L’oralità digitale e il simulacro dell’immediatezza: è ancora un processo accusatorio?

Di Roberto Paradisi -

SOMMARIO: 1. Le ragioni antiche dell’oralità e dell’immediatezza del processo: «l’eco delle parole di udienza» – 2. L’immediatezza diventa «simulacro»? La fallacia logica contenuta nella sentenza della Corte Costituzionale n. 132 del 2019 – 3. La nuova frontiera dell’oralità/immediatezza nella riforma Cartabia. Il giudice assente – 4. Verso una decisione “robotica”?

Le ragioni antiche dell’oralità e dell’immediatezza nel processo: «l’eco delle parole di udienza».

La civiltà occidentale ha riconosciuto e coltivato fin dagli albori della conoscenza giuridica i principi processuali di oralità e immediatezza.

Gli anziani giudici, disegnati nello scudo di Achille, che siedono in circolo per ascoltare in contraddittorio l’accusato e i parenti della vittima, celebrano il rito del processo oralmente e senza mediazioni. Ascoltano ed osservano i contendenti prima di assumere la decisione finale. Allo stesso modo la dea Atena, che presiede un collegio di giudici popolari scelti tra i migliori degli ateniesi, invita le parti al contradditorio davanti alla Corte lamentando il fatto di non aver ancora ascoltato la versione di Oreste, l’accusato. E Apuleio si rivolge direttamente al giudice Claudio per convincerlo e persuaderlo della propria innocenza.

La cultura giuridica greca e romana ha fatto dell’oralità e dell’immediatezza, mutuando peraltro la struttura dialettico-agonistica della tragedia greca, i punti cardine del processo. Lo ricorda Calamandrei (evocando l’insegnamento di Chiovenda il cui impegno per l’oralità viene definito un «apostolato» dal maestro fiorentino) il quale sottolinea come la tradizione del processo romano – ma lo stesso discorso è certamente mutuabile dal processo greco sia arcaico che classico – ha fondato su detti principi la formazione del libero convincimento del giudice «sulla base della immediata osservazione degli elementi della cognizione»[1]. Una tradizione interrotta e violata nel processo medioevale fino alla reazione della dottrina a partire dal 1700.

Scrive Calamandrei: «La battaglia per l’oralità di cui furono precursori in Italia Mario Pagano e Nicola Nicolini, e all’estero il Bentham ed il Mittermaier, si agitò, da prima, nel campo del processo penale, ed in questo campo l’oralità fu presto adottata dalla quasi generalità degli stati civili, compresa l’Italia […]. Oralità, come si è detto, è una espressione sintetica adoperata per indicare un sistema di principi inseparabili, all’insieme dei quali bisogna riferirsi, se si vuole intendere il vero contenuto di questa espressione»[2].

Non una semplice modalità di conduzione dei lavori da parte degli operatori di giustizia dunque, ma una vera e propria filosofia processuale che individua nell’immediatezza della parola e nella concreta realizzazione di un contraddittorio vivo ed in fieri (celebrato sotto il controllo di un Giudice terzo che ha il compito di mantenerlo nell’ambito del thema probandum) lo strumento (naturalmente) più adeguato per l’accertamento della verità processuale. Una modalità che prevede regole tecniche rigorose che rispondono a principi che potremmo oggi definire del “giusto processo”. Calamandrei individua (sulla scia di Chiovenda) quattro punti fermi del principio dell’oralità: 1. oralità significa prevalenza del discorso parlato; 2. oralità significa dialogo diretto tra l’organo giudicante e le persone di cui esso deve raccogliere e valutare le dichiarazioni (immediatezza). Tale aspetto, per il maestro fiorentino, è processualmente il più importante («si parla ai presenti, si scrive agli assenti»). Oralità vuol dire – scrive Calamandrei – «presenza contestuale degli interlocutori e quindi immediato susseguirsi, senza intervalli e senza intermediari, delle domande e delle risposte che nel processo scritto danno luogo ciascuna a un separato episodio processuale»[3]. Ed ancora il terzo punto toccato dal Maestro: 3. oralità significa identità delle persone fisiche che costituiscono l’organo giudicante durante la trattazione della causa. Scrive Calamandrei: «Là dove il processo si svolge in forma dialogica, e la convinzione del giudice si forma progressivamente attraverso il contatto personale che egli ha con le parti e coi testimoni, ogni mutazione che avvenisse nelle persone dei giudicanti durante il corso del processo, distruggerebbe i vantaggi della immediatezza e interromperebbe nella istruttoria quella continuità psicologica, in forza della quale essa funziona nel processo orale come una acquisizione continuata e progressiva fino alla decisione finale»[4]. Ed infine l’ultimo punto, con un passaggio particolarmente evocativo: 4. oralità significa concentrazione della trattazione della causa in un unico periodo (dibattimento) contenuto in una sola udienza o in poche udienze successive. «Il dibattimento orale è tipicamente contestuale […]; la decisione deve esser pronunciata immediatamente prima che dall’animo del giudice sia scomparso l’eco delle parole che egli ha raccolte in udienza»[5].

È l’animo del giudice dunque che rielabora «l’eco delle parole». Il passaggio non sembra solo cercare una suggestione. Vi è di più. Oltre la necessaria valutazione razionale di ogni passaggio processuale, il vaglio critico di ogni testimonianza o esame di parti e consulenti, la capacità di sviluppare argomentazioni logiche vi è, nelle parole di Calamandrei, la valorizzazione della necessità, da parte del giudicante, di cogliere tutti gli aspetti della vicenda processuale: non verbali, emotivi, psicologici.

Non si tratta di mera speculazione filosofica o di ipotesi ideali ed astratte, ma di realtà pratica. Vi è un aneddoto estremamente esplicativo, riferito dall’avvocato Corso Bovio nel corso del convegno “Arte della persuasione e processo” tenutosi a Firenze nel 1997. Il giurista riferisce di un colloquio avuto con un amico magistrato al quale chiedeva quanto potesse influire l’arringa finale di un avvocato sulla decisione in camera di consiglio. La risposta è indicativa: «Se ci sottoponete delle questioni giuridiche […] che non ci siamo posti, avete un buon margine di possibilità di convincerci […]. È invece difficile che possiate illustrarci qualcosa di nuovo sul fatto […]. Contano le impressioni o, meglio, i convincimenti che noi giudici ci siamo fatti durante il dibattimento nel percepire e nel vedere ‘maturare’ la composizione e la crescita delle prove. Le evidenze e le persuasioni, in me maturate ascoltando e vedendo i testimoni in aula, costituiscono il mio convincimento, che anche per il più bravo degli avvocati è quasi impossibile scalfire»[6]. Convincimento, è bene aggiungere, che non nasce (o non dovrebbe) da una visione soggettiva del giudicante ma dall’osservazione, secondo lo schema del contraddittorio, di tutta una serie di elementi che emergono (in termini che potremmo definire addirittura “naturali”) di fronte a chi è chiamato a decidere in termini sempre più chiari. È il contraddittorio che depura il fatto da orpelli e suggestioni, impressioni meramente epidermiche e tentativi (magari retorici) di deviare l’attenzione su fattori secondari o addirittura mistificanti. «È il contraddittorio delle parti alla presenza del decidente – spiega la processualista Chinnici – ad offrire lo schema tecnico per neutralizzare il rischio, insito in ogni giudizio, dell’inevitabile soggettività del giudice, suggellando con il suo crisma – derivante dall’essere il metodo epistemologico più congruo al migliore assolvimento della funzione giurisdizionale – l’imparzialità e terzietà del giudice»[7]. Contraddittorio che è sinallagmaticamente correlato alla immediatezza «senza la quale il contraddittorio perde la sua autentica attitudine euristica»[8]. Ogni regola, persino quella più tecnica del processo penale accusatorio (si pensi, ad esempio, all’art. 506 del codice di procedura penale che, dopo aver previsto la possibilità per il presidente del Collegio di indicare alle parti temi di prova nuovi o più ampi, prevede il diritto delle parti stesse di concludere l’esame) è finalizzata a garantire l’effettività della dialettica tra le parti stesse e tra queste e il Giudice in uno scontro agonistico (potremmo definirlo hegelianamente una contrapposizione tra tesi e antitesi) da cui emergerà una sintesi, che è poi la sentenza[9].

