L’interpretazione della legge e il potere del giudice

Di Giuliano Scarselli -

Sommario: 1. Premessa: sulle varie modalità di interpretazione della legge 2. L’interpretazione della legge al tempo dell’illuminismo, ovvero il giudice “bocca della legge”. 3. L’interpretazione della legge tra ottocento e novecento, ovvero l’art. 12 delle preleggi. 4. L’interpretazione della legge nel tempo presente, ovvero il giudice oltre il tenore letterale della disposizione normativa. 5. Le cause dell’interpretazione oltre la legge: il diritto dell’unione europea. 6. Segue: l’applicazione diretta dei principi costituzionali. 7. Segue: il bilanciamento tra diritti per la determinazione dell’interesse prevalente. 8. L’odierno potere del giudice di selezionare il valore prevalente al fine di rideterminare il precetto giuridico. 9. Brevissime riflessioni conclusive.

 

 

Premessa

1. È opinione diffusa che i poteri del giudice siano fortemente aumentati nel contesto storico che stiamo vivendo, così arrivando addirittura a ridefinire l’ambito della funzione giurisdizionale.

A ciò è dedicato questo scritto poiché, par evidente, si tratta di trovare una giusta misura nel divario tra l’esigenza del giudice di interpretare la legge per poterla applicare, e l’esigenza del potere legislativo di non essere superati e contraddetti dal giudice nel momento in cui questi interpreta la legge per risolvere un caso concreto.

E così, data la necessità di interpretare la legge perché la funzione giurisdizionale possa essere svolta, si pone essenzialmente il problema dei limiti che a detta interpretazione debba essere data.

Direi che, con una certa approssimazione, si possono individuare tre momenti, che sono al tempo stesso storia e idea del fenomeno: a) v’è stato un primo momento, che potremmo classificarlo come quello dell’interpretazione fedele alla legge; b) v’è stato poi un secondo momento, caratterizzato dalla possibilità del giudice dell’interpretazione intorno alla legge; c) e infine un terzo momento, che è quello attuale, nel quale il giudice può interpretare anche oltre la legge, ovvero può determinare la fonte di diritto prescindendo (anche) dal tenore letterale della disposizione normativa di riferimento.

Sia consentita la ricapitolazione di questi momenti per meglio comprendere la dimensione del fenomeno.

L’interpretazione della legge al tempo dell’illuminismo, ovvero il giudice “bocca della legge”

2. La prima modalità di interpretazione della legge è quella dell’illuminismo, che viene normalmente riassunta con l’espressione secondo la quale il giudice nient’altro è se non la “bocca della legge”.

Gli illuministi, infatti, ebbero forte diffidenza verso la libertà dei giudici, e può ricordarsi in proposito Voltaire, che diceva che: “interpretare la legge è quasi sempre corromperla”, o in Italia Carlo Cattaneo, che scriveva: “Interpretare vuol dire sostituire sé stesso in luogo di chi ha scritto la legge. Interpretare significa fa dire al legislatore più di quello che ha detto e quel più è la misura della facoltà legislatrice che si arroga il giudice”; o infine Cesare Beccaria, che nel suo celeberrimo Dei delitti e delle pene scriveva: “Non c’è cosa più pericolosa di quell’assioma comune che bisogna consultare lo spirito delle leggi. Questo è un argine rotto al torrente delle opinioni”.

Per queste ragioni il giudice, nel pensiero dell’illuminismo, doveva attenersi strettamente al testo della legge e non aveva facoltà, salve rarissime eccezioni, di allontanarsi da esso.

Se lo faceva, si attribuiva il potere di determinare egli stesso la regola da applicare al caso, così esorbitando dal suo ruolo.

Per gli illuministi e i rivoluzionari francesi ne sarebbe uscito compromesso lo stesso principio di separazione dei poteri, poiché nella misura in cui il giudice avesse detto qualcosa di più o di diverso dalla legge, lì avrebbe invaso il campo legislativo, assegnando a sé una funzione spettante ad altro potere dello Stato.

Lo stesso Duport, come ci ricorda Mortara (Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, Milano, V° ed., 1923, I, 13), alla seduta della Costituente del 29 marzo 1790, ebbe a dire che: “Il faut interdire toute fonction politique aux juges. J’ai dit que les juges n’étaient institués que pour appliquer les lois civiles”.

Peraltro, ciò era vissuto come un passaggio necessario tra il vecchio e il nuovo: se l’ancien régime era caratterizzato da una moltitudine disordinata di fonti normative che trattavano in modo differente gli uni dagli altri secondo il criterio del particolarismo giuridico, il nuovo sistema imponeva viceversa una legislazione ordinata, razionale e rispettosa del principio di eguaglianza, e per la realizzazione di questi obiettivi politici il giudice non poteva discrezionalmente interpretare la legge, perché la sua interpretazione poteva rappresentare ritorno alla confusione del passato, e quindi costituire violazione dei nuovi valori.

L’interpretazione della legge tra ottocento e novecento, ovvero l’art. 12 delle preleggi

3.Ovviamente, questo rigore nell’applicazione della legge non poteva funzionare, in quanto tra la legge, che per sua natura è generale e astratta, e il caso da decidere, che viceversa per sua caratteristica attiene sempre ad un bene concreto della vita, v’è un vuoto da colmare; e questo vuoto non può che essere riempito dall’interpretazione del giudice.

3.1. Il problema, allora, diveniva piuttosto quello di dare delle regole precise al giudice nel momento in cui, per decidere, si vedeva costretto a concretizzare la legge generale e astratta nel riconoscimento o meno di un diritto determinato.

Si crearono, così, fin dall’800, delle regole di metodo esegetico.

