutela tempestiva – soprattutto rispetto alle ADR la riflessione viene in considerazione sotto una duplice prospettiva. Infatti, da un lato, il canone dell’effettività della tutela viene in rilievo con riferimento al suo segmento temporale, cioè al momento in cui interviene la tutela giurisdizionale: il ricorso pregiudiziale a strumenti stragiudiziali non può determinare un pregiudizio inteso, come ritardo, nell’accesso alla giustizia, né può tradursi in un differimento ingiustificato dell’attivazione della tutela giurisdizionale. Dall’altro lato, l’effettività deve essere valutata anche sotto il profilo qualitativo della tutela, considerata nella sua capacità di proteggere integralmente i diritti delle parti senza essere compromessa dal previo esperimento del procedimento di ADR.
In tal senso, meritano di essere richiamate, ad esempio, quelle previsioni volte a garantire una netta separazione tra la fase stragiudiziale e quella processuale, a tutela della genuinità del processo e della libertà delle parti nelle trattative, come ad esempio, quella che sancisce l’inutilizzabilità nel giudizio avente in tutto o in parte il medesimo oggetto delle dichiarazioni rese o delle informazioni acquisite nel corso del procedimento di mediazione o di negoziazione assistita[4] – previsioni che testimoniano l’attenzione del legislatore nel preservare l’integrità della tutela giurisdizionale anche a valle del tentativo stragiudiziale.
Tra gli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie (ADR), la questione si pone in modo particolarmente rilevante con riferimento alla negoziazione assistita. Questo perché tale istituto si fonda sulla disponibilità delle parti a collaborare, se del caso, anche riconoscendosi reciproche concessioni. La criticità si accentua, poi, nella negoziazione assistita obbligatoria, dove il rinvio dell’intervento del giudice è imposto dalla legge e non rappresenta una scelta volontaria delle parti, indi emerge con forza l’esigenza che l’intervento del legislatore non vada a scapito delle garanzie delle parti. Del resto, è il caso di notare che il ricorso obbligatorio alla negoziazione assistita, se privo di adeguate garanzie procedurali e in assenza di una reale parità tra le parti, rischia di tradursi in una compressione indebita del diritto di accesso alla giustizia, dunque è fondamentale che questi strumenti di ADR – seppur incentivati e, in alcuni casi, resi condizione di procedibilità dell’azione giudiziaria – non si trasformino in meri adempimenti formali, ma siano effettivamente orientati alla tutela sostanziale dei diritti.
2. Effettività e personalizzazione della tutela.
Uno sviluppo coerente con le premesse date impone di prendere le mosse da una declinazione fisiologica del principio di effettività nelle Alternative Dispute Resolution.
In proposito, ricordiamo come il principio in discorso – si è detto, avente rango costituzionale (art. 24, 111 Cost.) e, nondimeno, tutelato anche a livello sovranazionale, specie unionale (art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE)[5] – si ricolleghi al diritto di “tutti” i titolari di posizioni giuridiche soggettive rilevanti nell’ordinamento giuridico dello Stato – diritti soggettivi, interessi legittimi – ad ottenere dal giudice una pronuncia (di merito) sulla fondatezza della domanda, di guisa che le disposizioni processuali che tutelano la posizione della quale il soggetto è portatore dovranno essere strumentalmente rivolte all’emanazione del provvedimento di merito. Non sembra possibile offrire una definizione di “effettività” della tutela, essendo composta da elementi di diritto e di fatto, ma il relativo principio ha trovato pieno riconoscimento in ambito sovranazionale negli artt. 19 TUE, 263 TFUE e 6 CEDU, nonché in ambito nazionale in applicazione degli artt. 24, 103, 113 Cost. e dell’art. 1 del codice del processo amministrativo[6].
La Corte costituzionale, in più di un’occasione[7], non ha mancato di sottolineare come l’art. 24 Cost. e l’art. 113 Cost. siano diretti a presidiare l’adeguatezza degli strumenti processuali approntati per la tutela in giudizio, avendo come ambito di osservazione il sistema processuale nel suo complesso, ed ha avuto cura di sottolineare come la loro violazione potrebbe eventualmente considerarsi sussistente soltanto nei casi di sostanziale impedimento all’esercizio del diritto di azione[8] o di imposizione di oneri che compromettano, irreparabilmente, la tutela stessa[9], e non anche qualora la norma processuale “non elimini affatto la possibilità di usufruire della tutela giurisdizionale”[10].
Quanto appena osservato conduce verso la riflessione alla quale si accennava in apertura, vale a dire alla questione inerente all’attuazione del principio di effettività della tutela a fronte dell’utilizzo di strumenti alternativi di risoluzione delle controversie, soprattutto – come nel caso della negoziazione assistita – a fronte di quei metodi autenticamente “collaborativi”, cioè fondati sulla disponibilità delle parti non solo ad intraprendere la procedura, ma anche a proseguirla con buona fede e lealtà, senza che sia necessario l’intervento del terzo in funzione facilitativa o tantomeno aggiudicativa[11].
Occorre dunque indagare in che modo quelle pratiche collaborative dialoghino con il principio di effettività della tutela nonché se e quali siano le soluzioni apprestate dal legislatore a fronte di eventuali criticità, riflessione, questa, che muove dal presupposto, sopra richiamato e condiviso anche dalla giurisprudenza costituzionale, in forza del quale l’attuazione del principio di effettività della tutela non esige necessariamente che la domanda sia proposta dinanzi all’autorità giudiziaria, né tantomeno deve necessariamente passare per strumenti aventi natura giurisdizionale: se così non fosse, d’altro canto, non avrebbero ragion d’essere gli istituti ai quali qui ci si richiama, senza escludere, peraltro, l’arbitrato, soprattutto irrituale. In tale prospettiva si è parlato, non senza criticità, del principio di sussidiarietà della giurisdizione in luogo di quello di priorità, cioè l’idea secondo la quale il ricorso al giudice non sarebbe da intendersi come soluzione primaria e immediata, ma rappresenterebbe soltanto l’ultima chance alla quale fare ricorso tutte le volte che altri mezzi di risoluzione della controversia abbiano fallito[12].
La riflessione impone anzitutto di prendere le mosse dall’autentica concezione della Collaborative Practice. Questa è originaria del sistema di common law nordamericano[13], essendosi sviluppata segnatamente negli Stati Uniti intorno agli anni ’90, soprattutto con riferimento all’ambito familiare (specie nei divorzi)[14], salvo poi estendersi anche ad altre aree del diritto civile. Essa è tipicamente incentrata sul ruolo degli avvocati delle parti in causa.
La crescente valorizzazione e l’incalzante ricorso a forme “collaborative” per la risoluzione delle controversie si deve certamente ai vantaggi che queste portano con sé rispetto al ricorso all’autorità giudiziaria; questi possono essere classificati in termini di durata e costi della procedura, quindi accessibilità, cui si aggiunge la tendenziale maggiore stabilità della soluzione raggiunta, riflesso del maggiore “controllo” delle parti sulla gestione di tali procedure. Si può ragionare, a questo proposito, di “personalizzazione” della tutela, ossia del fatto che, a differenza del giudizio, dove le decisioni sono spesso ricondotte a soluzioni tipizzate (restando escluse, soprattutto alla luce dell’ultima riforma del processo civile, le controversie in materia familiare e minorile), il diritto collaborativo permette di costruire soluzioni su misura[15], capaci di rispondere in modo più equo e sostenibile ai bisogni concreti delle parti coinvolte. Ciò ha chiari riflessi (positivi) sul piano della conservazione delle relazioni, dal momento che l’approccio non conflittuale riduce le tensioni e favorisce la costruzione di un clima di dialogo, utile per mantenere rapporti civili anche dopo la conclusione della controversia.
Quanto detto conduce in via di prima approssimazione a qualificare come virtuoso il dialogo tra i sistemi, come la negoziazione, incentrati sulla logica collaborativa non solo con il principio di efficienza della tutela, ma anche di effettività[16]. In tali contesti questa viene in considerazione soprattutto perché consente di raggiungere soluzioni incentrate sulle esigenze reali delle persone e orientata a soluzioni durature e condivise. Tuttavia, non sembra possa ritenersi che la tutela sia effettiva soltanto perché la soluzione è frutto di un accordo o di una pratica negoziale, dal momento che occorre anche guardare alle condizioni che presiedono al raggiungimento di tale accordo: vale a dire, in termini processuali, al procedimento che porta alla definizione dell’accordo e al contesto circostante, a quelle che sarebbe le alternative che la parte ha a disposizione una volta che la procedura, anche avente origine negoziale, sia stata intrapresa, o, soprattutto, le forme di tutela “integrativa” alle quali potrebbe ricorrere in quelle circostanze nelle quali il ricorso alla strada stragiudiziale sia imposto ex lege come condizione di procedibilità della domanda giudiziale.
Si tratta invero di una riflessione cardine nel contesto della disamina della relazione tra ADR, in generale, ed effettività della tutela, che già da oltre un decennio orsono non aveva mancato di destare l’intervento della giurisprudenza europea e costituzionale, nella celebre vicenda che aveva ad oggetto la introduzione della mediazione quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale e nella quale la Consulta ebbe modo di sottolineare[17] che l’imposizione di filtri conciliativi obbligatori configurati quali condizioni di procedibilità della domanda, non lede il diritto di agire in giudizio di cui all’art. 24 Cost. e non costituisce un inutile ostacolo allo svolgimento della giurisdizione. La legge può imporre talvolta l’adempimento di oneri volti a salvaguardare l’interesse generale con le dilazioni conseguenti, purché essi non rendano impossibile o eccessivamente gravoso l’esercizio del diritto di azione ovvero lo differiscano irrazionalmente o sine die. L’imposizione di oneri che differiscono l’esercizio dell’azione è legittima quando il loro esperimento, in funzione di una deflazione dei carichi giudiziari, produce gli stessi effetti della domanda giudiziale; non preclude l’immediata esperibilità della tutela in via cautelare e, in ogni caso, purché l’impedimento all’esercizio dell’azione sia obiettivamente limitato e non irragionevole[18].
Se ne ricava, dunque, come l’attuazione del principio di effettività della tutela, nelle ADR, con particolare riferimento alla negoziazione assistita come pratica intrinsecamente collaborativa, interessi in modo significativo soprattutto quelle che si pongono come condizione di procedibilità della domanda, nel quale caso la querelle in esame viene in rilievo anche sotto il profilo dell’esercizio del diritto di azione.
Quanto appena osservato impone, d’altro canto, di precisare come una riflessione critica intorno all’attuazione del principio di effettività nelle ADR si ponga anche nelle ipotesi in cui l’anticamera del ricorso alla giurisdizione statale non sia imposta ex lege, ma sia il frutto di una scelta della parte. Come si è accennato, infatti, in generale, a fronte delle soluzioni stragiudiziali, anche facoltative, il problema dell’effettività della tutela si correla soprattutto alle modalità procedimentali che presiedono al raggiungimento dell’accordo – non potendo tale principio ritenersi soddisfatto per il fatto stesso in forza del quale la soluzione raggiunta è fondata sull’accordo delle parti. Tali modalità devono comunque essere adeguate a soddisfare le istanze di tutela e tali da non pregiudicare poi l’effettività della tutela di merito che dovesse rendersi eventualmente necessaria a seguito del fallimento del tentativo consensuale.
Vale poi la pena precisare come tale riflessione interessi un aspetto delle procedure di ADR ulteriore rispetto a quello relativo alla loro efficacia e validità, che dipende, a sua volta, dalla questione inerente all’ambito oggettivo di applicazione degli strumenti di cui si discute, restando comunque inteso (e riveste carattere pregiudiziale ai fini della validità ed efficacia della procedura) che la procedura può essere impiegata relativamente a controversie aventi ad oggetto diritti disponibili, nella misura in cui l’oggetto non sia contrario all’ordine pubblico e al buon costume e, soprattutto, purché risulti fondata sul consenso delle parti, essendo diritto fondamentale, a livello sia interno, sia sovranazionale, come già ricordato, quello dell’accesso alla giustizia (art. 24 Cost. e art. 6 C.E.D.U.).
3.La negoziazione assistita tra collaborative practice e conventionde procédure participative.
Tenuto conto di quanto sin qui evidenziato, è ora il caso di verificare la concreta declinazione del concetto di effettività della tutela nella procedura collaborativa per eccellenza, qual è la negoziazione assistita.
Istituto a metà strada – figlio di un approccio comparatistico in parte funzionale[19], in parte formalista[20] – tra il diritto collaborativo nordamericano e la legislazione europea d’oltralpe[21], è noto alla dottrina come il modello della negoziazione assistita domestico, per un verso, si impernia sulla Collaborative Law, sviluppatasi oltreoceano sul finire degli anni ’80 del secolo scorso; per un altro, sotto il profilo della sua concreta regolamentazione, essa prende le mosse dalla c.d. conventionde procédure participative francese[22], regolata in parte dal Code civil e, per altra, dal Code de procédure civile[23]. Entrambi si caratterizzano in quanto risultano significativamente incentrati sulle abilità negoziali dei difensori, ma si distinguono, d’altro canto, in quanto soltanto la convention è attentamente disciplinata dal legislatore nelle sue forme, essendo il diritto collaborativo sostanzialmente ancorato a regole sviluppatesi soprattutto in via di prassi[24]. È in questo senso che l’istituto domestico rappresenta dunque un ibrido tra i due.