Potremmo dire con Pierpaolo Dell’Anno che i principi di oralità e immediatezza, riassumibili anche nel principio di “immutabilità del giudice”, hanno rappresentato «uno dei pilastri attorno ai quali è stato costruito l’impianto del codice di rito penale dell’88»[10]. Un impianto codicistico che si innestava in una secolare tradizione giuridica e che richiamava l’idea per la quale chi giudica deve assistere (finanche con possibilità di intervento laddove ne senta la necessità anche di esplorare campi non percorsi) allo scontro dialettico tra le parti, ascoltando le ragioni contrapposte ma anche osservando comportamenti, atteggiamenti, movenze, reticenze. Financo valutando gli stati d’animo e non limitandosi alla fredda lettura di enunciati, proposizioni, rilievi. Perché una decisione non può che derivare da una osservazione e analisi complessiva del conflitto dialettico appena celebrato (tanto che Calamandrei, come si è visto, parla espressamente di «continuità psicologica» nell’istruttoria) in cui entrano anche impressioni ed emozioni che hanno ragione di essere valutate (altra questione è lasciarsi “condizionare” o “deviare” da esse). Perché, è bene non dimenticarlo, i sentimenti e le emozioni da sempre non solo esistono ma hanno ruoli specifici nel mondo del diritto[11]. Un “bagaglio” di conoscenza processuale da portare in camera di consiglio, dove il giudice, nell’esercizio del suo libero convincimento, dovrà necessariamente utilizzare una razionalità argomentativa non senza però tralasciare (proprio nell’ambito del ragionamento giudiziario che è chiamato ad articolare) le emozioni percepite nel corso del processo in quanto anche le emozioni svolgono «un ruolo epistemico fondamentale perché servono a richiamare l’attenzione non solo su certi elementi di dettaglio salienti della situazione, ma anche sulle stesse sensazioni vissute»[12]. Evocando Aristotele, Amalia Amaya Navarro sostiene che le emozioni presenti nel diritto e nella moralità non sono impulsi incontrollabili o reazioni istintive, ma stati cognitivi[13]. Passioni ed emozioni dunque non solo quale strumento in mano alla retorica ma elementi fondamentali nel giudizio anche in chiave epistemica. «Esse (le passioni, ndr) svolgono almeno due imprescindibili funzioni nel giudizio: innanzitutto offrono elementi di conoscenza perché segnalano cosa conti per l’essere umano […]. La seconda funzione è regolativa: le passioni contribuiscono a far tendere verso il giusto mezzo, contrastandosi reciprocamente»[14].

Un dato ben colto da Bruno Celano che, in difesa di un approccio psicologistico (definito dal filosofo «piscodeontico») al ragionamento giuridico, si è chiesto come sia possibile affermare che «fonemi, morfemi, enunciati, proposizioni (o in generale significati) e relazioni logiche sono entità osservabili, più di quanto non lo siano eventi, disposizioni, stati, atti, processi mentali?»[15]. Celano critica la posizione di chi ritiene che il ragionamento giuridico debba essere solo quello logico (l’autore evoca espressamente anche il ruolo rivestito in chiave anti-psicologistica da Kelsen[16]) sostenendo che tale approccio «è figlio della polemica contro lo psicologismo degli inizi del XX secolo»[17]. Un approccio etichettato anche come «una vera e propria ideologia legale-razionale» tale da rendere il sillogismo giudiziale quale modello del ragionamento giuridico[18].

In tale quadro, risulta quasi anacronistico parlare di decisioni giudiziarie frutto di mere e fredde deduzioni razionali (la credenza del sillogismo giudiziario – come ricorda Esposito – è stata smentita clamorosamente dalla realtà e dalla stessa logica”[19]). Il processo è narrazione, coinvolgimento, interpretazione dei fatti, osservazione di stati d’animo, analisi dei comportamenti non verbali. «È importante – scrive Orlandi in riferimento a ciò che accade nell’ambito di un processo – saper guardare, essere attenti e ‘leggere’ le persone che si muovono davanti a noi; talora, così facendo, può capitare di trovarsi di fronte a scoperte sorprendenti. Dobbiamo tener presente che, ad esempio, il comportamento non verbale può sfuggire al controllo della persona ed essere in tal modo rivelatore di un messaggio autentico»[20]. E Gullotta rincalza: «Il linguaggio del corpo è inseparabile dall’espressione orale, tanto che da sempre la decodifica della parola è collegata alle intonazioni, ai gesti, alla mimica di chi parla»[21].

Come spiega Eposito, il giudice ricostruisce i fatti narrati «mettendo insieme osservazioni, sensazioni, percezioni, punti di vista, interazioni tra più soggetti coinvolti. Emozioni»[22]. Ciò comporta interazione continua (potremmo dire finanche «empatica»[23]) con tutti i protagonisti del processo. Per farlo, vi è una condizione: la presenza fisica del giudice in aula. Lo stesso (inteso quale persona fisica) che, in camera di consiglio, tirerà le fila della complessiva narrazione processuale.

Dante Troisi, magistrato e scrittore, nel suo “Diario di un giudice” (che gli costò un doloroso procedimento disciplinare intentato dall’allora ministro della Giustizia Aldo Moro per aver criticato anche il conformismo e il carrierismo giudiziario), auspicava proprio un esercizio di empatia nei confronti dei protagonisti del processo e, occorrerebbe aggiungere, nei confronti dei fatti narrati. Un coinvolgimento nella scena processuale impensabile in assenza dell’applicazione dei principi di oralità e immediatezza.

In quelle pagine, Troisi invitava i magistrati ad osservare le emozioni dei protagonisti dei processi anche fuori dai loro ruoli di udienza. Pagine profondamente significative: «Si dovrebbe imporre ai giudici di osservare quanto accade mentre gli altri giudici sono in camera di consiglio. Almeno una volta al mese, mescolarsi alla folla dietro la transenna, guardare gli imputati, i testimoni, gli avvocati; soprattutto guardare gli imputati quando suona il campanello che annuncia il ritorno del collegio per la lettura del dispositivo […]. Non dimenticheranno gli occhi sul crocefisso o sul difensore che pare possa ancora aiutarli, la mano sulla spalla della madre o della sposa, l’espressione di fiducia, di rimorso, la silenziosa promessa di ravvedimento»[24].

L’immediatezza diventa «simulacro»? La fallacia logica contenuta nella sentenza della Corte Costituzionale n. 132 del 2019.

Con la sentenza n. 132 del 2019[25], la Corte Costituzionale, pronunciandosi in via incidentale sulla questione di legittimità degli artt. 511, 525, comma 2 e 526, comma 1, del codice di procedura penale posta dal Tribunale di Siracusa, ha aperto una breccia storica nei principi, da sempre ritenuti non negoziabili, di oralità e immediatezza del processo penale. Il tema principale (di matrice apparentemente solo tecnica ma sostanzialmente riguardante il cuore pulsante e la radice filosofica classica del processo accusatorio) era incentrato sulle conseguenze del mutamento del giudice nel corso del processo penale[26]. Fino ad allora, giusto dettato delle norme processuali sopra citate, era vigente il principio per cui alla deliberazione finale devono concorrere, a pena di nullità, gli stessi giudici che hanno partecipato al dibattimento. Un assunto di fatto contestato dal Tribunale di Siracusa che chiedeva alla Consulta di esprimersi sulla possibilità di una lettura orientata delle norme sulla base di un bilanciamento tra il principio di oralità/immediatezza (l’immutabilità del giudice è un corollario di tale principio) e principi diversi quali la ragionevole durata del processo e l’effettività del giudizio.

