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Litisconsorzio alternativo passivo: fattispecie, struttura e passaggio in appello
Di Beatrice Gambineri -
Sommario: 1. La questione di diritto. 2. Presentazione del litisconsorzio alternativo passivo. 3. I modi di formazione del processo simultaneo. 4. Le regole di qualsiasi processo litisconsortile si ricostruiscono in ragione del vincolo di connessione che intercorre tra le situazioni giuridiche di cui sono affermate titolari le parti. Inutilità della nozione di litisconsorzio necessario di origine processuale. 5. Analisi ragionata delle fattispecie. Primo gruppo: due domande e due situazioni giuridiche sostanziali incompatibili. Il cumulo è semplice. 6. Secondo gruppo. Due domande, due situazioni giuridiche compatibili. Dubbi di ammissibilità. 7. Terzo gruppo. Due domande, una situazione giuridica unitaria. Il cumulo è condizionale. 8. La disciplina di passaggio dal primo al secondo grado in ipotesi di alternatività sostanziale. 9. Il caso di specie. Le tre soluzioni paventate dall’ordinanza di rimessione. 10. La soluzione favorevole all’appello incidentale (se del caso condizionato). Critica. 11. La soluzione favorevole alla necessità della riproposizione ex art. 346 c.p.c. Critica. 12. Terza soluzione. L’impugnazione principale trascina di fronte al giudice dell’appello il rapporto giuridico controverso, ma anche tutte le pretese avanzate dall’attore. L’effetto sostitutivo dell’appello. Accoglimento. 13. Conclusione. Un auspicio.
1.La questione di diritto. Con l’ordinanza 6 febbraio 2024, n. 3358, la sezione lavoro ha disposto la trasmissione alla Prima Presidente, per l’eventuale assegnazione alle sezioni unite, della seguente questione processuale «se in caso di cumulo soggettivo passivo alternativo, l’appellato vincitore in primo grado sia tenuto, in presenza di appello principale del convenuto soccombente nello stesso grado, a presentare appello incidentale, eventualmente condizionato, o a riproporre ex art. 346 c.p.c. le domande non accolte dal giudice precedente, per evitare che, qualora detto appello principale sia accolto, passi definitivamente in giudicato la parte della decisione del primo giudice relativa alla posizione degli altri convenuti risultati non soccombenti».
Per una migliore messa a fuoco della questione, è utile ripercorrere, sia pure per rapidissimi cenni, lo sviluppo del processo.
Il lavoratore ha convenuto in giudizio la Regione Lazio, il Comune di Latina e l’Inps allegando:
– di essere stato dipendente dal 1999 del Ministero dell’Interno – Ufficio Prefettura di Prato; di essere stato trasferito alle dipendenze del Comune di Latina il 1° luglio 2001 con la qualifica di operatore d’ufficio, categoria A, posizione economica A3 ed in seguito di essere transitato nel ruolo organico della Regione Lazio;
– di essere stato posto, “con provvedimento di assegnazione funzionale” (assunto in base ad un protocollo d’intesa tra Regione Lazio, INPS e Comune di Latina), alle dipendenze dell’INPS il 14 luglio 2003; di essere stato inquadrato nei ruoli comunali nella categoria A4 a partire dal 1° marzo 2003, e di aver avuto assegnate dall’INPS mansioni riconducibili all’area C, con ordine di servizio del 28 gennaio 2005.
L’attore ha chiesto al giudice di accertare lo svolgimento di mansioni superiori dal 14 luglio 2003, e conseguentemente condannare la Regione Lazio, oppure in via alternativa il Comune di Latina, o in via ulteriormente alternativa, l’INPS a pagare la somma di € 22.133,00 a titolo di differenze retributive.
Il Tribunale di Latina, qualificato il provvedimento di assegnazione funzionale in termini di “comando”, ha accolto il ricorso nei confronti dell’INPS ritenendo che l’onere economico dell’attività svolta dal lavoratore e corrispondente alle mansioni superiori, dovesse ricadere sull’utilizzatore, alle cui dipendenze funzionali il lavoratore era stato assegnato e che a tali mansioni lo aveva adibito.
L’INPS ha proposto appello su due motivi: 1) in primo luogo, ha contestato che il provvedimento di assegnazione funzionale dovesse essere qualificato in termini di “distacco” (anziché di “comando”) e di conseguenza ha rimesso in discussione l’accertamento compiuto dal Tribunale della propria qualità di debitore; 2) in secondo luogo, ha contestato l’effettivo svolgimento delle mansioni superiori.
Il lavoratore ha avanzato appello incidentale con riferimento alla statuizione sulle spese; il Comune, con appello incidentale, ha coltivato l’eccezione di prescrizione rimasta assorbita nel precedente grado di giudizio.
La Corte, accogliendo l’appello principale, ha respinto la domanda proposta dal lavoratore nei confronti dell’Inps, riformando la sentenza di primo grado. Quanto alle domande originariamente avanzate nei confronti del Comune e della Regione Lazio, ha osservato che l’attore, alla stregua dei più recenti arresti della giurisprudenza di legittimità, “avrebbe dovuto proporre appello incidentale, eventualmente condizionato, al fine di ottenere il riesame delle proprie pretese, nei confronti degli altri soggetti convenuti”, e ha ritenuto, pertanto, in tale contesto “preclusa alla Corte ogni altra indagine e ogni altra pronuncia esulanti dal devolutum”.
Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione, censurando, per quanto rileva ai fini del presente contributo, la violazione e falsa applicazione ai sensi dell’art. 360 n. 3) c.p.c. nella misura in cui, versandosi in ipotesi di litisconsorzio soggettivamente alternativo, la Corte non ha considerato che l’impugnazione proposta dal convenuto soccombente avrebbe dovuto essere ritenuta idonea a riportare davanti al giudice di secondo grado l’intera controversia, senza che fosse necessario che l’attore formulasse un appello incidentale, ai sensi dell’art. 343 c.p.c., oppure riproponesse le domande originarie ai sensi dell’art. 346 c.p.c.
2. Presentazione del litisconsorzio alternativo passivo. L’odierna ordinanza solleva una delicatissima questione processuale la cui soluzione passa attraverso un chiarimento in ordine all’oggetto e alla funzione dell’appello, nonché ai meccanismi che disciplinano il passaggio della causa dal primo al secondo grado di giudizio (primo fra tutti il rapporto tra appello incidentale ex art. 343 c.p.c. e riproposizione di domande ed eccezioni non accolte ai sensi dell’art. 346 c.p.c.), il tutto complicato dal fatto che si versa in una ipotesi di processo a più parti.
Il primo vero fattore di complicazione, infatti, investe proprio la materia oggetto della controversia, ovvero quella peculiare figura di processo litisconsortile, detta litisconsorzio alternativo passivo, su cui è opportuno indugiare visto che ha sempre dato del filo da torcere agli operatori teorici e pratici.
Si parla di litisconsorzio alternativo passivo ogni volta che l’attore propone due (o più) domande nei confronti di due (o più) convenuti affinché venga accolta l’una o l’altra, ma non tutte[1].
Si tratta di una forma di cumulo condizionale di domande tra parti diverse la cui ammissibilità, anche a fronte del silenzio serbato dal codice di rito, non è mai stata posta in discussione, tanto è vero che ne parlava già diffusamente Mortara nella sua voce “Appello civile”[2].
Il codice prevede e regola una figura ulteriore di cumulo condizionale di domande tra parti diverse, e cioè la chiamata in garanzia (art. 106 c.p.c.). Si tratta di una forma di cumulo condizionale di tipo successivo; l’attore propone la domanda principale nei confronti del convenuto, il quale chiama in garanzia il garante, proponendo nei suoi confronti la domanda di regresso. In virtù della struttura di queste fattispecie, ed in particolare del nesso di consequenzialità di tipo logico/giuridico e cronologico che intercorre tra le situazioni giuridiche oggetto delle due domande, quella di regresso è una domanda anticipata e necessariamente condizionata all’accoglimento della domanda principale[3].
Nel litisconsorzio alternativo di tipo passivo, la sequenza è diversa perché è l’attore ad avanzare due domande parallele nei confronti di due convenuti affinché ne venga accolta una sola, e non tutte.
Il vero problema del litisconsorzio alternativo – tuttavia – non è quello della sua ammissibilità in astratto; la maggiore difficoltà dell’istituto, infatti, riguarda piuttosto la selezione delle ipotesi in cui questa peculiare forma di cumulo condizionale di domande tra parti diverse è consentito, da quelle in cui deve essere vietato. Si tratta di un compito cui l’interprete deve attendere alla luce dei principi generali del processo civile, con particolare riferimento al principio della domanda che, come vedremo, spesso nel settore esaminato è messo duramente alla prova.
3. I modi di formazione del processo simultaneo. L’ordinamento processuale favorisce la formazione di questa particolare specie di processo litisconsortile. Le due o più domande possono sempre essere proposte in via separata, ma in tal caso l’attore è esposto al rischio di una duplice soccombenza. Infatti, è possibile che entrambi i giudici arrivino ad accertare la esistenza del diritto affermato dall’attore, risultando esistenti tutti i fatti costitutivi e non esistenti eventuali fatti modificativi estintivi impeditivi, ma non venga individuato il vero titolare passivo del rapporto.
Il litisconsorzio può formarsi in via originaria o in via successiva.
In primo luogo, può essere senz’altro l’attore ad agire in giudizio nei confronti dei due o più convenuti, cumulando le diverse domande sin dall’apertura del processo (art. 103 c.p.c.).
Tuttavia, si ammette che il litisconsorzio possa formarsi anche a seguito di intervento coatto del terzo, su istanza di parte (art. 106 c.p.c.) o per ordine del giudice (art. 107 c.p.c.).
Se l’attore propone la sua domanda nei confronti del convenuto e questo, per richiamare una delle ipotesi tipiche, si difende affermando che il vero responsabile è un terzo, l’attore chiederà al giudice di essere autorizzato alla chiamata in causa del terzo responsabile (art. 171 ter n. 1) c.p.c.).
Nella stessa ipotesi, si ammette che anche il convenuto sia legittimato a chiamare in causa il terzo; in questo caso, la giurisprudenza, nonostante il contrario avviso di quasi tutta la dottrina, da sempre ritiene che si abbia la estensione automatica della domanda originaria, con la conseguenza che questa, a prescindere dal contegno adottato dall’attore, potrà essere accolta direttamente nei confronti del terzo[4]. I dubbi e le perplessità che la estensione automatica della domanda suscita sono da sempre ignorati sulla base del peculiare interesse, definito di tipo pubblicistico, suscitato dall’esigenza di evitare all’attore la duplice soccombenza.
Infine, si ammette che in queste fattispecie operi l’intervento per ordine del giudice[5]; si tratta del caso che in assoluto suscita da sempre le maggiori obiezioni perché alla chiamata del terzo corrisponderebbe un ampliamento in senso non solo soggettivo, ma anche oggettivo del processo col che, nuovamente, si assiste ad una compressione del principio della domanda. Ancora una volta, le obbiezioni degli operatori sono superate dalla giurisprudenza in ragione dell’interesse pubblicistico sotteso alle fattispecie che entrano in gioco; ancora una volta, è dirimente l’esigenza di evitare che l’attore sia esposto al rischio della mancata reintegrazione del diritto violato e quindi della vanificazione della tutela.
