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Litisconsorzio alternativo passivo e onere di appello incidentale condizionato
Di Filippo Nicolai -
Sommario: 1. I termini della questione rimessa alle Sezioni unite e gli orientamenti in materia. – 2. Il «litisconsorzio alternativo passivo». – 3. La possibile scindibilità delle cause. – 4. Brevi conclusioni.
1.Dopo oltre un ventennio[1], con una articolata ordinanza interlocutoria[2] torna alle Sezioni unite la questione afferente alle modalità con cui l’appellato – ottenuta dal giudice di prime cure la condanna di uno dei soggetti dallo stesso convenuti in via alternativa (ossia in una situazione di assoluta indifferenza rispetto all’adempimento della prestazione domandata da parte di uno o di un altro dei più soggetti chiamati alla lite, c.d. «litisconsorzio alternativo passivo»[3]) – possa investire il giudice d’appello del dovere decisorio quanto alla posizione del convenuto non soccombente (o dei convenuti non soccombenti) in primo grado, per l’eventualità in cui venga accolta l’impugnazione principale.
In argomento, si contendono il campo principalmente, ma non esclusivamente, tre diversi orientamenti riepilogati nell’ordinanza interlocutoria, i quali tutti nel corso del tempo hanno ricevuto, con alterna fortuna, l’avallo da parte della giurisprudenza di legittimità[4].
Nonostante le pregnanti divergenze teorico-ricostruttive che caratterizzano le tre suddette tesi, vi è però piena concordia di intendimenti in relazione al fatto che nel caso di specie – a causa della vicendevole incompatibilità a livello sostanziale prospettata dalle parti (dall’attore o dal convenuto che chiami in causa ex art. 106 c.p.c. il terzo, quale vero obbligato[5]) tra le pretese avanzate avverso i più consorti passivi – in sede di impugnazione non possa mai venir meno la pluralità soggettiva realizzatasi in primo grado, vertendosi in un’ipotesi di litisconsorzio necessario «processuale»[6], giustificato dall’«inscindibilità» ovvero dalla «dipendenza» tra le domande alternativamente proposte[7].
Secondo un primo ordine di idee, dall’imposta applicazione dell’art. 331 c.p.c. discenderebbe sempre ed in ogni caso la «devoluzione automatica» dell’intera materia del contendere al giudice d’appello in ragione della sola interposizione dell’impugnazione principale da parte del convenuto condannato. Di conseguenza, non sarebbe in nessun modo necessario che l’appellato manifesti la propria volontà di ottenere il riesame della posizione del convenuto non soccombente in primo grado[8], potendo egli financo rimanere contumace nel giudizio di gravame. In altri termini, in tale ottica, la controversia avrebbe sempre ad oggetto l’accertamento di un rapporto unico (o quantomeno da considerarsi tale), così che l’impugnazione principale sarebbe sempre da sola idonea ad impedire il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado quanto alla statuizione che neghi la responsabilità del convenuto non soccombente[9].
In contrapposizione con quanto appena riportato, i due restanti orientamenti riepilogati nell’ordinanza interlocutoria muovono, invece, dal presupposto per cui – ferma la necessaria integrazione del contraddittorio tra tutti i litisconsorti in primo grado pena l’inammissibilità del gravame – non sarebbe possibile prescindere da un’attività di parte al fine di causare la, pur eventuale, riforma del capo di sentenza favorevole a colui che è andato esente da condanna.
Tale soluzione parrebbe essenzialmente imposta dall’esigenza di evitare che vi sia una reformatio in peius del capo decisorio non oggetto dell’appello principale[10]; e ciò perlomeno qualora detta impugnazione non sia immediatamente ed unicamente indirizzata a rideterminare la valutazione di un punto controverso, in fatto o in diritto, la cui riforma imponga automaticamente la condanna del convenuto originariamente non soccombente[11].
La partecipazione di tale soggetto quale litisconsorte necessario nel giudizio di impugnazione ai sensi dell’art. 331 c.p.c. avverrebbe, dunque, non già a causa del pregiudizio effettivo che potrebbe essere allo stesso causato dall’accoglimento dell’appello principale, bensì (ed esclusivamente) in vista del pregiudizio potenziale che potrebbe derivare da un’ulteriore ed eventuale attività compiuta dall’appellato[12]; attività declinata, per alcuni, nella semplice necessità di riproporre la domanda «non accolta» ai sensi dell’art. 346 c.p.c., e, per altri, nell’obbligatoria interposizione di un appello incidentale condizionato.
Secondo l’orientamento accolto dalle Sezioni unite, la necessità di mera riproposizione, senza dunque l’obbligo di seguire specifiche forme processuali imposte a pena di preclusione[13], sarebbe giustificata essenzialmente dal fatto che (pur a fronte dell’avvenuto rigetto della domanda incompatibile sul piano sostanziale con quella invece accolta), non potrebbe comunque essere imposto un onere di critica ad un soggetto, qualora egli – al fine di sostenere la bontà della propria impugnazione – si trovi costretto a spendere argomentazioni logicamente e giuridicamente incompatibili con la propria volontà di ottenere il passaggio in giudicato della sentenza da altri impugnata e a questo favorevole[14].
In quest’ottica, nonostante una contraria giurisprudenza di legittimità[15], l’art. 346 c.p.c. dovrebbe ritenersi applicabile anche alle pronunce di rigetto, quantomeno qualora le stesse siano motivate esclusivamente sulla base dell’accoglimento di altra domanda (o eccezione) che garantisca al proponente un livello di soddisfazione dei propri interessi analogo o superiore a quello che gli verrebbe garantito dall’accoglimento della domanda (o eccezione) rigettata; sarebbe dunque sempre assente l’interesse ad impugnare tale parte di sentenza ovvero, si potrebbe aggiungere, il proponendo motivo di impugnazione mancherebbe di «specificità» ai sensi dell’art. 342, comma 1°, c.p.c.
Al riguardo, tuttavia, parte della dottrina disconosce la generica possibilità di fare riferimento all’art. 346 c.p.c., puntualizzando che la soluzione propugnata dalle Sezioni unite possa ritenersi valida solo a fronte di domande proposte in via alternativa e reciprocamente «condizionate», ossia per l’ipotesi in cui – stante la compatibilità tra le pretese sul piano sostanziale e la volontà dell’attore orientata in questo senso – l’accoglimento di una domanda pregiudichi l’esame dell’altra, pervenendosi ad una vera e propria pronuncia di «assorbimento in rito»[16].
