Informativa sul trattamento dei dati personali (ai sensi dell’art. 13 Regolamento UE 2016/679)
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Massimo Benedettelli, International Arbitration in Italy
Di Bruno Sassani -
Innovativo per taglio e destinazione, International Arbitration in Italy trasporta l’arbitrato internazionale nell’ordinamento italiano rivolgendosi ad un pubblico eterogeneo: da un lato l’universo dei professionisti che ruotano intorno all’arbitrato internazionale, dall’altro il vasto mondo degli studiosi della disciplina arbitrale. Il libro non ha, ovviamente, un impianto dommatico di stampo tradizionale (lo stampo, in particolare, dei processualisti italiofoni), ma l’elasticità del procedere non nasconde, piuttosto esalta la solida formazione culturale dell’a. (lo imprinting di Paolo Picone, per intenderci). Siamo pertanto lontani dalla reassuring dullness delle rassegne a scopo informativo tipica della più parte delle pubblicazioni destinate al mercato internazionale, Baedeker offerti a smarriti consumatori di dati. Favorito dalla scelta della lingua inglese, il libro è volto piuttosto a rovesciare criticamente la corrente rappresentazione dell’Italia come sede inospitale causa del suo ordinamento processuale. Fin troppo note sono le ragioni di questa immagine e del loro reciproco influsso: mancanza di poteri di sequestro o, più in generale, di injunction in capo all’arbitro italiano; difficoltà di gestione delle esigenze di disclosure; diffidenza per le regole procedurali italiane, o almeno per la vulgata che le vuole interpretate secondo astruse sottigliezze; timore per l’atteggiamento delle corti in sede di controllo, per sospetta offerta di bizantinismi a litiganti in mala fede, e così via. Terra incognita, hic sunt leones. E non solo per le ragioni richiamate, ma per la sostanziale lontananza della formazione culturale del giurista medio italiano che non di rado stenta a muoversi in quell’ordinamento a sé che è l’arbitrato internazionale.
Dell’arbitrato commerciale internazionale si potrebbe parlare come di un ordinamento a sé, un ordinamento trasversale fatto di istituti e istituzioni in grado di incrociare gli ordinamenti nazionali. L’arbitrato internazionale è innanzitutto una koiné perché è fatto di persone, di mentalità di comportamenti e di divieti sottintesi. Con i rituali di una tradizione specifica, ma con il sostanziale antiformalismo tipico delle prassi di common law, prassi dominate (oltre che da un forte senso del contraddittorio) dai princìpi di unità di tempo, di luogo (magari virtuale) e di azione. Il racconto dell’a. nella Prefazione è significativo: il suo primo arbitrato internazionale viene affrontato con la logica “classica” della materia di provenienza, con fedeltà cioè alle gerarchie concettuali del proprio settore accademico di formazione, ma si trasforma, sotto la guida illuminata di un più maturo chairman, nella consapevolezza del semplicismo di tale approccio. Esperienze del tipo di quella narrata dall’a. si presentano talora quando a fungere da arbitro è un rispettabile giurista, provvisto dell’armamentario “euclideo” della propria geometria, ma non dotato del necessario esprit de finesse per comprendere e accettare la compresenza di patterns “non euclidei”, cioè a disagio con l’imperativo di garantire un risultato comunque proficuo malgrado l’incrocio di apparati, filosofie e sensibilità diversi che si riversano nella controversia commerciale internazionale. È un problema di sensibilità pratica, patrimonio di mores vissuti e consegnati, ed è in quest’ordine di idee che si realizza quale incognita e quale avventura sia il raccordo alla dimensione italiana, complessa e difficile da illustrare senza una conoscenza di prima mano. Qui emerge il mix di qualità dell’a.: conoscenza diretta del sistema processuale italiano (e della straripante letteratura che lo costeggia), ma sufficiente distanza per non essere inghiottito dall’affanno autoreferenziale che renderebbe l’indagine incomunicabile oltreconfine. Forte di questa impostazione, Massimo Benedettelli può permettersi di mostrare che il diavolo (Arbitration in Italy) non è come lo si dipinge; anzi, a distanza ravvicinata, si rivela in grado di competere alla pari di altri, titolati ordinamenti.
2. Sarebbe lungo dar conto di tutti i temi affrontati. Sarebbe anche duro per il recensore perché la tecnica di trattazione scelta da Benedettelli è quella di passare a setaccio tutti i dati potenzialmente utili e di inquadrarne senso e riflessi, senza scorciatoie o generici rinvii (si rischierebbe di riscrivere il libro in italiano). Fortunatamente, una recensione non è il Reader’s Digest dell’opera e questo salva dalla noia della orrida letteratura della giga-scheda bibliografica. Resta però utile uno sguardo d’insieme.
