Le Sezioni Unite sulle conseguenze processuali dell’abusivo frazionamento del credito

Di Federica De Carolis -

1.Con la sentenza del 19 marzo 2025, n. 7299 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione tornano, per la quarta volta in venticinque anni, ad affrontare la questione – tutt’altro che sopita – dell’abusivo frazionamento del credito. Si tratta di un tema segnato da una strutturale interferenza tra profili sostanziali e processuali[1], che ha alimentato, nel tempo, un’articolata evoluzione giurisprudenziale, con soluzioni non sempre omogenee.

In un ambito ancora caratterizzato da incertezze applicative, la pronuncia riapre il dibattito sui limiti entro cui il frazionamento della pretesa creditoria, ancorché riconducibile a un rapporto unitario, possa ritenersi legittimo e non degenerare in abuso degli strumenti processuali[2].

La vicenda prende avvio dalla richiesta, da parte di una struttura sanitaria privata accreditata con il Servizio Sanitario Nazionale, dell’emissione di due decreti ingiuntivi nei confronti della ASL di Napoli Centro, volti al pagamento di prestazioni riabilitative erogate nei mesi di ottobre e novembre 2008. Il primo decreto, relativo alle prestazioni di ottobre, non veniva opposto e passava in giudicato; il secondo, riferito al mese successivo, veniva invece impugnato dalla ASL, che eccepiva l’abusivo frazionamento del credito.

Il Tribunale di Napoli accoglieva l’opposizione, dichiarando l’improponibilità della domanda, in quanto relativa a una frazione di un credito unitario già in parte azionato. La Corte d’Appello confermava tale esito, ritenendo che, in assenza di specifiche ragioni giustificative o di un interesse oggettivamente valutabile alla tutela frazionata, la proposizione separata di più ricorsi monitori per importi relativi a mensilità già esigibili configurasse un frazionamento abusivo, sanzionabile con l’improponibilità.

A seguito del ricorso della struttura sanitaria, la questione è stata rimessa alle Sezioni Unite[3], chiamate a chiarire se, in presenza di un accertato abuso processuale per frazionamento ingiustificato di pretese creditorie riconducibili a un medesimo rapporto, la sanzione debba consistere nella dichiarazione di improponibilità della domanda, anche quando tale scelta si traduca nella definitiva perdita della tutela giurisdizionale sul credito residuo. In particolare, si è posto il problema se, nei casi in cui l’azione unitaria non sia più esperibile per effetto del giudicato già intervenuto su una parte della pretesa – come nel caso di specie -, la sanzione dell’improponibilità non finisca per incidere in modo sproporzionato e irreversibile sul diritto sostanziale del creditore. Da qui il quesito, di più ampio respiro, se non debba privilegiarsi, in simili ipotesi, una reazione meno afflittiva, rappresentata dalla sanzione sulle spese processuali, idonea a colpire l’abuso senza compromettere irrimediabilmente il diritto all’azione, presidio fondamentale della tutela giurisdizionale e valore costituzionalmente protetto.

La delicatezza della questione risiede nel fatto che, nel frattempo, la prima domanda monitoria era divenuta irrevocabile, sicché il creditore non avrebbe più potuto proporre un’azione unitaria cumulativa per entrambe le pretese. In tal modo, una sanzione processuale fondata sull’improponibilità della seconda domanda si sarebbe tradotta, di fatto, nella perdita della tutela giudiziale del credito residuo.

2. Per comprendere appieno la portata dell’intervento del Supremo Collegio è opportuno ricostruire, seppur sinteticamente, il percorso interpretativo che ha condotto all’approdo più recente.

In una delle prime pronunce sul tema[4], la legittimità dell’azione frazionata era stata ricondotta all’art. 1181 c.c., valorizzando il potere del creditore di chiedere l’adempimento parziale di un credito unitario. Tale lettura considerava la frazionabilità come una libera espressione dell’interesse del creditore, senza che ciò ledesse il diritto di difesa del debitore, e riconduceva il frazionamento alla tematica della proponibilità della domanda, questione rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado.