Per l’appunto, ciò potrebbe però accadere esclusivamente quando le pretese avanzate avverso i litisconsorti non siano incompatibili sul piano sostanziale, e non quando, al contrario, venga richiesto (esemplificativamente) l’adempimento di un’unica prestazione, prospettata come indivisibile, da parte di uno solo dei più soggetti convenuti, laddove, dunque, è evidente che non vi possa essere coesistenza tra una pluralità di situazioni debitorie[17] (c.d. «cumulo puro»).
In tali ultime ipotesi, l’accoglimento di una domanda implica (e deve necessariamente implicare) il rigetto nel merito dell’altra, atteso che, se così non fosse – una volta eventualmente passata in giudicato la sentenza di primo grado – rimarrebbe, inaccettabilmente, impregiudicata la possibilità di instaurare un nuovo giudizio per ottenere la condanna del convenuto nei cui confronti la domanda sarebbe da considerarsi decisa in rito[18] nel precedente grado di giudizio; cosa che, all’opposto, non determina nessuna problematica, qualora l’accoglimento delle più domande possa comunque coesistere sul piano sostanziale.
Di conseguenza, parte della dottrina ha sostenuto che, fatta eccezione per la predetta casistica, dovrebbe invece considerarsi necessaria la proposizione da parte dell’attore vittorioso in primo grado (soccombente nei confronti del litisconsorte assolto ancorché non interessato ad impugnare in via principale[19]) di un’impugnazione incidentale condizionata all’accoglimento del gravame principale, al fine, dunque, di criticare la statuizione di merito, idonea al giudicato sostanziale[20].
In relazione a tali ultime due impostazioni, autorevole dottrina non manca, però, di sottolineare come il fatto di giustificare la partecipazione del litisconsorte passivo non condannato in primo grado quale contraddittore necessario in virtù di un danno non certo ma semplicemente eventuale (ossia per la sola prospettiva in cui l’appellato manifesti la propria volontà di ottenere il riesame da parte del giudice dell’impugnazione quanto alla posizione di tale ultimo soggetto, indipendentemente da quali siano le forme ritenute a ciò idonee) sembrerebbe violare l’«intima coerenza» del meccanismo di cui all’art. 331 c.p.c.
Tale disposizione impone, infatti, all’impugnante principale, a pena di inammissibilità, di integrare il contraddittorio anche nei confronti di colui che non è suo «diretto avversario», in quanto gli effetti dell’accoglimento della proposta impugnativa dovrebbero logicamente e praticamente «investire anche la pronuncia resa nei confronti di tale litisconsorte e non sarebbero concepibili se non in tale incomprimibile dimensione minima oggettiva e soggettiva»[21]; cosa che non avverrebbe sempre e comunque nel caso di specie.
All’accoglimento dell’impugnazione principale, difatti, non segue necessariamente e ontologicamente un’incompatibilità né logica né pratica tra il contenuto della sentenza di primo grado e quello della pronuncia di appello. Si pensi all’ipotesi in cui l’appellante condannato in primo grado chieda la riforma della sentenza per non aver il giudice accolto un’eccezione basata un fatto impeditivo o estintivo, il cui accoglimento invece escluderebbe di per sé che l’obbligazione di cui è stato richiesto l’adempimento possa essere sorta ovvero possa dirsi ancora esistente e giudizialmente coercibile, con conseguente esclusione, se del caso, della responsabilità per tutti i più soggetti convenuti.
In conseguenza di ciò, stante la grave sanzione imposta per la mancata integrazione del contraddittorio (che di fatto, per autorevole dottrina, suggerirebbe di considerare l’art. 331 c.p.c. come disposizione di stretta interpretazione[22]), in tale ottica sarebbe opportuno ritenere che, salve le ipotesi in cui si possa realizzare un conflitto pratico di pronunce[23], debba trovare applicazione l’art. 332 c.p.c., considerando quindi le più cause tra loro «scindibili»; con il temperamento, però, di consentire all’appellato attore vittorioso in primo grado di procedere alla notifica dell’impugnazione incidentale e condizionata, anche tardiva ai sensi dell’art. 334 c.p.c., avverso quei soggetti nei cui confronti non sia stato, a questo punto legittimamente, instaurato il contraddittorio in fase di impugnazione[24].
2. Al fine di offrire una proposta di soluzione rispetto alla problematica finora descritta, giova preliminarmente indugiare in una breve ricostruzione della fenomenologia dell’istituto in commento.
La locuzione «litisconsorzio alternativo passivo» rappresenta una formula di sintesi con cui viene usualmente descritta la pluralità di parti che si manifesta in giudizio qualora – stante una situazione di obiettiva incertezza, fattuale o normativa, relativamente all’individuazione del reale soggetto passivo di un’obbligazione – l’attore coltivi la propria pretesa nei confronti di più convenuti, allo specifico ed unico fine, però, di ottenere la condanna solamente di uno questi[25].
A titolo esemplificativo, si pensi all’ipotesi in cui, convenuto dal creditore in giudizio un soggetto per il pagamento di un debito monetario, quest’ultimo chiami in giudizio ex art. 106 c.p.c. un terzo sulla base della pretesa sussistenza di una delegazione liberatoria ex art. 1268, comma 1°, ultima parte, c.c., asseritamente accettata dall’attore (o meglio, asseritamente assistita dall’espressa dichiarazione di liberazione del debitore originario posta in essere dal creditore).
In tale casistica, le parti passive del giudizio (debitore delegante e terzo delegato):
a) da una parte, condividono l’interesse a che il giudice accolga tutte le eccezioni fondate su fatti modificativi, impeditivi o estintivi, che escludano, su un piano oggettivo, l’esistenza dell’obbligazione originaria il cui adempimento sarebbe stato delegato (quale potrebbe essere ad esempio la nullità della pattuizione da cui si dice sorta l’obbligazione pecuniaria della quale venga richiesto l’adempimento), così che ambo le domande vengano rigettate;
b) dall’altra, al contrario, ciascuna di esse trae vantaggio da una diversa (o meglio, contraria) valutazione della valida sussistenza (o viceversa, insussistenza) del negozio di delegazione (ovvero, in generale, del punto controverso in ragione del quale si è realizzata l’incertezza quanto al soggetto passivo del rapporto obbligatorio).