Più esattamente, quanto al primo, declinazione del più vasto c.d. diritto globale (che mira a rendere il diritto “sostenibile”)[25], è noto come il diritto collaborativo sia stato concepito ab origine con riferimento alle controversie in materia di famiglia (segnatamente, ai divorzi), salvo poi essere esteso anche alle altre aree del diritto civile. L’originaria connotazione del diritto collaborativo come diritto avente di mira soprattutto la risoluzione delle controversie familiari pone, peraltro – vale la pena evidenziarlo – sotto una diversa luce quelle previsioni dedicate alla negoziazione assistita in materia di famiglia[26] (art. 6), che meriterebbero, forse, di essere valorizzate rispetto alla tendenziale renitenza in gran parte ancora mostrata (soprattutto dagli avvocati, anche a causa della chiara “responsabilizzazione” del loro ruolo in tale controversie e della delicatezza degli interessi coinvolti) verso tale settore applicativo dell’istituto.
Quando rilevato è singolare, se si pensa che, nel più ampio contesto della previsione di “misure urgenti di degiurisdizionalizzazione”, la negoziazione assistita è stata introdotta a livello domestico oltre un decennio orsono[27] soprattutto al fine di “rivitalizzare” la funzione degli avvocati delle parti[28] nelle procedure conciliative alternative alla giurisdizione statale[29], a fronte del minore ruolo loro conferito nella mediazione, vista la funzione cardine comunque svolta anche nelle procedure non aggiudicative dal terzo mediatore. Questi, però, non assumono una posizione di equidistanza, ma, come riconosciuto anche dalla giurisprudenza costituzionale[30], partecipano alla procedura nell’interesse della parte assistita, ciascuno perseguendo il maggior vantaggio egoisticamente ottenibile, sulla base del proprio “potere contrattuale”[31].
Rispetto al fine della valorizzazione del ruolo degli avvocati soprattutto il diritto collaborativo ha rappresentato un valido riferimento: la collaborative doctrine è fortemente incentrata sulle abilità conciliative del difensore. La fiducia nella riuscita della soluzione negoziale è tale, che non solo sull’avvocato grava il divieto di assistere stessa la parte nell’eventuale successivo giudizio avente il medesimo oggetto[32], ma che la procedura negoziale ispirata al diritto collaborativo non è improntata al rispetto di regole procedurali prefissate, ma sia in realtà rimessa – davvero, in concreto – alle parti e ai rispettivi difensori, contribuendo allo sviluppo di una regolamentazione della procedura “in via di prassi”[33]. Tale scelta se, da yn lato, è certamente suscettibile di dare adito, con evidente maggiore facilità, a problemi e contestazioni (anche a possibili “disaccordi”) in termini di certezza del diritto, d’altro canto appare idonea a perseguire lo scopo per il quale tali istituti sono stati pensati, cioè quello di “astrarre”, per così dire, le parti che scelgono di ricorrere al diritto collaborativo dal contesto non solo giurisdizionale, ma anche processuale e procedimentale, in nome della valorizzazione della capacità e disponibilità delle parti e, soprattutto, dei difensori a collaborare per raggiungere una soluzione concordata[34]. Essa segna, in ogni caso, la distanza rispetto al diritto collaborativo (alla negoziazione assistita domestica), caratterizzata, come noto, dalla previsione di un iter legislativo, con relative ipotesi patologiche e di sanatoria, sulla falsariga, piuttosto, del modello d’oltralpe.
Il riferimento è quella convenzione, letteralmente, accessibile a “toute personne”[35], “conclue pour une durée déterminée”, attraverso la quale “les parties à un différend s’engagent à œuvrer conjointement et de bonne foi à la résolution amiable de leur différend ou à la mise en état de leur litige”[36], in forza della quale le parti di una controversia, che non è ancora stata portata davanti ad un giudice o ad un arbitro, si impegnano a lavorare congiuntamente ed in buona fede per la risoluzione amichevole della controversia. Anche in questo caso il ruolo collaborativo degli avvocati è significativamente valorizzato, ma non al punto da incentrare del tutto sulle loro abilità conciliative l’andamento della procedura.
Sulla falsariga dell’esperienza d’oltralpe, anche a livello domestico il fulcro dell’istituto è dunque rappresentato dalla disponibilità delle parti a collaborare “in buona fede e con lealtà per risolvere in via amichevole la controversia tramite l’assistenza di avvocati iscritti all’albo” (art. 2, co. 1). Tale circostanza, d’altro canto, non contrasta con la previsione di ipotesi nelle quali tale “spontanea” collaborazione è imposta ex lege quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale[37], a seconda della materia oggetto della controversia[38] – ferma restando, anche alla luce delle modifiche introdotte dalla c.d. riforma Cartabia[39], la natura disponibile del diritto in contestazione – se si considera, peraltro, che anche in Francia “tant qu’elle est en cours, la convention de procédure participative conclue avant la saisine d’un juge rend irrecevable tout recours au juge pour qu’il statue sur le litige”. Ciò tenuto comunque conto del fatto che “en cas d’urgence, la convention ne fait pas obstacle à ce que des mesures provisoires ou conservatoires soient demandées par les parties”[40].
4.Trascrizione della domanda giudiziale e tutela cautelare nella negoziazione assistita obbligatoria.
Se la questione relativa all’ambito di applicazione dell’istituto inerisce soprattutto all’efficacia e alla validità della procedura, sono altri i profili che vengono invece in rilievo ora che ci si approcci allo studio della relazione tra effettività e negoziazione assistita. Questi sembrano, dal canto loro, potere essere ricondotti al parametro dell’effettività della tutela intesa in una duplice accezione, cioè sotto il profilo temporale, da un lato, e qualitativo, dall’altro.
Per quanto riguarda l’effettività della tutela nella sua dimensione “cronologica”, vengono a tale proposito in rilievo soprattutto le disposizioni che regolano la negoziazione assistia quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale.
Appare significativa la disposizione, di cui all’art. 3, comma 4 del d.l. n. 132/2014, in forza della quale l’esperimento del procedimento di negoziazione assistita, quando posto a pena di improcedibilità della domanda giudiziale, comunque “non preclude la concessione di provvedimenti urgenti e cautelari, né la trascrizione della domanda giudiziale”.
La previsione appare rilevante, dal momento che risulta orientata al fine di controbilanciare l’imposizione, dovuta chiaramente a ragioni deflattive del contenzioso, del ricorso preventivo alla soluzione negoziale con la possibilità di godere comunque dei presidi, tra gli altri, messi a disposizione dall’ordinamento al fine di arginare il pericolo che durante il tempo necessario ad avviare o a condurre la procedura di negoziazione – che per definizione postula e si compone anche del rimando a criteri di condotta metagiuridici, quale conseguenza del necessario coinvolgimento, anche emotivo, delle parti in causa – possa essere pregiudicato il diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva, laddove risulti poi necessario proporre domanda giudiziale.
Si inserisce dunque in questa ottica la possibilità, sotto un primo profilo, di trascrivere la domanda giudiziale anche in pendenza della condizione di procedibilità, essendo tale adempimento finalizzato a fare sì che il richiedente tutela possa comunque godere dell’effetto interruttivo della prescrizione e impeditivo della decadenza tipico della trascrizione della domanda rivolta all’autorità giudiziaria[41]. Tale adempimento appare funzionale soprattutto alla garanzia dell’effettività della tutela nella sua estrinsecazione dell’esercizio del diritto di azione ex art. 24 Cost. e 6 CEDU, più volte richiamati. D’altro canto, la possibilità di ricorrere comunque alla tutela cautelare – che, come l’altra, è consentita dal legislatore non solo nella negoziazione assistita, ma anche nella mediazione – mira a presidiare il diritto oggetto della controversia non solo durante il tempo occorrente ad ottenerne (rectius: individuare) tutela in via conciliativa e stragiudiziale, ma anche in sede giurisdizionale, come è tipico, sostanzialmente, della tutela cautelare.
Nel contesto specifico della condizione di procedibilità meritano di valorizzate, in quanto contribuiscono a delineare il quadro orientato verso la previsione di soluzioni idonee a controbilanciare l’esigenza (pubblicistica, soprattutto) di efficientamento della tutela con la garanzia di una tutela di merito effettiva, quelle disposizioni che, in buona sostanza, hanno l’effetto di “ridimensionare” la portata della condizione di procedibilità, per meglio dire la sua incidenza sul diritto di azione. Il riferimento è a quella previsione, di cui all’art. 3, comma 2, del d.l. n. 132/2014, che richiama l’analoga disposizione prevista in materia di mediazione, che consente al richiedente tutela di proporre comunque domanda giudiziale anche in caso di mancato accordo, o se l’invito alla stipulazione della convenzione di negoziazione non è seguito da adesione o è seguito da rifiuto entro trenta giorni dalla sua ricezione[42] ovvero quando è decorso il periodo di tempo massimo di durata della procedura[43].
La previsione mira chiaramente al “ripristino” dell’esercizio del diritto di azione nella forma della proposizione della domanda giudiziale, così come le previsioni che sanciscono conseguenze potenzialmente negative ai danni della parte invitata ad aderire alla convenzione di negoziazione mirano (artt. 96 e 642 c.p.c.), dal canto loro, ad un parziale recupero dell’efficienza giudiziale (nella forma specifica della speditezza del processo), ostacolata a causa del rifiuto della parte di aderire alla convenzione.
Quanto detto impone di rilevare come la condotta delle parti[44] nel corso della negoziazione sia inizio e fine della procedura, ma nell’ottica del principio di effettività della tutela essa assume una posizione, per così dire, isolata: il rifiuto della parte di aderire alla convenzione di negoziazione assistita non può tradursi in un pregiudizio ai danni della parte interessata ad ottenere tutela delle proprie ragioni, in quanto ciò equivarrebbe al riconoscimento alla controparte, in via del tutto irragionevole, del potere di incidere sulle concrete modalità di esercizio di un diritto, come quello di azione, costituzionalmente garantito. Tale diritto, nel bilanciamento con l’interesse dell’ordinamento ad una tutela efficiente non può comunque mai risultare soccombente. La riflessione rimanda, peraltro, al ruolo svolto dagli avvocati e spesso sarebbe richiesto ai difensori delle parti di svolgere un ruolo concreto e proattivo a tal fine, quali operatori specializzati del diritto sui quali in primis poggia l’efficienza e l’efficacia di un istituto come la negoziazione (assistita).
5.Durata massima dell’invito a stipulare la convenzione e del tentativo di negoziazione.
S’inserisce nella medesima direzione rispetto a quanto da ultimo osservato a proposito della contemperata incidenza della condotta stragiudiziale della parte invitata in mediazione rispetto al diritto e potere dell’istante di proporre domanda giudiziale anche la previsione di limiti massimi di durata sia all’efficacia dell’invito ad aderire alla convenzione di negoziazione assistita, sia alla durata della procedura stessa.
Tale aspetto rileva non solo nella negoziazione assistita obbligatoria, ma, più in generale, anche nelle ipotesi in cui la strada stragiudiziale sia stata intrapresa – avendo la controversia ad oggetto diritti disponibili oppure a fronte delle controversie giuslavoristiche nei limiti ex art. 2-ter c.p.c. – volontariamente ad opera dell’istante. Sarebbe, del resto, controproducente, oltre che del tutto ragionevole, che colui il quale assuma una iniziativa benefica anche per il sistema della giustizia rimanga vittima della sua stessa scelta.
In tale prospettiva appare rilevante la fissazione del limite massimo di efficacia dell’invito a sottoscrivere la convenzione, che, secondo quanto stabilito dall’art. 4 del d.l. n. 132/2014, non è, di regola, superiore ai trenta giorni. Tale previsione viene d’altro canto contemperata con il diritto della controparte di essere resa edotta delle conseguenze pregiudizievoli che potrebbero scaturire dalla sua condotta, ragione per la quale l’invito deve comunque contenere, come noto, l’avvertimento che la mancata risposta entro trenta giorni dalla ricezione o il suo rifiuto può essere valutato dal giudice ai fini delle spese del giudizio e di quanto previsto dagli articoli 96, primo, secondo e terzo comma, e 642, primo comma, c.p.c.[45].