In primo luogo, il giudice doveva rispettare il tenore letterale della norma, e se questo tenore era sufficiente a risolvere il caso, il giudice nient’altro doveva fare se non applicare la legge, rimanendo egli, in primo luogo, sempre e ancora, “bocca della legge”.

Se viceversa il tenore letterale della legge non fosse apparso sufficiente, allora il giudice poteva avventurarsi nella ricerca dell’intenzione del legislatore, ovvero nell’analisi della sua volontà nel momento della fissazione della regola; e poi ancora, se necessario, poteva il giudice altresì procedere con l’interpretazione logica, cioè con il coordinamento della regola con altre regole.

Venivano così elaborati e recepiti criteri precisi di interpretazione della legge, che dovevano rispondere dapprima all’elemento testuale e/o grammaticale, poi a quello logico, poi ancora a quello storico, e infine a quello sistematico; e il giudice doveva interpretare la disposizione normativa seguendo questa scansione e passando da un criterio all’altro solo ove il precedente non fosse stato sufficiente per la risoluzione del caso che aveva di fronte.

Restava comunque assodato il principio della fedeltà del giudice alla legge, cosicché, nell’interpretazione di essa, era esclusa ogni valutazione politica e/o ideologica; gli strumenti esegetici da adoperare erano solo quelli logici e sistematici, poiché l’idea era quella che con essi, o al più ricorrendo a dei criteri generali, l’ordinamento giuridico fosse sempre capace di anto-integrarsi.

3.2. Queste regole venivano fatte proprie già dai codici del primo ‘900 e sarebbero state poi recepite da noi con l’art. 12 delle preleggi del codice del ’40.

L’art 12 delle preleggi poneva infatti ancora la legge al centro del sistema, poiché il giudice era tenuto a dare alla legge il significato “proprio delle parole secondo la connessione di esse” e nel rispetto “della intenzione del legislatore”.

Soltanto dove la legge non avesse disciplinato il caso concreto il giudice poteva risolvere la questione con “le disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe”; e solo, ancora, ove anche questa possibilità interpretativa non fosse stata percorribile il giudice poteva decidere il caso “secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico”.

L’ermeneutica, quindi, fissava una gerarchia tra gli strumenti a disposizione del giudice: a) prima la legge e il suo tenore letterale; b) poi l’intenzione del legislatore; c) soltanto ove la legge non disciplinasse il caso specifico poteva farsi ricorso all’analogia; d) e soltanto ove anche tutto questo non fosse stato sufficiente, il giudice poteva ricorrere all’utilizzazione dei principi generali dell’ordinamento giuridico.

L’interpretazione della legge nel tempo presente, ovvero il giudice oltre il tenore letterale della disposizione normativa

4.Ma anche questa seconda fase, che schematicamente segna il passaggio tra il giudice “bocca della legge” al giudice “interprete della legge”, veniva infine superata da una terza, che è quella che oggi stiamo vivendo, ove il giudice può interpretare la legge anche oltre essa stessa.

4.1. Potremmo dire, sempre con una certa semplificazione dei concetti, che mentre la seconda fase assegnava al giudice un potere interpretativo che nella prima fase non vi era, pur restando la legge al centro dell’attività esegetica, oggi siamo invece arrivati a superare il limite dell’interpretazione come attività logica di comprensione del testo, e si immagina un giudice che, al contrario, direttamente, usi i principi generali del sistema giuridico come strumenti di valutazione e, se del caso, di rideterminazione, della norma da applicare.

Il rapporto iniziale tra regola e principio viene così capovolto: in passato il giudice doveva applicare la regola, e solo dove la regola non c’era, o non poteva considerarsi sufficiente, il giudice ricorreva ai principi per risolvere il caso; oggi è il principio che sovrasta la regola, e anche in presenza di una precisa regola scritta, questa può essere superata dall’interpretazione di essa secondo i principi generali.

Così, seppur l’art. 12 delle preleggi sia sempre in vigore, e seppur la Corte di Cassazione continui ad affermare che “ove l’interpretazione letterale sia sufficiente ad individuare, in modo chiaro ed univoco, il significato e la portata precettiva di una norma di legge o regolamentare, l’interprete non deve ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario della mens legis” (Cass., sez. un. 23 aprile 2020 n. 8091), la realtà è mutata, e sempre più l’applicazione diretta dei principi sovrasta e annulla quella del tenore letterale della disposizione normativa.

Si è arrivati addirittura a concepire l’idea del diritto legislativo illegittimo per sottolineare che anche la legge, in questa sua lettura allargata, può considerarsi contra ius.

4.2. Direi che questa evoluzione sia da ricercare nella struttura multilivello degli attuali ordinamenti, nell’espandersi dello stato sociale e delle correlate funzioni pubbliche di garanzia dei diritti, nella sovra-produzione legislativa, nella disfunzione del linguaggio legale.

E in questo contesto credo sia necessario far cadere l’attenzione su tre diversi aspetti, seppur strettamente collegati fra loro:

a) un primo attiene al diritto dell’unione europea.

Il giudice oggi, nel risolvere un caso, deve interpretare il diritto nazionale alla luce di quello sovranazionale, e può farlo, come è noto, fino alla disapplicazione del diritto interno.

L’irrompere del diritto dell’unione europea ha così costituito fonte di una nuova creatività della giurisprudenza, e questa creatività è attualmente passata dall’opera delle Corti supreme a quella di ogni giudice del merito.

Possiamo dire che il diritto dell’unione europea costituisce sempre più possibilità per ogni giudice, anche di merito, di dar vita a precetti normativi che non trovano fonte nella funzione legislativa tradizionalmente intesa.

E ciò vale anche nei casi nei quali il giudice italiano semplicemente ponga rispetto ad una decisione presa dalla Corte di Giustizia dell’unione europea.

b) Un secondo aspetto concerne la nostra Costituzione.