Preliminarmente, la Corte ha precisato che nel vigente rito (accusatorio) «il principio di immediatezza della prova è strettamente correlato al principio di oralità: principi, entrambi, che sottendono un modello dibattimentale fortemente concentrato nel tempo, idealmente da celebrarsi in un’unica udienza o, al più, in udienze celebrate senza soluzione di continuità». Aggiungendo però poi: «Solo a tale condizione infatti, l’immediatezza risulta funzionale rispetto ai suoi obiettivi essenziali: e, cioè, da un lato quello di consentire la ‘diretta percezione’, da parte del giudice deliberante, della prova stessa nel momento della sua formazione, così da poterne cogliere tutti i connotati espressivi, anche quelli di carattere non verbale, particolarmente prodotti dal metodo dialettico dell’esame e del controesame, connotati che possono rivelarsi utili nel giudizio di attendibilità del risultato probatorio; e, dall’altro, quello di assicurare che il giudice che decide non sia passivo fruitore di prove dichiarative già da altri acquisite  ma possa, ai sensi dell’art. 506 c.p.p., attivamente intervenire nella formazione della prova stessa, ponendo direttamente domande ai dichiara nti e persino indicando alle parti nuovi o più ampi temi di prova».

Dopodiché la Corte ha sottolineato come l’esperienza maturata in oltre 30 anni di vita del vigente codice abbia però restituito una realtà molto lontana dal modello ideale di processo immaginato dal legislatore con dibattimenti che, di regola, si concludono dopo molte udienze e dopo mesi o anni dall’inizio.

Ed ecco il passaggio più emblematico: «In una simile situazione, il principio di immediatezza rischia di diventare un mero simulacro»[27].

Il termine «simulacro» è tutt’altro che casuale. Avendo ormai il quadro chiaro dell’evoluzione di tale “nuovo” (in realtà, possiamo oggi dire, trattasi di un inquietante ritorno ad echi inquisitori mai sopiti del tutto) orientamento culturale, anche in relazione alle successive pronunce giurisdizionali e poi alle novelle legislative, quel termine apparentemente stonato utilizzato dalla Corte Costituzionale si poneva in realtà, già nel 2019, come punto di snodo e serviva a indicare agli operatori del diritto e finanche al legislatore che un’epoca con i suoi portati culturali (tramandati dalla più antica tradizione giuridica occidentale) e i suoi principi doveva ritenersi conclusa. «Simulacro» significa infatti, in termini letterali, immagine o icona di una testimonianza passata. Una sorta di reliquia che appartiene ad un mondo scomparso. In termini estensivi il «simulacro» altro non è che una “traccia” o “parvenza” di quello che fu. Quel termine dunque, inserito in termini chirurgici in un passaggio emblematico della pronuncia del 2019, sancisce di fatto (ma anche di diritto) la volontà di relegare un principio ritenuto intangibile dalla cultura giuridica più illuminata ad una mera traccia del passato. E questo passaggio che potremmo definire quantomeno “ardito”, a ben vedere, è frutto di una fallacia logico-argomentativa.

La fallacia, in particolare, si nasconde nelle conseguenze apodittiche legate alla doppia premessa del ragionamento della Corte. Rivediamo i passaggi: «Il principio di immediatezza della prova – scrive la Consulta – è strettamente correlato al principio di oralità: principi, entrambi, che sottendono un modello dibattimentale fortemente concentrato nel tempo, idealmente da celebrarsi in un’unica udienza o, al più, in udienze celebrate senza soluzione di continuità». In tale passaggio argomentativo, la Corte però si riferisce di fatto solo al principio dell’oralità inteso come “diretta percezione” del giudice della prova e non già al principio di immediatezza legato alla possibilità dialogica del giudice con i suoi ampi poteri di intervento (tale aspetto non ha nulla a che vedere con l’ideale di un processo fortemente concentrato nei tempi). Aggiunge poi la Consulta, presentando una conclusione che non è né logica né coerente rispetto alla premessa: «Solo a tale condizione infatti, l’immediatezza risulta funzionale rispetto ai suoi obiettivi essenziali: e, cioè, da un lato quello di consentire la ‘diretta percezione’ da parte del giudice deliberante, della prova stessa […] dall’altro, quello di assicurare che il giudice che decide non sia passivo fruitore di prove dichiarative già da altri acquisite  ma possa […] attivamente intervenire nella formazione della prova stessa, ponendo direttamente domande ai dichiaranti e persino indicando alle parti nuovi o più ampi temi di prova». Ad annidarsi nelle pieghe di tale ragionamento è la fallacia del non sequitur[28]: in modo particolare, la conseguenza formulata dalla Corte, per la quale si dà come per vero ed assodato il principio che «solo a condizione» che il processo si celebri in un’unica udienza «o al più in udienze celebrate senza soluzione di continuità» l’immediatezza risulterebbe funzionale rispetto ai suoi obiettivi essenziali, tra cui soprattutto la possibilità di intervenire direttamente nella formazione della prova, non segue la premessa. Non vi è infatti alcuna relazione apprezzabile tra la durata del processo e il principio per cui il giudice che entra in camera di consiglio per deliberare debba essere lo stesso che, nel corso dell’istruttoria dibattimentale, ha partecipato personalmente alla formazione della prova fugando dei dubbi, ponendo direttamente domande, indagando temi non toccati dalle parti. Un ruolo, questo, fondamentale nell’ambito dell’agone giudiziario in cui tesi e anti-tesi (per utilizzare il termine hegeliano) si contrappongono ed in cui è il giudice terzo a dover trovare la “sintesi”.

Una volta cristallizzato un tale ragionamento, a nostro avviso logicamente invalido, la Consulta chiosa affermando in sostanza (in termini certamente veritieri) che trenta anni di esperienza processuale accusatoria ci hanno lasciato un quadro diverso rispetto alla concentrazione dei tempi: processi che durano mesi se non anni. Corollario che pesa come un macigno: il principio di oralità/immediatezza è – “sentenzia” la Consulta – un «simulacro» ormai privo di senso.

Orbene, al netto della fallacia logica contenuta in tali passaggi, la domanda da porsi è la seguente: davvero solo nel caso in cui il processo sia breve e sia quindi concentrato in una sola udienza o in più udienze celebrate senza soluzione di continuità ha un senso rispettare il principio di oralità/immediatezza?

Abbiamo ricordato come i giuristi più illuminati della nostra tradizione (ma, in realtà, in termini di principio, sarebbe difficile trovare voci stonate rispetto a quella che è ormai diventata una coscienza giuridica comune che si è formata in relazione al “giusto processo”) abbiano sottolineato come il rito accusatorio caratterizzato dal principio di oralità/immediatezza sia il miglior metodo storicamente consolidato di ricerca della verità processuale. E lo stesso Calamandrei indica alcuni punti essenziali (certamente in ordine progressivo di importanza) che rappresentano la concretizzazione di detto principio: prevalenza del discorso parlato; dialogo diretto tra il giudice e i dichiaranti («si parla ai presenti, si scrive agli assenti»); immutabilità del giudice con conseguente identità tra chi ha gestito l’istruttoria in forma dialogica e chi assume la decisione finale per non interrompere la «continuità psicologica» dell’istruttoria stessa. Solo quale ultimo punto (non a caso), il Maestro fiorentino cita il pur importante elemento della concentrazione del processo in una o più udienze successive. Ma, soprattutto, Calamandrei (ma non solo) non condiziona la validità dei primi tre punti alla sussistenza effettiva dell’ultimo.

