Ma è davvero impossibile scrivere una riforma del processo di cognizione capace di ridurre numero e durata dei giudizi?

Di Andrea Proto Pisani -

1.Non è esatto che tutta la giustizia sia in crisi. I processi sommari, i processi di esecuzione forzata (relativamente ai quali molti interventi si sono avuti in questi ultimi venti anni), i procedimenti di giurisdizione volontaria non sono in crisi o, più esattamente subiscono i guasti generali propri della «amministrazione» anche della giustizia (di cui si dirà infra 3); pur potendo essere sempre migliorati salvo casi eccezionali, nella sostanza essi funzionano, ed in tempi relativamente ragionevoli.

La crisi concerne soprattutto i processi a cognizione piena ed esauriente (e indirettamente la esecuzione forzata i cui giudizi di op­ posizione sono veri e propri processi a cognizione piena) la cui durata si è stabilizzata negli ultimi venti anni in modo che rasenta il diniego di giustizia: in media oltre tre anni i processi di primo grado, oltre quattro anni i giudizi d’appello, oltre tre anni i giudizi di cassazione.

Secondo dati affidabili anche se non recentissimi, in primo grado i processi a cognizione piena: sono circa 950.000 processi sopravvenuti ogni anno, 950.000 processi esauriti ogni anno, 2.250.000 processi pendenti a fine anno: quest’ultimo dato individua il grosso macigno dell’arretrato. Considerando che al civile sono assegnati circa 2.200 giudici di tribunale, ne discende che ciascun giudice (con l’ausilio dei giudici onorari di tribunale) smaltisce circa 435 processi l’anno, cioè emana – dedotti i processi abbandonati – circa 220 sentenze l’anno, oltre alle sue competenze come giudice d’appello avverso le sentenze del giudice di pace, e alle sue competenze in materia esecutiva, sommaria, cautelare e camerale.

Presso le corti d’appello i processi d’appello sopravvenuti ogni anno sono: circa 110.000, 107-110.000 i processi esauriti ogni anno, i processi pendenti a fine anno sono oltre 380.000. Considerando che al settore civile delle corti d’appello sono assegnati circa 450-500 giudici, ciascun giudice esaurisce ogni anno circa 220 processi, oltre alle sue competenze civili di primo grado.

I giudizi di cassazione esauriti ogni anno sono circa 30,000, i sopravvenuti circa 30.000, i pendenti a fine anno, cioè l’arretrato, circa 100.000. Poiché i giudici assegnati ala corte di cassazione sono circa 150 ne segue che ciascun giudice definisce circa 200 giudizi l’anno.

2.In questa situazione che fare?

La giurisdizione civile (come la giurisdizione in generale), intesa come attività posta in essere da giudici autonomi e indipendenti soggetti soltanto alla legge selezionati tramite concorso, è una risorsa scarsa.

In civile non sono possibili amnistie o prescrizioni, e probabilmente si tratta di un qualcosa di positivo.

I giudici di pace riescono a stento ad esaurire i processi sopravvenuti senza creare arretrato. Non è pensabile quindi aumentarne ancora le competenze.

All’inizio degli anni ottanta del secolo scorso fu attuata nel penale una operazione di vasta portata: la c.d. depenalizzazione. Molti illeciti furono depenalizzati e trasformati, da reati di competenza dei magistrati, in illeciti amministrativi. Si pensi per tutti alla l. 24 novembre 1981 n. 689. L’accertamento in prima battuta di questi illeciti amministrativi fu attribuita ad autorità amministrative (normalmente al prefetto) le quali, a termine di rudimentali processi in contraddittorio, emanavano (e emanano), in caso di accertamento positivo dell’illecito, c.d. ordinanze esecutive irrogatrici di sanzioni amministrative, ordinanze suscettibili di essere “opposte” per qualsiasi motivo di fatto o di diritto davanti al giudice civile (giudice di pace o tribunale). Non si è mai dubitato della legittimità costituzionale di una simile operazione; basti pensare infatti per tutti alla efficacia esecutiva di lodi arbitrali, di conciliazioni obbligatorie o raggiunte a termine da una procedura di negoziazione assistita da avvocati, si pensi soprattutto al fenomeno dei titoli esecutivi stragiudiziali: dall’atto pubblico, alla scrittura privata autenticata, alla cambiale in regola col bollo (che è addirittura una scrittura privata non autenticata).

Si è tentato di seguire questa via con la previsione della conciliazione obbligatoria ex d.lgs. n. 28/2010 (e succ. modif.). Questa via, pur avendo impegnato molti operatori giuridici (in primis gli avvocati), non ha dato buoni frutti così come poco è da sperare dalle convenzioni negozialmente assistite dagli avvocati.