È fuori discussione che il giudice debba interpretare la legge nel rispetto dei valori costituzionali e possa dare della disposizione legislativa una interpretazione costituzionalmente orientata.

Questa possibilità recentemente ha fatto un passo in avanti, poiché oggi è possibile rilevare la tendenza all’interpretazione costituzionalmente orientata non tanto e non solo con riguardo alle disposizioni normative, quanto anche con riferimento alle clausole contrattuali stabilite dalle parti.

Sempre più, infatti, i giudici utilizzano i principi generali costituzionali per intervenire (anche) nella regolazione delle obbligazioni contrattuali.

Si tratta di un fenomeno nuovo, che ci induce ad affermare che oggi, così come non è più vincolante per il giudice la legge, nemmeno lo è il contratto.

c) Infine, si inserisce in questo contesto la tecnica che viene definita di bilanciamento dei diritti, o dei valori.

Si ritiene, come è noto, che se un interesse si contrappone ad un altro interesse, è compito del legislatore determinare quale debba essere l’interesse prevalente.

Però, di nuovo, poiché alla legge si sovrappongono ora i principi costituzionali e del diritto dell’unione europea, la determinazione del bilanciamento resta affidato in ultima analisi proprio al giudice, che ha facoltà di considerare il bilanciamento posto in essere dal legislatore inadeguato, se non completamente errato, alla luce dei principi.

E così, di nuovo, il giudice non è solo colui che impone il rispetto del bilanciamento posto in essere dal legislatore, ma è anche il soggetto che determina il corretto bilanciamento, raffrontando la legge interna con i principi sovraordinati, e stabilendo egli stesso il da farsi.

E dobbiamo ripetere che, anche in questi casi, i principi giudici che possono costituire la base del bilanciamento praeter o contra legem, sono dati non solo dai giudici delle Corti supreme, ma sempre più anche dai giudici ordinari e di merito.

Penso si possa affermare, così, che in questa terza e ultima fase di interpretazione, il giudice non è più soltanto colui che applica la regola, ma è soprattutto colui che conforma la regola a dei principi; che il suo riferimento per la definizione di un caso non è più il testo, bensì il contesto nel quale il testo si inserisce; che l’attività interpretativa non ha ad oggetto più solo la disposizione, quale enunciato linguistico della fonte giuridica, ma soprattutto la norma, ovvero il significato concreto da attribuire alla disposizione dopo che questa è stata rivista e rivalutata nel contesto dei suoi principi regolatori.

Un minimo approfondimento di questi aspetti è necessario.

 

Le cause dell’interpretazione oltre la legge: il diritto dell’unione europea

 

5.Sul diritto dell’unione europea dobbiamo premettere che, se ci sono ragionevoli dubbi sulla compatibilità della norma interna con il diritto dell’unione europea, il giudice normalmente rimette la questione alla Corte di Giustizia dell’unione europea con il meccanismo del rinvio pregiudiziale (art. 267 TFUE); ma se non ci sono dubbi, e il giudice ritiene incompatibile la norma interna al diritto UE, questi può disapplicare la norma interna in contrasto con il diritto dell’unione europea puramente e semplicemente.

Direi che, seppur con talune oscillazioni, e/o posizioni non sempre omogenee della dottrina e della nostra giurisprudenza, si possa oggi affermare che l’effetto diretto della normativa Ue produce, in capo al giudice comune, l’obbligo di non applicazione del diritto interno, precedente o successivo, contrastante con il diritto comunitario, senza necessità di sollevare rinvio pregiudiziale o questione di legittimità costituzionale, nonché l’obbligo di disattendere orientamenti giurisprudenziali interni che siano incompatibili con il diritto Ue.

5.1. Si pensi, poi, che il diritto dell’unione europea è principalmente un diritto di principi generali.

I valori che l’Unione assicura a tutti sono quelli del pluralismo, della non discriminazione, della tolleranza, della giustizia, della solidarietà e della parità tra donne e uomini.

Questi valori poi devono concretizzarsi nel rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto, dei diritti umani.

I diritti garantiti dalla Convenzione europea dei diritti umani (CEDU) fanno parte del diritto dell’unione in quanto principi generali ai sensi dell’art. 6 par. 3 del Trattato istitutivo dell’Unione europea (TUE); poi, insieme a quel trattato, deve considerarsi quello sul funzionamento dell’unione europea (TFUE), e infine non va dimenticata la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE o Carta di Nizza).

Da aggiungere, che tutte le fonti del diritto dell’unione europea trovano ingresso diretto nel nostro ordinamento in forza degli artt. 11 e. 117 comma 1 Cost., e dunque che il giudice, nel decidere un caso concreto, ha il potere/dovere di tener conto di tutte queste fonti per concretizzare la sua decisione.

5.2. Per comprendere allora i nuovi e assai incisivi poteri interpretativi del giudice sia consentita una banalissima esemplificazione.

E’ possibile, così, che un giudice asserisca che il pane è di color giallo, non solo nelle ipotesi nelle quali la legge interna non dia un colore al pane, e il giudice ritenga che in base al diritto dell’unione la soluzione più ragionevole sia quella di considerare il pane di color giallo, ma anche nelle ipotesi in cui la legge interna abbia considerato il pane di color bianco, o nero, e il giudice, alla luce del diritto dell’unione, ritenga che quella scelta del legislatore interno contrasti con il diritto dell’unione, cosicché sia in ogni caso doveroso affermare che il pane è d color giallo.

Si tratta di un potere che farebbe rabbrividire Voltaire, Carlo Cattaneo e Cesare Beccaria, secondo quanto sopra abbiamo ricordato.