Considerazione preliminare: se l’assetto ideologico del processo così come tramandatoci dai Maestri della nostra tradizione giuridica è considerato in sé “giusto” (come recita anche l’art. 111 della Costituzione), occorrerebbe lavorare per garantire il rispetto di ogni suo elemento e quindi trovare la via per accelerare i processi e non modificare le regole prendendo atto della realtà di fatto. Che è “patologica”. Perché così facendo, è del tutto evidente che si finisce per stravolgere e poi tradire la filosofia processuale che appartiene al dna della cultura giuridica occidentale in nome di un mero e asettico pragmatismo. Dietro l’angolo di simili posizioni è appostato quello che Max Ascoli definiva il «servilismo pratico dell’attualismo o del pragmatismo»[29].

Inchinarsi al mero pragmatismo, comporta conseguenze immediate e che mettono in discussione diritti e garanzie per cui dovrebbero essere impensabili ipotesi di arretramento. Tra le garanzie dell’imputato ad un processo “giusto” e il rispetto di un principio secolare della nostra tradizione giuridica da una parte e la legittima aspettativa del magistrato ad un trasferimento, dall’altra, a mero titolo di esempio, il bilanciamento degli interessi in gioco non dovrebbe alimentare dubbi. Ma, al netto di tale considerazione (pur necessaria), vi è di più.

Assumere, quale elemento dirimente, solo una caratteristica pur importante del principio di oralità/immediatezza, rinunciando a valorizzare indistintamente tutti gli altri elementi connaturati a detto principio, è operazione intellettualmente criticabile.

E gli stessi giudici della Consulta potrebbero aver avuto una chiara consapevolezza della debolezza della propria argomentazione nel momento in cui, argomentando ulteriormente sulla necessità di decretare il tramonto del principio di oralità/immediatezza, tralasciano integralmente,  in un successivo passaggio della sentenza, l’aspetto della necessità che il giudice che decide debba essere lo stesso che ha partecipato attivamente alla prova utilizzando i propri poteri in termini strumentali alla formazione progressiva del proprio convincimento (come la stessa Corte aveva in punto di principio ricordato, salvo poi non valorizzare affatto tale elemento). Ed infatti, “dimenticando” l’essenzialità della “immediatezza” intesa come  immediato intervento diretto del Giudice durante la formazione della prova e concentrandosi solo sull’aspetto temporale del processo, la Consulta chiosa: «Anche se il giudice che decide resta il medesimo, il suo convincimento, al momento della decisione, finirà – in pratica – per fondarsi prevalentemente sulla lettura delle trascrizioni delle dichiarazioni rese in udienza delle quali egli conserverà al più un pallido ricordo».

Un passaggio che omette, in termini integrali, di sottolineare, da una parte, l’essenzialità del “discorso parlato” (caratteristica processuale tramandataci dai greci) e quindi dell’osservazione da parte del giudicante dello scontro dialettico (finanche dell’osservazione e valutazione del linguaggio corporeo dei protagonisti nonché delle loro emozioni/passioni), dall’altra, soprattutto, il ruolo strategico del giudice che deve (dovrebbe) – come già ampiamento ricordato – intervenire direttamente nella formazione della prova anche ponendo domande ulteriori, indagando campi inesplorati dalle parti o proponendo nuovi temi di prova.

Messi dunque in secondo piano (fino a sparire nella seconda parte della sentenza) il “discorso parlato” ed il ruolo attivo del giudice, la strada per aprire la breccia è già tracciata.

Citando alcuni casi in cui la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito che il principio di immediatezza può essere sottoposto a «ragionevoli deroghe», la Corte ha così chiosato affermando che «resta aperta per il legislatore la possibilità di introdurre ragionevoli eccezioni al principio dell’identità tra giudice avanti al quale è assunta la prova e giudice che decide, in funzione dell’esigenza, costituzionalmente rilevante, di salvaguardare l’efficienza dell’amministrazione della giustizia penale, in presenza di meccanismi compensativi  funzionali all’altrettanto essenziale obiettivo della correttezza della decisione – come ad esempio la video-registrazione delle prove dichiarative».

Una chiara indicazione al legislatore che verrà poi prontamente colta.

Restano da fare sul punto alcune brevi considerazioni che non possono non tener conto di come la filosofia processuale del “giusto” processo comporti da sempre tangibili conseguenze pratiche nelle aule di giustizia. Perché è un fatto (non seriamente contestabile) che un giudice che prenda cognizione di una istruttoria dibattimentale condotta da altri, senza aver avuto la possibilità di intervento alcuno (anche solo magari per fugare dei dubbi o per indicare un tema inesplorato), senza aver osservato il comportamento delle parti, senza aver colto sfumature, emozioni, paure (si pensi banalmente alla presunta vittima che ha tremori o abbassa lo sguardo di fronte alla vista dell’imputato che entra in aula), senza aver assistito a silenzi imbarazzanti o a risposte troppo frettolose (di cui non vi è traccia in un verbale trascritto), senza aver soppesato i toni delle risposte, non conserverà un pur accettabile «pallido ricordo» dell’istruttoria ma di quella istruttoria (in assenza della «continuità psicologica» evocata da Calamandrei) non avrà nemmeno – ci si perdoni il gioco di parole – una “pallida idea”.

La nuova frontiera dell’oralità/immediatezza nella riforma Cartabia. Il giudice assente.

Vi è un passaggio della pronuncia della Consulta sopra esaminata che è stato immediatamente colto dal legislatore con la riforma Cartabia (lo stesso Ministro che ha dato il nome al progetto di riforma aveva fatto parte del collegio della Corte) dell’ottobre 2022. Il riferimento è all’articolo 495, comma 4-ter, del codice di procedura penale il quale prevede oggi che, in caso di mutamento del Giudice, vige la regola della utilizzabilità delle prove assunte in presenza di riprese audiovisive e lasciando sempre comunque alla discrezionalità del giudicante la decisione sulla eventuale rinnovazione della prova sotto la propria diretta percezione. In altre parole, la visione da parte di un giudice che non ha partecipato all’istruttoria dibattimentale di un filmato contenente l’assunzione della prova assunta in contraddittorio viene ormai ritenuta pratica rispettosa dei canoni del “giusto processo”[30].

Ma la riforma Cartabia, pesantemente influenzata anche dalle pratiche che si erano consolidate durante la pandemia da Covid 19[31], è andata oltre fino a rendere il principio di oralità/immediatezza una mera eccezione nei giudizi di appello e Cassazione e, sempre nell’ottica dell’efficienza e della celerità dei processi, attribuendo al giudice, in primo grado, ampia discrezionalità in ordine alla possibilità di procedere da remoto (si vedano i nuovi articoli 133-bis e 133-ter c.p.p). Una riforma ampia, che ha coinvolto anche l’ambito civilistico mantenendo un atteggiamento identico in ordine alla volontà di scardinare i principi secolari di oralità/immediatezza. Si pensi alla introduzione dell’art. 127-ter del codice di procedura civile che ha introdotto l’udienza di trattazione scritta in sostituzione dell’udienza di discussione (previsione ora mitigata dal cd “correttivo Cartabia”). Una introduzione ardita (almeno al pari delle novelle processual-penalistiche) che ha indotto questa volta, giustamente, la Sezione Lavoro Civile della Corte di Cassazione (evidentemente tenace nel difendere principi intangibili) a sollevare recentissimamente una questione di incompatibilità tra quanto previsto dalla novella e il tradizionale modulo procedimentale lavoristico connotato dai principi di oralità, concentrazione e immediatezza «considerati le strutture portanti del processo regolato dagli articoli 409 e seguenti del codice di procedura civile» e a rimettere di conseguenza gli atti al Primo Presidente per la remissione alle Sezioni Unite[32].

Tornando alla giustizia penale che qui più ci interessa, in estrema sintesi, pur con una provocatoria (ma non troppo) semplificazione, il cuore del processo penale si può oggi abitualmente svolgere senza che il Giudicante partecipi attivamente e fisicamente al momento epistemologicamente più rivelante: lo scontro dialettico in contraddittorio tra le parti (sia in ordine all’assunzione della prova sia, per quanto riguarda il giudizio di appello e Cassazione, in ordine al confronto orale tra le parti in causa).