Con la successiva sentenza n. 23726 del 2007[5], le Sezioni Unite hanno operato una decisiva inversione di rotta, affermando che la parcellizzazione arbitraria di un credito unitario costituisce un abuso del processo, contrastante con i principi di correttezza, buona fede e con il canone del giusto processo[6]. Il frazionamento viene così inquadrato come modalità distorsiva di esercizio del diritto d’azione, idonea ad aggravare ingiustificatamente la posizione del debitore, sia in termini di durata complessiva della vicenda giudiziaria, sia sul piano economico. In particolare, esso determina un incremento delle spese di lite e comporta il rischio concreto di pronunce tra loro contraddittorie sul medesimo rapporto sostanziale[7].

È con le sentenze gemelle nn. 4090 e 4091 del 2017[8] che si registra l’evoluzione più significativa in materia, quando le Sezioni Unite si sono confrontate con il caso di un lavoratore che, cessato il rapporto di lavoro, aveva introdotto due distinti giudizi per ottenere, rispettivamente, la rideterminazione del trattamento di fine rapporto e del premio fedeltà, entrambi parametrati su voci retributive corrisposte con carattere continuativo.

In quell’occasione, la Corte ha escluso che, in via generale, ricorra l’obbligo per il creditore di concentrare in un unico processo domande relative a diritti di credito distinti, sebbene riferibili a un medesimo rapporto di durata. Tuttavia, ha contestualmente affermato che, qualora «i suddetti diritti di credito, oltre a far capo ad un medesimo rapporto di durata tra le stesse parti, sono anche, in proiezione, inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato o comunque “fondati” sul medesimo fatto costitutivo – sì da non poter essere accertati separatamente se non a costo di una duplicazione di attività istruttoria e di una conseguente dispersione della conoscenza di una medesima vicenda sostanziale -, le relative domande possono essere proposte in separati giudizi solo se risulta in capo al creditore agente un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata[9]».

Proprio a partire da tali eccezioni, la giurisprudenza ha progressivamente ampliato il perimetro applicativo del divieto di frazionamento, superando i limiti inizialmente tracciati. Si è così giunti a qualificare come abusiva anche la proposizione separata di crediti non riferibili a un vero e proprio rapporto di durata, bensì a una relazione di fatto tra le parti, connotata da continuità e ripetitività. In questa prospettiva, la nozione di «medesimo rapporto» è stata progressivamente svincolata da criteri formali, per essere riletta in chiave fenomenologica; allo stesso modo, l’idea di «medesimo fatto costitutivo» si è estesa sino a ricomprendere anche ipotesi solo analoghe, accomunate da tratti sostanziali omogenei, seppur non identici[10].

Di conseguenza, il ricorso al simultaneus processus non rappresenta più una mera facoltà processuale, ma tende ad assumere i connotati di un vincolo giuridico. La sua omissione – anche nei casi in cui la connessione tra le domande sia esclusivamente soggettiva o oggettiva impropria[11] – comporta, in assenza di un interesse alla tutela frazionata oggi definito solo «apprezzabile», la sanzione dell’improcedibilità.

In tale direzione, la Corte ribadisce l’applicabilità del divieto di frazionamento alle controversie derivanti da rapporti professionali a contenuto ripetitivo e strutturalmente seriale, come quelle aventi ad oggetto i compensi di custodi giudiziari, liquidatori di compagnie assicurative o avvocati impegnati in una pluralità di incarichi, nei quali l’azione frazionata, pur riferita a crediti parzialmente distinti, si pone comunque in contrasto con l’obbligo di cumulo e viene dunque colpita da improcedibilità. Una conclusione che contribuisce a consolidare l’idea di un simultaneus processus divenuto, nelle ipotesi di cause seriali tra le stesse parti, tendenzialmente doveroso, con effetti che sembrano collocarsi in un’area di tensione con l’assetto normativo vigente, il quale continua a configurare tale strumento come una facoltà e non già come un obbligo.

3. Su questo sfondo, la decisione delle Sezioni Unite conferma l’indirizzo interpretativo ormai consolidato, rafforzandone alcuni aspetti applicativi e introducendo, al tempo stesso, elementi di novità.