Qualcuno obietterà che i nostri giudici disapplicano la legge interna solo quando questa contrasti in modo palese con il diritto dell’unione europea, cosicché, normalmente, la disapplicazione avviene tra regola e regola, e non tra regola e principio, in quanto se la regola interna contrasto solo con un principio del diritto dell’unione europea, e non già con una regola specifica, il giudice, preferibilmente, in quei casi, utilizza lo strumento del rinvio pregiudiziale, o rimette la questione alla Corte costituzionale, e non provvede egli stesso, e direttamente, alla disapplicazione della legge.

Questo è vero in molti casi, ma non toglie, egualmente, secondo quanto abbiamo detto, sia che ogni giudice ha il diritto di disapplicare la legge interna se considerata in contrasto con il diritto dell’unione europea, sia che il diritto dell’unione europea è un diritto fatto essenzialmente di principi, cosicché l’idea che una legge interna possa essere disapplicata solo per il contrasto con un principio non è ne’ peregrina ne’ puramente teorica, e assegna, ovviamente, un potere al giudice di determinazione della norma assai consistente, in quanto questi, in molti casi, può addirittura, fra più principi, selezionare quello che gli serve per rideterminare il precetto giuridico che il legislatore aveva posto.

Si è infatti detto in dottrina che: “i principi di diritto svolgono un’importante funzione suppletiva, integrativa e correttiva delle regole giuridiche”, e che “si assiste ad un meccanismo che attribuisce ai principi una molteplice valenza…..per poi diventare metro di valutazione delle leggi…..principi che possono infine assumere anche il tratto di fattore immediato sul quale incentrare le tutele” (V. G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, Torino, 2024, 137).

5.3. È possibile fornire qualche esempio.

a) Un primo attiene alla recente vicenda dei c.d. paesi sicuri.

A seconda che un paese estero sia o meno da considerare sicuro, cambia il diritto di asilo presso di noi del cittadino extracomunitario.

I paesi sicuri erano stabiliti con decreto ministeriale 7 maggio 2024 n. 105.

La Corte di Cassazione, adita con rinvio pregiudiziale dal Tribunale di Roma, con sentenza 19 dicembre 2024 n.  33398, statuiva che: “il giudice ordinario, nell’ambito dell’esame completo ed ex nunc, può valutare, sulla base delle fonti istituzionali e qualificate di cui all’art. 37 della direttiva 2013/32/UE, la sussistenza dei presupposti di legittimità di tale designazione, ed eventualmente disapplicare in via incidentale, in parte qua, il decreto ministeriale recante la lista dei paesi di origine sicuri

Il Parlamento, allora, determinava i paesi sicuri per legge, l. 9 dicembre 2024 n. 187, e fissava così per legge, e non più semplicemente per decreto ministeriale, l’elenco dei paesi sicuri.

La Corte di Giustizia dell’Unione europea, adita sempre dal Tribunale di Roma, decideva la questione con la sentenza del 1 agosto 2025 (in C – 578/24) asserendo che nulla osta a che uno Stato disciplini il fenomeno con legge; tuttavia deve essere garantito un controllo giurisdizionale effettivo sulla legittimità della designazione, ossia deve essere garantita la possibilità per qualsiasi giudice nazionale investito di un ricorso di verificare, anche incidentalmente, se la designazione legislativa rispetti le condizioni sostanziali fissate nell’allegato I alla direttiva in materia del diritto dell’Unione 2013/32/UE.

La direttiva, in sintesi, contiene i principi generali da seguire in detta materia.

Possiamo tornare così all’esempio del colore del pane: la legge fissa l’elenco dei paesi sicuri, ma anche a fronte del tenore letterale della legge, ogni giudice può affermare cosa diversa.

b) Un ulteriore esempio può essere quello del c.d. bonus bebè.

L’art. 1, comma 125, della legge di bilancio 23 dicembre 2014 n. 190 riconosceva un contributo economico, oltre ai figli dei cittadini italiani, anche a quelli di stati extracomunitari titolari di permesso di soggiorno UE di lungo periodo ex art. 9 d.lgs. n. 286 del 1998.

La norma veniva considerata in contrasto con l’art. 12, paragrafo 1, lettera e) della Direttiva 2011/98/UE, che riconosce la parità di trattamento a tutti i cittadini di Paesi terzi “lavoratori” di cui alla definizione di cui art. 3, par. 1, lett. b), cosicché, per il giudice, i soggetti beneficiati dal bonus bebè dovevano passare da quelli indicati dalla legge a tutti indistintamente.

Così il giudice: “L’art. 1, comma 125, l. n. 190 del 2014, nella parte in cui riconosce il c.d. bonus bebè ai figli di cittadini di stati extracomunitari titolari di permesso di soggiorno UE per i soggiornanti di lungo periodo ex art. 9 d.lgs. n. 286 del 1998 contrasta con quanto disposto dalla Direttiva 2011/98/UE, che riconosce la parità di trattamento con i cittadini dello Stato membro di soggiorno in materia di sicurezza sociale ai cittadini di Paesi terzi “lavoratori” di cui alla definizione di cui art. 3, par. 1, lett. b)” (Trib. Bergamo 2 marzo 2018; Trib. Bergamo 15 aprile 2016 n. 2228).

c) Può darsi un altro esempio in punto di applicazione del d. lgs. 25 luglio 1998 n. 286 (Testo unico sull’immigrazione).

Precisamente, l’art. 14 di tale decreto legislativo prevedeva che lo straniero che non ottemperasse, senza giustificato motivo, all’ordine di allontanamento del Questore, commetteva reato.

L’art. 14 d. lgs. 25 luglio 1998 n. 286 veniva però considerato in contrasto con il diritto dell’Unione europea, e precisamente in contrasto con la Direttiva rimpatri n. 2008/115/CE.