Potrebbero, poi, esservi ulteriori fatti modificativi o estintivi dell’obbligazione di cui si chiede l’adempimento, operanti solamente per uno solo dei consorti passivi, quale ad esempio potrebbe essere l’avvenuta prescrizione del diritto di credito, valevole per il solo terzo, asserito delegato, chiamato in giudizio, in virtù del fatto che l’avvenuta interruzione della prescrizione con l’atto introduttivo della lite proposto avverso il debitore «originario» non ha impedito il decorso del termine nei confronti di tale soggetto, nei cui confronti la litispendenza si è realizzata solamente con la notifica della citazione ai sensi dell’art. 269 c.p.c.[26].
Ne consegue che, allo stesso tempo, i più convenuti sono interessati a resistere all’altrui pretesa con argomentazioni comuni, si giovano del fatto che sia un altro soggetto ad essere condannato (parzialmente, dunque, agendo a sostegno anche delle ragioni dell’attore, similmente ad un interventore adesivo ex art. 105, comma 2°, c.p.c.[27]), e, in ultimo, possono proporre eccezioni di merito che se accolte, pur escludendo la responsabilità di chi le propone, non necessariamente implicano né tantomeno escludono la condanna di altro convenuto.
La complessità del potenziale intreccio dei rapporti tra le parti suggerisce certamente di escludere, come evidenziato da autorevole dottrina[28], che la pluralità di parti realizzatasi in primo grado possa essere sciolta mediante un atto di rinuncia posto in essere dall’attore ai sensi dell’art. 306, comma 1°, c.p.c., quantomeno qualora non vi sia espressa accettazione da parte del consorte non destinatario dello stesso (essendo quest’ultimo certamente qualificabile quale «parte interessata alla prosecuzione del giudizio»[29]), in quanto, a voler concedere ciò, si scadrebbe in un’irragionevole compressione delle facoltà difensive di colui che può certamente giovarsi dell’altrui condanna. Tutti i contraddittori della lite hanno interesse a sostenere, quantomeno parzialmente, le ragioni altrui, indipendentemente dalla posizione processuale formalmente assunta.
In conseguenza di ciò, nel caso in commento in questa sede, ove ad impugnare sia quello tra i più convenuti che è stato condannato nel merito, tale ordito processuale determina che in fase di impugnazione il soggetto originariamente collocato dal lato passivo dell’iniziativa processuale, ma andato esente da responsabilità, goda di un interesse perfettamente sovrapponibile a quello dell’attore vittorioso (perché anch’egli, in primo luogo, può dirsi vincitore) a che il provvedimento di merito, con cui viene disposta l’altrui condanna, passi in giudicato. Entrambi i soggetti, infatti, non potrebbero ritrarre un’utilità maggiore di quella loro attribuita dal provvedimento conclusivo del grado precedente, con la conseguenza che gli stessi difettano certamente di interesse ad impugnare in via principale.
3. Sulla base di queste premesse, occorre, dunque, domandarsi se, a fronte dell’impugnazione del convenuto soccombente, debba sempre e comunque, come ritenuto dalla maggior parte della dottrina e della giurisprudenza, essere ricostruita nella sua interezza la pluralità di parti che caratterizzava il giudizio del grado precedente[30], anche per le ipotesi in cui non vi sia incompatibilità, né logica né pratica, tra il mantenimento in essere dell’esito del giudizio di primo grado (rispetto alla posizione del convenuto non soccombente) e l’accoglimento dell’impugnazione principale.
Invero, tale potenziale assenza di incompatibilità – che di fatto ha condotto parte della dottrina e della giurisprudenza a mitigare l’applicazione dell’art. 331 c.p.c. (imponendo l’espletamento di un’ulteriore attività da parte dell’appellato al fine di determinare la, pur eventuale, riforma del capo decisorio non investito dall’impugnazione del consorte condannato) – sembra giustificare la possibilità di poter trattare, almeno in alcuni casi in cui difetti con evidenza l’interesse a resistere all’impugnazione principale in capo al convenuto non soccombente, i rapporti tra i più consorti come «cause scindibili», similmente a quanto già opportunamente suggerito da autorevole dottrina[31].
Ai fini di maggior chiarezza, purtroppo con sensibili, quasi estreme, ma utili semplificazioni, occorre brevemente riflettere sul rispettivo ambito applicativo degli artt. 331 e 332 c.p.c. Queste ultime sono, infatti, le uniche disposizioni in cui è condensato il regime di partecipazione ai giudizi d’impugnazione della pluralità di parti realizzatasi in un precedente grado di giudizio, con la conseguenza che, in un’ottica necessariamente dualistica, all’espandersi dell’ambito applicativo dell’una non può che corrispondere la restrizione di quello dell’altra[32].
Al riguardo, è opinione diffusa e condivisibile quella secondo cui i destinatari della notifica di cui all’art. 332 c.p.c. siano solo ed esclusivamente le parti che siano di per sé legittimate ad esperire un’impugnazione in via principale, con la conseguenza che la notizia di lite inidonea a determinare l’integrazione del contraddittorio in fase di gravame deve esser rivolta solamente nei confronti di quei soggetti il cui interesse ad impugnare non sorga in virtù del potenziale accoglimento dell’altrui impugnazione, ma preesista a quest’ultima. Per dirla diversamente, il soggetto destinatario della notifica ai sensi dell’art. 332 c.p.c. è colui che è totalmente indifferente rispetto al passaggio in giudicato ovvero alla riforma del capo decisorio afferente al rapporto tra le altre parti immediatamente coinvolte nel giudizio d’impugnazione, non subendo alcun pregiudizio o vantaggio dall’inverarsi dell’uno o dell’altro esito.