Innanzitutto, il parametro dell’«interesse oggettivamente valutabile» viene sostituito dalla nozione di «apprezzabile interesse alla tutela processuale frazionata», che sembra riferirsi in modo specifico all’inutile e ingiustificato dispendio dell’attività processuale. La formula, pur semanticamente affine alla precedente, si caratterizza per una maggiore vaghezza e lascia trasparire una valutazione tendenzialmente equitativa, affidata alla discrezionalità del giudice. L’interesse ad agire, in questa nuova prospettiva, non si misura tanto in relazione all’effettiva utilità della domanda per il creditore, quanto piuttosto alla sua compatibilità con il principio di economia processuale e con l’esigenza di evitare un impiego non giustificato delle risorse giudiziarie. Se l’interesse è ritenuto «apprezzabile» solo nella misura in cui non genera sprechi, si finisce per attribuire al giudice un compito di valutazione economicistica dell’azione, potenzialmente estendibile a ogni istanza processuale. In questa logica, la funzione dell’interesse ad agire[12] assume la funzione di filtro processuale[13] non solo rispetto all’an della pretesa, ma anche in relazione alle modalità concrete con cui il diritto viene esercitato (quomodo)[14]. In secondo luogo, viene ribadita la rilevabilità d’ufficio dell’improponibilità della domanda, senza limiti temporali espliciti[15]. A ben vedere, tale facoltà può indurre comportamenti opportunistici, poiché il debitore potrebbe sollevare la questione solo in un momento avanzato del procedimento, con evidenti riflessi negativi sul piano della lealtà e probità processuale.

Il cuore problematico della sentenza risiede, però, nella valutazione delle conseguenze dell’abuso[16]. Le Sezioni Unite, pur confermando l’improponibilità della domanda frazionata in assenza di un apprezzabile interesse, precisano che, nei casi in cui l’azione non sia più riproponibile per effetto della formazione del giudicato su una porzione del credito, il giudice non può limitarsi a dichiarare la domanda improponibile, ma deve procedere all’esame del merito. Laddove, infatti, l’improponibilità si traducesse nella definitiva perdita del diritto d’azione, si giungerebbe a una sanzione processuale che assume natura sostanziale, con evidenti profili di incompatibilità rispetto al principio di proporzionalità e di bilanciamento tra giusto processo e tutela effettiva dei diritti. In simili casi, la reazione all’abuso non può che tradursi in una sanzione interna al processo, rappresentata dalla regolazione delle spese ex artt. 88 e 92 c.p.c. La condotta processualmente scorretta del creditore potrà allora essere valorizzata per escludere la sua condanna favorevole o per addossargli, anche solo parzialmente, le spese del giudizio. Il giudice, dunque, sarà chiamato a distinguere tra abuso rilevante ai fini dell’accesso alla tutela e abuso sanzionabile solo in termini economici, calibrando la reazione in ragione della effettiva lesività del comportamento.

È in questo contesto che si colloca una riflessione più ampia: la scelta della sanzione della improponibilità, pur funzionale all’efficienza e alla deflazione del contenzioso, rischia, se non opportunamente calibrata, di trasformarsi in un limite abusivo all’accesso alla giustizia, specie nei casi in cui la domanda frazionata non sia più riproponibile. Come sottolinea anche l’ordinanza di rimessione, il contrasto all’abuso del processo non può risolversi in una compressione irragionevole del diritto all’azione, che resta pur sempre soggetto a un imprescindibile bilanciamento tra i diritti in gioco[17].

Pur riconoscendo che il sistema dispone già di strumenti normativi idonei a contrastare l’uso distorto del processo, le Sezioni Unite hanno scelto di non disattendere l’orientamento consolidato, ribadendo la sanzione dell’improponibilità quale regola generale nei casi di frazionamento ingiustificato. Al contempo, però, la Corte ne ha escluso l’operatività nei casi in cui tale rimedio rischi di compromettere in modo irreversibile l’accesso alla tutela giurisdizionale, come accade quando l’azione unitaria non sia ormai più praticabile. In simili ipotesi, la reazione all’abuso si sposta sul piano delle spese di lite, secondo un criterio di proporzionalità che affida al giudice il compito di modulare la risposta sanzionatoria in ragione della concreta incidenza sul diritto sostanziale.

Ci si può legittimamente domandare se questa non fosse l’occasione per ancorare in via generale la sanzione dell’abuso a un parametro normativo positivo – come l’art. 96, co. 4, c.p.c.[18] – anziché insistere su una risposta processuale che, in alcune ipotesi, rischia di tradursi in un vulnus irreparabile per il diritto di credito. Una scelta più netta avrebbe potuto restituire maggiore certezza al sistema e contenere gli effetti espansivi di un indirizzo interpretativo che, nel tempo, ha ampliato i confini del divieto di frazionamento fino a includere anche situazioni fondate su semplici analogie o su rapporti di fatto.