Così il giudice: “L’immissione nell’ordinamento interno di norme comunitarie direttamente applicabili impone la disapplicazione, ad opera del giudice comune della norma incriminatrice interna con essa configgente, senza dover ricorrere al previo giudizio incidentale di costituzionalità” (Trib. Firenze, 4 ottobre 2012 n. 4392).

E dunque, ciò che la legge considerava reato, non lo era più.

d) Infine, può darsi un ultimo esempio nel campo del diritto delle obbligazioni.

Un debitore non opponeva un decreto ingiuntivo e questo diventava definitivo/esecutivo.

Il creditore, quindi, intraprendeva l’esecuzione forzata contro il debitore.

Il debitore/consumatore, però, poiché il credito si basava su una fideiussione contenente clausole abusive secondo le norme a tutela del consumatore, proponeva opposizione all’esecuzione.

Il creditore opponeva al debitore la definitività del decreto ingiuntivo e il suo passaggio in giudicato per mancata opposizione.

Si poneva così il contrasto tra il diritto interno, per il quale la definitività di un decreto ingiuntivo non può più essere discussa per ragioni di merito con l’opposizione all’esecuzione, e il diritto europeo, per il quale invece ogni opposizione è in ogni tempo possibile se posta a tutela del consumatore (CGUE 17 maggio 2022, direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993).

La Corte di Cassazione risolveva il caso con la sentenza Cass. sez. un. 6 aprile 2023 n. 9479, con la quale, in modo difforme dalle nostre regole procedurali, e per adeguarsi alla CGUE, inventava un nuovo procedimento con riferimento al consumatore, in base al quale, anche in assenza di opposizione a decreto ingiuntivo, il giudice dell’esecuzione di un decreto ingiuntivo deve controllare l’eventuale abusività delle clausole contrattuali, e, ove le rilevi, assegnare al consumatore 40 giorni di tempo per fare opposizione tardiva ai sensi dell’art. 650 c.p.c.; se viceversa il consumatore aveva fatto direttamente opposizione all’esecuzione senza opposizione al decreto ingiuntivo, quell’opposizione all’esecuzione doveva essere considerata direttamente come opposizione tardiva al decreto ingiuntivo ex art. 650 c.p.c.

Segue: l’applicazione diretta dei principi costituzionali

6.Un secondo ambito da tenere in debita considerazione è quello, come anticipato, dell’utilizzazione di taluni principi costituzionali non soltanto nell’interpretazione della legge, bensì anche nel diritto delle obbligazioni.

Esattamente, si è ritenuto che i principi costituzionali possano consentire al giudice di disapplicare un contratto fino al punto di annullare e/o modificare le stesse clausole contrattuali stabilite dalle parti.

Quindi, non solo i precetti della legge non sono più certi in quanto sottoposti al vaglio di norme sovraordinate, ma anche le clausole contrattuali seguono una simile sorte, poiché anche la volontà delle parti può essere superata da una interpretazione del giudice orientata al rispetto di principi superiori.

Peraltro, i principi, in concreto, che in giurisprudenza hanno dato modo di rivedere le clausole contrattuali, sono stati quelli della solidarietà, della buona fede e dell’abuso del diritto, ovvero principi assai elastici e generali, tali da attribuire al giudice un potere di concretizzazione del precetto al caso concreto piuttosto ampio.

Tra questi si segnala in particolare il valore della solidarietà ex art. 2 Cost. quale strumento per incidere sulla disciplina del contratto, da tempo riconosciuto dalla stessa Corte costituzionale (v. Corte Cost., 15 maggio 1990 n. 241; Corte Cost. 24 ottobre 2013 n. 248 e Corte Cost. 2 aprile 2014 n.77), e dalla Corte di Cassazione (Cass. 10 ottobre 2003 n. 15150; Cass. 30 luglio 2004 n. 14605; Cass. 4 maggio 2009 n. 10182; Cass. 10 novembre 2010 n. 22819; Cass. 29 agosto 2011 n. 17716; Cass. 6 maggio 2015 n. 9006), il quale, unitamente al principio di buona fede: “consente al giudice di intervenire anche in senso modificativo o integrativo sul contenuto del contratto, qualora ciò sia necessario per garantire l’equo contemperamento degli interessi delle parti e prevenire o reprimere l’abuso del diritto” (v. Cass. 18 settembre 2009 n. 20106).

E qualcosa di analogo, infine, si è sviluppato con riferimento al concetto di abuso del diritto, che consente parimenti la correzione di diritti/doveri nascenti dal contratto fin dalla lontana pronuncia della Cassazione del 2009 (Cass. 18 settembre 2009 n. 20106; successivamente v. Cass. 23 novembre 2020 n. 26568; e già Cass. 6 maggio 2016 n. 9140; Cass. 15 febbraio 2007 n. 3462; Cass. 31 maggio 2010 n. 13208; Cass. 21 dicembre 2012 n. 23823).

Segue: il bilanciamento tra diritti per la determinazione dell’interesse prevalente

7.Un terzo ambito che dà dimensione dei poteri interpretativi del giudice è quello del c.d. “bilanciamento” dei diritti (o dei valori, o dei principi).

Si tratta di un ulteriore passaggio nell’evoluzione dell’interpretazione della norma giuridica da parte del giudice in quanto il bilanciamento, se si vuole, costituisce fenomeno che nemmeno può ricondursi propriamente all’interpretazione della legge, poiché quando il giudice bilancia due valori ritenendone uno più meritevole di tutela dell’altro, in realtà egli non interpreta una norma, o un sistema di norme, ma semplicemente pone una priorità, frutto di un giudizio, e quindi spesso anche frutto di una scelta discrezionale, se non addirittura politica.