Il primo capitolo stipula le premesse della trattazione. Vi si presentano, in reciproco confronto, le nozioni di arbitrato internazionale e di ordinamento italiano attraverso un’opportuna analisi linguistica che spiega e confronta le accezioni di arbitrato internazionale e le forme di connessione tra le relative regole e l’ordinamento italiano. Segue la presentazione delle fonti — innanzitutto di diritto internazionale (fonte consuetudinaria e trattati), poi europea, le fonti interne, e infine quelle proprie della comunità dei protagonisti dell’arbitrato internazionale — e dei princìpi che presiedono all’interpretazione della normativa arbitrale italiana (favor arbitratus, equiparazione del lodo alla sentenza, internazionalizzazione dell’arbitrato interno — postulato, questo, della scelta di eliminare il sistema dualistico precedente operata dal d.lgs. n. 40 del 2006 —, ragionevolezza nella regolamentazione della procedura). Vengono infine i princìpi preposti alla coordinazione delle fonti, esaminati secondo il diritto italiano. Dal secondo capitolo in poi, e per centinaia di pagine, la trattazione si snoda in un accurato esame dell’istituto dell’arbitrato nell’ordinamento italiano, inteso, quest’ultimo, come la sintesi di legge, sistema e giurisprudenza. La scelta di questo percorso era doverosa: il lettore tipo del saggio ha poco da imparare sull’arbitrato internazionale; ha invece bisogno di capire che il temuto sistema italiano non è il proverbiale round hole for a square peg. Per attingere a questo risultato, però, esso non può accontentarsi di nozioni generiche o trapiantate, ma deve poter compiere lo sforzo di penetrare nel mondo del diritto dell’arbitrato italiano. La linea adottata segue così da vicino la successione dei capi del titolo VIII del codice di procedura. Il secondo capitolo analizza il rapporto tra arbitrato e giurisdizione, la deroga al potere sovrano, gli incroci tra processi (lis pendens), i possibili interventi del potere giudiziario nella vita dell’arbitrato. Il capitolo 3 è dedicato alla convenzione arbitrale (soffermandosi su legge italiana e legge applicabile alla convenzione arbitrale) per passare poi a trattare dei temi dell’arbitrabilità delle controversie e loro limiti, arbitrato amministrato, validità, efficacia e vicende della convenzione arbitrale. Il quarto capitolo tratta degli arbitri (reso sempre come arbitral tribunal sia esso a composizione singola che collegiale), delle loro qualità, capacità, numero, status legale, sostituzione e ricusazione; affronta poi il tema degli arbitrati multiparti. Il capitolo 5 illustra/espone il procedimento arbitrale (la legge italiana quale regolatrice del procedimento arbitrale, gli interventi, i litisconsorzi, successione, riunione di procedimenti e sospensione). Il capitolo 6 è dedicato allo sticky issue delle misure cautelari e interinali. Segue nel settimo capitolo il tema della legge applicabile al merito (dove l’a. opportunamente rende conto di come l’uso di “law” assuma di volta in volta il senso di legge, di diritto, ovvero di ordinamento): individuazione della legge (applicable law), determinazione del suo contenuto, applicazione e interpretazione della applicable law, giudizio di equità, impugnazioni del merito.
Dopo il capitolo 8, dedicato ai costi (cosa, forse, meno impegnativa sul piano teorico, ma bussola indispensabile per le prassi), il nono capitolo tratta della decisione arbitrale. Si tratta di un capitolo lungo e articolato che deve dar conto della tipologia delle decisioni, delle situazioni che le giustificano e delle procedure richieste, per poi passare alla descrizione degli effetti. Il tema richiede un’accurata conoscenza del (non semplice) insieme concettuale che presiede all’italica teorica del potere decisorio con le sue appendici sistematiche. Pane per i denti dei processualisti italiani, virtuosi dei congegni speculativi, ma è in un capitolo del genere che si apprezza particolarmente la difficoltà correlata al trasformare in proposizioni descrittive — e, quindi, in istruzioni operative — concetti che giuristi di pragmatica estrazione anglosassone tenderebbero a etichettare come German metaphysics. Lo sforzo resta comunque sottotraccia e non incrina la chiarezza del discorso. Il decimo capitolo è dedicato al sistema delle impugnazioni e ricomprende i temi del riconoscimento e dello exequatur.