Il motivo di tale insuccesso deriva a mio avviso da due fattori:

a)il tentativo obbligatorio di conciliazione si svolge davanti a un terzo che è del tutto ignaro dei termini effettivi della controversia;

b)non è previsto alcuno strumento tecnico volto a far sì che le parti indichino in questa fase tutte le domande eccezioni e prove (precostituite e costituende, neanche quelle prove atipiche, costituite dalle scritture contenenti dichiarazioni di terzi o consulenze tecniche stragiudiziali): che cioè le parti calino le proprie carte, scarichino tutte le loro batterie (tanto non è previsto neanche dalla procedura di convenzione negoziazione assistita che pure si svolge con l’ assistenza di avvocati).

Orbene, un intervento ragionevole (e non illusorio come quello previsto dai recenti interventi del nostro inetto legislatore) potrebbe essere il seguente: prevedere che con riferimento a determinate -anche se molto estese- categorie di controversie relative a diritti disponibili, individuate in ragione della materia (ad es. talune controversie di lavoro e/ o previdenziali, controversie locatizie, controversie in materia di diritti reali, (ivi comprese quelle condominiali) controversie da infortunistica stradale, controversie successorie e altre da individuare), sia introdotto, in via legislativa, quale condizione di procedibilità (o addirittura di proponibilità) del processo, il preventivo tentativo obbligatorio di conciliazione innanzi ad un terzo imparziale (notai, funzionari specializzati delle Camere di commercio, ex avvocati dello Stato, giudici ordinari in pensione, eventualmente ex giudici onorari o giudici di pace, funzionari della P.A., ecc.).

Perché un simile istituto abbia successo, possa incidere sui grandi numeri che affliggono la giustizia civile, occorre però prevedere:

a)in primo luogo, che il tentativo di conciliazione sia effettuato da un collegio di conciliazione costituito da un terzo tendenzialmente imparziale che lo presiede e da due rappresentanti delle parti (che ben potrebbero o addirittura dovrebbero essere gli stessi difensori) appositamente designati dalle parti stesse;

b)in secondo luogo: che la richiesta del tentativo di conciliazione debba contenere, a pena di inammissibilità, l’esposizione dei termini della controversia, dei fatti e delle ragioni posti a fondamento della pretesa e delle prove di cui si dispone con produzione dei documenti (e delle prove atipiche costituite dalle scritture contenenti dichiarazioni di terzi o consulenze tecniche stragiudiziali) che debba essere preventivamente comunicata  alla controparte e che questa debba depositare osservazioni scritte tramite le quali prendere posizione specifica sui fatti posti dall’istante a fondamento della sua pretesa (a pena dell’operare del principio di non contestazione), sollevare eccezioni e indicare i mezzi di prova di cui si dispone con produzione dei documenti (e delle prove atipiche) ed eventuale proposizione di domande riconvenzionali.

Per rendere effettiva tale fase preparatoria del procedimento, occorrerebbe prevedere che nel successivo, eventuale, processo davanti al giudice non possono essere proposte domande o allegati fatti eccezioni, contestazioni, prove non proposte o allegati nella fase del tentativo obbligatorio di conciliazione;

c)in terzo luogo, che davanti al collegio di conciliazione debbano comparire personalmente le parti per essere interrogate liberamente;

d)in quarto luogo, che il collegio di conciliazione, anziché limitarsi a formulare una proposta per la bonaria composizione della controversia, una volta fallita anche quest’ultima possibilità di accordo, il collegio, o meglio il suo presidente debba redigere un verbale nel quale decidere la controversia allo «stato degli atti», ed il verbale contenente tale accertamento, ove sia nel senso di accoglimento della istanza, abbia ex lege valore a tutti gli effetti di titolo esecutivo stragiudiziale. Si tratterebbe, nella sostanza, in caso di accoglimento della istanza, di creare una nuova ipotesi di titolo esecutivo di formazione stragiudiziale alla stessa stregua di quanto ad es. effettuato dall’art. 18, 1. 689/1981 riguardo alla ordinanza irrogatrice della sanzione amministrativa.

Vi è di più. Con un poco di immaginazione si potrebbe – e a mio avviso si dovrebbe – disporre che l’accertamento allo “stato degli atti” sia idoneo a costituire non solo ex lege titolo esecutivo di formazione stragiudiziale, ove sia nel senso di accoglimento o di rigetto nel merito dell’istanza, ma, indipendentemente dal se l’accertamento sia positivo o negativo, sia anche destinato a divenire immutabile ove nessuna delle parti instauri un processo di opposizione a cognizione piena ed esauriente di primo grado entro un determinato termine perentorio. Anche qui il regime della ordinanza irrogatrice della sanzione amministrativa sta ad indicare quanto meno la possibilità di una tale scelta.