Nel bilanciamento tra diritto e processo, la Corte ha dunque preferito un approccio cauto, riconoscendo l’abuso ma senza comprometterne del tutto l’accesso alla giustizia. Un equilibrio, questo, che riflette l’attuale tensione tra esigenze di semplificazione e tutela effettiva, ma che lascia ancora spazio – forse troppo – all’intervento creativo della giurisprudenza in un campo che, più di altri, avrebbe bisogno di una chiara presa di posizione del legislatore.

In filigrana, dunque, emerge il ruolo di supplenza normativa che la giurisprudenza ha assunto per colmare vuoti di disciplina, affidandosi a clausole aperte che ampliano la discrezionalità giudiziale e indeboliscono la prevedibilità delle decisioni. In questa prospettiva, la sentenza in commento, per quanto rigorosa e ben calibrata, sconta i limiti di una regolazione interamente affidata al diritto vivente. Non sorprende, allora, che la Corte, pur consapevole dell’efficacia degli strumenti già disponibili, abbia preferito non incrinare l’impianto giurisprudenziale consolidatosi a partire dal 2007. Si tratta, in definitiva, di un’occasione solo parzialmente colta: quella di offrire una risposta chiara, fondata su un dato normativo certo, che possa sottrarre il giudice all’onere di definire, caso per caso, il punto di equilibrio tra legittimo esercizio del diritto e condotta processuale abusiva.

[1] In generale, sul rapporto tra abuso del processo e abuso del diritto, G. VERDE, L’abuso del diritto e l’abuso del processo (dopo la lettura del recente libro di Tropea), in Riv. dir. proc., 2015, 1085 ss; A. PANZAROLA, Presupposti e conseguenze della creazione giurisprudenziale del c.d. abuso del processo, in Dir. proc. amm., 1/2016, 78 ss.

Si ricorda l’importanza della nozione di «abuso del diritto» nel contesto europeo, sancita dall’art. 54 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, il quale recita che «nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata nel senso di comportare il diritto di esercitare un’attività o compiere un atto che miri a distruggere diritti o libertà riconosciuti nella presente Carta o a imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste dalla presente Carta». Tale articolo ricalca il contenuto dell’art. 17 della CEDU, che afferma: «nessuna disposizione della presente Convenzione può essere interpretata nel senso di comportare il diritto di uno Stato, un gruppo o un individuo di esercitare un’attività o compiere un atto che miri alla distruzione dei diritti o delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione o di imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste dalla stessa Convenzione».

[2] Sulla discussa figura dell’abuso del processo, in dottrina, ex multis, A. DONDI, Abuso del processo (dir. proc. civ.), in Enc. dir., Ann., Milano, 2010, 1 ss; F. CORDOPATRI, L’abuso del processo, Padova, 2000; M. TARUFFO, Elementi per una definizione di abuso del processo, in AA.VV., L’abuso del diritto, Padova, 1998, 435 ss; L.P. COMOGLIO, Abuso del processo e garanzie costituzionali, in Riv. dir. proc., 2008, 319 ss; M.F. GHIRGA, La meritevolezza della tutela richiesta. Contributo allo studio sull’abuso dell’azione giudiziale, Milano, 2004; M. SERIO, L’abuso del processo: una ricerca comparatistica, in Giusto proc. civ., 2014, 119; A. DONDI, Manifestazioni della nozione di abuso del processo civile, in Riv. dir. proc., 2008, 319; L. LOMBARDO, Abuso del processo e lite temeraria: la condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c., in Giust. civ., 2018, 893.

[3] Il riferimento è all’ordinanza interlocutoria n. 3643 del 2024 della Prima Sezione civile della Corte di Cassazione, in Riv. dir. proc., 2024, 798, con nota di M.F. GHIRGA, Nuove riflessioni sull’abusivo frazionamento della pretesa azionata con la domanda giudiziale.