Gli ultimi due capitoli riguardano rispettivamente riconoscimento ed esecuzione dei lodi esteri (l’undicesimo, scritto insieme a Zeno Crespi Reghizzi) e il mondo peculiare dell’arbitrato degli investimenti (il dodicesimo in collaborazione con Nicolò Minella). Con essi — the last mile, scrive l’a. negli acknowledgements — il confronto con la Italian law fuoriesce dal binario del codice di procedura civile italiano per affrontare invece il tema dell’applicazione nell’ordinamento italiano di regimi di natura convenzionale. Il penultimo capitolo analizza quindi il rapporto ed il coordinamento tra la convenzione di New York, integrata dalla convenzione di Ginevra, e gli artt. 839 e 840 c.p.c., rilevanti solo per la disciplina della procedura da seguire per ottenere in Italia riconoscimento ed esecuzione di un lodo estero. L’ultimo capitolo Italian law and investment arbitration porta il lettore nel mondo peculiare dell’arbitrato Icsid, cioè di un arbitrato davvero a sé, denazionalizzato, delocalizzato perché sottratto alla attrazione della lex fori della sua sede. Il confronto con la Italian law riguarda quindi la posizione dell’Italia nei trattati e il tipo di protezione accordata sul piano sostanziale. L’indagine si sposta al mondo della convenzione di Washington e dei c.d. BITs alla luce del model BIT e si snoda sensibile all’intreccio dei suoi piani, cosa questa, aggiunge l’a., non di rado sottovalutata nelle trattazioni che si occupano di arbitrato Icsid (si può solo rimpiangere il mancato richiamo di “Giurisdizione italiana e arbitrato Icsid, Il riconoscimento dell’accordo compromissorio e la pendenza del procedimento”, cioè del pregevole contributo monografico pubblicato da Laura Bergamini nel 2012 presso ETS).
Tre appendici coronano la trattazione: la prima raccoglie la normazione italiana sull’arbitrato; la seconda, le regole della maggiore istituzione arbitrale italiana (Camera arbitrale di Milano); la terza, la lista dei trattati bilaterali di protezione degli investimenti internazionali in vigore tra l’Italia e gli altri paesi. Chiude il lavoro un indice secondo le fonti normative italiane e internazionali.
3.Pur costretta dalla sua impostazione a innumerevoli fermate di approfondimento, l’esposizione scorre fluida, pervenendo a rendere un quadro rassicurante dell’ordinamento italiano di cui si vengono gradatamente a schiarire le ombre: i punti cruciali sono affrontati e non aggirati. Da parte mia vorrei limitarmi a segnalare due degli sticky issue incontrati nel procedere: l’idea (infondata) che gli arbitri italiani non avrebbero il potere di comminare astreinte, e la presenza di quel mostro mitologico che è l’arbitrato irrituale (mi sovviene il titolo di Ugo Draetta «Italy as a Place for International Arbitrations: the Myths of the ‘Italian Torpedo’, the ‘Irritual’ Arbitration et alia, in Revue de droit des affaires internationales, 2013, p. 159).
Quanto al primo punto, Benedettelli comprende e rafforza le ragioni di quella parte di dottrina italiana che vede nella esclusione della astreinte un indebito overloading dell’esclusione dello jus imperii, e ritiene, di conseguenza, che non vi sia ragione di dubitare dell’applicabilità dell’art. 614-bis c.p.c. nel giudizio arbitrale. Malgrado le voci originariamente orientate in senso contrario, la mancanza di poteri esecutivi non ha nulla a che vedere con il potere dell’arbitro di pronunciare la astreinte, cioè di affiancare alla condanna ad obbligazioni non pecuniarie anche la condanna a pagare il prezzo dell’eventuale adempimento. Il relativo capo di pronuncia opera infatti sullo stesso piano degli altri capi di condanna, compreso quello di condanna alle spese del giudizio.