Si pensi appunto al caso (tra i più rilevanti e rispetto al quale abbiamo già visto la posizione della Consulta) del mutamento del giudice nel corso dell’istruttoria dibattimentale. Con la riforma Cartabia, a fronte della legittima richiesta di una parte processuale di riassumere una prova testimoniale in contraddittorio alla presenza del nuovo giudice, quest’ultimo (a meno che non ritenga assolutamente necessario ascoltare il teste in sua presenza) opporrà un diniego potendo visionare la video-registrazione dell’escussione. O si pensi al caso in cui il collegio giudicante stabilisca (senza necessità di particolari motivazioni) di procedere all’escussione di alcuni testimoni o dell’imputato stesso da remoto, con i protagonisti collegati da tutt’altra parte, lontani dalla diretta e immediata percezione dei giudicanti e lontani dalla ritualità, dalla formalità e persino dalla suggestione architettonica dell’aula di giustizia.

È proprio questa possibile (e ormai codificata) “assenza” del Giudice che rappresenta oggi il punto più critico in ordine all’effettiva realizzazione del “giusto processo” che non può prescindere dal rispetto del principio di oralità/immediatezza. E non solo da un punto di vista dei diritti dell’imputato (che si vede compulsare, sulla scorta di “ragioni” legate a più alte esigenze di funzionalità e celerità del processo, il diritto alla formazione della prova in contraddittorio davanti al giudice), ma anche in ordine alla portata epistemologica che quel principio così caro alla dottrina tradizionale comporta.

È di tutta evidenza che ci troviamo di fronte ad un surrogato del principio tradizionale di oralità/immediatezza tanto che si è parlato di «sirena dell’oralità digitale», ovvero una sorta di «strategia volta a sostituire l’immediatezza con un surrogato di tipo tecnologico»[33].

Si dirà: ma in fondo un Giudice che osserva il dipanarsi di un procedimento, ivi compresa l’escussione del testimone, attraverso un video potrà comunque apprezzare toni, modalità espressive, atteggiamenti anche non verbali. E, d’altra parte, potrà liberamente osservare eventuali segni di nervosismo e/o di sintomatici sguardi rivolti (come spesso accade) al pubblico presente o a un difensore per ottenere conferme o smentite sulle proprie dichiarazioni. Tutto parzialmente vero. E sottolineo “parzialmente” perché, in realtà, l’inquadratura della telecamera è fissa e offre una rappresentazione solo parziale e filtrata di ciò che avviene[34]. A tal proposito si è autorevolmente sostenuto che la distopia del processo da remoto incide sugli indici di credibilità delle testimonianze[35]. Ma resta la questione (già accennata sopra) irrisolta: quel giudice non avrà alcun potere di intervento durante l’escussione videoregistrata ed eventuali campi o temi da esplorare non esaminati dal giudice che ha condotto l’istruttoria dibattimentale resteranno inesplorati. Ma vi è un’altra ragione di criticità, ancora più incisiva.

Un processo non è un film. Non è una pellicola da riavvolgere e visionare da uno schermo. Il processo, con i suoi riti, le sue “liturgie”, le sue formalità, con il suo svolgersi in un’aula con richiami, spazi e posizionamenti fortemente simbolici, è una “rappresentazione” viva[36]. Potremmo dire che ha una sua “sacralità” (oggi da intendersi come prettamente laica) e che mal si presta ad adattarsi in contesti diversi rispetto alla rappresentazione (finanche scenica) in un’aula di giustizia alla presenza contestuale di tutte le parti. Giudice compreso. Ergo, un processo non si “visiona”. Tantomeno si “legge” a posteriori. Un processo, e questo risulta anche dal linguaggio rituale utilizzato abitualmente, si “celebra”. Un termine evocativo che richiama non solo la presenza ma anche una sorta di rito religioso.

Nella datata ma attualissima analisi del processo penale già richiamata, il filosofo del diritto e politologo Max Ascoli, nel descrivere il processo penale come una sorta di ricucitura di una lacerazione ordinamentale e sociale («il processo penale rappresenta in modo perfetto la faticosa evoluzione con cui la norma delittuosa viene costretta a percorrere grado a grado i vari successivi strati del diritto, fino a suturare la frattura che era stata arrecata»[37]) lo equipara ad una rappresentazione teatrale «solenne e ammonitrice»[38] evocando implicitamente l’antica origine del processo greco. Vale la pena riportare alcuni stralci dei passi del giurista sulla natura e funzione del processo penale descritto come ricostruzione teatrale di un fatto delittuoso. Ricostruzione scenica, scandita da ritmi e liturgie e con la sua innegabile funzione catartica, in cui tutte le parti coinvolte devono essere chiamate a partecipare alla «sacra rappresentazione della giustizia penale»:

«La legge positiva, la quale non ha saputo impedire che si producesse l’azione delittuosa né soffocarne la norma, ora deve compiere una operazione di una delicatezza estrema: ricostruire l’azione delittuosa, per provocare poi dal delitto ricostruito una controsuggestione che elimini la suggestione precedente, una norma che annulli quella del delitto e confermi la legge positiva. Quindi, il diritto positivo raccoglie minuziosamente tutto quanto rimane del delitto o è stato da esso provocato: le parti, cioè chi ha recato o ricevuto danno, chi ha assistito al delitto o in qualche modo vi fu coinvolto; infine e soprattutto la legge chiama il pubblico. Con un procedimento di una teatralità raffinata e millenaria, con rito e tecnica minuziosamente predisposti, il delitto viene ricostruito in effigie; e su questa ricostruzione compiuta, nei modi e coi riti più adatti perché tutti possano vederla, la legge fa cadere quella sua forza schiacciante che era stata per necessità assente e inefficace quando il delitto venne compiuto. Così si adempie al compito di disciplinare le norme: opponendo una norma conforme alla legge a una norma contraria, a un fatto una immagine; e così la legge si riconferma come vigoroso modello della normatività naturale. Tutto deve contribuire a formare la scena e il pubblico nella veramente sacra rappresentazione della giustizia penale: i giudici, poiché il delitto fu clamoroso, vengono presi quasi sempre fra quella massa di cittadini che conobbero il delitto o poterono conoscerlo e appassionarvisi […]. La passione delle parti viene frenata fino a non essere che testimonianza, poiché le parti fanno delega delle loro passioni agli avvocati. E gli avvocati parlano e agiscono sì nell’interesse di chi rappresentano, ma anche nel senso della legge, perché sono costretti a prospettare le passioni e gli interessi in termini di giustizia. Così da ogni parte, i mostri delle passioni, quelle vicine e quelle lontane, sono domati e costretti ad attendere come parola definitiva la parola della legge. Senza questo procedimento simbolico, senza questa sorta di sieroterapia del delitto, la legge del delitto si imporrebbe»[39].

Una evocazione, quella di Ascoli, ripresa da Piero Calamandrei che ha descritto il processo penale come una sorta di procedimento teatrale e spiegando, in un passaggio che risulta ancora attualissimo (si pensi a quanto oggi alcuni processi che rimbalzano nel circuito mass mediale appassionino il pubblico) che è proprio l’aspetto scenico e la natura teatrale del processo ad appassionare il popolo. Ma, avverte Calamandrei, non si tratta solo di «morbosa curiosità» ma è «religiosa angoscia» dove si intuisce «il simbolo oscuro della sorte umana»[40]. E Sagnotti, in una vigorosa difesa del principio del contraddittorio, paragona il processo ad una recita «perché in esso non vivono i fatti ma solo loro rappresentazioni» con le parti chiamate ad interpretare dei ruoli[41]. E, aggiungiamo noi, con una terminologia tecnica che richiama forti analogie con il teatro (si pensi a termini come “attore”, “repliche”, “rappresentazione”) ed una liturgia scenica che richiama il dipanarsi della recitazione, come nel caso dei testimoni che devono attendere “dietro le quinte” di un’aula in attesa del loro turno per “entrare in scena” e deporre. Situazioni, analogie e finanche commistioni che hanno condotto a studi sociologici sulla drammaturgia del processo penale inteso come «rappresentazione di un dramma alla cui recitazione concorrono tutti gli attori del processo»[42]. Un assunto, secondo Strazzeri, che si pone come «strumento analitico descrittivo del processo» che si svolge necessariamente (al contrario di quanto avviene nel Processo di Kafka) in un luogo simbolico in cui «l’artificialità della costruzione processuale della realtà non può fare a meno di strutturarsi all’interno di tale semantica dello spazio fisico»[43].