[4] Cass., sez. un., 10 aprile 2000, n. 108 in Giust. civ., 2000, I, 2265, con nota di R. MARENGO, Parcellizzazione della domanda e nullità dell’atto; in Foro it., Rep. 2000, voce Obbligazioni in genere, n. 16; in Nuova giur. civ., 2001, 502, con nota di V. ANSANELLI, Rilievi minimi in tema di abuso del processo; in Giur. it., 2001, 1143, con nota di A. CARRATTA, Ammissibilità della domanda giudiziale «frazionata» in più processi?, oltre a osservazioni di Minetola e di Ronco; in Corr. giur., 2000, 1618, con nota di T. DALLA MASSARA, Tra res iudicata e bona fides: le Sezioni Unite accolgono la frazionabilità nel quantum della domanda di condanna pecuniaria; in Dir. e giur., 2002, 443, con nota di E. SENA, Richiesta di adempimento parziale e riserva di azione per il residuo: l’orientamento delle Sezioni Unite della Cassazione; in Guida dir., 2000, 17, 46 ss., con nota di E. SACCHETTINI, La possibilità di frazionare le richieste giudiziarie non sacrifica il diritto di difesa del debitore, la cui massima recita così «è ammissibile la parcellizzazione dell’unico credito pecuniario in più domande proposte innanzi ad un giudice diverso, e inferiore, rispetto a quello competente per l’intero credito, purché il creditori si riservi espressamente, nel primo giudizio, di agire per il residuo. Ricorrere ad un giudice inferiore, più celere nella decisione ed innanzi al quale la lite costa meno, anche se la sua conclusione non è interamente satisfattoria della pretesa, risponde ad un interesse del creditore meritevole di tutela e costituisce potere non negato dall’ordinamento, non sacrificando in alcun modo il diritto del debitore alla difesa delle proprie ragioni».

[5] Cass., sez. un., 15 novembre 2007, n. 23726, in Foro it., 2008, I, 1514, con note di A. PALMIERI e R. PARDOLESI, Frazionamento del credito e buona fede inflessibile, e di R. CAPONI, Divieto di frazionamento giudiziale del credito: applicazione del principio di proporzionalità nella giustizia civile?; in Giur. it., 2008, 929; in Riv. dir. proc., 2008, 1435, con nota di M. GOZZI, Il frazionamento del credito in plurime iniziative giudiziali, tra principio dispositivo e abuso del processo; in Giust. civ., 2008, 3, I 641; in Guida dir., 2007, 47, 28 con nota di M. FINOCCHIARO, Una soluzione difficile da applicare nei futuri procedimenti di merito; in Rass. dir. civ., 2010, 1, 292, con nota di ALPINI; Il civilista, 2008, 12, 34, con nota di G. BUFFONE, Frazionamento giudiziale, contestuale (o sequenziale), di un credito unitario; in Giur. it., 2008, 929, con nota di A. RONCO, (Fr)azione: rilievi sulla divisibilità della domanda in processi distinti; in Riv. dir. civ., 2008, II, 335, con commento di M. DE CRISTOFARO, Infrazionabilità del credito tra buona fede processuale e limiti oggettivi del giudicato, e di T. DALLA MASSARA, La domanda frazionata e il suo contrasto con i principi di buona fede e correttezza: il “ripensamento” delle Sezioni Unite; in Nuova giur. comm., 2008, I, 458 ss., con nota di A. FINESSI, La frazionabilità (in giudizio) del credito: il nuovo intervento delle sezioni unite, e di F. COSSIGNANI, Credito unitario, unica azione; in Riv. dir. civ., 2009, 347 ss, con nota di A. DONATI, Buona fede, solidarietà, esercizio parziale del credito (ancora intorno a Cass., sez. un., 15 novembre 2007, n. 23726); in Corr. giur., 2009, 1133 ss, con nota di A. GRAZIOSI, Pluralità di azioni a tutela dello stesso diritto (frazionato) o abuso del diritto di azione?; in Riv. dir. civ., 2008, 335 ss, con nota di M. DE CRISTOFARO, Infrazionabilità del credito tra buona fede processuale e limiti oggettivi del giudicato; in Corriere giur., 2008, 745, con nota di P. RESCIGNO, L’abuso del diritto (Una significativa rimeditazione delle Sezioni Unite); in Giust. civ., 2008, I, 2807, con nota di V. FICO, La tormentata vicenda del frazionamento della tutela giudiziaria del credito; in Riv. dir. proc., 2008, 1437 ss, con nota di F. FESTI, Buona fede e frazionamento del credito in più azioni giudiziarie.