La previsione di un termine massimo di efficacia dell’invito assolve chiaramente ad una funzione di certezza del diritto e, dunque, di effettività della tutela nella forma della certezza ed è allo stesso fine che appare orientata soprattutto la previsione (che contribuisce a delineare il contenuto minimo della convenzione) di un termine massimo di durata della procedura di negoziazione assistita (art. 2, comma 2, lett. a)[46], nell’interesse, in questo caso, non solo del richiedente tutela, soprattutto nelle ipotesi di negoziazione obbligatoria, ma anche della parte invitata alla stipulazione della convenzione di negoziazione: se per un verso questa va incontro a conseguenze potenzialmente pregiudizievoli in caso di mancata adesione, dall’altro essa non può essere vincolata sine die al raggiungimento di una soluzione condivisa della controversia.
Nella medesima direzione dell’effettività della tutela nella sua accezione soprattutto “temporale” merita, poi, di essere richiamata anche la previsione (art. 8) finalizzata ad evitare che nelle more del procedimento (nelle more dell’accettazione dell’invito o nel corso della procedura stessa) maturi la prescrizione del diritto in contestazione o la decadenza dall’esercizio dell’azione, che determinerebbe la definitiva preclusione di ogni possibilità di tutela giurisdizionale a discapito del richiedente tutela. In tale prospettiva appare invero pregevole la previsione in forza della quale, dal momento della comunicazione dell’invito – rectius: dalla sua ricezione da parte del destinatario, ex art. 2943 comma 1 c.c.[47] – “si producono sulla prescrizione gli effetti della domanda giudiziale” e, quanto alla decadenza — al fine di evitare facili strumentalizzazioni — essa “è impedita, per una sola volta”[48].
6.L’effettività come qualità della tutela giurisdizionale a seguito del fallimento della negoziazione assistita.
Si è in premessa accennato ad un profilo dell’effettività della tutela nella sua accezione qualitativa. Con ciò s’intende fare riferimento alle soluzioni che fondano la definizione o decisione della causa nel merito e che spostano dunque l’esame dell’attuazione del parametro dell’effettività della tutela su di un versante ulteriore rispetto a quello inerente alla sua connotazione in termini, per così dire, “cronologici”.
Questa deve, a sua volta, essere differenziata, a seconda che si tratti della fase stragiudiziale o di quella autenticamente processuale.
Nel primo caso vengono in considerazione, accanto alla condotta delle parti e, dunque, alla loro effettiva disponibilità a condurre la trattativa e alla capacità degli avvocati[49] di assisterle nel percorso volto all’individuazione della soluzione più adeguata (per entrambe le parti), anche quelle previsioni, da ultimo introdotte dalla c.d. riforma Cartabia, che, dal punto di vista delle concrete modalità di accesso alla tutela, istituiscono ora il patrocinio a spese dello Stato anche per l’assistenza dell’avvocato nel procedimento di negoziazione assistita obbligatoria (se è raggiunto l’accordo)[50] e che, quanto alla sua concreta articolazione, arricchiscono la procedura stragiudiziale di elementi non più extragiuridici, ma di dati e fatti intrinsecamente giuridici.
In proposito sovvengono alla mente soprattutto quelle disposizioni che prevedono la possibilità per i difensori di svolgere un’istruttoria stragiudiziale[51], finalizzata a dare ingresso nella procedura di negoziazione a dati di realtà che non potranno che ripercuotersi sulla soluzione conciliativa finale. Il d.l. n. 132/2014 consente, infatti, agli avvocati che assistono le parti nella procedura di negoziazione di acquisire dichiarazioni di terzi su fatti specificamente individuati e rilevanti in relazione all’oggetto della controversia (art. 4-bis), di cui si terrà traccia in apposito verbale, ovvero dichiarazioni confessorie della controparte (art. 4-ter), in quest’ultimo caso anche quando la procedura sia svolta con modalità telematiche o mediante collegamenti audiovisivi a distanza (art. 2-bis).
Sotto il profilo di una tutela effettiva dei diritti delle parti coinvolte nella procedura e soprattutto dell’effettività della tutela non può farsi a meno di rilevare come questa forma di istruttoria negoziale appaia suscettibile di arrecare possibili distorsioni, essendo interamente affidata alle capacità degli avvocati delle parti – in molti casi privi delle competenze necessarie al riguardo – e inevitabilmente altera quello che dovrebbe essere un clima sereno e di reciproca disponibilità a collaborare senza ostilità, oltre al fatto che potrebbe anche rappresentare un disincentivo al ricorso alla negoziazione ex d.lgs. n. 132/2014.
Quanto detto vale soprattutto se si considerano, per un verso, le conseguenze in caso di indisponibilità della parte a collaborare, essendo infatti stabilito – come accade anche per la mediazione in Italia e in altri Paesi europei[52] – che il rifiuto ingiustificato di rendere dichiarazioni sui fatti di cui al comma 1 è valutato dal giudice ai fini delle spese del giudizio, anche ai sensi dell’articolo 96, commi primo, secondo e terzo, del codice di procedura civile: una conseguenza che, in buona sostanza, ha quasi l’effetto di equiparare la renitenza a rendere le dichiarazioni con il rifiuto ingiustificato della parte di prendere parte alla procedura. Per un altro, appare significativo rilevare come alle dichiarazioni eventualmente rese dalla parte in sede di negoziazione assistita non potrebbe che doversi riconoscere, nell’eventuale successivo processo, l’efficacia (legale) tipica della confessione stragiudiziale resa alla controparte o al rappresentante, secondo quanto notoriamente stabilito dall’art. 2735, comma 1, c.c.
Tale scelta appare discontinua soprattutto rispetto alla soluzione favorita dal legislatore al fine di presidiare l’effettività della tutela giudiziale eventualmente conseguente al fallimento del tentativo di negoziazione, a prescindere dal fatto che questo fosse imposto come condizione di procedibilità della domanda o meno.
Ci si riferisce, cioè, a quanto stabilito dall’art. 9 del d.l. n. 132/2014, più volte richiamato, in forza del quale “le dichiarazioni rese e le informazioni acquisite nel corso del procedimento non possono essere utilizzate nel giudizio avente in tutto o in parte il medesimo oggetto”: tale previsione fa da pendant, nel suo collegamento con il processo, all’obbligo degli avvocati e delle parti di comportarsi con lealtà e di tenere riservate le informazioni ricevute (art. 9, comma 2), in uno con il diritto dei difensori delle parti e di coloro che partecipano al procedimento di non essere tenuti a deporre sul contenuto delle dichiarazioni rese e delle informazioni acquisite (art. 9, comma 3).
La natura “eccezionale” e, come tale, derogatoria delle conseguenze processuali dell’istruttoria stragiudiziale demandata al difensore in sede di negoziazione assistita rispetto all’obbligo di riservatezza posto a suo carico sembra peraltro potersi ora desumere chiaramente dal nuovo art. 62-bis del Codice deontologico forense all’art. 62-bis.
La nuova disposizione, espressamente intitolata alla “negoziazione assistita”, ribadisce invero – in linea con la previsione sopra richiamata e inserita all’art. 9 del d.l. n. 132/2014 – l’obbligo del difensore di comportarsi con lealtà nei confronti delle parti, dei loro difensori e dei terzi nel corso del procedimento e dell’attività di istruzione stragiudiziale, nonché l’obbligo di mantenere riservate le informazioni ricevute, che non possono essere utilizzate né riferite nel giudizio avente in tutto o in parte il medesimo oggetto, “ad eccezione delle dichiarazioni acquisite nell’attività di istruzione stragiudiziale”. Queste devono peraltro essere acquisite dal difensore nel corso della procedura da terzi e dalle persone informate sui fatti evitando “forzature o suggestioni dirette a conseguire deposizioni compiacenti” (art. 62-bis, comma 3).
Sembra dunque che, da un lato, il legislatore abbia inteso conferire veste formale all’obbligo del difensore di comportarsi con lealtà e riservatezza nel corso della negoziazione assistita, sia nei confronti del cliente, che delle altre parti e dei rispettivi difensori, conferendo chiaro rilievo al contegno assunto dal professionista anche e soprattutto dal punto di vista deontologico: in buona sostanza, la previsione di una disposizione dedicata alla negoziazione assistita nel Codice deontologico forense segna una specifica declinazione della condotta di regola richiesta al professionista nel caso di specie, che deve essere adeguata al concreto articolarsi dell’istituto. In questo senso, il contegno del professionista appare regolamentato in ogni sua sfumatura, essendovi chiari riferimenti anche al comportamento che questi deve assumere anche e soprattutto al momento dell’acquisizione di dichiarazioni su fatti rilevanti ai fini della procedura, pena, in caso contrario, l’applicazione della sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio della censura. Tuttavia, dall’altro, si direbbe che il tenore dell’art. 62-bis non voglia “vanificare” lo sforzo istruttorio compiuto dallo stesso difensore per il caso in cui non dovesse essere raggiunta una soluzione bonaria della controversia, consentendo dunque la conservazione della valenza probatoria delle informazioni acquisite anche nel successivo procedimento dinanzi all’autorità giudiziaria, in deroga all’obbligo di riservatezza altrimenti gravante sul difensore, la violazione del quale comporterebbe altrimenti l’applicazione della sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio della professione forense da due a sei mesi (art. 62-bis, comma 4).
La novella del Codice deontologico non consente comunque di sottoporre a revisione quanto sopra osservato in merito alla possibilità di distorsioni sul piano dell’effettività della tutela, soprattutto processuale: innanzitutto, quanto alle dichiarazioni confessorie di parte, restano comunque ferme le conseguenze processuali negative potenzialmente scaturenti a carico della stessa, anche alla luce del nuovo art. 62-bis; quanto alle dichiarazioni raccolte presso terzi, in verità, è il caso di notare come la previsione da ultimo richiamata di fatto non faccia che riprodurre la previsione già esistente all’art. 9 del d.l. n. 132/2014 quanto all’obbligo di riservatezza del difensore[53], avendo cura di specificare l’eccezione della utilizzabilità delle dichiarazioni raccolte in sede stragiudiziale. Sotto tale profilo essa si lascia certamente apprezzare per lo sforzo di coordinamento tra l’aspetto deontologico e quello procedimentale-probatorio; tuttavia, sul piano dell’effettività della tutela in stragiudiziale il richiamo al divieto di “intrattenersi con i terzi chiamati a rendere le dichiarazioni nell’ambito del procedimento o con le persone informate sui fatti con forzature o suggestioni dirette a conseguire deposizioni compiacenti” (art. 62-bis) non fa che specificare un divieto che, comunque, avrebbe dovuto desumersi dal complesso degli obblighi deontologici gravanti su chi esercita la professione forense, a prescindere dall’esistenza di una specifica disposizione in materia.
Il coordinamento operato in questo senso dal legislatore offre la riprova della delicatezza del compito affidato al difensore, che, quanto all’istruttoria stragiudiziale, non coinvolge soltanto le parti, ma anche terzi, e, come tale, ha chiari riflessi anche sulla tutela di merito conseguibile in sede giudiziale, esponendo, così, il difensore stesso a possibili conseguenze sanzionatorie.
7.Spunti di diritto comparato per l’effettività della tutela.
Fatte salve le considerazioni che precedono, sembra il caso di muovere qualche riflessione sulla possibilità di una revisione in senso più favorevole all’effettività della tutela conseguibile nelle ADR, segnatamente, in relazione all’istituto della negoziazione assistita. In proposito si deve constatare come, sebbene il principio di effettività della tutela venga in rilievo, come detto, sia nella sua dimensione stragiudiziale, sia in quella processuale conseguente al fallimento della negoziazione, sia indubbiamente sulla prima che occorre concentrare l’attenzione.
Per meglio dire: effettività della tutela non equivale necessariamente – non è inutile sottolinearlo – esito positivo del tentativo di conciliazione. Appare del tutto ragionevole che una procedura, anche condotta all’insegna del garantismo e della tutela effettiva degli interessi e dei diritti di tutte le parti coinvolte, possa, nondimeno, non giungere al risultato sperato. Tuttavia, resta il fatto che una migliore gestione della procedura stragiudiziale, attenta, sul piano procedimentale, ad assicurare l’effettiva realizzazione del diritto di azione e difesa, costituzionalmente garantito (art. 24 Cost.), potrebbe condurre con più facilità a risultati soddisfacenti senza che sia necessario ricorrere alla sede giudiziale, potendo con ciò sortire effetti benefici anche sul piano della conservazione dell’effettività della tutela anche in sede processuale.
In altre parole, una maggiore effettività della tutela stragiudiziale è in grado di sortire risultati virtuosi anche sul piano dell’effettività processuale. E, a tal fine, è proprio a coloro sui quali poggia lo svolgimento della procedura che occorre prestare attenzione, vale a dire, come emerso, non solo alle parti, ma soprattutto agli avvocati.
In proposito, per quanto specificamente concerne le problematiche sopra evidenziate in merito ad una possibile “contaminazione” tra l’attività svolta in sede negoziale e quella processuale – che non ha altro “tramite”, se non il difensore che assista la parte sia in un caso, sia nell’altro – un valido espediente potrebbe certamente essere rappresentato dalla previsione di un divieto per il difensore (non come attualmente previsto di impugnare un accordo alla cui redazione abbia partecipato, ma, prima ancora)[54] di astenersi dal prestare assistenza alla parte nell’eventuale successivo giudizio.