Al contrario, l’«inscindibilità» e la «dipendenza» tra cause sono accomunate, quanto al regime di partecipazione di cui all’art. 331 c.p.c., dal fatto che, in tali casi, l’esercizio concludente del potere di impugnazione implica indefettibilmente la partecipazione di tutte le parti del grado precedente al giudizio di gravame. La modifica del comando giudiziale, infatti, non può fare a meno di riguardare tutti contraddittori precedentemente coinvolti, in quanto, in assenza della totalità delle parti, la pronuncia non riuscirebbe a garantire all’impugnante l’utilità ricercata; il che, semplificando, equivale a dire che tutte le parti subiscono un pregiudizio dall’accoglimento dell’impugnazione e devono quindi considerarsi effettive destinatarie della stessa[33].
Nel caso di specie, come detto, il convenuto la cui responsabilità è stata esclusa sulla base dell’altrui condanna è certamente vincitore nel merito, tanto quanto lo è l’attore, ma a differenza di quest’ultimo – anche se ugualmente interessato al passaggio in giudicato del provvedimento finale di merito – non ha nessun interesse a contraddire avverso quegli atti di impugnazione con cui il soccombente intenda far valere l’esistenza un fatto modificativo, impeditivo o estintivo (o l’inesistenza di un fatto costitutivo) che semplicemente escludano il dovere di adempiere all’obbligazione in capo all’impugnante (ovvero in capo a tutti i potenziali soggetti passivi della stessa, es. nullità dell’obbligazione).
Tale soggetto in questi casi è, in realtà, totalmente indifferente rispetto all’accoglimento o meno dell’impugnazione, perché non subisce alcun pregiudizio dalla riforma (ovvero dal passaggio in giudicato) del provvedimento finale di merito del grado precedente, tanto che sembra doversi, addirittura, escludere la necessità di renderlo destinatario della notizia di lite ai sensi dell’art. 332 c.p.c., essendo egli una parte, totalmente vittoriosa, nei cui confronti la possibilità di impugnare è certamente da dirsi «preclusa» ovvero «esclusa»[34].
In conseguenza di ciò, ad opinione di chi scrive, una miglior regolamentazione dei rapporti tra le parti in sede di impugnazione, limitatamente a casistiche di questo tipo, dovrebbe passare per l’art. 332 c.p.c.[35], senza al contrario imporre una indiscriminata applicazione del regime previsto dall’art. 331 c.p.c., che – come agevolmente si ricava anche dalle premure dottrinali e giurisprudenziali indirizzate a richiedere all’appellato un’ulteriore attività per determinare la riforma del capo decisorio riguardante la posizione dei consorti non soccombenti – alle volte mal si concilia con la situazione in commento[36].
Invero, l’applicazione del regime delle «cause scindibili» evita inoltre il rischio di incorrere in un’inconfessata violazione del principio dispositivo, la quale sembra necessariamente discendere dall’imposta partecipazione del convenuto non soccombente allorquando nessuna delle parti immediatamente coinvolte nel giudizio di impugnazione abbia ancora interesse a far valere le proprie pretese nei confronti dello stesso (ad esempio, qualora sia chiaro, e dunque inutilmente contestabile, che, stante l’esito dell’istruttoria del grado precedente, quest’ultimo nulla deva all’attore).
È, infatti, ben possibile che l’impugnante principale, come anche l’appellato, prestino acquiescenza rispetto al capo decisorio con cui è stata esclusa la responsabilità di altro convenuto. E se di certo è sufficiente che solamente uno dei due predetti soggetti manifesti la volontà di ottenere la riforma del predetto capo avente dispositivo assolutorio per costringere alla partecipazione quale vero e proprio contraddittore anche il consorte assolto[37], non sembra invero sussistere alcuna ragione per obbligare quest’ultimo alla lite, a fronte della concorde volontà delle parti, manifestabile per il semplice tramite degli atti processuali, di non sottoporre a censura tale porzione della decisione.
Dall’applicazione del regime delle cause scindibili discende, dunque, la necessità per l’attore appellato – qualora lo stesso voglia riservarsi la possibilità di ottenere la riforma del capo decisorio non interessato dall’impugnazione principale per l’ipotesi in cui quest’ultima venga accolta – di proporre un’impugnazione incidentale (condizionata), anche tardiva, mediante il rispetto delle forme previste dall’art. 343, comma 1°, c.p.c., che impone, come noto, quale onere formale da assolvere al fine di un rituale esercizio del potere di impugnazione, il solo deposito della comparsa. Ne consegue che l’esigenza di integrare il contraddittorio nei confronti del convenuto non soccombente, legittimamente rimasto «estraneo» al giudizio di gravame, potrà esser soddisfatta tramite un ordine di integrazione del contraddittorio da parte del giudice, ma non vi è ragione per negare la possibilità all’appellato di procedere, una volta effettuato il deposito, alla notifica dell’atto di impugnazione (senza dover quindi attendere alcun provvedimento) nei confronti del consorte assolto, al fine di evitare un inutile ritardo nello svolgimento del giudizio[38].
4. Diverso, invece, appare il caso in cui il soccombente impugni per ottenere la riforma della decisione rispetto alla questione la cui diversa risoluzione comporterebbe automaticamente la condanna dell’altro soggetto, originariamente non soccombente, nel quale, invece, non può non trovare applicazione l’art. 331 c.p.c. (nell’esempio precedente, qualora, riconosciuta l’esistenza dell’obbligazione debitoria, si chieda un diverso accertamento rispetto alla valida sussistenza, o viceversa insussistenza, della delegazione liberatoria ai sensi dell’art. 1268 c.c.). In tal caso, infatti, l’impugnazione, ancorché formalmente indirizzata contro l’attore vittorioso in primo grado, appare invero rivolta, in via immediata e diretta, anche contro colui che è invece è andato esente da responsabilità. Oggetto dell’impugnazione, infatti, è una «parte di sentenza», dalla quale dipende sia la condanna dell’impugnante sia l’assoluzione dell’altro convenuto, la cui riforma nel senso voluto dal primo comporta necessariamente una modifica del comando giudiziale sia per l’attore vittorioso in primo grado sia per il convenuto non condannato[39].