7.1. La facoltà del giudice di bilanciare due o più diritti ai fini della decisione è pacifica in dottrina e in giurisprudenza, ed è riconosciuta dalla nostra stessa Corte costituzionale, la quale pretende solo siano evitati i c.d. diritti tiranni, ovvero appunto, diritti che pretenderebbero di sottrarsi alla possibilità di essere bilanciati.

Si tratta, anche in questo caso, di una tecnica che ha avuto una evoluzione nel tempo, poiché, di nuovo, nello Stato liberale del XIX secolo, dove la funzione dello ius dicere in nient’altro si esplicava se non nell’esatta attuazione della legge: “il bilanciamento non ha ragion d’essere perché ogni potenziale conflitto di interessi trova (sempre) pre-determinata una regola iuris che il giudice e qualsiasi operatore giuridico devono limitarsi ad applicare” (A. MORRONE, Bilanciamento (giustizia cost.), voce dell’Enc. del Diritto, Annali II, Milano, 2008, 186).

La questione si evolve quando dallo stato liberale si passa allo stato democratico-sociale, e quando, soprattutto con ciò, la legge perde il suo primato, in quanto avanti ad essa si antepone una Costituzione e/o una Carta europea dei diritti fondamentali.

Finché la società vive nel primato della legge, lì l’idea del bilanciamento resta sullo sfondo; al contrario, nel momento in cui si anteponga alla legge una Costituzione e/o una Carta europea dei diritti fondamentali che fissano principi e valori, lì l’esigenza di procedere ad un bilanciamento di quei valori e di quegli interessi prende vita.

7.2. Ora, questo bilanciamento è attuato, normalmente, dalla stessa carta costituzionale e/o dei diritti fondamentali.

Ad esempio, la costituzione riconosce il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa, salvo però non si tratti di riti contrari al buon costume (art. 19 Cost.); nessuno può essere obbligato a subire un trattamento sanitario, ma in alcuni casi la legge lo può prevedere seppur nel rispetto della persona umana (art. 32 Cost.); l’iniziativa economica privata e libera e riconosciuta, tuttavia essa non può esercitarsi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana (art. 41 Cost.); la proprietà privata è parimenti riconosciuta e garantita, ma la legge ne fissa i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale (art. 42 Cost.); e ciò fino alla libertà personale, al domicilio, alla segretezza della corrispondenza, alla libertà di circolazione, che sono diritti considerati inviolabili, salve però le limitazioni che la legge possa prescrivere in taluni casi (artt. 13, 14, 15 e 16 Cost.).

Come si vede, però, il bilanciamento posto in essere dalla carta costituzionale è solo una indicazione astratta dei valori in conflitto, senza soluzione concreta del conflitto stesso.

Sappiamo che la proprietà privata deve esercitarsi nei limiti della funzione sociale, ma non sappiamo in concreto cosa questo significhi; sappiamo che egualmente l’esercizio delle attività imprenditoriale ed economiche non devono portare danno alla sicurezza e alla dignità umana, ma certamente dalla costituzione non si ricava quali siano le attività che per questa ragione non possono aver luogo.

Si ha così un passaggio tra un bilanciamento che potremmo definire del legislatore, ad un bilanciamento che potremmo classificare giudiziario: anche il giudice della singola controversia può così “bilanciare” i contrapposti diritti o valori, e porre, conseguentemente, una nuova regola, o una regola che in verità non v’era nell’ordinamento.

7.3. Conviene, forse, dare qualche esempio di bilanciamento giudiziale.

a) Ad esempio, si era posto, anni fa, la necessità di contemperare due contrapposti diritti, quali quelli del diritto di cronaca, posto al servizio dell’interesse pubblico all’informazione, e quello del c.d. diritto all’oblio, posto a tutela della riservatezza della persona e dei loro familiari.

La questione veniva rimessa alle Sezioni Unite.

La Sezioni unite (Cass. sez. un. 22 luglio 2019 n. 19681) risolvevano il caso statuendo che: “In tema di rapporti tra diritto alla riservatezza (nella sua particolare connotazione del c.d. diritto all’oblio) e diritto alla rievocazione storica di fatti e vicende concernenti eventi del passato, il giudice di merito ha il compito di valutare l’interesse pubblico, concreto ed attuale alla menzione degli elementi identificativi delle persone che di quei fatti e di quelle vicende furono protagonisti. Tale menzione deve ritenersi lecita solo nell’ipotesi in cui si riferisca a personaggi che destino nel momento presente l’interesse della collettività, sia per ragioni di notorietà che per il ruolo pubblico rivestito. In caso contrario, prevale il diritto degli interessati alla riservatezza rispetto ad avvenimenti del passato che li feriscano nella dignità e nell’onore e dei quali si sia ormai spenta la memoria collettiva”.

Di fronte ad una simile decisione non possono non rilevarsi talune libertà discrezionali che il giudice utilizza: aa) il giudice interviene in assenza di legge che regoli il fenomeno; ab) il giudice immagina un conflitto di diritti ove uno di questi, il diritto all’oblio, non risulta espressamente disciplinato (e/o riconosciuto) dalla legge; ac) la soluzione non costituisce interpretazione della legge ma piuttosto raffigura la creazione di un nuovo precetto giuridico, così assegnando al giudice in questi casi una funzione più normativa che giudiziaria.

b) Un caso che può essere qui parimenti ricondotto è quello c.d. Englaro.

Un tutore di figlia interdetta chiedeva al Tribunale, previa nomina di un curatore speciale, l’emanazione di un ordine di interruzione della alimentazione forzata mediante sondino nasogastrico che teneva in vita la tutelata, in stato di coma vegetativo irreversibile già da molti anni.