Quanto all’arbitrato irrituale, per l’a. non è il caso di temere un mostro più mitologico che reale, considerata l’estrema rarità di imbattersi in arbitrati commerciali internazionali nella forma irrituale. Aggiungerei (ma questa è opinione mia, non di Massimo) che, ove questo putacaso capitasse, non accadrebbe nulla di strano e il vascello dell’arbitrato potrebbe essere agevolmente condotto in porto, senza panico. Un arbitrato irrituale è infatti indistinguibile da uno rituale, e la sua pronuncia finale costituisce final and binding award (la formula final & binding viene considerata propria del lodo rituale non solo in ragione di comprensibili difficoltà di traslazione concettuale, ma anche — e soprattutto — per insufficiente conoscenza del diritto italiano). Come essa sarebbe riconoscibile anche fuori d’Italia secondo la convenzione di New York. Lo award — perché di award si tratta — è definitivo perché non è rivedibile nel merito, bensì (come il lodo rituale) soggetto solo ad actio nullitatis (si distingue dal rituale solo per il tipo di azione esperibile: querela nullitatis di diritto comune ai sensi dell’art. 808-ter c.p.c.; querela nullitatis speciale ex artt. 827 ss. c.p.c.). Lo award — perché di award si tratta — è parimenti binding ancorché la tecnica di attuazione delle condanne in esso contenute sottostà a un diverso passaggio formale (decreto ingiuntivo) invece che da quello descritto dall’art. 825 c.p.c. (il cui primo comma recita “accertata la regolarità formale”, e ad un accertamento di formale regolarità, ma di minore portata, si assiste in sede monitoria). Forme diverse corrispondono ad autonome tecniche di attuazione proprie dell’ordinamento italiano, ma si tratta di diversità ininfluenti sulla idoneità dello award ad ottenere il riconoscimento all’estero secondo le regole proprie del paese di esecuzione (non v’è nulla negli artt. 4 e 5 della convenzione di New York che impedisca il riconoscimento di un award del genere). Queste, lo ripeto, sono però idee di cui mi prendo l’esclusiva responsabilità.
Il dato obiettivamente anomalo della legislazione italiana in materia di arbitrato resta comunque l’assenza, inspiegabile ai più, di poteri intérimaires e cautelari in genere (in particolare del potere di freezing injunction) in capo agli arbitri. Il famigerato “non possono” dell’art. 818 c.p.c. continua a privare l’arbitrato di una generale dimensione cautelare. È vero che eventuali misure d’urgenza restano garantite dai tribunali statuali, ma questo non cancella la clamorosa stonatura di un pubblico potere che irrompe nello svolgimento dell’arbitrato, e non in via ausiliaria (controllo esterno di regolarità), bensì per interferirvi con giudizi intrinsecamente di merito, cioè propri della funzione decisoria attribuita dalle parti in via esclusiva agli arbitri. Consapevole della difficoltà di convincere un giurista proveniente da altra (seppur limitrofa) area culturale che l’italica limitazione è corollario di un superiore pensiero giuridico, l’a. procede a circoscrivere il problema per sdrammatizzarlo. Dalla breccia positiva del divieto — cioè dal potere arbitrale di sospendere le delibere societarie — Benedettelli argomenta a favore del principio che il divieto non opera in generale per le misure self-executive, e propone così una less overreaching interpretation dell’art. 818 c.p.c. che non impedirebbe agli arbitri di pronunciare misure cautelari, riguardando la norma piuttosto il limite alla loro attuazione. E se questo tranquillizza solo in parte, va detto che lo sforzo di Massimo Benedettelli di affilare la critica dell’incongruo divieto dell’art. 818 c.p.c. contribuisce a rafforzare spinte che stanno facendo vacillare lo storico divieto: la Proposta della “Commissione Luiso” (vedi il testo presentato al ministro della giustizia dal Presidente della Commissione per l’elaborazione di proposte di interventi in materia di processo civile e di strumento alternativi, il 25 maggio 21) chiede esplicitamente di riconoscere agli arbitri “il potere di emanare provvedimenti cautelari, così attribuendo il dovuto rilievo alla linea di apertura che già era stata impressa con l’ultima riforma dell’arbitrato e la correlata modifica dell’articolo 818 c.p.c., ma che sino ad oggi era nell’ordinamento di fatto limitata al solo arbitrato societario e al potere per gli arbitri, in tale sede previsto, di disporre la sospensione cautelare delle delibere assembleari”. La Proposta aggiunge di tener conto dei rilievi critici “mossi al generale divieto per gli arbitri di emanare provvedimenti cautelari”, riconosce la funzione “di indispensabile complemento e completamento della tutela cautelare nell’àmbito della tutela giurisdizionale e per realizzare il principio di effettività di quest’ultima”, e dichiara esplicitamente di voler “allineare la disciplina italiana dell’arbitrato a quanto previsto negli ordinamenti europei, che da tempo riconoscono in capo agli arbitri il potere di emanare provvedimenti cautelari.” Sotto questo profilo, aggiunge, il conferimento di poteri cautelari agli arbitri “rende maggiormente attrattivo lo strumento arbitrale anche per soggetti e investitori stranieri” (in verità, poco si comprende la delimitazione “alle sole ipotesi di previa espressa volontà delle parti, manifestata nella convenzione di arbitrato o in atto scritto successivo”, ma il rimedio sta nel trasformare tale espressa volontà in una formula rituale nelle clausole di elezione della sede).