In applicazione di quanto disposto dall’art. 336, comma 1°, c.p.c., in tale ipotesi è imprescindibile evitare che si raggiunga un esito decisorio (che potrebbe realizzarsi qualora le cause vengano trattate come «scindibili») in ragione del quale, in assenza del coordinamento tra le pronunce rese nei vari gradi, ambo i soggetti passivi debbano al contempo considerarsi esenti da responsabilità e tenuti ad adempiere all’obbligazione pretesa[40].
Per concludere, sembra che un sistema di giustizia processuale più «giusto» (perché impedisce la realizzazione di una non richiesta riforma del provvedimento impugnato) e ispirato al principio della «ragionevole durata» (perché esclude il dispendio di attività processuale inutile da parte di chi è indifferente rispetto all’esito del giudizio di impugnazione, qualunque esso sia) passi per una declinazione dell’applicabilità degli artt. 331 e 332 c.p.c. vincolata al motivo di impugnazione che il convenuto soccombente in primo grado intenda spendere avverso la decisione finale di merito[41].
[1] Cass., sez. un., 29 luglio 2002, n. 11202, in Foro it. 2004, I, 2463; e in Foro it. Rep. 2004, voce Appello civile, n. 103; in Gius. 2002, 2397; e in Giur. it. 2003, 907 ss., con nota di C. Consolo, Le Sezioni unite sul litisconsorzio alternativo in appello; e in Corriere giur. 2003, 1326, con nota di L. Prendini, Domanda giudiziale, soggettivamente alternativa e impugnazione della sentenza.
[3] Tale definizione si deve all’opera di un illustre autore, E. Allorio, Litisconsorzio alternativo passivo e impugnazione incidentale, in Giur. it. 1947, IV, 73 ss., spec. 78, il quale rinveniva in tale istituto un’ipotesi di cumulo di domande «reciprocamente o negativamente condizionate», in quanto le pretese sono processualmente presentate «sì da dipendere, appunto, l’indissolubilmente l’una dall’altra, perché la soluzione dell’una non può avvenire, se non in funzione della soluzione dell’altra, con la quale non ha soltanto le premesse di fatto o di diritto comuni, come avviene nella semplice connessione, ma ne è l’altra faccia, o meglio ancora la negativa, con vera correlazione biunivoca, per cui la condanna del primo convenuto trascina ineluttabilmente l’assoluzione del secondo, e viceversa». Fondamentale, poi, rimane peraltro lo studio in materia di G. Tarzia, Appunti sulle domande alternative, in Riv. dir. proc. 1964, 254 ss., spec. 299 ss.
[4] Si aggiunge a questi un quarto orientamento, a quel che ci si avvede esclusivamente dottrinale, autorevolmente proposto da E. Merlin, Inscindibilità dei giudizi e riproposizione di domande fra litisconsorti nelle fasi di gravame, in Riv. dir. proc. 2013, 1290 ss., di cui si proverà a dare conto a momento debito, senza però poter rendere pienamente giustizia all’ampio e complesso lavoro, a causa dei limiti di spazio della presente trattazione (v. infra).
[5] Usualmente, siffatta situazione processuale si realizza in virtù della chiamata in causa ex art. 106 c.p.c., da parte dell’unico convenuto in giudizio, del soggetto che quest’ultimo sostiene essere il vero (ed unico) obbligato ad adempiere alla prestazione oggetto della domanda di condanna. In giurisprudenza, in proposito, vi è un orientamento consolidato secondo il quale nel caso anzidetto, pur in assenza di un’attività dell’attore, vi sarebbe l’automatica estensione della domanda nei confronti del terzo convenuto in giudizio, vertendosi in un’ipotesi di causa inscindibile in cui l’interesse di chi agisce è semplicemente quello della concreta individuazione del soggetto oggetto obbligato (cfr. Cass. 13 aprile 1995, n. 4259, in Foro it. Rep. 1995, voce Impugnazioni civili, n. 107; Cass. 28 luglio 1997, n. 7039, in Foro it. Rep. 1997, voce Intervento in causa e litisconsorzio, n. 33; Cass. 9 aprile 1999, n. 3474, in Foro it. Rep. 1999, voce Competenza civile, n. 208; Cass., 28 febbraio 2000, n. 2219, in Foro it. Rep. 2000, voce Impugnazioni civili, n. 119; Cass. 31 luglio 2002, n. 11366, in Foro it. Rep. 2002, voce Intervento in causa e litisconsorzio, n. 18; Cass., sez. VI, 6 aprile 2016, n. 6623, in Foro it. Rep. 2016, voce Procedimento civile, n. 273, in Resp. civ. prev. 2016, 1594 ss., con nota di P. Pellegrinelli, «Velati» tentativi di ampliare la possibilità di estendere in modo automatico le domande al terzo), con l’ulteriore precisazione che tale principio non troverebbe applicazione quando il chiamante faccia valere nei confronti del chiamato un rapporto diverso da quello dedotto dall’attore a fondamento della propria domanda, come nell’ipotesi di chiamata in garanzia (cfr. Cass., sez. lav., 7 giugno 2011, n. 12317, in Foro it. Rep.2011, voce Intervento in causa e litisconsorzio, n. 22, in Giust. civ. 2012, I,1040; Cass., sez. II, 27 aprile 2016, n. 8411, in Foro it. Rep. 2016, voce Intervento in causa e litisconsorzio, n. 40; Cass., sez. I, 21 dicembre 2018, n. 33343, in Guida dir. 2019, 21, 49; Cass, sez. III, 15 gennaio 2020, n. 516); ipotesi in cui vi è certa autonomia sul piano sostanziale (cfr. Cass., sez. III, 5 marzo 2013, n. 5400, in Foro it. Rep. 2013, voce Intervento in causa e litisconsorzio, n. 41). Contraria, invece, appare autorevole dottrina (cfr. A. Proto Pisani, Dell’esercizio dell’azione, estratto dal Commentario del codice di procedura civile, diretto da E. Allorio, Torino1970, 131 ss. e N. Trocker, L’intervento per ordine del giudice, Milano 1984, 249 ss., spec. 253), che opera delle opportune precisazioni quanto alla produzione degli effetti sostanziali e processuali della domanda giudiziale proposta in origine contro un solo convenuto anche nei confronti della nuova parte convenuta in giudizio, la quale ultima ovviamente non potrà essere pregiudicata dagli effetti in principio prodotti, non potendo alla stessa negarsi la «facoltà di eccepire vittoriosamente tutti quei fatti estintivi o impeditivi del diritto d’azione o del rapporto giuridico litigioso, che si siano verificati in epoca anteriore alla propria chiamata in causa»; a titolo esemplificativo, al chiamato in causa non potrà per certo essere validamente eccepita l’interruzione della prescrizione avvenuta per il tramite dell’atto introduttivo con cui è stato instaurato il giudizio nei confronti dell’originario convenuto.