Verso una decisione robotica?

Destrutturata la grammatica del processo accusatorio attraverso prima l’apertura formale, giurisdizionalmente decretata, della crisi del principio di immediatezza e poi l’introduzione legislativa della “sirena” dell’oralità digitale nonché, di fatto, ridimensionato il portato cognitivo della valutazione delle emozioni nel processo e finanche il simbolismo e la “sacralità” dei luoghi di udienza, quali scenari dovremmo aspettarci nell’ambito della giustizia penale (ma non solo)? Senza voler evocare il processo kafkiano (destrutturato nei suoi spazi, tanto da svolgersi in una indecorosa periferia sub-urbana, e nei suoi riti), occorre prendere atto che si sta, a rapidi passi, transitando verso la smaterializzazione del processo penale in cui persino della presenza in corpore del Giudice non vi è più certezza[44]. In tale nuovo scenario è lecito pensare che gli elementi più profondamente “umani” del processo (di cui si è molto parlato e che attengono i dati emozionali, la portata psicologica, l’analisi e l’osservazione dei comportamenti in udienza e del linguaggio non verbale, l’intuito del Giudice, le impressioni che sedimentano e che vengono filtrate dall’esperienza e dall’uso corretto della ragione da parte dei protagonisti) possano passare in secondo piano. Con il processo che rischia di diventare algida narrazione (e non celebrazione in termini rituali) di fatti ripercorsi attraverso la lettura di un verbale o la visione di un filmato o, ancora, attraverso l’ascolto da remoto di deposizioni filtrate da tecnologie che «sbiadiscono» (per usare l’espressione di Dell’Anno) il principio di immediatezza sacrificando il “contraddittorio forte” in favore di un “contraddittorio” debole[45].

Ma non sono forse questi – la smaterializzazione e la sostanziale disumanizzazione del processo – i presupposti per iniziare a ragionare di ipotesi futuribili (e nemmeno troppo) con giudizi definitivamente sottratti ad un Giudice in carne, ossa e sangue? La domanda recente con cui Antonio Punzi apre un suo intervento sulla giustizia digitale è secca e disorientante: «Vi fareste giudicare da un algoritmo?»[46]. Punzi, pur partendo da premesse diverse (l’approfondimento parte dalla consapevolezza dell’uso crescente che l’intelligenza artificiale sta assumendo nell’esperienza giuridica), si chiede se la rivoluzione digitale stia imponendo un ripensamento dei paradigmi della scienza giuridica[47]. Passando per l’analisi di due illuminanti volumi sulla giustizia digitale di Giuseppe Zaccaria[48] e Antoine Garapon e Jean Lassègue[49], Punzi si pone in maniera dialettica cercando di ragionare sul possibile dialogo tra “intelligenze” (quella artificiale e quella umana). Il problema, quantomeno nello scenario ormai disegnato del processo penale, è che il percorso così come concepito dalla cultura giuridica tradizionale che valorizzava l’intuito e l’intelligenza umana chiamata a formulare sintesi alla fine di un agone celebrato tra presenti con riti e liturgie millenarie, ha oggi deviato, creando i presupposti per una deriva distopica. Il “grimaldello” che ha permesso di scardinare le certezze dei canoni del “giusto processo” è rappresentato dalla sostituzione del principio tradizionale di oralità/immediatezza in favore della c.d. “oralità digitale”. Con tutte le conseguenze che, in queste pagine, si è cercato di iniziare a delineare.

Ed è proprio Zaccaria che coglie il portato più rischioso della rivoluzione digitale nel mondo del diritto con riferimento proprio al processo: «La rivoluzione digitale destruttura lo spazio e il tempo della giustizia, ne de-simbolizza i riti e permette agli uomini di risparmiar loro la pena di incontrarsi nei processi, di litigare e di decidere ricorrendo ad un terzo imparziale e disinteressato. Certamente – aggiunge Zaccaria – è prematuro il bilancio di un fenomeno ampio, complesso e tuttora in pieno sviluppo, ma è già il momento di cogliere le deflagrazioni che esso provoca nel mondo del diritto»[50].

Sullo sfondo di un percorso pur giustificato da ragioni (finanche legittime) di funzionalità, speditezza, economicità, ha forse ragione dunque (a proposito delle «deflagrazioni» a cui accenna Zaccaria) chi intravede l’antico spettro di un sogno neo-scientista mai realizzato? Parliamo del sogno di rendere freddamente “matematico” il diritto e, alla fine, di sostituire il giudice con un robot. Sovvengono le riflessioni di Francesco Recanati sul significato da attribuire alle macchine in relazione alla vita umana: «Interrogarsi su questo aspetto non è banale se si considera che alcuni movimenti tra cui il post-umanesimo e transumanesimo profetizzano entusiasticamente l’avvenire di un nuovo ibrido uomo-macchina capace di superare l’antiquata distinzione tra l’essere umano e il prodotto tecnico. Ma se è possibile dichiarare che i prodotti della tecnica potranno, dovranno e finiranno per fare tutto, allo stesso tempo urge riaffermare la centralità della persona nella sua dignità e irriducibilità»[51]. Anche perché, come ricorda Piero Marra, una cosa è la decisione umana che porta con sé elementi insostituibili quali (a mero titolo di esempio) la creatività, l’equità, finanche la misericordia. Altra cosa è la decisione artificiale in cui il numero e la combinazione binaria hanno un “ruolo primario” non potendo avere un ruolo deontico[52].

In definitiva, occorre chiedersi se l’esigenza di un pur necessario efficientamento del processo, anche attraverso gli strumenti della “rivoluzione digitale”, possa o meno conciliarsi con l’altrettanta necessaria esigenza di un ancoraggio solido del diritto (in questo caso processuale) alla più profonda esperienza umana, riguardando il diritto (finanche lo schema duale e dialettico del processo accusatorio) una continua e progressiva scoperta della natura stessa dell’uomo.

[1] P. Calamandrei, Oralità nel processo, in “Nuovo Digesto Italiano”, 9, 1940, pp. 178, 179. Scrive tra le altre cose Calamandrei: «Il merito di aver sollevato in Italia il problema dell’oralità è tutto del Chiovenda, il quale, con un mirabile apostolato iniziato nel 1906 e durato fino alla morte, si è fatto banditore di quella riforma ispirata ai principi del processo orale […]. Nessuno meglio di lui ha saputo mettere in luce l’importanza fondamentale che ha avuto nello svolgimento storico la prevalenza dell’oralità o della scrittura. Fu orale il processo romano, perché così esigeva la funzione di quel processo riconosciuta alla prova, come diretta alla formazione del libero convincimento del giudice, sulla base della immediata osservazione degli elementi della cognizione».

[2] Ibidem.

[3] Ibidem.

[4] Ibidem.

[5] Ibidem.

[6] C. Bovio, Esame, controesame e convincimento del giudice in Arte della persuasione e del processo, a cura di A. Traversi, Giuffrè, Milano, 1998, pp. 79, 80. Per un approfondimento sulla immediatezza tipica dell’oralità finalizzata alla diretta percezione da parte del giudice dei fatti controversi si veda P. Ferrua, Oralità del giudizio e letture di deposizioni testimoniali, Giuffrè, Milano, 1981, pp. 283 e ss.  Cfr anche R. Orlandi, Immediatezza ed efficienza nel processo penale, in Rivista diritto processuale, 3, 2021, pp. 807-824.