Questa proposta, se adeguatamente attuata, avrebbe i vantaggi:

aa) di essere a costo zero o quasi, perché il compenso del terzo graverebbe sulle parti;

bb) di non prevedere l’assistenza degli avvocati perché essi sarebbero già componenti del collegio di conciliazione e sarebbero sempre retribuiti dalla parte soccombente;

cc)di incidere davvero sui grossi numeri della giustizia civile, perché, una volta introdotto il regime di preclusioni di cui supra sub b, è ragionevole prevedere che il numero delle opposizioni davanti al giudice dovrebbe essere notevolmente, ridotto;

dd)essa opererebbe – è opportuno aggiungere – la più grossa privatizzazione mai tentata nella giustizia civile (per trovare qualcosa di analogo occorre risalire alla attribuzione di efficacia esecutiva alla cambiale disposta dal cod. comm. del 1882), ma tale privatizzazione non sarebbe in modo alcuno adeguamento al liberalismo sfrenato che sembra caratterizzare l’attuale fase dei rapporti politico sociali, e lascerebbe inalterate le garanzie e l’equilibrio delle parti.

3.Se si adottasse una strada della specie ora riassunta è ragionevole ritenere che il numero delle controversie sopravvenute in primo grado si riduca notevolmente e, sia pure in prospettiva, si potrebbero aumentare i giudici di appello anche attraverso applicazioni mirate.

Per aggredire davvero i mali della giustizia civile, gli interventi dovrebbero (oltre a quello retro 2), essere soprattutto ordinamentali e organizzativi, mali che riguardano la giustizia civile nel suo complesso e non solo i processi a cognizione piena ed esauriente.

Pertanto, si dovrebbe provvedere ad una serie di interventi:

a) aumento del numero dei giudici togati, pur nella consapevolezza che non è possibile aumentarne il numero più di un massimo di cinquanta unità l’anno; pur nella consapevolezza, cioè, che in dieci anni si possono reclutare solo cinquecento giudici in più rispetto ai circa diecimila magistrati attuali;

b) ripensare radicalmente il fenomeno dei giudici onorari (giudici di pace, giudici onorari di tribunale e pubblici ministeri onorari) nella consapevolezza per un verso che di essi la giustizia nel suo complesso non può fare a meno, per altro verso di evitare soluzioni che conducano ad un precariato inammissibile o alla creazione di veri e propri magistrati di serie B; le soluzioni sinora adottate sono tutte in Prevedere, pertanto, che il rapporto di lavoro dell’uditore divenga a tempo indeterminato – o definitivo che dir si voglia – dopo il decorso di un termine di almeno due anni dall’assunzione delle funzioni, seguito dall’accertamento positivo in ordine alle attitudini e capacità anche quantitativa del lavoro;

c)attuazione immediata di un filtro effettivo all’accesso alla professione di avvocato, con esami di abilitazione di una qualche serietà (con scritti che escludano l’utilizzo dei c.d. codici commentati, e commissioni presiedute da avvocati o magistrati dotati di effettiva autorevolezza); e lo stesso è da dire riguardo agli avvocati abilitati ad esercitare presso le c.d. magistrature superiori. È indubitabile, infatti, che il numero delle controversie civili (e dei ricorsi civili per cassazione) dipende anche in gran parte dal numero degli avvocati;

d)introduzione progressiva del c.d. ufficio del giudice: cioè affiancamento del giudice da parte di un pubblico funzionario laureato in giurisprudenza, di ruolo, che, dopo aver superato il concorso di accesso e un conseguente lungo periodo di prova, coadiuvi il giudice in tutte le attività che non attengano allo ius dicere in senso stretto; le soluzioni, attuate, di utilizzazione precaria degli aspiranti al concorso per la magistratura o dei praticanti avvocati, se possono essere utili per i tirocinanti, non lo sono per il giudice che finisce per essere gravato anche della attività volta alla loro formazione;

e)revisione dei criteri di selezione dei «capi» degli uffici direttivi e semidirettivi, spostandone la scelta diretta dal Csm (che ha fatto pessimo uso di tale “potere”) ai magistrati addetti all’ufficio, gli unici davvero in grado di conoscere le qualità effettive (anche organizzative) degli aspiranti a tali incarichi; rinviando a quanto ho già avuto occasione di scrivere a riguardo (v. Foro it., 2008, V, 129). Vorrei limitarmi ad osservare come solo una tale riforma (da adottare ovviamente con tutte le controcautele necessarie) attuerebbe davvero il precetto costituzionale secondo cui i magistrati si distinguono unicamente per le funzioni;

f) aumento del numero dei cancellieri e dei segretari;

g) completamento dell’informatizzazione dei processi;

h) revisione della disciplina dei giudizi periodici di professionalità (da parte dei Consigli giudiziari e del S.M.) nel senso di porre fine al malcostume per cui magistrati (se del caso ottime persone) inidonei a svolgere le proprie funzioni o manifestamente inetti rimangano in servizio fino alla età della pensione.

Ecco una riforma a costo zero da cui si potrebbe cominciare (anche attraverso un uso più incisivo dei direttori o dirigenti amministrativi dell’Ispettorato del Ministero della Giustizia).