4.Le regole di qualsiasi processo litisconsortile si ricostruiscono in ragione del vincolo di connessione che intercorre tra le situazioni giuridiche di cui sono affermate titolari le parti. Inutilità della nozione di litisconsorzio necessario di origine processuale. Il modo di formazione del processo simultaneo è del tutto indifferente quando si tratta di stabilirne le regole di svolgimento. I poteri processuali delle parti e del giudice devono essere ricostruiti solo a partire dai nessi che intercorrono tra le situazioni giuridiche di cui sono affermati titolari coloro che hanno acquisito la qualità di parte.
A questo proposito, è importante sgombrare subito il campo da un’espressione piuttosto in voga, soprattutto nella giurisprudenza, e cioè quella di “litisconsorzio unitario” o “litisconsorzio necessario di origine processuale” (presente, peraltro, anche nell’ordinanza di remissione).
Si tratta di un’espressione risalente nel tempo che è stata coniata con riferimento ad una fattispecie molto circoscritta e cioè l’impugnazione delle delibere assembleari. Si era infatti osservato che, sebbene l’azione potesse essere esercitata anche da alcuni soltanto dei titolari (per esempio solo alcuni dei soci dissenzienti), per cui il litisconsorzio era facoltativo quanto alla instaurazione, una volta che nel medesimo processo erano confluite una pluralità di impugnative, la trattazione e decisione dovevano essere unitarie.
Infatti, a livello teorico, si insegna che il c.d. litisconsorzio necessario di origine processuale indica tutti i casi in cui il litisconsorzio, facoltativo quanto alla instaurazione (art. 103 c.p.c.), è necessario quanto a trattazione e decisione, con evidente richiamo all’art. 102 c.p.c., salvo una grossa deroga per quanto riguarda l’obbligo di remissione in primo grado da parte del giudice dell’appello (art. 354 c.p.c.) perché si tratta di un’ipotesi tassativa applicabile solo al litisconsorzio necessario.
Come noto, l’espressione in oggetto viene utilizzata dalla giurisprudenza con riferimento ad un ampio ventaglio di ipotesi; infatti, scorrendo i Repertori della giurisprudenza, balza evidente agli occhi il favore di cui gode questa espressione che viene richiamata, indifferentemente, non solo con riferimento alla impugnazione delle delibere assembleari, ma anche con riferimento alla chiamata in garanzia (art. 106 c.p.c.), all’intervento adesivo dipendente (art. 105, comma secondo c.p.c.), alla chiamata per ordine del giudice (art. 107 c.p.c.), alla successione nel processo (art. 110 c.p.c.), alla successione a titolo particolare nel diritto controverso (art. 111 c.p.c.) e non ultimo al litisconsorzio alternativo passivo. Si tratta di istituti processuali che trovano applicazione con riferimento ad un’ampia congerie di fattispecie sostanziali, le quali esibiscono schemi diversi di connessione tra parti diverse, motivo per cui, stante quanto osservato precedentemente, è impensabile che le regole di svolgimento del processo siano le medesime.
Allora, mettiamo da parte questa etichetta, evidentemente inutile, per non dire foriera di pericolosi equivoci, e concentriamo la nostra attenzione sulla struttura delle fattispecie di cui ci andiamo occupando.
Peraltro, giusto per comprendere quanto lontani siamo dalla figura del litisconsorzio necessario di origine processuale (per come già definito), posso senz’altro anticipare che in tutte queste ipotesi, non solo vi sia lo spazio per una estinzione parziale a seguito, giusto per fare un esempio, di rinuncia da parte dell’attore ad una delle domande, ma con riferimento alla disciplina del litisconsorzio in fase di gravame, almeno nei casi in cui alle due domande sono sottesi due distinti rapporti giuridici, possa operare la disciplina delle cause scindibili (art. 332 c.p.c.), sia pure a condizione che a seguito dell’impugnazione mossa dal convenuto rimasto soccombente nei confronti dell’attore, a questi sia garantito sempre il potere di avanzare impugnazione incidentale, se del caso anche tardiva (art. 334 c.p.c.), nei confronti dell’altro convenuto[6].
5. Analisi ragionata delle fattispecie. Primo gruppo: due domande e due situazioni giuridiche sostanziali incompatibili. Il cumulo è semplice. Sulla scorta dei rilievi precedentemente svolti, è il tempo di portare l’attenzione sulle fattispecie che danno vita ad un litisconsorzio alternativo passivo, allo scopo di evidenziarne la struttura e cioè la forma di connessione che intercorre tra le situazioni giuridiche di cui sono affermate titolari le parti.
Insopprimibili esigenze di chiarezza, mi costringono a semplificare al massimo l’esposizione.
Credo che la riflessione non possa essere unitaria perché queste ipotesi si prestano ad essere distinte in almeno tre diversi gruppi[7].
Inizierei dalle ipotesi classiche, quelle menzionate nei manuali e su cui lavorava la dottrina tradizionale, casi che per lo più affondano le proprie radici nella responsabilità extracontrattuale.
a)Il danneggiante propone domanda di risarcimento del danno nei confronti del preteso danneggiante il quale si difende affermando, ad esempio con riferimento ad un tamponamento a catena, che il responsabile è un terzo[8].
b)Vi è anche un caso tratto da una sentenza degli anni ’60, che viene spesso riportato; l’Ente agisce nei confronti del lavoratore per ottenere la restituzione delle somme sottratte alla Cassa, il lavoratore si difende affermando che in quel momento storico le funzioni di cassiere erano svolte da un terzo.
Altrove, l’attore vanta un titolo nei confronti di un soggetto e nel caso in cui questo si rivela invalido o inefficace, può farne valere un altro nei confronti di un altro soggetto:
c)l’attore agisce nei confronti del convenuto, il quale eccepisce di aver stipulato un accollo con efficacia liberatoria con un terzo.
Siamo di fronte ad ipotesi in cui l’attore avanza nei confronti dei due (o più) convenuti, due domande che pur avendo un petitum tendenzialmente coincidente, si basano su una causa petendi che non è perfettamente sovrapponibile.
In particolare, talvolta, si tratta dei casi sub a), e b), nella fattispecie giuridica di ciascuna di esse, accanto ad una serie di elementi comuni, si rinvengono anche elementi esclusivi all’una e all’altra, ovvero fatti che con riferimento ad una delle fattispecie svolgono un ruolo costitutivo, ma che compaiono nel titolo dell’altra in veste di fatti impeditivi o estintivi. Fra le due fattispecie giuridiche, dunque, corre una relazione di esclusione, nel senso che accanto ad un nucleo comune, ciascuna di esse prevede un elemento ulteriore la cui sussistenza è incompatibile con quella dell’elemento che caratterizza l’altra. Negli esempi richiamati il nucleo comune è rappresentato dall’evento di danno, mentre i fatti, fra i quali corre la relazione di esclusione, sono le diverse condotte, dove l’esclusione è il portato di ciò che solo una di esse regge il nesso di causalità rispetto all’evento di danno.
Altre volte, esempio sub c), invece, nella fattispecie giuridica della domanda rivolta ad uno dei debitori c’è un elemento rappresentato da un negozio giuridico, l’accollo con liberazione del debitore, che corre tra i due convenuti e per il cui tramite il debito si è trasferito dall’uno all’altro. Se il negozio è valido ed efficace, il titolare passivo è l’avente causa (accollante), viceversa se è invalido e/o inefficace, sarà il debitore originario. Lo schema è diverso e più complesso rispetto alle ipotesi precedenti, perché oltre alla relazione di alternatività, si riscontra anche uno schema di connessione per pregiudizialità dipendenza c.d. bilaterale[9].
In tutti questi casi, stante il rapporto di incompatibilità che corre tra le rispettive fattispecie, è giocoforza ritenere che le due domande abbiano ad oggetto due distinti effetti giuridici fra i quali, proprio a livello sostanziale, corre un nesso di alternatività o forse sarebbe meglio dire di incompatibilità, nella misura in cui non possono sussistere contemporaneamente. Proprio in ragione di questa relazione, si dice altresì che l’alternatività sostanziale, non trova corrispondenza a livello processuale, per cui siamo di fronte ad ipotesi di cumulo semplice. Quando l’attore chiede al giudice di condannare o l’uno o l’altro, non propone due domande in forma alternativamente concorrente ma propone due domande, entrambe soggette a decisione, per il cui tramite fa valere due effetti giuridici che a livello sostanziale non possono coesistere perché incompatibili. Allora, escluso che all’alternatività, o meglio, alla incompatibilità sostanziale corrisponda la condizionalità processuale, si dice che l’attore avanza due domande aventi ad oggetto due distinti rapporti giuridici, fra i quali corre un nesso di dipendenza reciproca nella misura in cui l’una può essere accolta solo se l’altra è rigettata[10].
6. Secondo gruppo. Due domande, due situazioni giuridiche compatibili. Dubbi di ammissibilità. Sussiste una seconda forma di alternatività su cui non mi soffermo, nella misura in cui pone non lievi problemi di ammissibilità.
Si tratta di ipotesi in cui le due domande, pur avendo un petitum corrispondente, si fondano su due causae petendi che, pur affondando le proprie radici nella stessa vicenda sostanziale, sono diverse, ma pienamente compatibili, potendo sussistere nello stesso arco temporale.
Si tratta di un’ipotesi richiamata dalle sezioni unite 19 aprile 2016, n. 7700 del 2016[11] e 29 luglio 2002, n. 11102[12], dove si trova proposto il caso dell’attore che, in riferimento alla medesima vicenda, agisce nei confronti di due convenuti, proponendo nei confronti dell’uno domanda di garanzia assicurativa fondata su un contratto di trasporto e, nei confronti dell’altro, domanda di responsabilità delle cose date in custodia basata su un contratto di deposito.
Stante la piena autonomia fattuale e giuridica, le situazioni sostanziali oggetto delle due domande, oltre ad essere distinte, sono pienamente compatibili. Come rilevato da autorevole dottrina, in tali ipotesi, se l’attore avanza le due domande in forma alternativamente concorrente, finisce per non essere determinato l’oggetto del processo, essendo rimesso nella sostanza al giudice la scelta del bene della vita da attribuire all’attore[13].
7.Terzo gruppo. Due domande, una situazione giuridica unitaria. Il cumulo è condizionale. La struttura della fattispecie oggetto dell’ordinanza di rimessione mi sembra completamente diversa. Il lavoratore ha proposto domanda di pagamento delle differenze retributive per svolgimento delle mansioni superiori nei confronti del Comune o della Regione o dell’INPS.
Mi pare che le tre domande abbiano lo stesso petitum, sia in senso processuale (l’oggetto immediato), consistente della domanda di condanna, sia in senso sostanziale (l’oggetto mediato) rappresentato da una somma di denaro liquidata in un importo poco superiore a 22.000 euro. Ma, mi sembra che le tre domande si fondino anche sulla medesima causa petendi, di cui fanno parte sia il rapporto di lavoro, sia l’effettivo svolgimento di mansioni superiori rispetto a quelle stabilite nel contratto di lavoro.
Per questo motivo, mi sembra che le tre domande abbiano ad oggetto il medesimo rapporto giuridico e che il vincolo tra l’una e l’altra sia dato da una questione di diritto, rappresentata dalla qualificazione giuridica del provvedimento di assegnazione funzionale all’INPS (in termini rispettivamente di “comando” o “distacco”), alla cui soluzione è legata la individuazione del titolare passivo dell’obbligo a corrispondere le differenze retributive[14].
Questo stesso schema ricorre nella fattispecie su cui si sono pronunciate le sezioni unite 11202/2002[15]; in quel caso una pluralità di lavoratori aveva agito nei riguardi del datore di lavoro o dell’INPS per ottenere un ricalcolo del TFR, tenuto conto del periodo di cassa integrazione. Anche in quel caso le domande, avanzate da più attori in via alternativamente concorrente nei confronti di due convenuti, avevano ad oggetto il medesimo rapporto giuridico ed erano legate dalla questione di diritto consistente nella individuazione del soggetto tenuto a corrispondere il TFR con riferimento ai periodi di cassa integrazione.