4. Il libro di Massimo Benedettelli insegna al giurista straniero l’arbitrato italiano e, quindi, l’ordinamento italiano sub specie arbitratus. Il fine è perseguito attraverso l’intima acquisizione della dottrina domestica dell’arbitrato, cioè di un àmbito consegnato alle prevalenti cure dei processualcivilisti. Nonostante l’interesse provocato in settori limitrofi, in Italia il grosso dei contributi viene infatti dai cultori del diritto processuale che, ratione loci, hanno sempre considerato il diritto dell’arbitrato come un’appendice della loro materia. Non sappiamo se questo sia un bene, certo è che l’arbitrato in Italia è stato studiato e organizzato attraverso le categorie concettuali, le preferenze, le mode e le idiosincrasie proprie di un peculiare milieu culturale, la cui apertura alla comparazione non garantisce sempre dall’autoreferenzialità negli svolgimenti argomentativi. Autoreferenzialità da cui non è certo affetto l’autore, temprato in questo da una provenienza accademica “collaterale” e dall’esperienza sul campo come arbitro.
Nel contempo, International Arbitration and Italian Law illumina il pubblico dei giuristi italiani sul mondo dell’arbitrato internazionale. Sotto questo aspetto il libro, per la sua vasta ampiezza e per la sua meticolosa completezza, può aspirare al ruolo, per gli anni a venire, di testo di riferimento (viene alla mente “La Cassation civile” di J. e L. Boré, ineguagliata introduzione ai problemi del giudizio di legittimità d’Oltralpe): il processualista italiano si rivolgerà quindi ad un testo prezioso per la messa a disposizione degli strumenti nella lingua dell’arbitrato internazionale, con la garanzia però della sua provenienza da un giurista italiano, cioè culturalmente legittimato a guidare lo sperduto lettore nei meandri del domestico codice di procedura civile. Si può allora sperare che l’a. dia mano — dopo meritato riposo — ad una editio minor idonea a fungere da libro di testo nei corsi di Arbitrato internazionale che vanno sempre più diffondendosi, in lingua inglese, nei nostri dipartimenti di giurisprudenza.
Considerate le premesse, la scelta dell’inglese era inevitabile. Si tratta ormai di uno standard che lascia solo il rammarico che non si trovi praticamente più nessuno che — fuori dalla destinazione al proprio mercato domestico — scriva nelle altre storiche lingue della tradizione giuridica europea (gli aa. hanno evidentemente perso fiducia nella capacità della propria lingua di varcare i confini). Ora, molte materie si prestano perfettamente ad essere esposte in inglese; un po’ meno il codice di procedura civile, che fornisce i quattro quinti del materiale di base del libro. Per due ragioni complementari.
La prima è nota, e sta nella profonda differenza tra le rispettive tool box (si provi a tradurre in inglese, in maniera semanticamente conveniente, la triade “decreto/ordinanza/sentenza”: ci si riesce, certo, ma a condizione di rinunciare alla precisione delle nozioni, cioè alla specificità denotativa fortemente voluta dagli artt. 132, 134 e 135 c.p.c. e, ancor più, dalla processualcivilistica italiana adusa a forgiarsi gli strumenti adatti per concettualizzare ben oltre il côté descrittivo. La seconda ragione sta nella difficoltà di comunicazione tra impalcature teoriche che mal tollerano trasposizioni linguistiche delle proprie procedure concettuali. Incapaci di essere espresse in linguaggi completamente formalizzati, le teorie giuridiche si appoggiano su conoscenze tacite che impongono consapevolezze metacognitive e metalinguistiche, dipendono dal contesto in cui sono generate, e mal sopportano di essere astratte dalla propria esperienza per essere articolate quali regole universali. Tanto più di fronte al compito di dover operare su un materiale — l’italico codice di procedura — intrinsecamente refrattario alla traduzione nel legal patois della tradizione di common law. Questo ha reso necessaria una imponente attività di “traslazione di contesti”, esigente conoscenza metalinguistica e pragmatic routines fatte di stili e registri, senza le quali la comunicazione è solo apparente.
Pregio del libro è aver tenuto fede all’intento comunicativo. Intento egualmente riuscito per il lettore di lingua inglese, per la comunità internazionale che questo idioma adopera come linguistic tool, e per il giurista italiano a cui viene fornita la cassetta degli attrezzi per prepararsi al meglio all’eventualità di un arbitrato internazionale.
Pregio non minore è aver fatto questo con un tocco di leggerezza, con humour, è forse il caso di dire.
[*] Recensione a Massimo Benedettelli, International Arbitration in Italy, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1/2022