Tra la tutela della vita e quella dell’autodeterminazione, la giurisprudenza (Cass. 16 ottobre 2007 n. 21748) dava il seguente bilanciamento: “Ove il malato giaccia da moltissimi anni in stato vegetativo permanente, con conseguente radicale incapacità di rapportarsi al mondo esterno, e sia tenuto artificialmente in vita mediante un sondino nasogastrico che provvede alla sua nutrizione ed idratazione, su richiesta del tutore che lo rappresenta, il giudice può autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario, unicamente in presenza dei seguenti presupposti: (a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e (b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità

c) Vi sono stati dei casi di bilanciamento tra il diritto di uno straniero a trattenersi nel territorio dello Stato perché genitore di un minore, e il diritto dello Stato di espellere detto straniero perché autore di un delitto.

La giurisprudenza ha dato questo bilanciamento (Cass. 4 giugno 2018 n. 14238 e poi Cass., sez. un. 12 giugno 2019, n. 15750): “Nel giudizio avente ad oggetto l’autorizzazione all’ingresso o alla permanenza in Italia del familiare di minore straniero, la sussistenza di comportamenti del familiare medesimo incompatibili con il suo soggiorno nel territorio nazionale deve essere valutata in concreto attraverso un esame complessivo della sua condotta, al fine di stabilire, all’esito di un attento bilanciamento, se le esigenze statuali inerenti alla tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza nazionale debbano prevalere su quelle derivanti da gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico del minore, cui la norma conferisce protezione in via primaria”.

d) Si pensi poi al conflitto tra diritto alla tutela giurisdizionale e diritto alla riservatezza dei dati personali.

Un lavoratore aveva registrato più conversazioni con colleghi e superiori di nascosto e senza il loro consenso al fine di poterle utilizzare nel contenzioso con il datore di lavoro.

La Corte di Cassazione poneva in essere il seguente bilanciamento: “È legittima la registrazione audio solo se strettamente strumentale alla tutela giurisdizionale di un diritto da parte di chi effettua, pertinente alla tesi difensiva, nonché non eccedente le sue finalità. Resta invece violata la riservatezza se il lavoratore dovesse diffondere la conversazione per scopi diversi dalla tutela di un proprio diritto” (v. Cass. 29 settembre 2022 n. 28398).

Altri esempi, analoghi, potrebbero essere dati.

L’odierno potere del giudice di selezionare il valore prevalente al fine di rideterminare il precetto giuridico

8.Orbene, questo insieme di cose ci impone di rilevare non solo che il potere di interpretazione della legge da parte del giudice è molto aumentato nel tempo, ma anche che lo stesso, più radicalmente, ha mutato la sua struttura, ovvero si è trasformato in qualcosa di nuovo e diverso.

8.1. Ed infatti, una cosa è considerare l’interpretazione della legge quale attività logica di comprensione di un testo, altra cosa è ricomprendere in detta attività l’utilizzazione di principi generali e/o valori come strumenti di rideterminazione della norma da applicare.

Questo passaggio non solo comporta una estensione del potere del giudice nell’esercizio della sua funzione giurisdizionale, ma ne muta l’essenza, poiché questa seconda attività non costituisce più interpretazione della legge in senso proprio, in quanto l’attività che si va a compiere non è più di tipo logico/interpretativo ma ha natura più propriamente valutativa, ovvero il giudice valuta la disposizione normativa e il principio che il legislatore ha inteso proteggere con essa, valuta se detto principio è compatibile con altri valori superiori costituzionali e/o comunitari, e determina egli stesso quale sia il precetto giuridico da dare per il rispetto del valore da perseguire; e se questo ultimo valore da perseguire, così individuato dal giudice, non risulta, sempre a parere del giudice, quello fatto proprio dal testo di legge, il giudice lo ridetermina, stabilendo egli stesso la regola giuridica corretta da porre in essere nel caso di specie.

Si riscrive, così, la stessa nozione di giurisdizione, poiché con essa non può più intendersi l’applicazione della legge al caso concreto, ma deve intendersi la determinazione del precetto giuridico in base ad una selezione di valori attuati dal potere giudiziario, anche a prescindere da quelli già selezionati dal legislatore.

Se un tempo il rapporto tra legislazione e giurisdizione era nel senso che il legislatore fissava il precetto giuridico e la giurisdizione ne imponeva il rispetto, oggi il rapporto è che la giurisdizione ne impone il rispetto nella misura in cui lo considera congruo con dei valori generali che ella stessa determina.

E così, è possibile affermare che l’odierna modalità interpretativa della legge ha forza tale da ricomporre in modo nuovo il rapporto tra il potere legislativo e il potere giudiziario.

E’ stato autorevolmente scritto in dottrina che: “Oggi il grave problema che affligge i nostri ordinamenti è la crisi della legge…..tutti questi spazi aperti alla discrezionalità interpretativa e all’argomentazione sono da soli idonei a generale squilibri nei rapporti tra poteri………L’ultima cosa di cui si avverte il bisogno è perciò che la cultura giuridica contribuisca ad accrescere questi squilibri, assecondando e legittimando un ulteriore ampliamento degli spazi già amplissimi della discrezionalità, dell’argomentazione e del potere giudiziario, fino all’annullamento della separazione dei poteri, al declino del principio di legalità e al ribaltamento in sopra-ordinazione della subordinazione dei giudici alla legge” (L. FERRAJOLI, Contro la giurisprudenza creativa, in Quaderni di Questione Giustizia, n. 4/2016, 14/16).

8.2. Da questo rilievo ne segue poi un altro: ed infatti, se l’attività logico/interpretativa è oggi sostituita con quella discrezionale/valutativa/per principi, il potere del giudice rischia di trasformarsi sempre più in un potere (anche) politico, e non solo in un potere tecnico.

È vero che questo potere politico è insito, imprescindibilmente, in ogni attività di interpretazione; però è parimenti vero che esso si rafforza in maniera rilevante se nel campo dell’interpretazione si va a ricomprende la rideterminazione del precetto giuridico.