[6] La natura per così dire sostanziale ex 102 c.p.c. di tale tipologia di litisconsorzio è stata costantemente negata sulla base del fatto che l’attore potrebbe sempre decidere di instaurare separatamente i giudizi avverso i singoli convenuti, con la conseguenza che vi sarebbe solamente un condizionamento di natura processuale.
[7] Fatta eccezione per un minoritario orientamento – accolto, per quel che ci si avvede, da pronunce tutte antecedenti all’intervento delle Sezioni unite in materia – che ritiene le cause scindibili ex art. 332 c.p.c. (cfr. Cass., sez. lav., 23 marzo 2002, n. 4171, in Foro it. Rep. 2002, voce Procedimento civile, n. 153; e in Dir. e giustizia 2002, 15, 35; cfr., però, anche le pronunce richiamate alla successiva nt. 36), vi è una diffusa incertezza quanto alla qualificazione del rapporto tra le parti del giudizio in termini di «inscindibilità» o di «dipendenza». E. Allorio, Litisconsorzio alternativo passivo e impugnazione incidentale, cit., infatti, è portato ad enucleare quello che si potrebbe definire come un vero e proprio tertium genus tramite il concetto di «interdipendenza» tra cause (v. supra nt. 3).
[8] Cass., sez. II, 1° aprile 1999, n. 3114, in Foro it. Rep. 1999, voce Impugnazioni civili in genere, n. 8; Cass., sez. II, 9 maggio 1977, n. 1801, in Foro it. Rep. 1977, voce Impugnazioni civili, n. 112, Cass. 4 luglio 1975, n. 2600, in Foro it. Rep. 1975, voce Sentenza civile, n. 103; Cass. 12 novembre 1965, n. 2360, in Rass. Avvocatura Stato 1965, I, 1200 ss. Condivide questa soluzione anche S. Satta, Commentario al codice di procedura civile, II, 2, Milano 1966, 84, il quale sostiene che «[i]l vincitore pertanto non avrebbe neppure bisogno di interporre appello incidentale nei suoi confronti, perché la causa si trasferisce integralmente nei suoi termini oggettivi e soggettivi nel giudizio di impugnazione». Invero, ad avviso dell’illustre autore, tale soluzione è imposta da una distorsione del sistema processuale, in quanto, a monte, dovrebbe «in linea di principio» essere negata l’ammissibilità della domanda alternativa, «dovendo la pretesa alternativa essere sciolta dalla parte e non dal giudice». Simile mi sembra anche il pensiero di C. Perago, Cumulo soggettivo e processo d’impugnazione, Napoli 2002, 237 ss., spec. 243. Cfr. anche F. P. Luiso, Diritto processuale civile, 14ª ed., Milano 2023, II, 339 ss., precisa che tale meccanismo di «devoluzione automatica» trovi applicazione solamente nell’ipotesi in cui la domanda proposta nei confronti del convenuto non soccombente sia stata rigettata dal giudice di prime cure in virtù del solo accertamento della responsabilità dell’effettivo condannato e non per altri motivi. Limitatamente alle ipotesi in cui l’impugnazione verta sull’unico elemento discretivo la cui rideterminazione determinerebbe con certezza la condanna dell’altro convenuto non soccombente, A. Ronco, Studio sul litisconsorzio alternativo, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2004, 926 ss., spec. 928, evidenzia la necessaria applicazione dell’art. 331 c.p.c. in combinato disposto con l’art. 336, comma 1°, c.p.c., in modo tale che non venga a crearsi un esito decisorio per cui sarebbero contemporaneamente vigenti due statuizioni logicamente incompatibili: a) una sentenza di primo grado, passata in giudicato perché non automaticamente oggetto del giudizio di impugnazione, con la quale un soggetto venga assolto per il solo fatto che altro convenuto vada condannato, b) e, specularmente, una sentenza di appello ove vi sia un dispositivo esattamente contrario.
[9] C. Perago, ult. op. cit., 243. Ancor più deciso appare S. Satta, ult. op. loc. cit., il quale – sottolineando la specularità della situazione rispetto alla lite tra pretendenti prevista ai sensi dell’art. 109 c.p.c., che regola l’estromissione dell’obbligato per il caso della c.d. «lite tra pretendenti» – è portato a ritenere che la devoluzione automatica sarebbe giustificata dal fatto che «l’impugnazione del condannato è diretta necessariamente diretta contro l’altro convenuto, il quale è litisconsorte necessario sul punto della spettanza dell’obbligo».
[10] C. Consolo, Le Sezioni unite sul litisconsorzio alternativo in appello, cit., 658 ss. Tale divieto, ordinariamente, viene riferito alla impossibilità per il giudice dell’impugnazione di rideterminare il contenuto della pronuncia di primo grado in modo che risulti ancor più sfavorevole al solo appellante in assenza di un’impugnazione dell’appellato, cfr. N. Rascio, L’oggetto dell’appello civile, Napoli 1996, 30 ss.; A. Bonsignori, La «reformatio in peius» nel processo civile ed il suo divieto, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1983, 1378 ss.; P. Calamandrei, Appunti sulla “reformatio in peius”, in Riv. dir. proc. 1929, 300 ss., e in Studi sul processo civile, III, Padova1930, 46 ss.; F. Carnelutti, Sulla reformatio in peius, in Studi di diritto processuale civile, II, Padova 1928, n. 2), 162 ss. Per A. Ronco, Studio sul litisconsorzio alternativo, cit., 932, la giustificazione di ciò sarebbe da rinvenirsi nella necessaria applicazione del principio dispositivo.
[11] Per cui rimane valido quanto sottolineato da A. Ronco, ult. op. loc. cit., riportato alla precedente nota 7.