Il medesimo schema, tendenzialmente, ricorre nei casi in cui l’attore avanza la sua domanda di condanna nei confronti di due convenuti, essendovi incertezza in ordine al se l’uno abbia negoziato in veste di rappresentante dell’altro, oppure in proprio perché privo dei poteri della rappresentanza. In questo caso, la individuazione del titolare passivo del rapporto giuridico dedotto in giudizio dipende da una questione di fatto/diritto, ovvero la esistenza oppure no del rapporto di rappresentanza[16].
Vero è che le parti, e dunque, anche il titolare sul lato passivo, sono in genere ritenute uno degli elementi identificativi di qualsiasi situazione giuridica, per cui si potrebbe obiettare che al mutare del debitore segua il mutamento anche del rapporto giuridico, ma, a ben guardare, in questi casi non si deve parlare affatto di trasferimento e dunque di un mutamento del debitore, quanto piuttosto di situazioni giuridiche il cui soggetto passivo non è ancora determinato, ma determinabile risolvendo la questione di diritto.
Si potrebbe anche obiettare che alla individuazione di un determinato soggetto quale titolare passivo del rapporto corrisponde la rilevanza di fatti modificativi o estintivi diversi, il che è vero considerato che solo uno potrebbe avere un controcredito da eccepire in compensazione (ad esempio, nel caso di specie solo il Comune ha sollevato l’eccezione di prescrizione); tuttavia le situazioni giuridiche non sono identificate dai fatti modificativi o estintivi, ma dal petitum e dalla causa petendi, con la ulteriore precisazione che non tutti i fatti c.d. costitutivi svolgono un ruolo individuatore, alcuni servono solo a fondare la domanda.
Comunque, si deve altresì ricordare che la giurisprudenza, ormai da tempo, ha abbandonato un approccio formalistico quando si tratta di individuare le situazioni giuridiche dedotte in giudizio, penso in modo particolare alle sezioni unite 15 giugno 2015, n. 12310 in tema di modifica della domanda[17].
Se le più domande hanno ad oggetto una situazione giuridica unitaria, e sono legate da una questione di diritto (o di fatto/diritto) funzionale alla individuazione del titolare passivo, allora siamo di fronte ad un vero cumulo condizionale di domande; pertanto, in queste ipotesi accolta la domanda nei confronti di uno dei convenuti, il giudice dichiarerà l’assorbimento delle altre[18].
8. La disciplina di passaggio dal primo al secondo grado in ipotesi di alternatività sostanziale. Il chiarimento in ordine alla struttura di queste fattispecie è la premessa necessaria per stabilire la disciplina di questa particolare forma di processo litisconsortile, anche con riferimento al passaggio dal giudice precedente al giudice successivo.
In particolare, è di fondamentale importanza aver stabilito che mentre nelle ipotesi di c.d. alternatività sostanziale le due domande hanno ad oggetto due distinti rapporti giuridici, nel caso sottoposto quest’oggi alla nostra attenzione, il rapporto è soltanto uno.
Con riferimento al primo gruppo di ipotesi, il punto da cui partire è che, stando a quanto ritenuto dalla dottrina che si è occupata del tema, si tratta di casi in cui l’attore avanza nei confronti dei convenuti due domande aventi ad oggetto due distinti rapporti giuridici che a livello sostanziale non possono coesistere; con l’ulteriore precisazione che l’alternatività, presente a livello sostanziale, non trova riscontro a livello processuale, trattandosi di un cumulo semplice.
In applicazione dei criteri generali che disciplinano la legittimazione e l’interesse ad impugnare, ciascuna parte – generalmente – dovrà essere ritenuta legittimata ad avanzare impugnazione con riferimento al capo di sentenza avente ad oggetto il diritto di cui è affermata titolare sul lato attivo o passivo e con riferimento al quale è rimasta soccombente.
A livello sostanziale, i nessi di coordinamento impongono un solo limite: le due domande non possono essere entrambe accolte, al contrario possono essere entrambe rigettate oppure l’una accolta e l’altra rigettata.
Per ricostruire la disciplina del litisconsorzio in fase di gravame, è necessario distinguere in ragione dell’esito di merito cui le cause sono pervenute, del soggetto che per primo assume l’iniziativa impugnatoria, nonché dei motivi di impugnazione.
1.Nei casi in cui entrambe le domande sono state rigettate perché il giudice ha ritenuto che nessuno dei diritti affermati dall’attore sia esistente (per motivi propri, ma anche perché ha accertato che nessuno dei convenuti ha posto in essere la condotta che ha causato l’evento lesivo), il solo soccombente è l’attore. Questi potrà decidere di proporre impugnazione nei confronti dell’uno piuttosto che dell’altro, oppure di entrambi. In ogni caso, stante l’autonomia dei due rapporti, sarà applicabile la disciplina delle cause scindibili di cui all’art. 332 c.p.c. [19].
2.Invece nel caso in cui una domanda sia stata accolta e l’altra rigettata, è opportuno distinguere in ragione del motivo di rigetto, oltre che dei motivi di impugnazione. In queste ipotesi, l’impugnazione principale potrà essere avanzata solo dal convenuto rimasto praticamente soccombente, la disciplina del litisconsorzio in fase di gravame dovrà essere ricostruita alla luce di alcune variabili.
a)Se l’impugnazione del convenuto praticamente soccombente nei confronti dell’attore investe il quantum, oppure l’accertamento di esistenza dei fatti costitutivi (ma non anche la titolarità passiva del rapporto), ritengo che debba applicarsi la disciplina delle cause scindibili (art. 332 c.p.c.).
b)Se la stessa impugnazione investe anche la questione titolarità passiva del rapporto, allora sono favorevole ad applicare la disciplina delle cause scindibili se il giudice ha rigettato la seconda domanda per motivi propri (ad esempio perché ha ritenuto fondata un’ eccezione personale al singolo debitore)[20]; in tal caso, l’attore, ove intenda rimettere in discussione il capo di rigetto, avrà senz’altro l’onere di avanzare appello incidentale, se del caso tardivo, nei riguardi del convenuto uscito vittorioso.
Più problematico, appare invece il caso in cui la seconda domanda è stata rigettata, nella sostanza, per difetto di titolarità passiva del rapporto. Se il convenuto appellante rimette in discussione la propria responsabilità, affermando quella del convenuto non condannato, si tratta di stabilire se la disciplina applicabile è quella delle cause inscindibili o dipendenti (art. 331 c.p.c.) oppure quella delle cause scindibili.
In questo caso distinguerei. Quanto al primo gruppo di ipotesi, dove tra le fattispecie giuridiche da cui scaturiscono gli effetti giuridici incompatibili corre una relazione di esclusione (si tratta dei casi riportati indietro al § 5 let. a e b), credo che debba applicarsi la disciplina delle cause scindibili. Come ho precisato, l’alternatività gioca a livello sostanziale e si fonda sulla circostanza che nella fattispecie giuridica dei due rapporti sostanziali, accanto ad alcuni elementi comuni, ricorre un ulteriore fatto che nell’una gioca il ruolo di fatto costitutivo, mentre invece nell’altra ha un ruolo di fatto impeditivo. L’unico limite imposto dall’esigenza di coordinamento consiste nella impossibilità che le due domande vengano entrambe accolte, ma non anche rigettate. Per questo, direi che è applicabile la disciplina delle cause scindibili[21]. Se il convenuto assolto resta fuori dal processo di impugnazione, il rischio è che si possa configurare un contrasto di tipo logico fra le decisioni, come precipitato del diverso accertamento della condotta che ha causato l’evento di danno. Tuttavia, si tratta di accertamenti non coperti da autorità di cosa giudicata, i due eventuali esiti decisori negativi (l’uno ormai cristallizzato nella sentenza di primo grado, il secondo derivante dall’eventuale accoglimento dell’impugnazione principale) sono perfettamente conciliabili. La soluzione proposta deve essere completata dal riconoscimento all’attore del potere di proporre sempre appello incidentale, se del caso tardivo (art. 334 c.p.c.), nei confronti del convenuto assolto[22].
Quanto alle ipotesi in cui l’alternatività si sovrappone ad uno schema di connessione per pregiudizialità dipendenza di tipo bilaterale (si tratta del caso riportato indietro al § 5 let. c), credo che la soluzione debba essere di segno diverso; in questo caso, infatti, il convenuto soccombente è legittimato ad avanzare impugnazione non solo nei confronti dell’attore, ma anche nei confronti del convenuto assolto, stante il rapporto diretto da cui sono legati (l’accollo con efficacia liberatoria).
Se attraverso l’impugnazione il convenuto soccombente rimette in discussione l’accertamento di validità/invalidità oppure efficacia/inefficacia del negozio per il cui tramite il debito è stato trasferito dall’uno all’altro, credo che l’impugnazione debba necessariamente essere proposta non solo nei confronti dell’attore, ma anche nei confronti del convenuto andato assolto. Di conseguenza, se ciò non è avvenuto, sarà il giudice ad ordinare l’integrazione del contraddittorio ai sensi dell’art. 331 c.p.c. Ancora una volta, se l’attore intende sottoporre alla cognizione del giudice di secondo grado il rapporto giuridico accertato come non esistente, dovrà comunque interporre appello incidentale, se del caso anche tardivo (art. 334 c.p.c.).
9.Il caso di specie. Le tre soluzioni paventate dall’ordinanza di rimessione. Quanto alla vicenda sottoposta oggi all’attenzione della Corte, la ricostruzione della disciplina di passaggio del processo di fronte al giudice dell’appello, rende necessario richiamarne i tratti essenziali. In particolare, è importante muovere dai seguenti dati:
1.Ad esito del giudizio di primo grado, il Tribunale aveva accolto la domanda del lavoratore nei confronti dell’INPS, ma niente aveva detto con riferimento ai due Enti territoriali;
2.l’INPS aveva proposto appello principale nei confronti di tutti, vuoi del lavoratore, vuoi del Comune, vuoi della Regione;
3.l’INPS aveva mosso due ordini di censure; in primo luogo, aveva censurato la soluzione della questione di diritto “qualificazione del provvedimento di assegnazione funzionale” sulla cui base era stato ritenuto debitore; in secondo luogo, aveva censurato l’effettivo svolgimento delle mansioni superiori;
4.il Comune aveva avanzato appello incidentale con riferimento alla eccezione di prescrizione già proposta in primo grado, ma rimasta assorbita.
La Corte di appello di Roma, ritenuta fondata la questione “qualificazione giuridica dell’assegnazione funzionale all’INPS”, aveva rigettato la domanda del lavoratore nei confronti dell’INPS, riformando sul punto la sentenza di primo grado, dopodiché si era fermata, ritenendo di non potersi pronunciare sulle domande avanzate in primo grado dal lavoratore contro Comune e Regione, in quanto l’attore era rimasto del tutto inerte, non risultando che lo stesso avesse avanzato appello incidentale, né le avesse riproposte ai sensi dell’art. 346 c.p.c.
Infatti, la Corte d’appello di Roma ha espressamente sostenuto che, sulla falsariga di quanto affermato dalle sezioni unite 7700/2016[23] e 11799/2017[24], il lavoratore avrebbe dovuto avanzare appello incidentale.