[7] D. Chinnici, L’immediatezza del processo penale, Giuffrè, Milano, 2005, p. 23. Pur nella consapevolezza che il “mito” della verità storica nel processo è una mera chimera, non vi è dubbio che vi sia ormai una pressocché unanime consapevolezza nei giuristi e non solo del fatto che il contraddittorio (ergo, il “conflitto” dialettico tra le parti in aula) sia lo strumento ermeneutico insuperato e forse insuperabile per l’accertamento dei fatti nel processo e quindi per il raggiungimento quantomeno di una “verità processuale” accettabile. Sul punto cfr. P. Ferrua, Il giudizio penale: fatto e valore giuridico, in P. Ferrua – F.M Grifantini– G. Illuminati – R. Orlandi, La prova nel dibattimento penale, Giappichelli, Torino 1999, p. 195 e ss.

[8] D. Chinnici, ivi, p. 26.

[9] Sulla esigenza ed effettività di partecipazione attiva al processo in condizione di parità, cfr. M Chiavario, Processo e garanzie della persona, Vol II, III edizione, Giuffrè, Milano, 1984.

[10] P. Dell’Anno, L’evoluzione del principio di immutabilità del giudice e l’immediatezza sbiadita, in Dirittifondamentali.it, 2/2024, p. 120. Cfr sul punto: M. Daniele, L’immediatezza in crisi. Mutazioni pericolose ed anticorpi accusatori, in Sist. Pen., 2/2021, p. 53 e ss.

[11] Cfr. V. Italia, I sentimenti nelle leggi, Giuffrè, Milano, 2017, passim. Per un ulteriore approfondimento sul rapporto tra diritto e sentimenti e sul ruolo delle emozioni sulle scelte giudiziarie v. O. Di Giovine, Dilemmi morali e diritto penale. Istruzioni per un uso giuridico delle emozioni, Il Mulino, Bologna, 2022.

[12] A. Forza, G. Menegon, R. Rumiati, Il giudice emotivo. La decisione tra ragione ed emozione, Il Mulino, Bologna, 2017, p. 60.

[13] A. A. Navarro, Virtù e ragionamento giuridico, in Ars interpretandi. Rivista di ermeneutica giuridica, 1/2022, XI, p. 22. Spiega in termini ineccepibili Navarro: «Rivendicare un ruolo per le emozioni così concepite all’interno di una teoria del ragionamento giuridico, non significa invocare una visione meno razionale del processo decisionale giuridico. Al contrario, nella misura in cui, secondo questa ricostruzione, le emozioni possono essere modellate dalla ragione, il riconoscimento della componente emotiva del ragionamento giuridico offre alla ragione un ruolo ancora più ampio nel dirigere il processo di decisione in ambito giuridico» (ivi).

[14] L. Corso, La virtù del giudice, in Ars Interpretandi. Rivista di ermeneutica giuridica cit. p.57.

[15] B. Celano, Ragionamento giuridico, particolarismo. In difesa di un approccio psicologistico, in Rivista di filosofia del diritto, VI, 2/2017, p. 316.

[16] Ibidem, p. 324. Quando si parla di ragionamento giuridico occorre certamente distinguere (come peraltro anche Celano precisa) il “ragionamento” meramente deduttivo dal ragionamento logico-dialettico. Il primo, che – come ricorda Simona Sagnotti è tipico del logicismo giuridico, è un ragionamento more geometrico più adatto alle scienze matematiche però che non alle scienze giuridiche; il secondo è il ragionamento tipicamente giudiziario (che mostra, per usare le parole di Sagnotti, la possibilità di una retorica integrata con la logica) che si innesta nell’antica tradizione aristotelica. Cfr. S. C. Sagnotti, Forme e momenti del ragionare nel diritto, Giappichelli, Torino, 2005, pp. 2-14.

[17] Ibidem, p. 317. Celano sostiene peraltro che l’approccio anti-psicologistico è oggi sotto accusa grazie allo sviluppo della psicologia cognitiva e delle scienze cognitive in genere.

[18] F. Puppo, Retorica, il diritto al servizio della verità, in A. Andronico, T. Greco, F. Macioce, (a cura di), Dimensioni del diritto, Giappichelli, Torino, 2019, p. 306.

[19] A. Esposito, Le emozioni del giudice (penale), in Archivio Penale, 3/2021, p. 5.

[20] M. Orlandi, La nuova cultura del giusto processo nella ricerca della verità. Aspetti giuridici, sociolinguistici e di comunicazione, Giuffrè, Milano, 2007, p. 141.

[21] G. Gullotta, L’argomentazione piscologica in campo forense, in A. Mariani Marini (a cura di), Il linguaggio, la condotta, il metodo, i seminari dell’Avvocatura, Cnf, Roma, 2000, p. 17.

[22] Ibidem, p. 6. Cfr sul punto F. Di Donato, La costruzione giudiziaria del fatto. Il ruolo narrativo nel “processo”, Franco Angeli, Milano, 2008, passim.

[23] Cfr. O. Di Giovine, Un diritto penale empatico? Diritto penale, bioetica e neuroetica, Giappichelli, Torino, 2009, passim. Di Giovine precisa anche che la decisione giudiziaria è inevitabilmente segnata da emozioni (ibidem, p. 173).

[24] D. Troisi, Diario di un giudice, Einaudi, Torino, 1955, p. 77.

[25] V. Corte Costituzionale, 29 maggio 2019 n. 132, consultabile in Consulta online. Per un commento critico alla nota pronuncia della Consulta, cfr. D. Negri, La Corte Costituzionale mira a squilibrare il “giusto processo” sulla giostra dei bilanciamenti, in Arch. Pen., 2019, 2.

[26] Per un approfondimento sul tema cfr. P. Renon, Mutamento del giudice e rinnovazione del dibattimento, Giappichelli, Torino, 2011.

[27] Per un approfondimento critico sulla sentenza della Corte Costituzionale e la crisi del principio di immediatezza, cfr. M. Daniele, L’immediatezza in crisi. Mutazioni pericolose ed anticorpi accusatori, in Sist. Pen., 2/2021, p. 53 e ss.

[28] Per un approfondimento delle fallacie logiche nell’argomentazione giuridica (ma non solo) tra cui la fallacia del non sequitur, cfr. S. C. Sagnotti, Retorica e logica. Aristotele, Cicerone, Quintiliano, Vico, Giappichelli, Torino, 1999, p. 77 e ss.

[29] M. Ascoli, La interpretazione delle leggi. Saggio di filosofia del diritto, Athenaeum, Roma, 1928, p. 143. Scrive il politologo e filosofo del diritto Ascoli: «Crediamo concepibile un idealismo giuridico, cioè una concezione filosofica della vita pratica […] una filosofia della pratica che, inserita in un sistema immanente o trascendente, sfugga al servilismo pratico dell’attualismo o del pragmatismo e dia allo spirito una maggiore libertà di fronte ai fatti» (pp. 143,144).

[30] La riforma Cartabia di cui al D.lgs. 150/2022 ha istituito il cd “processo penale telematico”. La novella è ovviamente ampia e, per molti versi rivoluzionaria. Tra le tante modifiche al codice di rito sono da ricordare le norme in materia di formazione digitale degli atti, l’istituzione dei fascicoli telematici, l’accesso telematico agli atti e la informatizzazione delle procedure, le notifiche e i depositi telematici, l’istituzione del domicilio digitale, la possibilità di celebrare udienze da remoto etc. La nostra attenzione è però rivolta in questa sede non tanto agli indubbi benefici che la riforma (soprattutto in termini di efficientamento di alcune procedure e pratiche nella prassi obsolete) ha garantito, ma alle conseguenze – non altrettanto positive – che necessariamente comportano alcune specifiche scelte legislative in relazione al principio intangibile di oralità/immediatezza. Per un approfondimento sui benefici della riforma Cartabia cfr. M. Gialuz, Per un processo penale più efficiente e giusto. Guida alla lettura della riforma Cartabia, in Sist. Pen. 2, 2022, pp. 12 e ss.

