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Litisconsorzio nell’azione di costituzione di servitù coattiva su fondi intercludenti appartenenti a diversi proprietari
Di Alessandro Renda -
1. Con l’Ordinanza Interlocutoria n. 32528 del 23 novembre 2023 la Seconda Sezione Civile della Suprema Corte di Cassazione ha disposto la trasmissione degli atti al Primo Presidente, ai sensi dell’art. 374 c.p.c., sulla questione di massima di particolare importanza relativa agli effetti della mancata evocazione in giudizio, nel caso di proposizione della domanda per l’ottenimento del riconoscimento del diritto alla costituzione di una servitù coattiva di passaggio ex art. 1051 c.c., di uno o più dei plurimi proprietari dei fondi intercludenti e, in particolare, per verificare se si ricada o meno in un’ipotesi di litisconsorzio necessario ovvero in un caso in cui si debba pervenire ad una mera pronuncia di rito e non di merito.
La rimessione ha raccolto le numerose critiche mosse negli anni dalla dottrina processualcivilista più autoritaria, critiche che paiono aver incrinato anche agli occhi del giudice della nomofilachia le argomentazioni poste a sostegno dell’orientamento per anni dominante e cristallizzato nella Sentenza n. 9685 del 2013.
Nel caso di specie, la Corte di Appello di Torino – accogliendo il gravame principale del convenuto soccombente in primo grado – ha negato la pretesa attorea proprio sulla scia dell’orientamento esegetico prevalente, in base al quale la costituzione di servitù di passaggio coattiva in assenza di uno o più comproprietari dei fondi intercludenti non potrebbe avvenire per l’inesistenza del diritto così concretamente azionato.
L’Ordinanza interlocutoria in oggetto – focalizzandosi altresì sulla natura della pronuncia da rendersi all’esito della citazione attorea parziale – sembra però voler ridiscutere la questione non solo sotto il profilo dell’inquadramento normativo, ma occupandosi al contempo anche dei conseguenti risvolti pratici per le parti. L’odierna rimessione rende dunque di nuovo attuale la problematica litisconsortile afferente alla costituzione di servitù coattive ex art. 1051 c.c., con l’auspicio di definirne ogni profilo critico e porre così fine ad una diatriba giuridica oramai radicata nel nostro ordinamento. Pare infatti opportuno ricordare che, nel corso degli anni, la questione è stata oggetto di ampia discussione, favorendo la diffusione di orientamenti contrastanti che animano tutt’ora la dottrina processualcivilistica.
2. Già in epoca risalente, si erano formati al riguardo due orientamenti esegetici contrapposti che, alternativamente, confermavano ovvero negavano che l’azione ex art. 1051 c.c. integrasse un’ipotesi di litisconsorzio necessario in caso di comproprietà dei fondi intercludenti. Secondo un primo orientamento([1]), la domanda giudiziale di costituzione coattiva della servitù non avrebbe dovuto essere proposta nei confronti di tutti i proprietari dei fondi intercludenti in quanto l’attore avrebbe potuto regolare i propri rapporti con gli altri titolari dei fondi serventi proponendo domande separate o stipulando accordi distinti. Ad avviso di altro orientamento([2]), invece, tutti i proprietari dei fondi astrattamente destinati all’asservimento avrebbero dovuto essere qualificati come litisconsorti necessari in quanto una sentenza pronunciata nei confronti solamente di alcuni di essi sarebbe stata resa inutiliter data poiché insuscettibile di esecuzione([3]). Proprio quest’ultimo orientamento era stato in un primo momento recepito dalle Sezioni unite della Corte di Cassazione con la sentenza del 3 febbraio 1989, n. 670([4]), con la precisazione che la pronuncia di costituzione della servitù coattiva resa nei confronti di solo alcuni dei comproprietari sarebbe vana poiché “inidonea al soddisfacimento dell’utilità per cui l’azione medesima è contemplata”([5]).
3.L’azione fondata sull’art. 1051 c.c. ha dunque integrato un’ipotesi di litisconsorzio necessario fino all’avvento della Sentenza n. 9865 del 2013, con la quale le Sezioni Unite hanno nuovamente discusso la questione giungendo ad un più raffinato principio di diritto pronto ad accogliere la tesi opposta. Difatti, la Sentenza n. 9685/2013 ha negato che la mancata evocazione in giudizio di uno o più dei proprietari dei fondi intercludenti integri un’ipotesi di (violazione del) litisconsorzio necessario, non più però sul presupposto che l’attore potrebbe per altra via regolare i rapporti con gli altri comproprietari, bensì sulla scorta del principio secondo cui una domanda di costituzione di servitù di passaggio coattivo proposta nei confronti di solo alcuni dei comproprietari dei fondi intercludenti non può che considerarsi una domanda carente sotto il profilo oggettivo della “congruità del petitum”. Posto infatti che l’accesso alla via pubblica garantito dall’art. 1051 c.c. implica un asservimento del fondo intercludente che si ripercuote giuridicamente nei confronti di comproprietari, evocarne solo alcuni inficerebbe il meccanismo di sussunzione fra fattispecie astratta e fattispecie concreta poiché la pretesa concretamente avanzata in giudizio verrebbe così orientata verso altro bene della vita non accordato dall’ordinamento. Dunque, ad avviso delle Sezioni Unite, l’esclusione di uno o più comproprietari non attenta alla regolarità del contradditorio, bensì paventa una pretesa attorea orientata al soddisfacimento di un diritto inesistente, tale da imporre il rigetto della domanda nel merito. Il principio di diritto cristallizzato nell’arresto appena scrutinato ha di fatto spostato l’attenzione dal rito al merito della causa, nel senso che l’evocazione in giudizio di solo alcuni comproprietari non precluderebbe la rituale introduzione della causa, ma ne farebbe venir meno la sua funzionalità quale strumento di accesso alla tutela ex art. 1051 c.c.