Poiché poi i valori del sistema giuridico sono normalmente plurimi e talvolta anche in contrasto tra loro, se la determinazione del valore non spetta più, o non spetta più solo e soltanto, al legislatore, ma è il giudice che pone l’ultima scelta, va da sé che il giudice gode oggi di un potere politico che un tempo veniva riconosciuto solo alla funzione legislativa.

Un magistrato erudito ha già infatti scritto che: “Lo spazio della politica è nella scelta, su basi etico-politiche, del principio; lo spazio del diritto è nel rispetto della regola di proporzionalità, che fa divieto, per così dire, al principio prevalente nel bilanciamento di abusare della propria posizione dominante. Le Corti applicano, o dovrebbero applicare, questa regola e non un principio che abbiano previamente selezionato, perché la selezione, in quanto etico-politica, spetta alla politica” (E. SCODITTI, L’ordine da ricostruire e il futuro da immaginare. A proposito della giurisdizione, in Questione Giustizia, 2025).

8.3. Ora, io credo che possa convenirsi sulla circostanza che la scelta dei valori spetti alla politica, o, se si vuole, al potere legislativo, e non a quello giudiziario, al quale dovrebbe invece spettare solo il controllo delle regole e della loro proporzionalità nella scelta dei valori già posti come prevalenti.

Ciò anche perché, nel momento in cui l’interpretazione della legge si rende ricostruzione del precetto giuridico, lì certamente il giudice può far uso dei suoi valori politici per stabilire se un diritto sussiste o non sussiste, e in qual modo e misura sussiste.

Però, dovrebbe escludersi che il giudice possa selezionare dei valori seguendo le proprie convinzioni etico/politiche, poiché ciò lo straformerebbe nel legislatore del caso singolo, in violazione altresì del principio di eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge.

E non a caso Enrico Scoditti proseguiva rilevando che: “Il giudice, costituzionale o comune, deve assumere un dovere di indipendenza dalle proprie visioni etico-politiche (“da se stesso”) nell’atto di identificare la regola della compressione proporzionata del principio soccombente, e in generale nell’interpretazione del diritto”.

Cioè il giudice, nell’interpretare la legge, non ha il potere di scegliere il valore prevalente, e in ogni caso ogni sua attività interpretativa deve (dovrebbe) prescindere, e porsi libera, rispetto alle sue personali opinioni.

Di questo” – si scrive ancora – “la prima a doverne acquistare piena consapevolezza dovrebbe essere proprio la magistratura, ridefinendo la propria funzione in modo adeguato alla nuova stagione del pluralismo”.

Il problema è che la realtà è altra.

Invero, l’applicazione diretta dei principi costituzionali e il rispetto del diritto dell’unione europea consentono invece alla magistratura, anche con la tecnica del bilanciamento, di selezionare il valore primario da perseguire e di riscrivere il precetto giuridico, anche, se del caso, facendo leva sulle proprie convinzioni etico/politiche.

E’ qualcosa che si ricava anche dai pochi esempi sopra fatti: se il giudice può determinare quali sono i paesi sicuri dopo che tale determinazione era già stata fatta dalla legge, se il giudice può non considerare reato una fattispecie che la legge aveva invece considerato reato, se il giudice può stabilire che il consumatore può opporre un decreto ingiuntivo dopo 40 giorni quando la legge fissa in 40 giorni il termine ultimo per proporre opposizione, se il giudice, ancora, in forza di principi generali quali la solidarietà, la buona fede, l’abuso del diritto, può riscrivere le clausole di un contratto mutando quella che era stata la volontà delle parti, che quel contratto avevano scritto e sottoscritto, e se il giudice può, più in generale, ritenere leciti taluni comportamenti che la legge al contrario vieta, quando questi comportamenti appaiono temperati alla luce di determinati principi ecc….. va da sé che il giudice, allora, non si limita ad interpretare la legge, né ad applicare il precetto giuridico nel rispetto del valore ritenuto meritevole dal legislatore, ma si fa, egli stesso, artefice del precetto giuridico, che costruisce alla luce del principio e/o valore che egli stesso seleziona.

In questo modo, il giudice, non “applica la legge”, ma applica i suoi “principi”, che poi utilizza per la determinazione della legge.

Brevissime riflessioni conclusive

 

9.I giuristi hanno il dovere, a mio sommesso parere, di studiare ancora queste questioni.

Nessuno vuole tornare al tempo nel quale il giudice era “bocca della legge” ma nemmeno è pensabile che il giudice possa, a sua discrezione, rideterminare i precetti giuridici già posti in essere, e già selezionati, dal legislatore, mettendo così in crisi la contrapposizione della funzione legislativa a quella giudiziaria.

È vero che libertà di questo genere sono sempre un po’ esistite nel passaggio dalla legge astratta alla determinazione concreta dell’esistenza (o meno) dei diritti; ma è vero che oggi il fenomeno ha assunto connotati molto più incisivi e misure molto più pesanti.

E nessuno, di nuovo, intende impedire al giudice il rispetto dei principi costituzionali e dell’unione europea; tuttavia, il giudice, per queste ragioni, non può trasformarsi nel legislatore del caso concreto, nemmeno quando svolga una funzione di nomofilachia.

Altrimenti si rischia di cadere in quel “argine rotto al torrente delle opinioni” che per Cesare Beccaria era assolutamente da evitare; o ancora, per dirla con Carlo Cattaneo, si rischia che il giudice, oltre ad interpretare la legge, aggiunga alla legge un di più che la legge non dice e non vuole, di modo che: “quel più è la misura della facoltà legislatrice che si arroga il giudice”.

Si tratta di porre nuovo studio e nuovi sguardi a questi problemi.