Come evidenziato nell’ordinanza di rimessione, nel caso di specie si prospettano tre ordini di possibilità: è possibile infatti ritenere, in accordo con la Corte d’appello, che a seguito dell’appello mosso dal convenuto uscito soccombente, sull’originario attore – effettivamente – gravasse l’onere di proporre appello incidentale, se del caso condizionato, nei confronti dei convenuti non condannati. In alternativa, si può invece ritenere, sulla linea di quanto sostenuto dalle sez. un. 11202/2002[25], che l’attore potesse limitarsi a riproporre le due domande ai sensi dell’art. 346 c.p.c. In ulteriore alternativa, si può invece ritenere che l’appello avanzato dall’INPS nei confronti di tutte le parti avesse riprodotto di fronte al giudice dell’appello l’intera causa e che di conseguenza, il giudice di secondo grado dovesse comunque pronunciarsi anche sulle domande già avanzate in primo grado nei confronti dei convenuti non condannati (questa soluzione non compare nel testo della questione rimessa alla Prima Presidente, ma è ampiamente argomentata in motivazione).
Ove si presti adesione alla prima o alla seconda tesi, la Corte dovrà rigettare il ricorso, con conseguente passaggio in giudicato della sentenza impugnata; allora sarà necessario riflettere in ordine alla efficacia preclusiva di tale sentenza, al fine di stabilire se al lavoratore residui eventualmente lo spazio per aprire un secondo processo nei confronti del Comune e della Regione.
Al contrario, se si condivide la terza ricostruzione, la Corte accoglierà il ricorso, disporrà il rinvio ed il nuovo giudice dovrà pronunciarsi sulla fondatezza delle domande dirette nei confronti dei due Enti territoriali.
10.La soluzione favorevole all’appello incidentale (se del caso condizionato). Critica. La scelta dell’appello incidentale, suggerita dalla Corte d’appello di Roma, si giustifica in relazione agli indiritti intrapresi dalla giurisprudenza di legittimità nella parte in cui ha affermato che la parte appellata ha l’onere di avanzare appello incidentale (se del caso condizionato) non solo nei casi in cui risulta praticamente soccombente (dunque soccombente con riferimento ad un capo di sentenza o ad una frazione di esso), ma anche nei casi di soccombenza c.d. teorica la quale è configurabile laddove una parte, praticamente vittoriosa nel merito, risulta teoricamente soccombente su una singola questione, sia essa una questione pregiudiziale di rito oppure preliminare di merito[26].
Sapendo che l’appello incidentale, anche se proposto su una singola questione, deve contenere, a pena di inammissibilità, i motivi di impugnazione formulati nelle rigidissime forme dell’art. 342 c.p.c., questa soluzione sembra difficilmente praticabile con riferimento al caso di specie posto che il Tribunale di Latina non si era pronunciato nei confronti del Comune e della Regione e, mancando una statuizione, è difficile immaginare su quali basi il lavoratore avrebbe potuto articolare i propri motivi di impugnazione (invero, si tratta di un profilo delicatissimo, su cui sarebbe opportuno riflettere ogni volta che si intende configurare l’onere dell’appello incidentale in caso di rigetto c.d. implicito di una questione).
Ma, volendo soprassedere sulla specificità del caso di specie, la stessa questione assume un significato diverso con riferimento alle altre fattispecie, a partire da quella su cui si sono pronunciate le sezioni unite del 2002, perché tendenzialmente in queste ipotesi il giudice di primo grado, accolta la domanda nei confronti di uno dei convenuti, rigetta quella avanzata contro l’altro o gli altri per “difetto di legittimazione passiva”.
In verità, non è affatto chiaro il significato di questa espressione. Certamente, in tutte queste fattispecie non si pone un problema di legittimazione passiva, quanto piuttosto di titolarità passiva del rapporto. La questione, dunque, non è di rito, ma di merito. Legittimazione ad agire e contraddire e titolarità attiva e passiva del rapporto giuridico si prestavano ad essere sovrapposte nella prospettiva dell’azione in senso concreto di Giuseppe Chiovenda (l’azione come diritto ad ottenere il provvedimento favorevole, per cui legittimato ad agire e contraddire è il titolare effettivo del diritto fatto valere in giudizio); si tratta però di una concezione ormai abbandonata. Nella diversa ottica dell’azione come aspirazione ad un provvedimento quale che sia, la legittimazione ad agire e contraddire si definiscono alla luce della prospettazione dell’attore.
Chi ritiene che nel caso di specie siamo di fronte ad un vero cumulo condizionale di domande, intenderà questo rigetto per difetto di legittimazione passiva come una forma di absolutio ab instantia, dunque un rigetto in rito che finisce per assomigliare molto ad una pronuncia di assorbimento (mentre invece sarà letto in termini di rigetto nel merito per difetto di titolarità passiva del rapporto, da chi ritiene che in tutte le ipotesi di litisconsorzio alternativo passivo, le due o più domande, avendo ad oggetto situazioni giuridiche distinte, sono sempre soggette a trattazione nel merito).
In ogni caso, appare evidente che l’eventuale appello incidentale dell’originario attore non potrebbe che appuntarsi sulla questione di diritto sulla cui base è stata sciolta la questione titolarità passiva del rapporto giuridico controverso (nel caso di specie, la qualificazione giuridica del provvedimento di assegnazione funzionale all’INPS).
Sul punto, ricordo che il giudice di primo grado aveva qualificato il provvedimento di assegnazione in termini di “comando”, mentre invece l’INPS aveva censurato questa statuizione, affermando che quel provvedimento avrebbe dovuto essere qualificato in termini di “distacco”. Il lavoratore si è difeso, chiedendo il rigetto dell’appello e dunque ha insistito per la qualificazione in termini di “comando”; pertanto, ritenere che abbia l’onere di avanzare appello incidentale nei confronti dei due enti locali, significa imporgli di censurare la statuizione del giudice di primo grado, affermando che quel provvedimento non è un “comando”, ma un “distacco”. Dunque, il lavoratore, che già si è difeso nei confronti dell’INPS insistendo per la conferma della qualificazione in termini di “comando”, dovrebbe rivolgersi agli altri convenuti affermando che si tratta di un “distacco”.
Mi sembra che lo scenario non sia accettabile: siamo di fronte alla violazione del più elementare principio della logica, e cioè il principio di non contraddizione. Costringere il lavoratore appellato ad avanzare appello incidentale, se del caso condizionato, formulando un motivo di impugnazione uguale ma di segno esattamente contrario alle difese svolte contro l’appellante principale, significa costringerlo a sostenere che la stessa statuizione è vera e falsa. Di ciò reca traccia la motivazione delle sezioni unite del 2002, dove si legge che “imporre l’appello incidentale, significa costringere l’attore a sostenere in sede di impugnazione con argomentazioni successive e totalmente incompatibili la responsabilità prima dell’uno poi dell’altro”.
La tesi dell’appello incidentale, dunque, conduce ad un risultato che proprio non si concilia con la funzione strumentale del processo; in verità seguendo questa prospettiva si creano le condizioni in cui le forme prendono il sopravvento, il processo gira intorno a sé stesso, con uno scollamento totale da ciò che ne costituisce l’oggetto.
Quanto alle conseguenze derivanti dal passaggio in giudicato della sentenza di appello, si potrà configurare la possibilità che il lavoratore apra un secondo e autonomo processo contro gli Enti locali, a condizione di ritenere che le altre domande siano state rigettate in rito. Infatti, chi ritiene trattarsi di un rigetto nel merito, lascerà lo spazio all’apertura del secondo processo, solo forzando il testo dell’art. 336, primo comma c.p.c., e affermando che l’accoglimento dell’impugnazione avanzata dal convenuto soccombente, rimuove il presupposto logico su cui su fonda il capo che ha assolto gli altri convenuti, per cui ne determina la caducazione (la forzatura deriva dalla circostanza che l’effetto espansivo interno della sentenza, di cui alla citata disposizione, sembra presupporre l’accoglimento della domanda principale e della domanda dipendente, nonché l’accoglimento dell’impugnazione avanzata nei confronti del solo capo principale)[27].
11.La soluzione favorevole alla necessità della riproposizione ex art. 346 c.p.c. Critica. Torniamo indietro. Se si concorda nel ritenere che questo processo litisconsortile ha un oggetto unitario (il diritto ad ottenere il pagamento delle differenze retributive), allora è giocoforza ammettere che l’impugnazione che l’INPS ha rivolto nei confronti di tutte le parti è idonea a devolvere al giudice dell’appello l’intero rapporto controverso.
In questo quadro, si dovrà altresì riconoscere che la questione “qualificazione giuridica del provvedimento di assegnazione funzionale all’INPS”, che è stata devoluta al giudice dell’appello nella misura in cui è stata oggetto di specifica censura, essendo unitaria, è stata trattata e decisa da parte del giudice dell’appello nei confronti di tutti.
In tal senso, mi sembra doveroso riconoscere che il giudice di secondo grado ha già risolto quella questione nei confronti di tutti; in effetti, affermando che “il provvedimento di assegnazione funzionale” si presta ad essere qualificato in termini di “distacco”, e non anche di “comando”, ha già attribuito al Comune e alla Regione la titolarità passiva del rapporto. Nei punti 7 e 8 della motivazione – d’altronde – si legge che “il trattamento economico spettante al lavoratore non poteva essere posto a carico dell’ente utilizzatore” e poi “il Tribunale doveva mandare assolto l’INPS da ogni pretesa, dovendo la stessa essere rivolta dal dipendente agli enti locali che nel tempo si sono succeduti”.
Come ho già ricordato, la Corte di appello non è andata oltre, esclusa la responsabilità dell’INPS (appellante principale), ha ritenuto di non potersi pronunciare sulle domande avanzate dal lavoratore in primo grado nei confronti degli altri convenuti nella misura in cui era rimasto inerte, non avanzando appello incidentale. Le sezioni unite del 2002, in una situazione analoga, avevano ritenuto che, in mancanza di riproposizione ai sensi dell’art. 346 c.p.c., il giudice dell’appello non poteva pronunciarsi sulle domande già avanzate nei confronti dei convenuti non condannati[28].
Per chi ritiene che il giudice di primo grado non si è pronunciato sulle pretese avanzate dal lavoratore contro Comune e Regione, ma la questione è destinata a porsi anche per coloro che ricostruiscono quel rigetto per difetto di legittimazione passiva come una pronuncia di rito, una sorta di absolutio ab instantia che si è detto finisce per essere molto simile ad una pronuncia di assorbimento, è inevitabile confrontarsi con la possibilità che l’originario attore vada ad aprire un secondo processo[29].
In effetti, sembra essere proprio questo l’unico risultato cui si perviene: costringere il lavoratore a riproporre la domanda contro i convenuti non condannati; infatti, se la Corte rigetterà il ricorso, si avrà il passaggio in giudicato della sentenza di appello, ovvero una sentenza di rigetto che ha come unico motivo portante l’accertamento della non titolarità passiva dell’INPS. Sicché il lavoratore ben potrà avanzare la sua domanda di condanna al pagamento delle differenze retributive nei confronti del Comune e della Regione i quali si vedranno preclusa solo la possibilità di rimettere in discussione la propria titolarità passiva del rapporto giuridico.
Per il resto, la sentenza che andrà a chiudere il primo processo non potrà produrre ulteriori vincoli perché non si sono formati giudicati interni: nel passaggio di fronte al giudice dell’appello, l’INPS ha formulato un motivo di impugnazione anche con riferimento all’effettivo svolgimento delle mansioni superiori (censura ripresa nel ricorso incidentale) ed il Comune, con appello incidentale, ha riproposto l’eccezione di prescrizione rimasta assorbita in primo grado.