[31] Per un approfondimento sul tema v. R. Aprati, Il distanziamento sociale: un nuovo paradigma per il processo penale?, in Sist. Pen., 2/2021, pp. 131 e ss. Aprati, sulla scia delle misure emergenziali causate dal virus SARS-Co-V2 inizia ad interrogarsi sulla diversa modulazione nel processo a distanza del principio di immediatezza sottolineandone le criticità.

[32] V. Cass. Civ. Sez. Lav., 3 maggio 2024 n.11898. Si legge, tra l’altro, nelle coraggiose motivazioni dell’ordinanza che potrebbero essere ribaltate, in termini speculari, in una vigorosa difesa dell’oralità nel processo penale: «L’attività di udienza non consiste soltanto nell’ascolto delle parti ad opera del giudice, ma ha per sua natura portata dialogica, nel senso di interlocuzione, rispetto alle necessità della causa, tra le parti che chiedono e dibattono e il giudice che ascolta le diverse ragioni e riceve le debite istanze esaltando l’insopprimibile caratura dialogica dell’udienza, in cui il principio del contraddittorio si manifesta non solo come dibattito tra le parti ma coinvolge anche il giudice nella sua posizione di interlocutore, espressione dell’esercizio pubblico dell’attività giudiziaria». Con il D.lgs 164/2024 (cd “correttivo Cartabia”), la novella è stata mitigata pur lasciando al Giudice ampi margini discrezionali in merito alla necessità o meno di procedere alla trattazione orale.

[33] Così M. Daniele, L’immediatezza in crisi. Mutazioni pericolose ed anticorpi accusatori, in Sist. Pen. 2, 2021, p. 62.

[34] Per un approfondimento critico condivisibile sull’efficacia delle video-registrazioni (questione sollevata prima della riforma Cartabia), cfr. P. Ferrua, La prova nel processo penale, Vol. I, Struttura e procedimento, Giappichelli, Torino, 2017, p. 124. Ferrua ritiene la presenza del giudice in aula (e quindi il contatto diretto con la fonte probatoria nella fase istruttoria) «non surrogabile con altrettanta efficacia dalla video-registrazione». Si veda anche M. Daniele, cit. p. 10 dove il Nostro scrive: «La presenza digitale, ‘in imagine’ è ontologicamente diversa da quella ’in corpore’. Denota una esperienza percettiva contaminata da un’alterazione dei naturali canali di comunicazione intersoggettiva, purtroppo non priva di conseguenze sulla forza euristica dell’esame incrociato. Anche potendo avvalersi delle più avanzate tecnologie, la riproduzione digitale dei volti, dei corpi e dei suoni sconta un insopprimibile margine di artificiosità. Le distorsioni cognitive che ne risultano – di cui ancora non vi è piena consapevolezza neppure a livello scientifico – producono un profondo impatto sulla capacità di comunicazione e di ascolto, distorcendo gli indici di credibilità delle testimonianze».

[35] V. O. Mazza, Distopia del processo a distanza, in Arch. Pen. 1, 2020, p. 9 e ss.

[36] Cfr. A. Garapon, Del giudicare. Saggio sul rituale giudiziario, Raffaello Cortina, Milano, 2007, passim.

[37] M. Ascoli, La interpretazione delle leggi. Saggio di filosofia del diritto, cit. p. 96.

[38] Ibidem, p. 94

[39] Ibidem, pp. 96,97.

[40] P. Calamandrei, Il processo come giuoco, in Scritti giuridici in onore di Francesco Carnelutti, Vol. II, Cedam, Padova, 1950, p. 561.

[41] S. C. Sagnotti, Prova, diritto, verità, in La prova penale (diretto da A. Gaito), Vol. I, Utet, Torino, 2008, p. 11.

[42] M. Strazzeri, Drammaturgia del processo penale. Strategie discorsive e pratiche di internamento, Besa, Nardò, 2010, p. 7.

[43] Ibidem, p. 9. Chiosa il sociologo Strazzeri: «In tal senso, l’architettura classica, medioevale, moderna, postmoderna non ha potuto ignorare l’esigenza di progettare strutture funzionali non solo dal punto di vista logistico ma anche dal punto di vista del luogo in cui tale rito si celebra. L’autonomia della giurisdizione rispetto ad altri poteri, la terzietà dei giudici, l’assunzione di ruoli togati da parte degli attori non possono prescindere da tale dimensione simbolica dal momento che essa investe per intero le categorie fondamentali del diritto: lo spazio e il tempo in cui la legge dispiega la sua validità ed efficacia» (pp. 9,10).

[44] Cfr. V. Maiello, La smaterializzazione del processo penale e la distopia che diventa realtà, in Arch. Pen. 1, 2020, passim. Maiello, senza mezzi termini, parla del processo telematico introdotto a seguito dell’emergenza pandemica ed oggi istituzionalizzato dal legislatore come di un monstrum. Scrive il Nostro: «A svanire è la conformazione materiale del giudizio e, con essa, perciò non solo la dimensione che ne ha fatto un paradigma/epicentro di svariati registri narrativi bensì – soprattutto – quel clima d’aula che integra la pre-condizione delle potenzialità performative della contesa dialettica» (p. 2).

[45] V. P. Dell’Anno, cit. p. 130.

[46] A. Punzi, Mutamento di paradigmi o rottura antropologica? L’ambito ermeneutico di Giuseppe Zaccaria e la giustizia digitale, in Riv. Fil. Dir. 2, 2023, p. 281.

[47] Ibidem, p. 283.

[48] Il riferimento è a G. Zaccaria, Postdiritto. Nuove fonti, nuove categorie, Il Mulino, Bologna, 2022.

[49] Il riferimento è a A. Garapone – J. Lassègue, La giustizia digitale. Determinismo tecnologico e libertà, Il Mulino, Bologna, 2021.

[50] G. Zaccaria, cit. p. 83.

[51] F. Recanati, L’intelligenza artificiale e il senso del diritto, in L’Ircocervo, 1/2024, p. 49. Sul sogno neo-scientista di sostituire il giudice con un robot, si segnala P. Heritier, Humanities, umanesimo e svolta effettiva, in A. Andronico, T. Greco, F. Macioce, (a cura di), Dimensioni del diritto, Giappichelli, Torino, 2019, p. 444. Le parole di Paolo Heritier: «Se però il pensiero, in fondo semplicemente una forma di calcolo operato dal cervello, fosse ridotto ad una formalizzazione logico-matematica su base biochimica, potrà avvenire che quello che oggi conosciamo come diritto possa essere rimpiazzato da un sapere scientifico, in grado di sostituire finalmente il linguaggio naturale […]. Per realizzare tutto questo però, l’uomo deve essere pensato come una macchina. Con il computer, l’intelligenza artificiale e il robot dietro l’angolo che ci saluta con la sua manina, questo sogno sta per diventare una realtà; l’unica realtà possibile? Il sogno di sostituire il giudice con un computer della vecchia giuscibernetica degli anni Cinquanta del secolo scorso, esplicitato o meno, è sempre dietro l’angolo delle posizioni neo-scientiste». Sul tema delle decisioni giuridiche dell’intelligenza artificiale, si veda il recentissimo: A. Santosuosso, G. Sartor, Decidere con l’IA. Intelligenze artificiali e naturali nel diritto, Il Mulino, Bologna, 2024.

[52] P. Marra, Giustizia Digitale e sue implicazioni procedurali, in L’Ircocervo, 1/2024, p. 16 e ss.