4. Il radicale mutamento di prospettiva promosso dal giudice della nomofilachia non è stato esente da severe critiche di cui – come anticipato – la Seconda Sezione Civile ha scelto di farsi portavoce sottoponendo nuovamente dopo dieci anni il quesito alle Sezioni Unite, chiamate ora a porre rimedio alla reviviscenza dell’antinomia esegetica sottesa all’azione ex art. 1051 c.c.
Ciò che preme precisare è che le perplessità esposte dalla Seconda Sezione Civile paiono tutt’altro che destituite di fondamento. Difatti, come osservato nella parte motiva dell’Ordinanza interlocutoria de qua, il bene della vita accordato dall’ordinamento – che sul piano processuale favorisce la “congruità del petitum” attoreo – ben può identificarsi nella garanzia di accesso alla via pubblica per il proprietario del fondo intercluso ex art. 1051 c.c. Vero è che un’evocazione attorea meramente parziale è condizione sufficiente ad ingenerare un cortocircuito nel meccanismo di tutela, altrettanto vero però è che il bene della vita cui tende la pretesa attorea (sia pur mal strutturata) è per certo accordato dall’ordinamento.
Non può al contempo trascurarsi che l’art. 784 c.p.c. stabilisce che lo scioglimento della comunione ereditaria (e di qualsiasi altra comunione) costituisca un’ipotesi di litisconsorzio necessario. Pur avendo riguardo alle sole ipotesi di scioglimento, sembra evidente che la ratio sottesa all’art. 784 c.p.c. sia quella di garantire che ad un giudizio avente ad oggetto la cosa comune vi partecipino tutti i comproprietari, posto che solo in questo modo potrebbe addivenirsi ad una pronuncia in grado di disciplinare i rapporti giuridici che fra di loro intercorrono.
La pronuncia di rigetto nel merito sembra infine paventare una profonda violazione dell’economia processuale, costringendo l’attore a dover azionare ex novo il proprio diritto, avendo peraltro riguardo allo spettro del giudicato.
L’esigenza di preservare l’integrità della tutela sostanziale accordata dall’ordinamento nonché i valori fondamentali del processo a ciò preposti invita dunque le Sezioni Unite ad un intervento nomofilattico più maturo, che sembra non poter più eludere l’art. 112 c.p.c.
[1] Riconducibile, soprattutto, a Cass. 25 maggio 1983, n. 3601, Cass. 8 gennaio 1981, n. 160; Cass. 11 ottobre 1979, n. 5291; Cass. 7 dicembre 1976, n. 4558; Cass. 29 ottobre 1964, n. 2671.
[2] Principio espresso, tra le altre, in Cass. 5 aprile 1984, n. 2205; Cass. 14 luglio 1980, n. 4515, ed avallato dalla dottrina predominante.
[3] Non sono mancati peraltro ulteriori orientamenti che, nel mediare in varia misura tra le due posizioni, avevano concluso per l’insussistenza di una ipotesi di litisconsorzio necessario, atteso che gli ulteriori proprietari dei fondi serventi avrebbero potuto, nel caso, essere chiamati nel processo su istanza di parte ovvero iussu iudicis, restando comunque escluso che la sentenza pronunziata nei confronti del proprietario di uno solo dei fondi potesse considerarsi inutiliter data ed assumendo rilievo, ai fini dell’idonea proposizione della domanda, solo la posizione di quei proprietari che contestavano l’esistenza o frapponevano ostacoli all’esercizio della servitù. Un ulteriore – anche se non con particolare seguito – indirizzo giurisprudenziale aveva invece collocato la soluzione della questione sul piano dell’interesse ad agire, evidenziando la necessità, al fine di escludere la indispensabilità della evocazione in giudizio degli ulteriori proprietari dei fondi intermedi, che l’attore fornisse la prova della mancanza di contestazioni da parte di questi della titolarità della servitù di passaggio sul loro fondo, escludendo, per questa diversa via, la configurabilità di una ipotesi di litisconsorzio in senso tecnico. Tali orientamenti sono espressamente richiamati nell’Ordinanza n. 32528/2023.
[4] In senso conforme, Cass. 29 gennaio 1996, n. 658; Cass. 24 febbraio 1995, n. 2124; Cass. 24 settembre 1994, n. 7848; Cass. 26 marzo 1993, n. 3644.
[5] Il presupposto è il medesimo dell’interpretazione originaria: un’eventuale sentenza favorevole all’attore proprietario del fondo intercluso non avrebbe potuto essere eseguita nei confronti dei comproprietari che non hanno partecipato al processo, vanificando dunque ogni utilità dell’azione esperita.