Anche questo non è un risultato appagante; l’unico punto fermo è l’accertamento della titolarità passiva del rapporto dedotto in giudizio; per il resto tutto è impregiudicato. Francamente, anche questo è un risultato che mal si concilia con i canoni del giusto processo e della ragionevole durata.
12.Terza soluzione. L’impugnazione principale trascina di fronte al giudice dell’appello il rapporto giuridico controverso, ma anche tutte le pretese avanzate dall’attore. L’effetto sostitutivo dell’appello. Accoglimento. A fronte dei risultati inappaganti cui hanno approdato le precedenti soluzioni, torniamo ancora una volta indietro all’impugnazione proposta dall’INPS nei confronti di tutte le parti e portiamo la riflessione sulla funzione fondamentale dell’appello e cioè il suo effetto sostitutivo.
Si legge spesso, e forse a questo si è attenuta la Corte d’appello di Roma, che l’appello è una revisio prioris instantiae e che il suo oggetto è la sentenza di primo grado. Si tratta di una definizione pericolosa, in quanto potenzialmente foriera di gravi equivoci. La definizione viene fatta risalire alla nota sentenza 29 gennaio 2000, n. 16[30], con la quale le sezioni unite hanno definitivamente avallato l’orientamento della giurisprudenza di legittimità che ha fatto saltare il c.d. effetto devolutivo automatico dell’appello, affermando ciò che dal 2012 troviamo scritto nell’art. 342 c.p.c.; la parte appellante (principale e/o incidentale) deve non solo indicare la parte di sentenza, intesa come capo di sentenza e dunque statuizione relativa alla esistenza o non esistenza di una situazione giuridica, che intende portare alla cognizione del secondo giudice, ma anche le questioni di fatto e di diritto che ritiene essere state decise in maniera errata dal giudice di primo grado, confrontandosi non solo con la parte volitiva della sentenza, ma anche con la parte argomentativa.
Le sezioni unite del 2000, tuttavia, non hanno minimamente rimesso in discussione la funzione dell’appello e cioè la circostanza che il suo giudice deve pronunciarsi sulla esistenza o non esistenza del rapporto giuridico controverso tra le parti[31]. Al contrario, è proprio sulla base di tale presupposto che la Cassazione ha inteso precisare che il passaggio dal primo al secondo grado è privo di qualsiasi automatismo. Il secondo giudice tornerà a pronunciarsi sullo stesso rapporto già oggetto del precedente grado di giudizio, sia pure nei limiti in cui gli viene devoluto dalle parti tramite l’appello principale e incidentale, ma passando solo attraverso la cognizione delle questioni di fatto e diritto già decise dal giudice precedente e censurate nei motivi di impugnazione, oltre che di quelle rimaste assorbite e riproposte ai sensi dell’art. 346 c.p.c.
Se, alla luce di questa premessa, torniamo al caso di specie, balza evidente agli occhi che la Corte d’appello di Roma si è fermata con largo anticipo, senza aver portato a compimento il compito che l’ordinamento assegna al giudice di secondo grado. La Corte, risolta la questione titolarità passiva del rapporto, non avrebbe dovuto arrestarsi, ma avrebbe dovuto pronunciarsi sulla esistenza o non esistenza del diritto al pagamento delle differenze retributive che gli era stato devoluto, esaminando le censure mosse dall’INPS con riferimento alla questione (di fatto) effettivo svolgimento delle mansioni superiori, oltre che sull’eccezione di prescrizione sollevata dal Comune.
A conclusione del processo, la Corte avrebbe potuto accertare la non esistenza del diritto fatto valere dal lavoratore, e allora la causa sarebbe stata definitivamente chiusa; oppure la effettiva esistenza.
In questo secondo caso, si sarebbe comunque posto il problema dell’inerzia del lavoratore il quale non ha riproposto la domanda di condanna, ma ancora una volta, in considerazione di tutto quanto ho detto con riferimento all’oggetto di questo processo, non è accettabile l’idea che il lavoratore, ottenuto l’accertamento di esistenza del suo diritto ad ottenere il pagamento delle differenze retributive (ivi compreso il titolare passivo), si trovi comunque costretto ad aprire il secondo processo, sia pure al limitato scopo di ottenere la condanna all’adempimento.
Per ovviare a questa conclusione, si possono fare due ordini di considerazioni nel tentativo di stabilire se l’impugnazione dell’INPS possa essere ritenuta idonea a devolvere al giudice dell’appello tutte le domande già avanzate dal lavoratore dinanzi al giudice di primo grado
In primo luogo, è opportuno soffermarsi sul c.d. effetto devolutivo allargato dell’appello che taluni vorrebbero fondare sul disposto dell’art. 336, primo comma c.p.c. La disposizione, invero, si limita a disciplinare il c.d. effetto espansivo interno della sentenza, il quale si atteggia come un mero effetto caducatorio destinato ad operare ex post, sul presupposto che nel processo siano state cumulate la domanda principale e la domanda dipendente, che entrambe siano state accolte e che sia accolta anche l’impugnazione proposta contro il capo pregiudiziale[32].
Il distacco rispetto all’effetto devolutivo allargato balza evidente agli occhi se messa a confronto con l’art. 562 del Code de procédure civile francese il quale stabilisce che l’impugnazione mossa contro il capo principale trascina di fronte al giudice dell’appello anche i capi dipendenti.
Se questo è vero, probabilmente è opportuno tenere ben distinti, i casi in cui il processo ha ad oggetto situazioni giuridiche distinte, sia pure connesse per pregiudizialità dipendenza, in cui si fa fatica a ricostruire su solide basi normative l’effetto trascinamento dell’impugnazione rivolta contro il solo capo pregiudiziale sui capi dipendenti, dai casi in cui l’oggetto del processo è rappresentato da una situazione giuridica unitaria, sebbene complessa.
In presenza di processi che hanno un oggetto unitario, infatti, l’ effetto devolutivo allargato finisce per sovrapporsi al c.d. effetto sostitutivo dell’appello. Se normalmente l’oggetto dell’appello si sovrappone a quello del giudizio di primo grado, è di tutta evidenza che a fronte di situazioni giuridiche unitarie, è inevitabile che qualsiasi censura di fatto e/o di diritto determini la devoluzione dell’intero rapporto al giudice dell’appello. Ne sono un esempio i debiti di valore, fra i quali devono senz’altro collocarsi le obbligazioni risarcitorie[33]; capitale, interessi e maggior danno da svalutazione monetaria (per non parlare delle molteplici voci del danno non patrimoniale) non debbono essere considerate situazioni giuridiche distinte, seppur connesse, quanto piuttosto segmenti interni ad un rapporto unitario. In conseguenza di ciò, si ritiene che se la domanda di condanna al risarcimento del danno viene accolta, ed il convenuto danneggiante propone impugnazione censurando il capo relativo al capitale, l’intero rapporto obbligatorio transita di fronte al giudice dell’appello con la conseguenza che ove l’appello venga anche solo in parte accolto, il secondo giudice potrà rimodulare la condanna al pagamento di interessi e maggior danno, in ragione delle sole variazioni apportate al capo relativo al capitale. Si è parlato di effetto devolutivo allargato, sia pure nei limiti del condizionamento, perché, in mancanza di censure specificatamente mosse contro interessi e maggior danno, il giudice li potrà sindacare in maniera limitata e cioè solo per ciò che è reso necessario dall’accoglimento dell’impugnazione avanzata contro il capitale (di conseguenza, non potrà, tanto per fare un esempio, tornare a sindacare il tasso degli interessi o il dies a quo).
Tornando al caso di specie, mi sembra che se è vero che le domande avanzate nei confronti dei diversi convenuti hanno un oggetto unitario e sono legate da una medesima questione di diritto la cui soluzione è funzionale alla individuazione del titolare passivo del rapporto, allora si possa ritenere che tra esse corra un nesso di interdipendenza nella misura in cui sono connotate da un vincolo di unitarietà funzionale.
Questo legame, strettissimo, giustifica l’operare dell’effetto devolutivo allargato, in virtù del quale è possibile riconoscere che l’appello avanzato dall’INPS nei confronti di tutte le parti abbia trascinato di fronte al giudice dell’appello non solo l’intero rapporto giuridico, ma anche tutte le pretese che su esso sono state articolate[34].
In secondo luogo, se le argomentazioni svolte non dovessero convincere, sarebbe opportuno ricordare che questa causa è scaturita da un processo soggetto al rito del lavoro. Si tratta di un modello di processo in cui, a fronte del carattere non totalmente disponibile delle situazioni che ne costituiscono l’oggetto (art. 2113 c.c.), il giudice si vede attribuiti più marcati poteri ufficiosi. Tra questi, spicca in modo particolare il potere di condannare il convenuto al pagamento degli interessi e del maggior danno da svalutazione monetaria, anche se non richiesto (art. 429, comma terzo c.p.c.). Si tratta di una previsione che stride con il principio della domanda nella misura in cui siamo di fronte a rapporti di valuta e dunque, interessi e maggior danno sono situazioni giuridiche distinte[35], sia pur connesse per pregiudizialità dipendenza alla sorte capitale (si tratta di un classico esempio di accessorietà).
13.Conclusione. Un auspicio. Vorrei chiudere formulando un auspicio: che la Suprema Corte, qualunque decisione andrà ad assumere, formuli il proprio principio non avuto riguardo al litisconsorzio alternativo passivo o al cumulo soggettivo alternativo passivo, ma facendo riferimento al lavoratore che ha convenuto in giudizio il Comune, la Regione e l’INPS per sentirli condannare in via alternativa al pagamento delle differenze retributive e chiarendo se ritiene che a fondamento di queste domande ci sia un unico rapporto giuridico oppure tre distinti rapporti.
L’espressione litisconsorzio alternativo passivo indica solo la presenza di un cumulo di domande proposte in forma alternativa tra parti diverse, ma, come spero sia emerso, la struttura delle situazioni giuridiche sottostanti non è sempre la medesima.
In considerazione di quanto affermato sin dalle battute iniziali di questo contributo, allora, un provvedimento che facesse generico riferimento al litisconsorzio alternativo passivo, magari potrebbe assicurare la decisione pronta e giusta al caso concreto, ma una volta entrata in circolazione potrebbe andare a intossicare il sistema perché, se venisse evocata e poi applicata con riferimento ad un’ipotesi di litisconsorzio alternativo passivo avente ad oggetto una fattispecie con una struttura completamente diversa, la coerenza dell’ordinamento ne potrebbe uscire compromessa.
[1] La definizione è stata proposta da Tarzia, Appunti sulle domande alternative, in Riv. dir. proc. 1964, 253 ss. spec. 292, non senza mettere l’interprete sull’avviso che si tratta della nota minima del concetto, il cui approfondimento rende necessario un’indagine di carattere positivo.
[2] Mortara, Appello civile, voce del Digesto Italiano, III, 2, Torino 1890, p. 971 ss.
[3] Si veda, se si vuole, Gambineri, Garanzia e processo, I, Fattispecie e struttura, Milano 2002, p. 238 ss.
[4] La giurisprudenza afferma che la domanda dell’attore si estende automaticamente al terzo chiamato in causa dal convenuto allorquando si tratta di individuare il vero responsabile, nell’ambito di un rapporto oggettivamente unitario. Per una migliore comprensione, è interessante soffermarsi sulle ipotesi in cui la Corte ha applicato il summenzionato principio.