È questo del resto quanto accade anche in altri Paesi europei e, segnatamente, in Belgio:
quello belga rappresenta, in generale, il sistema nell’ambito del quale il diritto collaborativo riceve la più efficace regolamentazione e dove particolare attenzione è dedicata soprattutto alla formazione degli avvocati impegnati nelle ADR. In particolare, nell’ambito della procedura collaborativa belga[55] – definita dalla legge come “un processus volontaire et confidentiel de règlement des conflits par la négociation impliquant des parties en conflit et leurs avocats respectifs, lesquels agissent dans le cadre d’un mandat exclusif et restreint d’assistance et de conseil en vue d’aboutir à un accord amiable”[56], simile, ma non del tutto sovrapponibile alla negoziazione assistita italiana, con la quale comunque condivide l’origine dal diritto collaborativo nordamericano – è fatto divieto agli avvocati delle parti che gestiscono la procedura di astenersi dal rappresentare le stesse parti nel successivo giudizio conseguente al fallimento del tentativo negoziale[57]. Si tratta di una previsione che evidentemente va oltre anche rispetto all’obbligo di riservatezza che l’ordinamento italiano pone in capo al difensore in simili casi e che mira ad impedire il possibile uso distorsivo, ai danni della controparte, da parte del difensore, delle informazioni raccolte nel corso della procedura. Quel che è singolare è come in questo caso il difensore si faccia veicolo per la tutela in sede giudiziale non della parte precedentemente assistita, ma anche dell’altra[58], a beneficio del processo complessivamente inteso e nel rispetto di valori di stampo soprattutto pubblicistico[59].
Più in generale, la migliore definizione del ruolo degli avvocati e dei confini entro i quali può svolgersi la loro attività nel corso della negoziazione appare il profilo principale sul quale intervenire nell’ottica dell’effettività (ma anche dell’efficienza) della procedura.
Viene in mente a questo proposito l’idea di operare una selezione dei professionisti “abilitati” a condurre le procedure di negoziazione assistita, attraverso la previsione di appositi albi, similmente a quanto accade per la mediazione: i professionisti potrebbero essere individuati all’esito dello svolgimento di un percorso di formazione specificamente orientato verso l’acquisizione di abilità negoziali da applicare nel corso della procedura; abilità, s’intende, finalizzate non solo alla individuazione di una soluzione comune, ma orientate anche alla protezione degli interessi delle parti coinvolte. Allo stato, in Italia, manca cioè l’integrazione delle competenze giuridiche, che l’avvocato naturalmente possiede, con autentiche competenze umano-relazionali, riflesso di un più generale approccio domestico che in generale (nemmeno per la mediazione) esige il possesso da parte dei soggetti a ciò deputati di competenze specifiche in tema di pratiche negoziali.
Positive esperienze rispetto alla possibilità di “imporre” agli avvocati intenzionati a svolgere la loro attività anche in sede di negoziazione assistita provengono ancora dall’ordinamento belga, dove il Code judiciaire[60], che regolamenta l’istituto (ad instar di quanto accade in Francia) subordina lo svolgimento della pratica collaborativa al completamento di un percorso di formazione accreditato presso l’ordine di appartenenza, che consenta ai difensori l’acquisizione di abilità negoziali specifiche per lo svolgimento della procedura, cui consegue la possibilità di essere iscritti in appositi albi.
Un altro esempio[61] è pure offerto dallo stesso ordinamento francese, dove, sebbene, a differenza di quanto accade nell’altro, il dovere del difensore di svolgere corsi di formazione specificamente orientati all’acquisizione di competenze collaborative non sia espressamente codificato, cionondimeno è fortemente incoraggiato lo svolgimento da parte dei professionisti di una formazione utile ai fini della negoziazione. All’introduzione della procédure participative, oltre un decennio orsono, ha fatto seguito, infatti, l’impegno proattivo da parte del ceto forense nel responsabilizzare gli avvocati “collaborativi” – impegnati non solo nella negoziazione assistita, ma anche nella mediazione – a svolgere il loro ruolo nel contesto delle ADR in maniera leale e responsabile[62].
L’iniziativa assunta a livello francese rimanda più ampiamente alla possibilità di prevedere linee guida che gli avvocati, a corredo di un percorso formativo sulle tecniche negoziali, che appare comunque imprescindibile, potrebbero essere chiamati ad osservare.
È questa, del resto, la soluzione più radicata del diritto collaborativo, coniata nel sistema statunitense, dove, come si è detto, sebbene non sia formalmente positivizzato dal legislatore, ma sia radicato soprattutto sulla prassi, tuttavia, anzitutto, il diritto collaborativo è stato “riportato a sistema” attraverso le previsione di una serie di linee guida grazie alla Uniform Collaborative Law Rules and Act: questo, adottato nel 2010, qualifica il diritto collaborativo come uno strumento di risoluzione alternativa basato sulla volontarietà e su un accordo contrattuale tra le parti, le quali si impegnano a risolvere la controversia attraverso una negoziazione, anziché ricorrere alla decisione di un giudice o di un arbitro ed offre a livello confederale un modello di riferimento ai quali i singoli Stati possono ispirarsi per la disciplina della pratica collaborativa al loro interno. Ma soprattutto, per quanto specificamente concerne il ruolo demandato ai professionisti, a livello confederale è soprattutto la International Academy of Collaborative Professionals ad offrire agli Stati linee guida per garantire la formazione degli avvocati collaborativi, coniugando le competenze tecniche e giuridiche con autentiche abilità e conoscenze negoziali e relazionali, nel rispetto delle origini del diritto collaborativo, ma che soprattutto pongono in primo piano l’importanza del rispetto dei canoni deontologici di lealtà e riservatezza da parte del difensore.
A livello europeo anche in Belgio la International Academy of Collaborative Professionals ha delineato una serie di criteri guida, poi recepiti a livello positivo[63], che coniugano competenze negoziali etiche e psicologiche con le conoscenze tecniche necessarie per lo svolgimento della procedura.
Un ulteriore aspetto della riflessione poggia, poi, sulla possibilità di aprire il percorso negoziale anche al coinvolgimento di altri professionisti, in possesso delle cognizioni specialistiche richieste per il raggiungimento dell’accordo a seconda del caso – un consulente tecnico stragiudiziale, in sostanza. Una tale soluzione potrebbe sortire effetti benefici sui tempi dell’istruttoria giudiziale e consentirebbe, inoltre, alle parti e, soprattutto, agli avvocati di acquisire maggiore consapevolezza in merito alla meritevolezza e, dunque, alla fondatezza delle pretese, disincentivando (a fronte di risultanze peritali sfavorevoli) la proposizione di domande giudiziali potenzialmente infondate, con vantaggi, evidentemente, anche in termini di costi del processo, soprattutto per la parte interessata a richiedere tutela.
D’altro canto, non è inutile sottolineare che l’istituto della negoziazione assistita è utilizzabile anche per la risoluzione di controversie inerenti a materie estremamente delicate come non solo quelle in materia di famiglia, ma ora anche quelle giuslavoristiche. Rispetto a queste ultime, infatti, è lo stesso d.l. n. 132/2014, all’art. 2-ter a prevedere la possibilità per la parte di farsi assistere, oltre che, inderogabilmente, da almeno un avvocato, anche da un consulente del lavoro.
Positivi riscontri a proposito al possibile coinvolgimento nella procedura di soggetti terzi in possesso di specifiche competenze provengono, tra i Paesi europei, dalla Francia, in particolare, che, nel contesto della regolamentazione della procédure participative, prevede la possibilità per le parti di procedere alla nomina di un perito, il quale si impegna a svolgere il proprio incarico con coscienza, diligenza e imparzialità, cui affidare lo svolgimento dei rilievi e degli accertamenti che si rendano necessari a seconda del caso di specie[64]. Una possibilità, questa, che non è espressamente prevista per la negoziazione assistita domestica, ma rispetto alla quale le disposizioni che attualmente regolano non sembrano ostare.
In effetti, considerando che è consentita – senza ulteriori forme di controllo, oltre alla presenza del difensore – la partecipazione di terzi chiamati a fornire informazioni sui fatti rilevanti di cui siano a conoscenza, ai quali è richiesto unicamente di mantenere riservate le domande ricevute e le risposte fornite[65], non vi sarebbero motivi per escludere la possibilità di coinvolgere anche professionisti esterni nella procedura. Tale coinvolgimento potrebbe avvenire previo formale impegno a collaborare con imparzialità e lealtà, nel rispetto di un obbligo di riservatezza a loro carico, e – se del caso – subordinatamente all’iscrizione in appositi albi, analogamente a quanto previsto per i consulenti tecnici d’ufficio in ambito giudiziario.
In analoga direzione, anche il sistema statunitense di common law con la earlyneutral evaluation, che interviene nelle fasi iniziali del processo – e che si inserisce nel contesto della suddivisione del processo civile tra una fase “preliminare” (c.d. pre-trial) ed una autenticamente contenziosa – affida al giudice la nomina di un esperto con competenze specifiche nella materia oggetto della controversia. Compito dell’esperto è quello di ascoltare le parti e favorire una composizione bonaria della lite, fornendo un primo parere sull’eventuale esito del giudizio, con l’intento di disincentivare il contenzioso giudiziario[66].
La previsione di una forma stragiudiziale di consulenza tecnica preventiva finalizzata alla conciliazione della lite, sul modello coniato per il processo dall’art. 696-bis c.p.c.[67], potrebbe sortire effetti benefici sotto il profilo della tutela conseguibile sia nelle more della procedura stragiudiziale, sia, in caso di fallimento, in sede giudiziale, a condizione che questa sia svolta nel rispetto delle necessarie garanzie in termini di terzietà e imparzialità del consulente e comunque nei limiti delle allegazioni di parte.
In una più ampia prospettiva, la riflessione intorno alla possibilità di svolgere una vera e propria consulenza tecnica nel corso della negoziazione assistita, della quale fare salve le risultanze in caso di mancato raggiungimento dell’accordo, rimanda alla possibilità di rafforzare le forme dell’istruttoria stragiudiziale già prevista rispetto all’istituto, che, come si è detto, è interamente demandata alla capacità degli avvocati di acquisire, senza suggestioni e condizionamenti[68], informazioni da parte di terzi a conoscenza dei fatti di causa.
Se adeguatamente valorizzata attraverso l’introduzione di regole chiare che disciplinino l’acquisizione delle informazioni rilevanti in modo tale da garantirne l’utilizzabilità anche nel successivo giudizio, la negoziazione assistita potrebbe assumere il ruolo di vera e propria fase precontenziosa, sul modello analoga al pre-trial del sistema di common law – al netto delle differenze esistenti[69].
Tale evoluzione sarebbe favorita anche da una formazione più specifica degli avvocati nell’ambito dell’attività negoziale: in questo modo, anche qualora la negoziazione non conduca ad una soluzione bonaria della controversia, l’attività istruttoria già svolta potrebbe essere conservata per il successivo processo, con evidenti benefici in termini di contenimento dei costi, ottimizzazione delle risorse e riduzione degli adempimenti processuali successivi.
Sarebbe questo un primo passo per rendere i metodi di composizione delle controversie negoziali, concepiti come alternativi, piuttosto come complementari rispetto al processo di cognizione statale[70].
8.Osservazioni finali.
Tenuto conto di quanto sin qui osservato, sembra ora il caso di “riportare a sistema” le considerazioni sopra svolte, muovendo anche qualche riflessione di natura conclusiva.
Si è invero esaminata l’intersezione tra il principio di effettività della tutela, che da tempo immane è principio informatore della giurisdizione, e le ADR, con particolare riferimento all’istituto della negoziazione assistita. A tale principio si aggiungono, per ricordarne alcuni, quello della imparzialità e terzietà dell’organo giudicante – avendo riguardo alla giurisdizione nella sua connotazione soggettiva – nonché quello di efficienza e di economia processuale, quest’ultimo soprattutto sotto il profilo della giurisdizione nella sua accessione più “pubblicistica”. Taluni di questi principi vengono in rilievo anche rispetto a strumenti “alternativi” all’esercizio della giurisdizione: basti pensare al principio di imparzialità e terzietà del terzo per quanto riguarda la mediazione (soprattutto quando questa assuma connotazione c.d. aggiudicativa).
Ma rispetto ad un istituto come la negoziazione assistita il principio che certamente contribuisce a determinare, per così dire, il margine di apprezzamento dell’istituto, se calato o rapportato ai principi in tema di esercizio della funzione giudicante, è certamente quello dell’effettività. E a questo proposito la disamina della connotazione dell’istituto pare consenta di pervenire ad una conclusione in forza del quale il dialogo tra l’istituto in esame e il principio di effettività della tutela sia da ritenersi apprezzabile, quantomeno ora che si pensi all’effettività intesa come processuale.