[12] E. Merlin, Inscindibilità dei giudizi e riproposizione di domande fra litisconsorti nelle fasi di gravame, cit., 1290 ss., spec. 1293 s.
[13] Da ultime sull’assenza di forme precise per la riproposizione delle domande assorbite, purché comunque la riproposizione sia specifica e intellegibile cfr. Cass., sez. III, 23 agosto 2023, n. 25121; Cass., sez. II, 30 giugno 2023, n. 18581.
[14] Cass., sez. un., 29 luglio 2002, n. 11202, cit.; Cass., sez. II, 22 novembre 2023, n. 32434 (non massimata); Cass., sez. I, 9 novembre 2018, n. 28792, in Foro it. Rep. 2018, voce Appello civile, n. 76; Cass. 17 febbraio 2014, n. 3613, in Foro it. Rep. 2014, voce Appello civile, n. 83; Cass. 2 marzo 2012, n. 3253, in Foro it. Rep. 2012, voce Appello civile, n. 42; Cass. 23 dicembre 2011, n. 28711, cit.; Cass. 7 gennaio 2009, n. 65, in Foro it. Rep. 2009, voce Appello civile, n. 49; Cass., sez. lav., 24 ottobre 2000, n. 13984, in Foro it. Rep. 2000, voce Cassazione civile, n. 116 e voce Appello civile, n. 89; Cass. 17 novembre 1982, n. 6159, in Foro it. Rep. 1982, voce Appello civile, n. 99.
[15] Cfr. Cass., sez. un., 19 aprile 2016, n. 7700, in Foro it. Rep. 2016, voce Impugnazioni civili in genere, n. 20, in Corriere giur. 2016, 968 ss., con nota di C. Consolo, Breve riflessione esemplificativa (oltre che quasi totalmente adesiva) su riproposizione e appello incidentale, e in Giusto proc. civ. 2017, 1099, con nota di S. Trabace, Chiamata in garanzia e giudizio di appello: le S.u. sull’onere di riproposizione della domanda rimasta assorbita in primo grado.
[16] Sul quale C. Consolo, Il cumulo condizionale di domande, I-II, Padova 1985, spec., I, 404 ss.
[17] C. Consolo, Le Sezioni unite sul litisconsorzio alternativo in appello, cit., 658 ss. Sul punto, cfr. anche E. Merlin, Inscindibilità dei giudizi e riproposizione di domande fra litisconsorti nelle fasi di gravame, cit., 1295 ss., con le precisazioni che seguono. Ancora limpidamente attuali sono le parole di G. Tarzia, Appunti sulle domande alternative, cit., 301, il quale afferma che l’«l’alternatività sostanziale, ossia l’incompatibilità delle domande comporta che (…) – per rispondere alle aspettative del domandante o dei domandanti – debba decidere contemporaneamente su entrambe (…)».
[18] Cfr. N. Rascio, L’oggetto dell’appello civile, cit., 140, il quale ha cura di sottolineare che «(…) specie con riguardo alle domande in senso proprio, la mancata richiesta di riesame per ciò che è già stato sfavorevolmente deciso in primo grado produce conseguenze dirette sul piano sostanziale, mentre l’art. 346 disciplina una rinuncia con effetti essenzialmente processuali».
[19] Nelle ricostruzioni viene generalmente fatto riferimento ai concetti di «soccombenza pratica» e «virtuale», che, ad opinione di chi scrive potrebbero essere utilmente sostituiti secondo la ricostruzione avanzata da G. Ruffini, Interesse ad impugnare, soccombenza ed acquiescenza, nota a Cass., sez. un., 20 ottobre 2016, n. 21260, in Riv. dir. proc. 2017, 799 ss., spec. 805 ss. il quale evidenzia come il concetto di «soccombenza» – che costituisce espressione del più generale divieto di venire contra factum proprium e preclude l’impugnazione a quel soggetto che abbia ottenuto una decisione conforme alle conclusioni rassegnate – sia concettualmente e logicamente distinto da quello di «interesse ad impugnare», la cui assenza preclude l’impugnazione a colui che non possa ottenere un determinato vantaggio dalla sostituzione della pronuncia con altra di contenuto diverso.
[20] Oltre ai due illustri autori citati alla nota 17, concordano sulla necessità di proporre appello incidentale anche G. Tarzia, Appunti sulle domande alternative, cit., 301 s.; L. Salvneschi, L’interesse ad impugnare, Milano 1990, 113 ss.; G. F. Ricci, Il litisconsorzio nelle fasi di impugnazione, Milano 2005, 342 ss.; L. Prendini, Domanda giudiziale, soggettivamente alternativa e impugnazione della sentenza, cit., 1334; V. Battaglia, Appunti sui rapporti tra appello incidentale e mera riproposizione, in Riv. dir. proc. 2018, 433 ss. In giurisprudenza, cfr. Cass., sez. lav., 23 marzo 2002, n. 4171, cit.; Cass., sez. II, 1° aprile 1999, n. 3114, in Foro it. Rep. 1999, voce Impugnazioni civili in genere, n. 8; Cass. 15 marzo 1995, n. 2992.Sul fatto che nell’ipotesi afferente all’individuazione del vero obbligato la pronuncia nei confronti del litisconsorte assolto sia da qualificarsi quale statuizione di merito, cfr. F. P. Luiso, Diritto processuale civile, cit., I, 337 ss.
[25] Il «litisconsorzio alternativo» può ovviamente realizzarsi anche dal lato attivo della lite, qualora più attori pretendano l’adempimento, ciascuno in proprio esclusivo favore, della stessa prestazione da parte dell’obbligato, con conseguente vicendevole negazione tra le divere pretese dedotte in giudizio. Per una generale e compiuta panoramica del fenomeno si può certamente rinviare a A. Ronco, Studio sul litisconsorzio alternativo, cit., 905 ss. Occorre, però, evidenziare altresì come – seppur sia certamente infrequente nella prassi – non si debba neppure in astratto escludere la possibilità che si realizzi un’ipotesi di «litisconsorzio alternativo», per così dire, «misto», in cui l’«alternatività» riguardi l’individuazione sia del titolare della pretesa sia del debitore: rimanendo all’esempio fatto nel testo, si immagini un intervento principale ex art. 105, co. 1°, c.p.c. da parte di un soggetto che si qualifichi quale cessionario ex art. 1260 c.c., già ante litem con cessione non notificata né accettata, del credito azionato dall’asserito delegatario.