Si possono distinguere due diversi gruppi: 1) in primo luogo, ci sono ipotesi in cui tra l’attore e i convenuti intercorrono distinti rapporti giuridici, in tal caso la violazione del principio della domanda è molto marcata (si veda avanti al § 6 testo e nota 13): si vedano Cass. 15 gennaio 2020, n. 516 con riferimento al caso in cui l’attore aveva avanzato domanda di risarcimento del danno nei confronti del proprietario dell’appartamento sovrastante e questi aveva chiamato in causa il conduttore che aveva commissionato i lavori alla ditta appaltatrice; Cass. 28 novembre 2019, n. 31066, con riferimento al caso in cui la domanda risarcitoria avanzata nei confronti dell’ente comunale, convenuto come custode ai sensi dell’art. 2051 c.c. di una strada pubblica, era stata estesa nei confronti del terzo ente provinciale chiamato, come responsabile esclusivo o corresponsabile del danno, ai sensi dell’art. 2043 c.c.; Cass. 7 ottobre 2011, n. 20610 riferita al caso in cui l’attore aveva avanzato domanda di risarcimento dei danni derivati da una nuova costruzione nei confronti del convenuto appaltante, il quale aveva chiamato in causa il terzo subappaltatore indicandolo come unico responsabile della cattiva esecuzione delle opere e dei danni conseguenti; 2) in secondo luogo, ci sono ipotesi in cui si può ritenere che il rapporto giuridico dedotto in giudizio sia unico, per cui si ha solo una compressione del principio della domanda (si veda avanti al § 7); si vedano Cass. 27 aprile 2016, n. 8411 con riferimento al caso in cui l’attore aveva agito nei confronti del convenuto per ottenere il pagamento delle prestazioni professionali, il convenuto si era difeso affermando di aver conferito l’incarico professionale all’attore in veste di rappresentante di un terzo e lo aveva chiamato in causa come vero responsabile; Cass. 11 gennaio 2006, n. 254 con riferimento al caso in cui l’attore aveva proposto domanda di risarcimento del danno per responsabilità contrattuale nei confronti della società convenuta la quale chiamava in causa una seconda società affermando di aver stipulato il contratto in qualità di sua agente.
In senso diametralmente opposto, in fattispecie analoghe, la giurisprudenza esclude la estensione automatica della domanda, quando il terzo viene evocato in giudizio a titolo di garanzia, ritenendo che in questi ultimi casi la domanda rivolta contro il terzo abbia ad oggetto un distinto rapporto giuridico per cui, ai fini della condanna del terzo in favore dell’attore, si rende necessaria un’espressa e autonoma domanda; si vedano Cass. 15 gennaio 2020, n. 516; Cass. 20 febbraio 2018, n. 4027; Cass. 27 aprile 2016, n. 8411; Cass. 5 marzo 2013, n. 5400; Cass. 29 dicembre 2009, n. 27525.
L’estensione della domanda al terzo obbligato è da sempre nel mirino della quasi unanime dottrina, si vedano, tra i tanti, Proto Pisani, Dell’esercizio dell’azione, in Commentario del codice di procedura civile diretto da Allorio, Torino 1973, p. 1178; Trocker, L’intervento per ordine del giudice, Milano 1984, p. 249 ss.; Consolo, Il cumulo condizionale di domande, II, Padova 1985, p. 638 ss.; Luiso, Diritto processuale civile15, I, Principi generali, Milano 2024, p. 334 ss.
[7] Già Redenti, Problemi di competenza in cassazione, in Riv. dir. proc. 1943, 81 ss. spec. 97 distingueva tra alternatività vera e falsa (apparente o spuria).
L’alternatività vera si legava alla sussistenza di almeno tre condizioni: “a) che il titolo vantato dall’attore sia uno solo ed unico, per conseguire una prestazione oggettivamente unica od un unico risultato a proprio favore, ma sia incerto contro quale di due (o più) soggetti possa essere fatto valere il titolo stesso a questo scopo; b) che l’identificazione di quello dei due (o dei più) tenuto a prestare od a subire, dipenda dall’avverarsi di un determinato evento, dalla conclusione o non conclusione di un determinato negozio o dalla decisione di una determinata controversia nei rapporti interni tra di loro (soggetti passivi), su di che essi pertanto siano legittimi contraddittori invicem inter se; c) e che non vi sia già fra di loro un negozio, un riconoscimento, una decisione, che «faccia stato» (sia pure per riflesso) anche nei rapporti con l’attore”.
Al contrario, si avrebbe alternatività spuria “quando l’attore (creditore, avente diritto) vanti un determinato titolo (preteso creduto o sperato) contro un certo soggetto passivo e, nell’ipotesi che questo titolo si riveli insussistente, inefficace od invalido, possa (appunto per ciò) farne valere un altro contro altri, come può avvenire, per esempio, in dipendenza di negozi che diano luogo ad obbligazioni accessorie di garanzia”.
[8] Per esigenze di schematizzazione, si fa riferimento ad ipotesi in cui il responsabile dell’evento dannoso è uno solo; con riferimento invece ai casi – sicuramente molto più numerosi – in cui è possibile che entrambi i convenuti abbiano concorso al verificarsi dello stesso fatto, si veda avanti alla nota 13.
[9] Si parla di connessione per pregiudizialità dipendenza bilaterale per ciò che il rapporto di accollo che lega i due debitori, è dipendente dal rapporto tra il creditore ed il debitore originario, ma allo stesso tempo è pregiudiziale rispetto al rapporto tra il creditore ed il debitore accollante.
[10] Si tratta della tesi di Tarzia, Appunti sulle domande alternative, cit., p. 297; ripresa da Trocker, L’intervento per ordine del giudice, cit., p. 210 ss. e Consolo, Il cumulo condizionale, II, cit., p. 632-633 in nota 82.
[11] Cass., sez. un. 19 aprile 2016, n. 7700, in Corriere giur. 2016, 968 con nota di Consolo, Breve riflessione esemplificativa (oltre che quasi totalmente adesiva) su riproposizione e appello incidentale; in Guida al diritto, fasc. 30, 69 con nota di Pirruccio, Anche chi è vittorioso dovrà fare ricorso per evitare sorprese.
[12] Cass., sez. un. 29 luglio 2002, n. 11202, in Giur. it. 2003, 658 ss. con nota di Consolo, Le sezioni unite sul litisconsorzio alternativo in appello; la sentenza è commentata anche da Ronco, Studio sul litisconsorzio alternativo, in Riv. trim. dir. e proc. civ. 2004, 905 ss.
[13] Per motivi di chiarezza, nel testo si è proceduto per grosse approssimazioni, non ignorando che nella prassi, frequentemente, gli schemi sono ibridi, nel senso che attingono i propri caratteri dall’uno e dall’altro gruppo.
Anche nei rapporti fra parti diverse, infatti, si rinvengono ipotesi in cui l’attore propone nei confronti di più soggetti domande che hanno lo stesso contenuto economico, sono dirette al soddisfacimento del medesimo interesse, cosicché l’accoglimento e il soddisfacimento dell’una, necessariamente estingue anche l’altra o le altre, ma non è affatto banale stabilire se il diritto sostanziale è unitario oppure no.
L’esempio più significativo, si registra senz’altro nell’ambito della responsabilità civile, dove la giurisprudenza, spesso, si confronta con ipotesi in cui con riferimento allo stesso episodio di vita, l’attore cita in giudizio due o più convenuti per sentirli condannare in via alternativa e/o cumulativa al risarcimento del danno subito.
Per fare qualche esempio, è sufficiente tornare ai casi in cui la giurisprudenza ha ammesso che, a seguito della chiamata in causa del c.d. terzo obbligato da parte del convenuto, si ha la c.d. estensione automatica della domanda originaria (si veda indietro alla nota 4, al n.1): l’azione di risarcimento del danno proposta nei confronti del proprietario dell’appartamento sovrastante, successivamente estesa al conduttore che aveva commissionato i lavori alla ditta appaltatrice (di cui si è occupata Cass. 516/2020); l’azione di risarcimento per omessa custodia ai sensi dell’art. 2051 c.c., successivamente estesa al terzo chiamato in causa ai sensi dell’art. 2043 c.c. come responsabile esclusivo o corresponsabile (su cui si è pronunciata Cass. 31066/2019); l’azione proposta nei confronti della società appaltante e del terzo subappaltatore indicato dal convenuto come unico responsabile dei danni (di cui si è occupata Cass. 20610/2011).
Si tratta di ipotesi che devono essere ricostruite alla luce del disposto dell’art. 2055 c.c. a tenore del quale se il fatto dannoso è imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido al risarcimento del danno.
Il presupposto cui si aggancia la regola della responsabilità solidale è che a fronte di un danno unitario, vengano individuati più responsabili secondo i criteri della causalità di fatto. Giurisprudenza e dottrina concordano nel ritenere che per configurare una responsabilità solidale, ciò che rileva è solo l’unicità del fatto dannoso, come risultato delle azioni o omissioni dolose o colpose compiute da soggetti distinti. La responsabilità solidale non postula la identità delle norme violate, né è esclusa in ragione del fatto che taluni rispondono a titolo di responsabilità oggettiva; in tal senso è ammesso il concorso tra responsabilità del committente e dell’appaltatore per il danno cagionato al terzo durante i lavori; la responsabilità tra più custodi o tra proprietari e custodi; tra proprietario e titolare di un diritto reale minore; ancora tra l’autore del fatto e chi per legge risponde del fatto altrui.
Allora, nei casi richiamati, le molteplici domande sono generate da fattispecie aventi un nucleo comune radicato in una stessa vicenda storica e dunque contengono un elemento comune sostanzialmente rappresentato dal fatto dannoso, ma anche elementi specifici all’una e all’altra, senza che possa ritenersi sussistente una relazione di esclusione, potendo le stesse coesistere ed anzi concorrere.
Stante la relazione di compatibilità che intercorre tra le diverse e rispettive causae petendi, mi sembra che siamo di fronte a domande aventi ad oggetto obbligazioni diverse. Proprio come abbiamo visto con riferimento alle ipotesi riportate nel testo al § 6, il cumulo non può essere rigidamente alternativo perché, ancora una volta, non può essere il giudice a scegliere discrezionalmente di porre l’intero obbligo risarcitorio a carico di una sola delle parti convenute. Invero, l’attore chiederà la condanna dei convenuti in forma alternativa o cumulativa (e magari si premunirà anche di precisare “e in ogni caso in via solidale”), ma questa prospettazione, alla luce dell’art. 2055 c.c., deve essere letta, non nel senso che sono proposte perché il giudice accolga o l’una o l’altra, ma non tutte (secondo quello che è lo schema minimo del litisconsorzio alternativo passivo, si veda indietro al § 2, testo e nota 1), quanto piuttosto nel senso che al giudice si chiede di stabilire se, rispetto a quell’evento di danno, l’una o l’altra oppure entrambe le condotte hanno efficacia eziologica; ad esito del processo, dunque, il giudice potrà condannare tutti i convenuti in forma solidale (anche se la solidarietà dovrà cedere il passo, laddove risulti che gli apporti causali dei diversi danneggianti siano indipendenti, dovendosi allora configurare diverse obbligazioni risarcitorie distinte, seppure complementari) oppure potrà condannare l’uno e assolvere l’altro o, infine, potrà mandarli tutti assolti.