La precisazione muove dal fatto che di “effettività della tutela” rispetto alla negoziazione assistita e agli ADR in generale non può che doversi discorrere in una duplice direzione, cioè sia con riferimento alla tutela che ha luogo nel corso della procedura stragiudiziale, sia con riferimento a quella (eventualmente) incardinata dinanzi all’autorità giudiziaria in caso di fallimento del tentativo di conciliazione. Entrambe poggiano sulla concreta articolazione della procedura di ADR (cioè sulle regole che disciplinano le modalità di accesso e, soprattutto, di gestione della procedura, attraverso le quali le parti giungono alla soluzione finale), ma nel secondo caso a ciò si aggiunge – e in questo senso assume significativo rilievo – la capacità della soluzione stragiudiziale di “dialogare” con la strada processuale, per meglio dire la sua attitudine a non alterare la tutela conseguibile e da conseguire nel corso del processo civile.
Orbene, rispetto alla tutela nel contesto specifico della procedura di negoziazione assistita, dunque all’effettività nella sua dimensione stragiudiziale, sembra doversi rilevare come la realizzazione di tale parametro – al netto della regolamentazione prevista ex lege – molto dipenda anche dal comportamento delle parti e dei rispettivi difensori. In proposito, utili spunti per una maggiore effettività della procedura provengono dagli esiti di un approccio comparato: che impone di constatare come l’Italia non si distingua per la selezione e formazione degli avvocati impegnati nella negoziazione assistita, mancando un percorso di formazione propedeutico allo svolgimento di tale attività come accade, invece, a livello europeo, soprattutto in Belgio (e anche negli USA quanto alla Common law). Richiamando quanto sopra osservato, utili strumenti, ai fini della valorizzazione dell’istituto potrebbero pertanto essere rappresentanti dal rafforzamento delle abilità negoziali degli avvocati, grazie alla previsione di corsi di formazione e, quindi, alla creazione di una sorta di albo degli avvocati negoziatori, oltre alla valorizzazione – all’insegna del garantismo e della conservazione dell’attività ivi espletata – dell’istruttoria stragiudiziale[71].
Quanto all’effettività nella sua accezione processuale non sembra vi sia motivo di dubitare di una possibile deminutio conseguente al fallimento della negoziazione, né tantomeno, all’obbligo eventualmente esistente di tentare la conciliazione quale condizione di procedibilità della domanda. Sotto tale profilo si lasciano invero apprezzare i “presidi” concepiti dal legislatore, i quali sono stati sopra ricordati, come la possibilità di trascrivere domanda giudiziale e di accedere alla concessione dei provvedimenti cautelari anche nelle more della negoziazione assistita obbligatoria e, per altro verso, l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese e informazioni acquisite.
Rilievi, questi, che inducono a ritenere che se, in via di prima approssimazione, gli ADR – e con essi la negoziazione assistita – siano stati concepiti soprattutto con il fine dell’accelerazione della tutela giurisdizionale e, in senso più ampio, della deflazione del contenzioso giurisdizionale, d’altro canto da ciò non è dipeso un indebolimento della tutela giurisdizionale ivi conseguibile, in quanto le soluzioni a tal uopo pensate dal legislatore appaiono idonee a presidiare il canone dell’effettività della tutela sia, come sottolineato, sotto il profilo “temporale”, sia nella sua accezione qualitativa.
[1] Per un inquadramento di carattere complessivo dell’istituto della mediazione quale risultante in seguito alle modifiche introdotte dall’ultima riforma del processo civile (d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 ss.mm.ii.) cfr. R. Metafora, La mediazione, in R. Giordano, A. Panzarola, La riforma del processo civile, Milano, 2024, passim; M.F. Ghirga, La cultura della mediazione, in Riv. dir. proc., 2024, pp. 45 ss.; E. Gabellini, Il procedimento di mediazione riformato: tra incertezze giurisprudenziali e novità introdotte dal d.m. 24 ottobre 2023, n. 150, in Judicium, 2024, pp. 3 ss.; G. Finocchiaro, Nell’attesa della mediazione civile il “Correttivo” si misura con i giudici (D.lgs. 31 ottobre 2024 n. 164), in Guida al dir., 2024, XLVII, pp. 30 ss.; G.P. Califano, L’ennesima riforma del sistema di mediazione delle controversie civili e commerciali, in Dir. proc. civ. it. comp., 2023, pp. 102 ss. Sulla negoziazione assistita, salvi gli ulteriori riferimenti offerti nel corso della trattazione, v., per tutti, C. Asprella, La negoziazione assistita, in R. Giordano, A. Panzarola, La riforma del processo civile, Milano, 2024, passim; A. Alfieri, Cristina Asprella, “La negoziazione assistita”, Milano, 2024, pp. XV-402, in Giusto proc. civ., 2024, III, pp. 933 ss.; E. Dalmotto, La negoziazione assistita nell’ultima riforma della giustizia civile, in Giur. it., 2023, III, pp. 736 ss.;A.J. Pagano, La (presunta) sopravvivenza della rinegoziazione emergenziale, in Giur. it., 2023, VII, pp. 1718 ss.; M. Giorgetti, La negoziazione assistita, Milano, 2015, passim.
[2]Alternative Dispute Resolution nel mondo anglosassone e Modes alternatifs de règlement des conflits nelle aree di influenza francese, meglio noti, rispettivamente, con gli acronimi “ADR” e “MARC”. Sui metodi alternativi di risoluzione delle controversie, per un inquadramento complessivo, si veda V. Vigoriti, Superabili ambiguità. Le proposte europee in tema di ADR ed ODR, R.F. 2011, 139; T.E. Frosini, Un diverso paradigma della giustizia: le “alternative dispute resolutions”, ivi, 2011, pp. 327 ss.; N. Trocker, Dalla tutela giurisdizionale differenziata dall’offerta di giustizia: obiettivi e limiti degli strumenti alternativi di comparizione delle liti, in Studi Acone, III, 2010, pp. 1731 ss.; L. P. Comoglio, La durata ragionevole del processo e le forme alternative di tutela, ivi, 2007, pp. 591 ss.; S. Sticchi Damiani, Sistemi alternativi alla giurisdizione (ADR) nel diritto dell’Unione Europea, Milano, 2004, passim; R. Caponi, La conciliazione stragiudiziale come metodo di ADR (“Alternative Dispute Resolution”), in Foro it., 2003, V, pp. 165 ss.; M. Taruffo, Adeguamento delle tecniche di composizione dei conflitti di interesse, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1999, pp. 779 ss.; G. Alpa, Riti alternativi e tecniche di risoluzione stragiudiziale delle controversie. Diritto civile, in M. Bessone (a cura), Mediazione degli interessi e controlli delle attività, Torino, 1997, pp. 291 ss.; F. Auletta, Le misure di “alternative dispute resolution” allo studio del Ministero di Grazia e Giustizia, in Contr. impr., 1997, pp. 1257 ss.; S. Chiarloni, Nuovi modelli processuali, in Riv. dir. civ., 1993, pp. 269 ss.; Id., La conciliazione stragiudiziale come mezzo alternativo di risoluzione delle dispute, in Riv. dir. proc., 1996, pp. 694 ss.; P. Schlosser, “Alternative dispute resolution” uno stimolo alla riforma per l’Europa?, in Riv. dir. proc., 1987, pp. 1005 ss.
[3] L’effetto benefico del ricorso a soluzioni alternative di risoluzione delle controversie anche sulla macchina della giustizia, più in generale, ha portato la Consulta in più di un’occasione a prendere posizione positivamente anche a favore delle condizioni di procedibilità della domanda, che presiedono a quella qualificazione della giurisdizione come “condizionata”, non solo perché in questi casi l’impossibilità di proporre la domanda giudiziale è temporanea, ma anche in quanto idonea a diminuire il carico dell’attività giurisdizionale e, quindi, a garantirne il migliore svolgimento. Cfr., ad es., Corte cost., 13 luglio 2000, n. 276.
[4] È chiaro il riferimento, rispettivamente, agli artt. 10 del d.lgs. n. 28/2010 per la mediazione e all’art. 9 del d.l. n. 132/2014, per la negoziazione assistita, che sanciscono il divieto di utilizzare le dichiarazioni rese e le informazioni acquisite nel corso del procedimento nel giudizio avente in tutto o in parte il medesimo oggetto. Resta tuttavia ferma, anche a seguito della c.d. riforma Cartabia, l’asimmetria delle due disposizioni in merito all’applicabilità dell’art. 200 c.p.p., dal momento che “al mediatore si applicano le disposizioni dell’articolo 200 del codice di procedura penale e si estendono le garanzie previste per il difensore dalle disposizioni dell’articolo 103 del codice di procedura penale in quanto applicabili”, mentre nel caso della negoziazione assistita la norma che regola il segreto professionale è applicabile a “tutti coloro che partecipano al procedimento”, cui anche “si estendono le garanzie previste per il difensore dalle disposizioni dell’articolo 103 del medesimo codice di procedura penale in quanto applicabili”. Sul dovere di riservatezza e sull’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese e informazioni acquisite nell’eventuale successivo giudizio avente il medesimo oggetto nell’ambito della negoziazione assistita si veda M. Ferraresi, L’incidenza della deontologia e dell’ordinamento forensi sulla transazione e la conciliazione in materia di lavoro, in Dir. rel. ind., 2016, pp. 1052 ss.; C. Irti, Gestione condivisa della crisi familiare: dalla mediazione familiare alla negoziazione assistita, in Dir. fam. pers., 2016, II, pp. 665 ss.; I. Zingales, sub art. 9, Obblighi dei difensori e tutela della riservatezza, in F. Santangeli (a cura di), La nuova riforma del processo civile. Degiurisdizionalizzazione, processo e ordinamento giudiziario nel D.L. 132/2014 convertito in l. 162/2014, Roma, 2015, pp. 119 ss.
[5] La disposizione riconosce invero a chiunque abbia subito una violazione di diritti garantiti dal diritto dell’Unione il diritto a un ricorso effettivo davanti a un giudice equo e imparziale entro tempi ragionevoli, con facoltà di difesa anche per chi non dispone di mezzi, concedendo assistenza legale gratuita quando necessario. Essa contribuisce, assieme agli artt. 6 e 13 della CEDU, a cristallizzare il principio comunitario della tutela giurisdizionale effettiva; come sottolineato dalla Corte di Giustizia Ue (cfr. Corte giust. UE, 14 giugno 2017, n. 457), tale principio non può dirsi automaticamente violato a fronte della mera sussistenza di forme di Adr obbligatorie: queste possono ritenersi compatibili con il principio in esame, qualora la procedura soddisfi congiuntamente tutte le seguenti condizioni: 1) non conduca ad una decisione vincolante per le parti; 2) non comporti un ritardo sostanziale per la proposizione di un ricorso giurisdizionale; 3) sospenda la prescrizione o la decadenza dei diritti in questione; 4) non generi costi, ovvero generi costi non ingenti (evidenziazione dello scrivente), per le parti, a patto però che la via elettronica non costituisca l’unica modalità di accesso a detta procedura di conciliazione e che sia possibile disporre di provvedimenti provvisori nei casi eccezionali in cui l’urgenza della situazione lo impone.
[6] Non si può fare a meno di ricordare come l’“effettività della tutela giurisdizionale” sia consacrata nell’art. 1 C.P.A.; per la precisione, “effettività” è la rubrica dell’articolo da cui prende avvio il testo del codice di procedura amministrativa. Diversamente, rispetto all’art. 1 c.p.c., che si limita a disporre quanto segue: «La giurisdizione civile, salvo speciali disposizioni di legge, è esercitata dai giudici ordinari secondo le norme del codice”. Come è stato ben evidenziato, si coglie in tale formulazione “un rinvio alla teorizzazione, formalista e positivista, della legge processuale intesa come (unica) fonte legittimante della “giusta” tutela giurisdizionale».
[7] Corte cost., 11 marzo 2015, n. 71, in linea con Corte cost., 26 gennaio 2009, n. 5.
[11] È assai risaputa in dottrina la bipartizione della mediazione della mediazione tra “aggiudicativa” e “facilitativa”, che si distingue a seconda del differente ruolo svolto dal terzo nell’una e nell’altra, in considerazione del fatto che se nella prima il mediatore può dirsi titolare di un potere decisorio – improntato ad una valutazione di fondatezza, oltre che meritevolezza, delle rispettive pretese – nell’altro caso egli può soltanto adoperarsi affinchè le parti raggiungano l’accordo. Per una più ampia riflessione si veda, A.G. Diana, La mediazione civile e commerciale, 2011, p. 200; C.M. Ferri, (a cura di), Manuale della nuova mediazione civile e commerciale, 2014, § 1.11.