[26] Cfr. in questo senso N. Trocker, L’intervento per ordine del giudice, Milano 1984, ult. op. loc. cit., il cui pensiero è stato brevemente riportato alla precedente nota 5. Nell’esempio riportato nel testo, stante il carattere liberatorio della delegazione, non potrebbe evidentemente trovare applicazione l’art. 1310 c.c., mancando ogni vincolo di solidarietà tra i più soggetti convenuti.
[27] Così A. Ronco, Studio sul litisconsorzio alternativo, cit., 922, secondo il quale in tali ipotesi «(…) il nesso che lega la posizione del litisconsorte al rapporto giuridico intercorrente tra il comune avversario e l’altro litisconsorte è, tipicamente, quello che fonda l’ammissibilità dell’intervento adesivo dipendente di cui al comma 2° dell’art. 105 c.p.c.».
[28] G. Tarzia, Appunti sulle domande alternative, cit., spec. 300 s.
[29] Tale locuzione è interpretata dalla giurisprudenza di legittimità in termini sufficientemente laschi che appaiono, però, effettivamente coerenti con il tenore letterale della norma. Viene, infatti, ritenuto che a dover accettare l’altrui rinuncia agli atti sia colui che possa ottenere un’«utilità giuridicamente apprezzabile» dalla conclusione del giudizio mediante un provvedimento avente effetti diversi da quelli meramente estintivi o ricognitivi dell’avvenuta estinzione (Cass., sez. III, 21 agosto 2018, n. 20839, in Foro it. Rep. 2018, voce Esecuzione forzata in genere, n. 45; Cass., sez. I, 21 giugno 2002, n. 9066, in Foro it. Rep. 2002, voce Procedimento civile, n. 340; Cass., sez. I, 11 ottobre 1999, n. 11384, in Foro it. Rep. 1999, voce Procedimento civile, n. 371; Cass., sez. lav., 1° febbraio 1995, n. 1168, in Foro it. Rep.1995, voce Procedimento civile, n. 136), quale potrebbe esser anche il definitivo accertamento con efficacia di giudicato di non esser titolare passivo di un rapporto obbligatorio; in dottrina cfr. R. Vaccarella, voce Rinuncia agli atti del giudizio, in Enc. dir., XL, Milano 1989, 963 ss.
[31] E. Merlin, ult. op. cit., 1315 e 1316, spec. nota 74.
[32] La nozione di scindibilità delle cause si ricava per sottrazione nel senso che le cause con pluralità di parti che non siano da considerare inscindibili o tra loro dipendenti sono assoggettate al regime di cui al 332 c.p.c., cfr. C. Perago, ult. op. cit., 267 ss.
[33] Per un riepilogo chiaro e concludente delle diverse teorie volte ad individuare una specifica ragion d’essere del dispositivo di cui all’art. 331 c.p.c., si può certamente rinviare alla pregevole opera di G. F. Ricci, Il litisconsorzio nelle fasi di impugnazione, cit., 138 ss.
[34] Nelle «cause scindibili», infatti, la denutiatio litis deve avvenire solamente nei confronti del soccombente e non nei confronti della parte interamente vittoriosa nel merito, cfr. G. F. Ricci, ult. op. cit., 446 ss. Residuerebbe, quindi, il problema afferente alla possibilità di ammettere una successiva impugnazione del convenuto soccombente nei confronti di colui che è andato esente da condanna in applicazione del disposto di cui all’art. 326, comma 2°, c.p.c. (il quale realizza una deroga alla disciplina dell’acquiescenza parziale di cui all’art. 329, comma 2°, c.p.c., cfr. E. Odorisio – G. Ruffini, in Diritto processuale civile a cura di G. Ruffini, II, Bologna 2024, 366), che difficilmente può trovare compiuta trattazione in questa sede.
[35] Tale ordine di idee è accolto anche in giurisprudenza da alcune pronunce Cass., sez. lav., 9 dicembre 1999, n. 13779, in Giur. it. Rep 1999, voce Impugnazioni in materia civile in genere, n. 41, come anche da Cass. 27 ottobre 1995, n. 11190, in Giust. civ. Rep. 1995, voce Impugnazioni civili, n. 13, che ritengono applicabile l’art. 331 c.p.c. solamente quando in sede di impugnazione sia ancora in discussione l’individuazione del vero obbligato.
[36] La soluzione avallata nel testo sembra altresì evitare la problematica di un’eventuale estromissione del convenuto non soccombente dal giudizio di impugnazione qualora l’appellato (attore vittorioso in primo grado) non abbia mai manifestato la volontà di ottenere il riesame della posizione del consorte passivo.
[38] Quest’ultima soluzione costituisce una mera trasposizione relativamente al giudizio di appello di quanto proposto da autorevole dottrina E. Odorisio – G. Ruffini, in Diritto processuale civile a cura di G. Ruffini, II, cit., 445 s., rispetto alla proposizione del ricorso incidentale in cassazione ai sensi dell’art. 371, comma 4°, c.p.c.
[39] Sulla declinazione del concetto di parte di sentenza in rapporto all’applicazione dell’art. 336, comma 1°, c.p.c., si rinvia a E. Odorisio – G. Ruffini, in Diritto processuale civile a cura di G. Ruffini, II, cit., 351 ss.
[40] Similmente A. Ronco, ult. op. cit., 928 ss. In una diversa ottica, si può condividere quanto sostenuto da autorevole dottrina che è portata ad imporre l’applicazione dell’art. 331 c.p.c. solamente per l’ipotesi in cui l’accoglimento dell’impugnazione possa determinare un conflitto pratico tra pronunce, cfr. E. Merlin, ult. op. cit., 1315 e 1316, spec. nota 74. Sulla distinzione tra contrasto «pratico» e «teorico», non si può fare a meno di rinviare a M. Gradi, Il contrasto teorico fra giudicati, Bari 2020, 58 ss.
[41] Per un agevole insegnamento, cfr. F.P. Luiso, Diritto processuale civile, II, cit., 333 ss.