In ogni caso, si tratta di un processo soggettivamente e oggettivamente cumulativo, proprio come avviene in ipotesi di solidarietà, facoltativo quanto a instaurazione, trattazione e decisione; in sede di impugnazione si applicherà la disciplina delle cause scindibili di cui all’art. 332 c.p.c. (sul punto, si veda, se si vuole, Gambineri, Le obbligazioni solidali ad interesse comune. Profili sostanziali e processuali, Milano 2012). Peraltro, la ricostruzione della disciplina processuale può essere complicata dalla circostanza che in ipotesi di responsabilità solidale, tra i due o più convenuti possono essere anche proposte azioni di regresso; in questi casi non solo il giudice dovrà occuparsi della distribuzione del peso economico dell’obbligazione risarcitoria nei rapporti interni tra i coobbligati solidali sulla base del criterio dell’apporto causale (salva l’applicazione del criterio residuale, fissato nel secondo comma dell’art. 2055 c.c., che equipara la responsabilità dei diversi coautori), ma la disciplina processuale, anche nel passaggio di fronte al giudice dell’impugnazione, dovrà tener in conto del vincolo di connessione per pregiudizialità dipendenza che lega le obbligazioni solidali, che corrono tra creditore e ciascun debitore, e le obbligazioni di regresso, che invece si snodano nei rapporti interni tra condebitori( sul punto, si veda Baccaglini, Il processo sulle obbligazioni solidali «paritarie» e l’azione di regresso, Padova 2015).
[14] Non mi sembra che la definizione offerta si presti ad essere sovrapposta a quella formulata da Tarzia, Appunti sulle domande alternative, cit., p. 297 ss.; l’Autore, pur facendo espresso riferimento alla sussistenza di una questione di fatto o di diritto che è determinante per il rigetto di una pretesa e l’accoglimento dell’altra, sembra parlare esclusivamente, almeno con riferimento ai rapporti fra più parti, di alternatività c.d. sostanziale affermando espressamente che il giudice deve decidere nel merito entrambe le domande «di modo che esse sono reciprocamente condizionate sol quanto alla loro fondatezza materiale».
Ritengo che lo stesso possa dirsi con riferimento alle altre pronunce che hanno aderito al principio di diritto elaborato dalle sezioni unite del 2002: 1) Cass. 22 novembre 2023, n. 32434: nel caso di specie l’attore aveva agito nei confronti del Consigliere comunale per il pagamento di diritti e onorari per la difesa ed il convenuto aveva chiamato in causa il Comune indicandolo come soggetto tenuto al pagamento delle spese di difesa in relazione ai reati a lui contestati in qualità di consigliere comunale; 2) Cass. 23 dicembre 2011, n. 28711: nel caso di specie l’attore aveva proposto in via alternativamente concorrente domanda di condanna al pagamento dell’indennizzo di cui alla l. 210 del 1992 per danno irreversibile da emotrasfusione nei confronti del Ministero della salute e della Regione Marche (trattandosi di individuare il soggetto competente al rilascio del summenzionato beneficio); 3) Cass. 13 ottobre 2011, n. 21171: nel caso di specie l’attore proponeva l’azione di pagamento dei compensi professionali, in via alternativamente concorrente, nei confronti del Comune e dei sindaci; 3) Cass. 9 novembre 2018, n. 28792: nel caso di specie l’attore aveva proposto domanda di condanna al pagamento della retta per la degenza di un malato psichiatrico nei confronti della ASL e, in via subordinata, nei confronti del Comune. Sebbene il cumulo non fosse alternativo, ma subordinato, anche in questo caso il vincolo di condizionamento investiva la questione individuazione del soggetto tenuto a farsi carico delle spese di cui in oggetto; 4) Cass. 7 gennaio 2009, n. 65: nel caso di specie l’attore aveva chiesto il riconoscimento del diritto alla corresponsione dell’indennità di accompagnamento, ex art. 1 l. 18/80 nei confronti del Ministero dell’economia e delle finanze o dell’INPS o della Regione o del Comune.
E’ curioso ricordare che anche Allorio, Litisconsorzio alternativo passivo e impugnazione incidentale, in Giur. it. 1947, IV, 73 ss. , spec. 74 richiamava esempi che riproducevano il medesimo schema; è questo quanto risulta, ad esempio, con riferimento al caso della conceria che agiva per ottenere il pagamento delle pelli fornite per una certa partita di scarpe militari, nei confronti del Ministero della guerra e del fabbricante di calzature che aveva eseguito la lavorazione, perché l’individuazione del debitore dipendeva dalla soluzione di una questione di diritto relativa all’efficacia di un provvedimento dell’Amministrazione militare che avrebbe avuto come conseguenza una novazione soggettiva dell’obbligazione. Secondo l’A., l’attore, nel caso in cui venga accolta la domanda nei riguardi di uno dei convenuti, “non chiede il rigetto nel merito della propria domanda abbinata”, in realtà “revoca in anticipo” questa seconda domanda. Di conseguenza il giudice non assolverà il secondo convenuto con sentenza idonea ad acquistare autorità di cosa giudicata, “ma sentenzierà non esserci più materia di contesa con costui: salvo che egli non sia insorto con una riconvenzionale di accertamento negativo”.
[16] Si vedano, ad esempio Cass. 8411/2016 e 254/2006 riportati indietro alla nota 4; anche in queste ipotesi, mi sembra che le due domande abbiano ad oggetto lo stesso diritto, avendo lo stesso petitum e la stessa causa petendi, e che solo la individuazione del titolare passivo sia legata alla soluzione di una questione di fatto/diritto, senza che, a differenza di quanto si è creduto di vedere nell’ipotesi dell’accollo con efficacia liberatoria (si veda indietro al § 5 sub c), si possa paventare l’idea di un trasferimento del diritto dall’uno all’altro.
[17] Cass., sez. un. 15 giugno 2015, n. 12310, in Foro it. 2016, I, 255 con nota di Cea, Tra «mutatio» ed «emendatio»: per una diversa interpretazione dell’art. 183 c.p.c.; in Foro it. 2015, I, 3174 con nota di Motto, Le sezioni unite sulla modificazione della domanda giudiziale; in Corriere giur. 2015, 968 con nota di Consolo, Le S.U. aprono alle domande «complanari»: ammissibili in primo grado ancorché (chiaramente e irriducibilmente) diverse da quella originaria cui si cumuleranno; in Riv. dir. proc. 2016, 807 con nota di Merlin, Ammissibilità della mutatio libelli da «alternatività sostanziale» nel giudizio di primo grado; la sentenza ha profondamente rimeditato la nozione di modifica della domanda prendendo nettamente le distanze dagli indirizzi tradizionali di impostazione formalistica che hanno sempre configurato una domanda nuova al variare di uno degli elementi identificativi del diritto.
[18] Sulla figura dell’assorbimento, si confronti per tutti Consolo, Il cumulo condizionale di domande, I, Padova 1985, p. 426 ss., 443 ss.
[19] In senso analogo, Consolo, Il cumulo condizionale, II, cit., p. 801 – 802 in nota 200; Rascio, L’oggetto del giudizio di appello, cit., p. 179; Ronco, Studio sul litisconsorzio alternativo, cit., p. 925; Luiso, Diritto processuale civile15, II, Il processo di cognizione, Milano 2024, p. 352.
[20] Analogamente Luiso, Diritto processuale civile15, II, cit., p. 351.
[21] In senso analogo, G.F. Ricci, Il litisconsorzio nelle fasi di impugnazione, Milano 2005, p. 337 ss. spec. 348, 364 ss.; Merlin, Inscindibilità dei giudizi e riproposizione di domande fra litisconsorti nelle fasi di gravame, in Riv. dir. proc. 2013, 1294 ss.; Bove, Spunti problematici sul litisconsorzio in fase di impugnazione, in Il giusto processo civile, 2022, 931.
In giurisprudenza prevale la tesi secondo cui si deve applicare l’art. 331 c.p.c., si vedano Cass. 23 dicembre 2009, n. 27152 (nel caso di specie, a seguito dell’appello mosso dall’attore nei confronti di uno solo dei convenuti assolti, la Corte aveva inutilmente disposto l’integrazione del contraddittorio nei confronti dell’altro convenuto); Cass. 12 dicembre 2006, n. 26420; Cass. 29 ottobre 2001, n. 13397; altrove la giurisprudenza afferma invece che a seguito dell’impugnazione mossa dal convenuto soccombente contro l’attore questi è tenuto a riproporre ai sensi dell’art. 346 c.p.c., la sua domanda nei confronti dei convenuti non condannati, si confronti Cass. 2 marzo 2012, n. 3253 (nel caso di specie l’attore aveva avanzato domanda di condanna in via alternativa o solidale contro l’ente provincia ed il Comune per il risarcimento del danno subito a causa della caduta di un grosso albero sulla propria autovettura)
In dottrina, l’opinione maggioritaria è che, a seguito dell’impugnazione del convenuto soccombente, debba applicarsi l’art. 331 c.p.c., salvo imporre all’attore l’onere di avanzare impugnazione incidentale, Allorio, Litisconsorzio alternativo passivo e impugnazione incidentale, cit., 76-77 (il quale ritiene che l’attore potrà avanzare impugnazione incidentale anche tardiva, tenuto conto del carattere di interdipendenza che connota le due domande); Tarzia, Appunti sulle domande alternative, cit., p. 302 – 303 (il quale tra le due domande, ravvisa invece un nesso di inscindibilità). In senso favorevole a ritenere che a seguito dell’appello del convenuto praticamente soccombente, l’attore/appellato abbia l’onere di interporre appello incidentale (condizionato), si vedano Consolo, Il cumulo condizionale, II, p. 801 – 802 in nota 200; Id., Le sezioni unite sul litisconsorzio alternativo in appello, cit., 660 (con la precisazione ulteriore che dovrà essere in ogni caso disposta l’integrazione del contraddittorio ex art. 331 c.p.c. nei riguardi del convenuto assolto); Rascio, L’oggetto del giudizio di appello, cit., p. 179.
Nel senso che l’impugnazione del convenuto soccombente coinvolga sempre anche il rapporto che intercorre tra l’originario attore e l’altro convenuto, con conseguente necessaria applicazione della disciplina delle cause dipendenti di cui all’art. 331 c.p.c., si vedano Satta, Commentario al codice di procedura civile, II, 2, Milano 1962, p. 84 il quale, pur nutrendo seri dubbi sull’ammissibilità della domanda alternativa, ritiene che la condanna di uno dei convenuti implica la sua soccombenza non solo nei confronti dell’attore, ma anche nei confronti dell’altro convenuto e da ciò trae la conclusione secondo cui l’impugnazione del condannato deve necessariamente dirigersi anche contro l’altro convenuto che deve ritenersi litisconsorte necessario sul punto della spettanza dell’obbligo; Luiso, Diritto processuale civile15, II, cit., p. 351 – 352; Ronco, Studio sul litisconsorzio alternativo, cit., p. 927, sia pure precisando che questo vincolo di interdipendenza ricorre sol ove la sentenza di primo grado abbia accolto una delle domande proprio in ragione del rigetto dell’altra e che la censura prospettata con l’impugnazione principale rispetti questa regola di incompatibilità, auspicando che ne siano invertiti i termini (per la sentenza: X =+, poiché Y = -; per l’impugnante X = -, poiché Y = +).