[12] Tale orientamento si inserisce nell’ambito di quella riflessione che ragiona dei metodi alternativi di risoluzione delle controversie più come “adequate” o “appropriate”, che come “alternatives”, cioè secondo la quale gli ADR starebbe oggi ad indicare non un mezzo alternativo, ma il mezzo più adeguato e, quindi, il canale principale di risoluzione delle controversie perché incentrato sull’accordo e sulla collaborazione tra le parti. cfr. C Egbunike-Umegbolu, Contemporary Overview of Appropriate Dispute Resolution (ADR), In: Appropriate Dispute Resolution in Comparative Perspectives, in Ius Gentium: Comparative Perspectives on Law and Justice, vol 113, Springer, 2024; C. Menkel-Meadow, Alternative and AppropriateDisputeResolution in Context Formal, Informal, and Semiformal Legal Processes, in The Handbook of Conflict Resolution: Theory and Practice, eds. Peter T. Coleman, M. Deutsch, E. C. Marcus. Wiley, San Francisco, 2014, pp. 1 ss.
[13] Sulla Collaborative Law nella letteratura nordamericana cfr., ex multis, S L. R. Maxwell, The development of collaborative law, in Alternative Res., 2007, pp. 22 ss.; J. Lande, Principles for Policymaking about Collaborative Law and Other ADR Processes, in 22 Ohio State J. on Disp. Resol., 2007, pp. 619 ss.; R. Abney, Avoiding Litigation: A Guide to Civil Collaborative Law, CA, 2006, passim; C. Fairman, A Proposed Model Rule for Collaborative Law, in 21 Ohio State J. on Disp. Resol., 2005, pp. 73 ss.; L. Spain, Collaborative Law: A Critical Reflection on Whether a Collaborative Orientation Can Be Ethically Incorporated in- to the Practice of Law, in 56 Baylor L. Rev., 2004, pp. 141 ss.
[14] Nell’ambito della common law il diritto collaborativo trova grande valorizzazione nel contenzioso familiare anche in Inghilterra, dove, ormai da oltre un decennio, le coppie coinvolte nel conflitto familiare sono invitate a prendere parte ad una mediation information and assessment session (section 10 del Children and Families Act 2014 e delle Family Procedure Rules 2010), al fine di individuare, con l’aiuto del professionista incaricato, se la mediazione, in relazione all’oggetto del conflitto, costituisca lo strumento più adatto per la risoluzione della crisi familiare. Cfr. A. Graziosi, Media-conciliazione e negoziazione assistita: limiti o incentivi alla deflazione del contenzioso civile?, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2019, I, pp. 37 ss.
[15] Non è inutile sottolineare come, nei sistemi di common law, rientrino tra le forme stragiudiziali per la composizione dei conflitti anche una serie di strumenti ulteriori che, pur rappresentando varianti delle forme più tradizionali, ne condividono la finalità di risoluzione alternativa delle controversie. Lo stesso diritto collaborativo non conosce una veste unitaria, ma è considerato come l’insieme di buone pratiche, che possono poi ricadere in procedimenti differenti, per raggiungere soluzioni alternative a quella giurisdizionale. Si ricordano ad esempio la mediazione-arbitrato, un meccanismo ibrido in cui un terzo neutrale inizialmente svolge il ruolo di mediatore e, qualora le parti non raggiungano un accordo, interviene come arbitro, purché tale funzione sia svolta da una persona diversa da quella che ha condotto la mediazione. Il mini-trial, una procedura nella quale gli avvocati delle parti espongono il caso davanti a una “giuria” composta da rappresentanti delle rispettive imprese, presieduta da un terzo neutrale. Questa formula una valutazione non vincolante, utile a orientare le parti verso una soluzione. La early neutral evaluation, che interviene nelle fasi iniziali del processo: un esperto nominato dal giudice, competente nella materia oggetto della controversia, ascolta le parti, cerca di promuovere un accordo e anticipa quale potrebbe essere, a suo avviso, l’esito del giudizio, con l’obiettivo di disincentivare il contenzioso.
[16] Sui temi dell’efficienza e dell’effettività della tutela, v., per tutti, A. Panzarola, Principi e regole in epoca di utilitarismo processuale, Bari, 2022, passim; Id., Jeremy Bentham e la “proportionate justice”, in Riv. dir. proc., 2016, pp. 1459 ss.; Id., Alla ricerca dei substantilia processus, ivi, 2015, pp. 1157 ss.; N. Picardi, Le riforme processuali e sociali di F. Klein, in Giusto proc. civ., 2011, IV, pp. 1062 ss.; Id., Lapatologia della giustizia civile, in Giur. cost., 1987, pp. 30 ss.; N. Irti, Significato giuridico dell’effettività, Napoli, 2009, passim; F. Cipriani, Il processo civile italiano tra efficienza e garanzia, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2002, pp. 1243 ss.; L. Ferrajoli, Diritto e ragione, Teoria del garantismo penale, Bari, 1989, passim; Aa.Vv., in C. Mirabelli, L. Paganetto, G. Tria (a cura di), Economia della giustizia. Domanda, offerta, organizzazione delle cause civili, Roma, 2005, passim.
[17] Cfr. Corte cost., 18 febbraio 2009, n. 51; Corte cost., 26 ottobre 2007, n. 355.
[18] A questo proposito cfr. anche Corte di Lussemburgo 18 marzo 2010, n. 320.
[19] Il metodo comparatistico funzionale – privilegiato per le ADR grazie alle ricerche svolte nella seconda metà degli anni ’90 (e segnatamente intorno agli anni ’70 del secolo scorso) dal celebre Mauro Cappelletti – non lontano dall’approccio inaugurato da Sacco, fa leva sull’analisi del modo in cui ordinamenti giuridici differenti perseguano un medesimo fine sostanziale, pur attraverso forme e soluzioni giuridiche eterogenee e a prescindere dalla qualificazione di un sistema come di common o di civil law. Con particolare riferimento alle ADR, esso consente di osservare come ordinamenti giuridici tra loro diversi mirino all’obiettivo comune di risolvere le controversie al di fuori del processo statale, pur ricorrendo a strumenti e modelli differenti. Molti studi di diritto comparato sulle ADR si fondano su questo approccio, accostando ad esempio le diverse strategie adottate per incentivare il ricorso a meccanismi alternativi e alleggerire così il carico del contenzioso giudiziario. Per un approfondimento intorno all’approccio comparatistico funzionale, anche con riferimento ai sistemi alternativi d risoluzione delle controversie, si veda in particolare N. Alexander, International and Comparative Mediation: Legal Perspectives, Kluwer Law International, 2009, passim; A. Rakimuli, G. Talapova, S. Akimekova, Comparative Analysis of Mediation in the Legislation of Kazakhstan and the People’s Republic of China, Social & Legal Studies, VII, n. 3, 2024, pp. 127 ss.
[20] Rispetto al metodo funzionalista, di cui alla nota che precede, l’approccio formale si incentra sull’esame delle norme e delle qualificazioni giuridiche attribuite agli istituti nei vari ordinamenti, privilegiando il confronto tra le strutture normative piuttosto che tra le funzioni. In quest’ottica, l’attenzione si rivolge soprattutto agli aspetti testuali e sistematici, come ad esempio le norme che offrono definizioni o scandiscono, nel caso delle ADR, l’iter procedimentale. Sul metodo formalista, M. Zhomartkyzy, “Comparative Study of Mediation Practices in European Countries”, EUREKA: Social and Humanities, n. 5, 2023, pp. 94 ss.; M. R. Damaška, The Faces of Justice and State Authority: A Comparative Approach to the Legal Process, Yale University Press, 1986, passim.
[21] Per una diffusa riflessione comparatistica in merito cfr. in particolare D. Dalfino, La procedura di negoziazione assistita da uno più avvocati, tra “collaborative law” e “procédure participative”, in Foro it., 2015, pp. 27 ss.
[22] Rispetto all’istituto francese cfr. N. Fricero, H. Poivey-Leclercq, S. Sauphanor, Procédure participative assistée par avocat, Lamy, 2012, passim; J. Bonnard, Les nouveauxprivilèges des avocats:fiducie, convention de procédure parassistée par avocat, Lamy, 2012, passim; B. Sassani, La composition non juridictionnelle des différends dans le droit italien: médiation et négociation assistée, in Judicium, 2018, II, pp. 124 ss.
[23] Coerentemente con la natura rispettivamente sostanziale e processuale delle materie regolate da ciascuno dei due codici, l’istituto in esame, nel diritto francese, trova spazio nel codice civile agli artt. 2062 a 2068 per ciò che concerne la definizione, l’ambito di applicazione e ogni altro aspetto di carattere sostanziale, restando invece la procedura disciplinata dal codice di rito (artt. 1542-1557).
[24] Alcune di queste regole trovano comunque consolidamento normativo nello Uniform Collaborative Law Act, meglio noto con l’acronimo “UCLA”, che qualifica il diritto collaborativo come uno strumento di risoluzione alternativa basato sulla volontarietà e su un accordo contrattuale tra le parti, le quali si impegnano a risolvere la controversia attraverso una negoziazione, anziché ricorrere alla decisione di un giudice o di un arbitro. Come già sottolineato, il tratto distintivo dei metodi di ADR improntati al diritto collaborativo, come la mediazione, è la presenza costante di un collaborative lawyer, che assiste ciascuna parte durante l’intera procedura.
[25] Come ricorda opportunamente C. Asprella, La negoziazione assistita, cit., p. 6.
[26] Cfr. O. Desiato, L’evoluzione del Collaborative law in Italia: la negoziazione assistita in materia familiare, in Judicium, 2019, II, pp. 217 ss. Per dovizia di riferimenti, ai fini di una più ampia disamina della negoziazione assistita nelle controversie familiari si rinvia, per tutti, a G. Casaburi, Provvedimenti giudiziali in tema di accordi in ambito familiare raggiunti a mezzo di negoziazione assistita, in Foro it., 2024, VII-VIII, pp. 2190 ss.; S. Scuderi, La nuova stagione dell’autonomia privata nelle relazioni familiari, in Dir. fam. pers., 2024, IV, 2, pp. 1748 ss.; S. Caporusso, sub art. 6, in La nuova riforma del processo civile. Degiurisdizionalizzazione, processo e ordinamento giudiziario nel D.L. 132/2014 convertito in l. 162/2014, cit., pp. 99 ss.; C. Consolo, Un d.l. processuale in bianco è nerofumo sullo equivoco della ‘degiurisdizio-natazazione’, in Corr. giur., 2014, pp. 1173 ss.
[27] È chiaro il riferimento al d.l. 12 settembre 2014, n. 132 convertito con modificazioni in l. 10 novembre 2014 n. 162.
[28] Per altro verso, è dovere deontologico dell’avvocato, all’atto del conferimento dell’incarico, “informare chiaramente la parte assistita della possibilità di avvalersi del procedimento di negoziazione assistita e, per iscritto, della possibilità di avvalersi del procedimento di mediazione; deve altresì informarla dei percorsi alternativi al contenzioso giudiziario, pure previsti dalla legge”. Art. 27, comma 3 del Codice deontologico forense.
[29] Su tali aspetti v. in particolare M. Pini, Crisi del sistema giudiziario e metodi alternativi di soluzione dei conflitti – Esigenza di ampliamento del ruolo dell’avvocato. Il diritto collaborativo e la procedura partecipativa di negoziazione assistita da avvocato, in Riv. ass. it. avv. fam. minori, 2013, num. spec., pp. 21 ss.
[30] Cfr. Corte cost., 18 aprile 2019, n. 97, ove la Consulta ha sottolineato la parzialità del difensore rispetto al ruolo tipicamente imparziale del mediatore.
[31] Non a caso, in letteratura si discorre anche di giustizia “negoziale” o “contrattuale”. La giustizia contrattuale viene in considerazione in diverse declinazioni. Cfr. E. Gabellini, Azione di classe e giustizia contrattuale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2024, pp. 143 ss.; F. Rende, “Contrat d’adhésion” e giustizia contrattuale nel “Code civil” riformato, in Giust. civ., 2021, II, pp. 347 ss.; P. Corrias, Giustizia contrattuale e poteri conformativi del giudice, in Riv. dir. civ., 2019, II, pp. 345 ss. Nella dottrina d’oltralpe cfr., per tutti, L. Cadiet, Théorie generale du procès, Presses Universitaire de France, 2010, pp. 192 ss.; da ultimo, cfr. anche R. Caponi, «Just Settlements» or «Just About Settlements». Mediated Agreements: AComparative Overview of theBasics, inRöMediated Agreements: AComparative Overview of theBasics, inRöbels Zeitschrift, bels Zeitschrift, 2015, fascicolo n.1
[32] Cfr. C. Asprella, La negoziazione assistita, cit., p. 5; V. Montarulli, Metodi alternativi di risoluzione delle controversie. Autonomia negoziale assistita e negoziabilità in ambito familiare, Padova, 2023, p. 182.
[33] Su tali aspetti v. in particolare V. Montarulli, Metodi alternativi di risoluzione delle controversie. Autonomia negoziale assistita e negoziabilità in ambito familiare, ult. cit., pp. 184 ss.
[34] L’eredità che l’istituto della negoziazione assistita domestica riceve dal diritto collaborativo nordamericano è estrinsecazione di quell’approccio comparatistico che fa leva più sulla emulazione delle soluzioni che il diritto vivente in un certo Paese offre a determinate problematiche, che sul confronto tra le categorie e le fonti del diritto, facendo leva su principi comuni sia all’ordinamento di riferimento, sia a quello che mette in atto tale metodo comparatistico. Tale metodo comparatistico mette di fatto in pratica la tesi rimasta celebre di Rodolfo Sacco, che mirava ad evidenziare la contaminazione tra i sistemi giuridici grazie alla compresenza di elementi comuni tra l’uno e l’altro ordinamento; tali “formanti” non assumono una connotazione statica o formale, ma permeano il substrato della norma giuridica e, come tali, devono essere “elevati” a criterio di interpretazione della norma in discorso. In questo modo, essi consentono il dialogo tra sistemi giuridici tra loro differenti, consentendo anche la circolazione dei modelli. La metodologia in questione è una delle c.d. cinque tesi di Trento sul metodo comparativo, elaborate da Sacco con il contributo di insigni comparatisti (Ajani, Castro, Cendon, Frignani, Gambaro, Guadagni, Guarnieri, Mattei e Monasteri). Per una più ampia disamina cfr. A. Gambaro, M. Graziadei, R. Sacco, Sistemi giuridici comparati, in R. Sacco (diretto da), Trattato di diritto comparato, Torino, 2024, passim; R. Sacco, Introduzione al diritto comparato, Torino, 1992, passim.
[35] “Toute personne, assistée de son avocat, peut conclure une convention de procédure participative sur les droits dont elle a la libre disposition, sous réserve des dispositions de l’article 2067”, art. 2064 c.c.
[37] Sull’improcedibilità della domanda giudiziale per mancato esperimento della negoziazione assistita obbligatoria cfr., per tutti, I. Zingales, sub art. 3, in F. Santangeli (a cura di), La nuova riforma del processo civile. Degiurisdizionalizzazione, processo e ordinamento giudiziario nel D.L. 132/2014 convertito in l. 162/2014, cit., pp. 60 ss.; G. Triscari, Introdotte condizioni di procedibilità del processo, in Guida al dir., 2014, 39, pp. 105 ss.; M. Bove, Una vera rivoluzione dell’intero sistema si attua solo attraverso strutture efficienti, ivi, pp. 73 ss.
[38] Com’è ormai assai noto, trattai delle controversie in materia di risarcimento del danno da circolazione di veicoli e natanti e di quelle aventi ad oggetto domande di pagamento a qualsiasi titolo di somme non eccedenti cinquantamila euro, giusta quanto disposto dall’art. 3, comma 1 del d.l. n. 132/2014. Sulla materia, è ormai trascorso circa un decennio dall’intervento chiarificatore della Corte costituzionale, che, a proposito della possibile contrarietà della disposizione in commento con riferimento agli artt. 2, 3 e 24, Cost., ne ha escluso la lesione del diritto di difesa, perché la norma “non rinvia sine die la tutela risarcitoria dei danneggiati, attesa la brevità del termine (non superiore a tre mesi, consensualmente prorogabile dalle parti per non più di trenta giorni) entro il quale deve essere comunque conclusa la negoziazione. I costi della procedura (che non necessariamente gravano solo sull’attore, potendo essere diversamente regolati in sede di accordo o posti a carico del soccombente in caso di lite), certamente inferiori ai costi del giudizio che l’interessato ha la possibilità di risparmiare, non sono comunque tali da limitare o rendere eccessivamente difficoltosa la tutela giurisdizionale. Pertanto, il meccanismo della negoziazione assistita riflette un ragionevole bilanciamento tra l’esigenza di tutela del danneggiato e quella (di interesse generale), che il differimento dell’accesso alla giurisdizione intende perseguire, di contenimento del contenzioso, anche in funzione degli obiettivi del giusto processo, per il profilo della ragionevole durata delle liti, oggettivamente pregiudicata dal volume eccessivo delle stesse”.
[39]Ex d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 ss.mm.ii. Una delle novità più significative, sotto il profilo dell’ambito oggettivo di applicazione dell’istituto, è certamente rappresentata dalla possibilità di ricorrere alla convenzione di negoziazione anche nelle controversie giuslavoristiche, ai sensi dell’art. 2-ter d.l. n. 132/2014, cit., senza che, d’altro lato, “ciò costituisca condizione di procedibilità della domanda giudiziale”. Per maggiori ragguagli sulla “nuova” negoziazione assistita sulle controversie in materia di lavoro cfr., tra gli altri, A. Giuliani, Nuove prospettive di disponibilità e tutela dei diritti del lavoratore nella negoziazione assistita ex art. 9 del d.lgs. n. 149/2022, in Var. temi dir. lav., 2024, pp. 209 ss.; G. Fontana, Intelligenza artificiale e giustizia del lavoro nell’epoca della “calcolabilità giuridica”, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2023, 179, pp. 375 ss.; M. Bove, Modifiche processuali per le liti di lavoro nella riforma Cartabia, in Dir. proc. civ. comp., 2024, II, pp. 465 ss.; F. Lamberti, Nuovi perimetri regolativi degli atti dispositivi del lavoratore: una metamorfosi dell’art. 2113 c.c.?, in Riv. it. dir. lav., 2024, pp. 97 ss.; V. Zaccaralli, La negoziazione assistita da avvocati nelle controversie di lavoro, in Var. temi dir. lav., 2024, pp. 265 ss.; G. Basilico, Il rito del lavoro alla luce della recente riforma del processo civile, in Dir. mer. lav., 2023, II, 1, pp. 305 ss.
[40] Art. 2065 c.c., che precisa, peraltro, come “toutefois, l’inexécution de la convention par l’une des parties autorise une autre partie à saisir le juge pour qu’il statue sur le litige”.
[41] Per l’esattezza, l’art. 8 del d.l. n. 132/2014 ricollega l’effetto interruttivo della prescrizione e quello sospensivo della decadenza non solo alla trascrizione della domanda giudiziale, ma anche dalla sottoscrizione della convenzione di negoziazione assistita, fermo restando che “se l’invito è rifiutato o non è accettato nel termine di cui all’articolo 4, comma 1, la domanda giudiziale deve essere proposta entro il medesimo termine di decadenza decorrente dal rifiuto, dalla mancata accettazione nel termine ovvero dalla dichiarazione di mancato accordo certificata dagli avvocati”. La previsione non è stata del tutto condivisa in dottrina, non foss’altro in quanto essa potrebbe avere ragion d’essere soltanto nell’ipotesi in cui la sottoscrizione della convenzione – ossia dell’accordo con lui le parti si impegnano a collaborare in buona fede e con lealtà per la individuazione di una soluzione concordata e con l’assistenza dei difensori iscritti all’albo – non sia preceduta dallo scambio della proposta e della relativa accettazione tra le parti. Si vedano in questo senso le riflessioni di D. Dalfino, La procedura di negoziazione assistita da uno più avvocati, tra “collaborative law” e “procédure participative”, cit., pp. 27 ss.; M. Giorgetti, La negoziazione assistita, cit., pp. 21 ss.
[42] Quanto al decorso in concreto del termine in esame, con conseguente effetto benefico sulla realizzazione della condizione di procedibilità, la giurisprudenza ha sottolineato, in più di un’occasione, l’applicabilità della presunzione di conoscibilità di cui all’art. 1335 c.c., in forza del quale “La proposta, l’accettazione, la loro revoca e ogni altra dichiarazione diretta a una determinata persona si reputano conosciute nel momento in cui giungono all’indirizzo del destinatario, se questi non prova di essere stato, senza sua colpa, nell’impossibilità di averne notizia”. In virtù di tale disposizione, laddove l’invito a stipulare la convenzione sia trasmesso “a mezzo raccomandata ordinaria seguita dal deposito in giacenza presso l’ufficio postale, per temporanea assenza del destinatario, il termine di 30 giorni, trascorsi i quali la condizione di procedibilità si intende realizzata ex art. 3 del d.l. citato, decorre, non dalla scadenza del periodo di giacenza presso l’ufficio postale, bensì, ove non si ritenga operante la presunzione di conoscibilità di cui all’art. 1335 c.c., allo scadere del decimo giorno dal tentativo di consegna, in analogia con quanto previsto in tema di notifiche degli atti giudiziari a mezzo posta”. Cfr. Cass., 18 dicembre 2024, n. 33147; Cass., 10 marzo 2017, n. 6242.
[43] Si deve tuttavia segnalare come la giurisprudenza di merito non esima il ricorrente dall’assumere un contegno “fattivo”, concretamente orientato al raggiungimento dell’accordo anche a seguito dell’eventuale adesione all’invito comunicata dalla controparte. V. ad es. Trib. Catania, 15 settembre 2024, secondo cui “laddove l’esperimento del tentativo di negoziazione assistita sia espressamente previsto quale condizione di procedibilità della domanda, dopo aver ricevuto l’adesione all’invito della controparte alla stipula della convenzione, la parte onerata non può rimanere inerte ma deve attivarsi per garantire l’effettivo avvio del procedimento che potrà concludersi, con un verbale negativo oppure con un accordo certificato dai legali. Laddove, decorsi i termini di conclusione del procedimento, parte ricorrente non abbia avanzato istanza di rinvio per proseguire o completare la negoziazione, la domanda è improcedibile”.
[44] In generale, sembra di poter dire che il rapporto scaturente dalla convenzione non si esaurisce nella necessità che le parti si astengano dal porre in essere comportamenti scorretti, essendo necessario uno sforzo fattivo indirizzato, secondo diligenza, a una positiva conclusione della trattativa. In tal senso, S. Delle Monache, “Profili civilistici della negoziazione assistita”, in Giust. civ., 2015, p. 123.
[45] Vale la pena ribadire quanto si è già avuto modo di sottolineare altrove, ovvero, anche in seguito alla c.d. riforma Cartabia – che ha lasciato inalterato il richiamo all’art. 642 c.p.c. in luogo dell’art. 648 c.p.c. – può osservarsi come tale rimando pensato per rafforzare la posizione del creditore nella fase monitoria, soprattutto quando il credito, pur fondato e documentabile, ha poche possibilità di ottenere subito la provvisoria esecuzione. Si prevede invero che, se il debitore non risponde o rifiuta l’invito alla negoziazione assistita, ciò possa costituire prova utile per chiedere la concessione della provvisoria esecutività del decreto ingiuntivo. Questa strategia è utile in particolare per i creditori che non dispongono di titoli forti (es. cambiali), i quali altrimenti dovrebbero attendere l’instaurazione del contraddittorio per chiedere l’esecuzione provvisoria ex art. 648 c.p.c. Proporre un invito alla negoziazione assistita, invece, permette di ottenere più facilmente e in tempi brevi (circa un mese) la provvisoria esecuzione, evitando il contraddittorio e rafforzando la richiesta monitoria. V. amplius M. Giorgetti, La negoziazione assistita, cit., p. 17.
[46] L’indicazione dell’oggetto della convenzione e del termine massimo di durata della procedura cristallizzano quello che viene comunemente considerato dalla dottrina come il contenuto c.d. necessario della convenzione, al quale si affianca la possibile previsione di un contenuto eventuale, ravvisabile nell’indicazione della possibilità di svolgere la negoziazione con modalità telematiche e di acquisire sia dichiarazioni di terzi su fatti rilevanti in relazione all’oggetto della controversia, sia dichiarazioni della controparte sulla verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli alla parte nel cui interesse sono richieste, utilizzabili nell’eventuale successivo giudizio (art. 2, co. 2-bis).
[47] Tale interpretazione della disposizione è largamente condivisa in dottrina. La richiamata disposizione (secondo la quale “La prescrizione è interrotta dalla notificazione dell’atto con il quale si inizia un giudizio, sia questo di cognizione ovvero conservativo o esecutivo”) assume infatti portata generale nel contesto della disciplina della prescrizione. Si vedano, con particolare riferimento all’effetto interruttivo della prescrizione conseguente alla ricezione dell’invito a stipulare la convenzione di negoziazione assistita, C. Asprella, La negoziazione assistita, cit., p. 73; D. Dalfino, La procedura di negoziazione assistita da uno più avvocati, tra “collaborative law” e “procédure participative, cit., pp. 27 ss.; A. Trinchi, La negoziazione assistita(Prima parte), in Studium Iuris, 2017, 19, pp. 162 ss.; G. Trapuzzano, Procedura di negoziazione assistitada avvocati, in R. Giordano, C. Trapuzzano, La riforma del processo civile, Milano, 2015, p. 112.