[22] L’affermazione si fonda sul convincimento che, ormai, possa ritenersi pacifico che anche in ipotesi di cause scindibili (art. 332 c.p.c.), la parte destinataria dell’impugnazione principale possa rivolgere l’impugnazione incidentale tardiva (art. 334 c.p.c.), nei confronti di una parte diversa dall’impugnante principale, laddove l’interesse che la sorregge sia sorto o risorto solo a seguito dell’impugnazione principale; si tratta di un principio che la Suprema Corte ha elaborato con riferimento specifico alle obbligazioni solidali, si veda Cass., sez. un., 27 novembre 2007, n. 24627, in Corriere giur. 2008, 1701 ss. con nota di Consolo, Condebito solidale fra art. 332 e 334 cod. proc. civ.: una collocazione sempre ardua (con tentazione di ritorno all’art. 471, comma 2°, n. 3, cod. proc. civ. 1865); in Giusto proc. civ. 2008, 437 ss., con nota di Balena, Cause scindibili e impugnazione incidentale tardiva; in Riv. dir. proc. 2008, 1423 ss., con nota di Corrado, Riflessioni a margine degli artt. 334 e 331 c.p.c.; ibid., 2009, 689 con nota di Turatto, Condebito solidale e «interesse all’impugnazione»: le sezioni unite verso la caduta dell’ultimo limite all’impugnazione incidentale tardiva; il principio è stato più di recente ribadito da Cass., sez. un. 28 marzo 2024, n. 8486. Sul tema, si veda Baccaglini, Obbligazioni solidali ad interesse comune e impugnazione incidentale tardiva, in Riv. dir. proc. 2022, 85 ss.; e, se si vuole, Gambineri, Orientamenti e disorientamenti giurisprudenziali in tema di limitazioni soggettive alla impugnazione incidentale tardiva, in Foro it. 1996, I, 944.
[24] Cass., sez. un. 12 maggio 2017, n. 11799, in Corriere giur. 2017, 1400 con nota di Consolo – Godio, Un ambo delle sez. un. sull’art. 345 (2° e 3° comma). Le prove nuove ammissibili perché indispensabili (per la doverosa ricerca della verità materiale) e le eccezioni (già svolte) rilevabili d’ufficio; in Riv. dir. proc. 2018, 258 con nota di Rascio, Impugnazione e riproposizione ex art. 346 c.p.c. al vaglio delle sezioni unite; in Giusto proc. civ. 2017, 805 con nota di Bianchi, Riproposizione in appello delle eccezioni respinte da parte dell’appellato vittorioso in primo grado.
[26] Nel caso di specie, ho detto che le domande rivolte nei confronti del Comune e della Regione, non risultano formalmente rigettate.
Tuttavia, se vogliamo intravedere una forma di rigetto nel merito implicita, siamo di fronte ad una forma di soccombenza che, per quanto pratica, è priva di conseguenze patrimoniali e/o economiche negative per l’attore. Il diritto e l’interesse dell’attore, infatti, è pienamente soddisfatto dalla vittoria riportata nei confronti dell’unico convenuto risultato soccombente (se vogliamo, si tratta di un’ipotesi affine a quella in cui si trova il garantito risultato soccombente nei confronti dell’attore, ma pienamente vittorioso contro il garante).
[27] Una simile possibilità, viene esclusa, se ben ho inteso, da Merlin, Inscindibilità dei giudizi e riproposizione di domande fra litisconsorti nelle fasi di gravame, op. loc. cit.
[28] Talvolta, la giurisprudenza ha sostenuto che a seguito dell’impugnazione dell’unico convenuto condannato, l’attore ha l’onere di riproporre ai sensi dell’art. 346 c.p.c. la domanda già avanzata con riferimento ad un altro convenuto: in tal senso si confronti per esempio Cass. 20 febbraio 2009, n. 4235 (nel caso di specie, proposta dal danneggiato domanda di risarcimento del danno nei confronti del conducente del veicolo che lo trasportava e del terzo conducente di altro veicolo coinvolto nel sinistro, l’impugnazione era stata avanzata dal conducente del primo veicolo risultato unico soccombente.
[29] Nel senso che le domande assorbite possano riproposte in un secondo e autonomo processo, si veda Consolo, Il cumulo condizionale di domande, I, cit., p. 449.
[30] Cass., sez. un. 29 gennaio 2000, n. 16, in Foro it. 2000, I, 1606 ss. con note di Proto Pisani, In tema di motivi specifici di impugnazione; C.M. Barone, Omessa specificazione dei motivi e inammissibilità dell’appello: intervento chiarificatore delle sezioni unite; Balena, Nuova pronuncia delle sezioni unite sulla specificità dei motivi di appello: punti fermi e dubbi residui; in Corriere giur. 2000, 750, con nota di De Cristofaro, Inammissibilità, appello senza motivi ed ampiezza dell’effetto devolutivo.
[31] Si tratta della caratteristica fondamentale dell’appello, come sottolineato, fra gli altri, da Attardi, Note sull’effetto devolutivo dell’appello, in Giur. it. 1961, IV, 149; Liebman, Manuale di diritto processuale civile, II, Milano 1984, p. 295 ss.; Rascio, L’oggetto dell’appello, Napoli 1996, p. 65 ss.; Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile7, Napoli 2023, p. 485 – 486; Balena, Istituzioni di diritto processuale civile6, Bari 2023, p. 407; Romano, Profili applicativi e dogmatici dei motivi specifici di impugnazione nel giudizio d’appello civile, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2000, 1240 ss.
[32] Secondo quella che è l’opinione preferibile, si veda ad esempio Rascio, op. cit., p. 183 ss., anche se deve segnalarsi che autorevoli esponenti della dottrina da sempre si professano favorevoli all’operare di un effetto devolutivo allargato, anche in presenza di capi connessi per pregiudizialità dipendenza; si vedano Consolo, Il cumulo condizionale di domande, II, cit., p. 775 e 789 – 790 il quale, ritenendo l’effetto devolutivo allargato un principio immanente all’ordinamento, afferma che l’impugnazione contro il capo pregiudiziale comporta la devoluzione virtuale del capo dipendente nella misura in cui è solo a seguito dell’accoglimento del gravame sul capo pregiudiziale che il giudice dell’appello potrà statuire sul rapporto dipendente; R. Poli, I limiti oggettivi delle impugnazioni ordinarie, Padova 2002, p. 25 e segg. che ha elaborato la esistenza dell’effetto devolutivo allargato ritenendo che lo stesso rinvenga il proprio riferimento normativo nell’art. 336, comma primo c.p.c., ed ha affermato che lo stesso opera in maniera incondizionata.
Sul c.d. effetto devolutivo allargato, le sezioni unite si sono pronunciate con la sentenza 27 ottobre 2016, n. 21691 riferito al caso di un processo messo in moto dall’attore che si era rivolto al giudice chiedendo di accertare l’illegittimità del termine apposto a una serie di contratti di lavoro subordinato a tempo determinato e, conseguentemente, condannare il datore di lavoro alla reintegra nel posto di lavoro e al risarcimento dei danni. Accolte entrambe le domande in primo grado, il datore di lavoro, dopo aver subito il rigetto dell’appello formulato con riferimento alla questione “nullità del termine”, aveva interposto ricorso per cassazione censurando, tra l’altro, in base all’art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione di legge sopravvenuta, in quanto all’indomani della pubblicazione della sentenza di appello era intervenuta una nuova legge in ordine ai criteri di liquidazione del danno (art. 32, commi 5-7, l. 183 del 2010), applicabile, per espressa previsione normativa, anche ai giudizi in corso di svolgimento.
Le sezioni unite erano chiamate a risolvere il contrasto interpretativo in ordine alla questione relativa al se la nuova disciplina potesse investire anche il capo dipendente relativo al risarcimento del danno contenuto nella sentenza di primo grado e (formalmente) mai portato di fronte al giudice dell’impugnazione.
La Corte ha escluso che la mancata impugnazione del capo dipendente avesse comportato la formazione del giudicato interno, muovendo da una lettura combinata degli artt. 329, comma secondo e 336, comma primo c.p.c. Se il primo afferma l’acquiescenza tacita qualificata con riferimento capi autonomi e indipendenti da quello impugnato, il secondo ratifica un criterio logico e giuridico e cioè che, qualora la sentenza sia composta da due parti collegate da un nesso di dipendenza, l’accoglimento dell’impugnazione avanzata sulla parte principale comporta la caducazione anche della parte dipendente.
Sulla scorta di tali considerazioni, la Corte ha affermato che l’appello contro la parte della sentenza che si è pronunciata sulla domanda principale “esprime la volontà di chiedere al giudice anche la caducazione della parte dipendente della sentenza, cioè una chiara manifestazione di volontà contraria ad ogni acquiescenza alla parte principale della sentenza ed alle parti da essa dipendenti”. In tal senso, l’impugnazione, sebbene contenga censure relative al solo capo principale, impedisce che si formi il giudicato interno con riferimento non solo al capo principale, ma anche al capo dipendente.
Il principio è stato in seguito recepito da Cass. 28 febbraio 2017, n. 5226 (che si è pronunciata su una fattispecie perfettamente analoga a quella oggetto della sentenza delle sezioni unite) e Cass. 5 novembre 2021, n. 32179 (la quale ha fatto applicazione di uno dei principi corollari a quello enunciato dalle sezioni unite, e cioè che l’impugnazione rivolta contro il solo capo dipendente non osta al passaggio in giudicato del capo pregiudiziale); analogamente Cass. 9 agosto 2018, n. 20697; Cass. 11 febbraio 2022, n. 4522 lo hanno declinato in materia di sanzioni amministrative, disponendo che se in pendenza del giudizio di legittimità sopravvengano nuove norme che dispongono retroattivamente un trattamento sanzionatorio più favorevole, devono essere applicate anche d’ufficio dalla Corte di cassazione, non contrastando tale conclusione con i principi che regolano il rapporto tra jus superveniens e cosa giudicata, atteso che la statuizione sulla misura della sanzione è dipendente da quella sulla responsabilità del sanzionato e pertanto, ai sensi dell’art. 336 c.p.c., è destinata ad essere travolta dall’eventuale caducazione di quest’ultima, di modo che non può passare in giudicato fino a quando l’accertamento della responsabilità del sanzionato non sia a sua volta passata in giudicato.
La reale portata del principio elaborato dalla Suprema Corte, deve essere attentamente meditata, tenuto conto del fatto che sinora è stato declinato con riferimento esclusivo a giudizi tra due sole parti, in cui la Corte ha accolto il ricorso per violazione e falsa applicazione di norme di diritto sopravvenute alla pubblicazione della sentenza di appello.
[33] C.M. Bianca, Diritto civile, 4, L’obbligazione, Milano 1993, 149 ss.
[34] In giurisprudenza, si rinvengono orientamenti che, con riferimento a fattispecie che riproducono lo stesso schema del caso in esame, hanno chiaramente affermato che in sede di impugnazione è necessario applicare sempre la disciplina di cui all’art. 331 c.p.c.; si vedano: in generale Cass. 12 ottobre 2012, n. 17482 (l’impresa aveva proposto ricorso per decreto ingiuntivo nei confronti della convenuta la quale aveva avanzato opposizione, contestando di non aver alcun rapporto con il ricorrente avendo stipulato un contratto di appalto con una diversa impresa, di cui il giudice aveva disposto la chiamata in causa); con riferimento al caso in cui a seguito dell’accoglimento della domanda nei confronti di uno dei convenuti, questi aveva appellato contro l’attore il quale aveva a sua volta interposto appello incidentale tardivo nei confronti dell’altro, Cass. 17 settembre 1991, n. 9686 (nel caso di specie il lavoratore aveva chiesto il pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso al datore di lavoro il quale aveva chiamato in causa l’INPS indicandolo come unico obbligato a corrispondere l’indennità); con riferimento all’ipotesi in cui entrambe le domande siano state rigettate, e l’appello è avanzato dall’attore rimasto totalmente soccombente, Cass. 13 ottobre 2011, n. 21171 ha affermato che se l’attore che ha avanzato impugnazione contro uno solo dei convenuti, non ottempera all’ordine di integrazione del contraddittorio, l’impugnazione è inammissibile (nel caso di specie, nel processo erano cumulate la domanda nei confronti dell’Ente Ferrovie dello Stato e dell’Inail per la costituzione di una rendita conseguente a malattia professionale).