[48] L’invito alla negoziazione assistita produce gli stessi effetti del deposito della domanda giudiziale: dal momento in cui esso viene portato a conoscenza della controparte, con qualsiasi mezzo, si verifica sia l’effetto interruttivo istantaneo della prescrizione (ai sensi dell’art. 2943, comma 1, c.c.), sia l’effetto sospensivo (ex art. 2945, comma 2, c.c.). Di conseguenza, la prescrizione risulta interrotta e rimane sospesa fino alla conclusione della procedura di negoziazione assistita. Il termine riprende a decorrere solo dal momento in cui: la controparte rifiuta espressamente l’invito; scade il termine previsto per aderire all’invito, senza risposta; gli avvocati certificano l’esito negativo della negoziazione per mancato accordo. Per quanto riguarda la decadenza, questa viene impedita una sola volta dal medesimo invito. In tal caso un nuovo termine decadenziale inizierà a decorrere integralmente: dal rifiuto espresso della controparte; dalla scadenza del termine per aderire all’invito; oppure dalla dichiarazione di mancato accordo certificata dagli avvocati. È importante precisare che tale effetto sospensivo o interruttivo della decadenza si applica esclusivamente nei casi in cui la decadenza può essere evitata solo mediante la proposizione della domanda giudiziale. Se invece la decadenza può essere impedita anche da un atto stragiudiziale, l’effetto dell’invito alla negoziazione assistita non rileva, in quanto la decadenza si considera già compiuta.
[49] Su tali aspetti cfr. A. Monoriti, R. Gabellini, Negoziazione. Il manuale dell’interazione umana, Milano, 2023, passim; G. De Paolo, L. D’Urso, D. Golann, Manuale del conciliatore professionista. Procedure e tecniche per la risoluzione alternativa delle controversie civili e commerciali (ADR), Milano, 2004, passim.
[50] Si vedano in proposito gli artt. 11-bis ss., che vanno a comporre la Sezione II del Capo II del d.l.. n. 132/2014 e che, ferma restando, dal punto di vista sostanziale, l’applicabilità del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, prevede una regolamentazione ad hoc al fine di ottenere l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato. Scelta che appare certamente significativa e meritevole di pregio, seppur risulti “confinata” alla limitata ipotesi di casi nei quali la procedura giunga effettivamente a buon fine.
[51] Si veda in proposito C. Asprella, La negoziazione assistita, cit., pp. 101 ss.; M. Tosoni, Alcune prospettive sull’istruttoria stragiudiziale nella “nuova” negoziazione assistita, in Dir. proc. civ. comp., 2023, IV, pp. 778 ss.; B. Ficcarelli, Istruzione stragiudiziale nella negoziazione assistita dagli avvocati. Nuova sfida culturale per il legislatore e metodi complementari di risoluzione della controversia, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2023, 503 e ss.
[52] Si vedano, ad esempio, l’Ungheria dove, le parti che, dopo aver raggiunto un accordo in sede di mediazione, agiscano comunque in giudizio o non rispettino gli obblighi assunti, possono essere destinatarie di sanzioni; la Polonia, dove la parte che inizialmente accetti di partecipare alla mediazione, ma successivamente vi si sottragga senza un valido motivo può essere condannata al pagamento delle spese processuali, a prescindere dall’esito della causa; ancora, in Slovenia, il giudice ha la facoltà di porre a carico della parte che rifiuti ingiustificatamente la mediazione giudiziale il pagamento, in tutto o in parte, delle spese legali sostenute dalla controparte. per una panoramica di natura comparatistica sulle differenti regolamentazioni degli istituti in esame cfr. A. Graziosi, Media-conciliazione e negoziazione assistita: limiti o incentivi alla deflazione del contenzioso civile?, cit., pp. 37 ss.
[53] L’art. 9, comma 4-bis, del d.l. n. 132/2014 peraltro già specificava che “a violazione delle prescrizioni di cui al comma 1 (in forza del quale “I difensori non possono essere nominati arbitri ai sensi dell’articolo 810 del codice di procedura civile nelle controversie aventi il medesimo oggetto o connesse”) e degli obblighi di lealtà e riservatezza di cui al comma 2 costituisce per l’avvocato illecito disciplinare.
[54] Cfr. l’art. 5, comma 4 del d.l. n. 132/2014, secondo il quale “costituisce illecito deontologico per l’avvocato impugnare un accordo alla cui redazione ha partecipato”. Tale disposizione trova riscontro in quanto più ampiamente sancito all’art. 44 del Codice deontologico forense, recante il “Divieto di impugnazione della transazione raggiunta con il collega”, in forza del quale, pena l’applicazione della sanzione disciplinare della censura, “L’avvocato che abbia raggiunto con il collega avversario un accordo transattivo, accettato dalle parti, deve astenersi dal proporne impugnazione, salvo che la stessa sia giustificata da fatti sopravvenuti o dei quali dimostri di non avere avuto conoscenza”. Alla luce delle modifiche da ultimo introdotte, inoltre, tale divieto è espressamente riprodotto, con riferimento alla negoziazione assistita, all’art. 62-bis, comma 4, secondo cui “all’avvocato che assiste la parte in negoziazione è fatto divieto di impugnare un accordo alla cui redazione ha partecipato, salvo che la stessa sia giustificata da fatti sopravvenuti o dei quali dimostri di non avere avuto conoscenza”.
[55] Sul diritto collaborativo belga, anch’esso di ispirazione dal diritto collaborativo statunitense, cfr. D. Chevalier,La conciliation préalable de droit commun. Un “MARC” à part entière?, in Journal des Tribunaux, 2019, pp. 223 ss.; N. Tihon, La conciliation judiciaire de droit commun: un potentiel à développer (Mémoire de master, Université catholique de Louvain, 2021), passim ; B. Truffin, Les juges de paix belges et la mutation des modèles de justice civile, in Déviance et Société, 2007, II, pp. 299 ss.
[57] Cfr. Code judiciaire. artt. 1738-1747. L’art. 1743, §3, estende peraltro tale obbligo ad “ogni avvocato che faccia parte del loro studio, compresi i collaboratori e i tirocinanti interni o esterni” (“il en va de même de tout avocat faisant partie de leur cabinet, en ce compris les collaborateurs et stagiaires internes ou externes”). La Corte costituzionale belga ha ritenuto (sent. 24 settembre 2020) tale divieto legittimo, sottolineando che il monopolio degli avvocati nel diritto collaborativo è giustificato dalle norme del codice richiamato e che l’obbligo di astensione non leda il principio della libera scelta dell’avvocato.
[58] Per una più ampia riflessione in merito si veda La médiation ou le droit collaboratif: un préalable obligatoireà la saisine des cours et tribunaux de l’ordre judiciaire à partir du 1 janvier 2019, in https://www.actualitesdroitbelge.be/droit-des-affaires/droit-des-affaires-abreges-juridiques.
[59] Vale la pena sottolineare che, come accade anche in Francia, in Belgio Nessuna disposizione legislativa prevede, inoltre, il ricorso obbligatorio al diritto collaborativo. Al più, l’art. 1740 del Code judiciaire la possibilità per ciascun giudice – ad eccezione della Corte di cassazione e del tribunale di circondario – di ordinare il ricorso a un processo di diritto collaborativo, purché la causa non sia ancora stata trattenuta in decisione. ciò è possibile esclusivamente su richiesta congiunta delle parti e dopo averle sentite in merito alla misura proposta.
[61] Sebbene ivi non si dia l’esistenza di istituti sovrapponibili alla negoziazione assistita domestica, tuttavia merita di essere ricordato, in quanto attribuisce significativa rilevanza alla formazione dei professionisti impegnate nelle ADR, anche il sistema tedesco, dove, in particolare per quanto concerne la mediazione, è richiesto sia ai mediatori, sia ai magistrati lo svolgimento di un percorso di formazione. Cfr. la materia è da ultimo regolata dal Verordnung über die Ausund Fortbildung von zertifizierten Mediatoren(Zertifizierte-Mediatoren-Ausbildungsverordnung – ZmediatAusb, del 21 agosto 2018, e il relativo allegato. Il decreto disciplina accuratamente il percorso formativo finalizzato all’acquisizione della qualifica di “mediatore qualificato” e stabilisce al § 2 che può qualificarsi come mediatore certificato solo chi ha completato una formazione specifica per diventare mediatore certificato. La formazione per diventare mediatore certificato si compone di un corso di formazione teorico-pratico e di cinque mediazioni supervisionate, che il partecipante alla formazione deve aver condotto in qualità di mediatore o co-mediatore. Il corso di formazione deve avere una durata minima di 130 ore in presenza. I singoli contenuti del corso devono coprire almeno il numero di ore indicato nella colonna III dell’allegato. Fino al quaranta per cento delle ore in presenza può essere svolto in forma virtuale, a condizione che siano garantiti sia il controllo della presenza sia la possibilità di interazione personale tra docenti e partecipanti, nonché tra i partecipanti stessi. I partecipanti devono completare le cinque mediazioni supervisionate entro tre anni dalla fine del corso di formazione. Le supervisioni devono essere confermate dal rispettivo supervisore. Per un’ampia ricostruzione dell’istituto in Germania si veda U. Stürner, La risoluzione alternativa delle controversie in Germania, in V. Varano (a cura di), L’altra giustizia: forme alternative di risoluzione delle controversie, Milano, 2007, passim.
[62] Si veda in particolare il documento diffuso dal Conseil National des Barreaux,“L’avocat, acteur des modes amiables de résolution des différends”, ove l’Avvocatura espressamente sottolinea “Parce qu’elle est du monopole des avocats et permet une grande liberté, la procédure participative de mise en état est une opportunité, quelle que soit la procédure suivie, devant toute juridiction de l’ordre judiciaire”.
[63] Cfr. il Code Judiciaire e la Carta deontologica degli avvocati collaborativi.
[64] V. retro, § 3, nt. 21-22 per i riferimenti in materia.
[65] Si veda l’art. 4-bis, comma 2 del d.l. n. 132/2014, che“L’informatore, previa identificazione, è invitato a dichiarare se ha rapporti di parentela o di natura personale e professionale con alcuna delle parti o se ha un interesse nella causa, ed è altresì preliminarmente avvisato: a) della qualifica dei soggetti dinanzi ai quali rende le dichiarazioni e dello scopo della loro acquisizione; b) della facoltà di non rendere dichiarazioni; c) della facoltà di astenersi ai sensi dell’articolo 249 del codice di procedura civile; d) delle responsabilità penali conseguenti alle false dichiarazioni; e) del dovere di mantenere riservate le domande che gli sono rivolte e le risposte date; f) delle modalità di acquisizione e documentazione delle dichiarazioni”.
[66] Una diffusa disamina del modello del processo civile di common law si ha in G.C. Hazard, M. Taruffo, La giustizia civile negli Stati Uniti, Bologna, 1993, passim. V. inoltre D. Volpino, L’oggetto del giudicato civile nell’esperienza americana, Padova, 2008, passim.
[67] Si veda, da ultimo, B. Ficcarelli, La consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite ex art. 696 bis, in Aa.Vv., La consulenza tecnica d’ufficio, oggetto, sindacabilità, Torino, 2024, pp. 399 ss.
[68] Nuovo art. 62-bis del Codice deontologico forense. V. il § che precede.
[69] È invero doveroso sottolineare come, a livello statunitense, la portata del pre-trial risulti significativa anche in considerazione della previsione di un obbligo di discovery in capo alle parti, che, a livello domestico, risulta previsto soltanto nell’ambito del rito unificato per la tutela delle persone, dei minori e delle famiglie, ma che rappresenta, tuttavia, la declinazione specifica alla materia in esame dell’obbligo delle parti di comportarsi secondo lealtà di cui all’art. 88 c.p.c. Il panorama di diritto positivo domestico non consente di ritenere ammissibile la previsione di un vero e proprio obbligo di discovery in capo alle parti, considerata, in buona sostanza, la fallibilità di una simile previsione dal punto di vista delle conseguenze sanzionatorie in caso di violazione dell’obbligo medesimo – riflesso della querelle intorno alla compatibilità di un obbligo di verità in capo alle parti nel processo civile domestico -, se non quelle conseguenti alla violazione del dovere di lealtà e probità delle parti (art. 96 c.p.c.), la previsione delle quali non può comunque ritenersi garanzia di esaustività e veridicità delle informazioni e dei fatti allegati in giudizio dalle parti. Per una più ampia riflessione intorno all’ammissibilità, nel vigente panorama positivo, di un obbligo di verità in capo alle parti si vedano, per tutti, A. Panzarola, Il problema della verità nella dottrina processualistica italiana a cavallo tra la fine della prima Guerra Mondiale e l’avvento della Repubblica: Calamandrei, Carnelutti, Satta e Capograssi, in Il Processo, 2023, III, pp. 739 ss.; M. Gradi, L’obbligo di verità delle parti, Torino, 2018, passim; A. Carratta, Dovere di verità e completezza nel processo civile, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2014, pt. I, pp. 52 ss., nonché pt. II, pp. 494 ss.; G. Scarselli, Lealtà e probità nel compimento degli atti processuali, ivi, 1998, pp. 91 ss.
[70] R. Caponi, Modelli e riforme del processo di cognizione in Europa [2005], ora in Dogmatica giuridica e vita. Studi di giustizia civile, tomo I, Milano, 2022, p. 325.
[71] Si rimanda a quanto più ampiamente osservato nel § che precede.