In senso sostanzialmente conforme, Cass., 27 maggio 2008, n. 13791 e Cass., 11 giugno 2008, n. 15476, entrambe in Danno e responsabilità, 2009, 518 ss, con nota di ROSSI, il principio della contrarietà del frazionamento del credito alla clausola generale di buona fede: le prime applicazioni; Cass., 3 dicembre 2008, n. 28719, in Mass. Giust. civ., 2009, 1734.

[6] Nel nostro ordinamento, la clausola del giusto processo è stata costituzionalizzata con la legge costituzionale n. 2 del 1999, che ha integrato l’art. 111 della Costituzione con due nuovi commi. Tale principio è inoltre sancito dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU).

[7] Cass., sez. un., 15 novembre 2007, n. 23726, cit., passim. In seguito alla pronuncia del 2007, in cui la Corte di Cassazione non aveva ancora precisato se il rigetto della domanda frazionata fosse un rigetto nel merito o nel rito, parte della dottrina aveva sostenuto che la Corte di Cassazione fosse arrivata alla “radicale posizione” di negare alla radice la possibilità di dedurre separatamente in giudizio un unico diritto di credito sulla scorta di considerazioni legate, in realtà, all’oggetto del giudicato e alla necessaria corrispondenza tra posizione giuridica sostanziale e oggetto della domanda e dell’accertamento; in questi termini, M. DE CRISTOFARO, Infrazionabilità, cit., 339 e C. CONSOLO, Note necessariamente divaganti quanto all’“abuso sanzionabile del processo” all’“abuso del diritto come argomento”, in Riv. dir. proc., 2012, 1293 ss.

[8] Cass., sez. un., 16 febbraio 2017, n. 4090, in Foro it., Rep. 2017, voce Procedimento civile, n. 167; Cass., sez. un., 16 febbraio 2017, n. 4091, in Giur. it., 2017, 1089, con nota di M. BARAFANI, I fondamenti concettuali del dibattito sul frazionamento giudiziale del credito; in Riv. dir. proc., 2017, 1302, con nota di M.F. GHIRGA, Frazionamento di crediti, rapporti di durata e interesse ad agire; in Lavoro giur., 2017, 464, con nota di G. GUARNIERI, La coscienza di Zeno e un (presunto) caso di frazionamento del credito; in Corr. giur., 2017, 975, con nota di C. ASPRELLA, Il frazionamento dei diritti connessi nei rapporti di durata e nel processo esecutivo; in Giusto proc. civ., 2018, 153, con nota di M. GIACOMELLI, Abuso del processo per indebito frazionamento del credito: le sezioni unite eludono la questione del fondamento della sanzione dell’improponibilità della domanda successiva.

[9] Sul ruolo dell’art. 100 c.p.c. quale norma fondamentale per affrontare il problema della domanda frazionata, G. VERDE, Sulla “minima unità strutturale” azionabile nel processo (a proposito di giudicato e di emergenti dottrine), in Riv. dir. proc., 1989, 577 ss; nonché, più di recente, M. MARINELLI, La clausola generale dell’art. 100 cod. proc. civ. Origini, metamorfosi e nuovi ruoli, Trento, 2005, 157 ss. Per una lettura critica della necessità di un interesse oggettivo alla frazionabilità della pretesa, introdotta dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 4090 del 16 febbraio 2017, C. ASPRELLA, Il frazionamento dei diritti connessi nei rapporti di durata e nel processo esecutivo, cit., 983, secondo la quale tale elemento non ha «alcuna rigorosa attinenza con la deduzione frazionata dei diritti connessi, di per sé legittima alla luce della diversità dei diritti vantati, pur se afferenti ad un’unitaria matrice».

[10] Cass., ord., 24 maggio 2021, n. 14143, Giur. it., 2022, 1606, con nota di G. BALLETTI, Frazionamento del credito e rapporto “complesso”; in Foro it., Rep. 2021, voce Procedimento civile, n. 83; in Dir. e giust., 2021, con nota di I. PIETROLETTI, No alla parcellizzazione dei crediti del legale se vantati tutti nei confronti dello stesso cliente; in senso analogo, Cass., 9 settembre 2021, n. 24371, in Giust. civ. mass., 2021, secondo cui «le domande relative a diritti di credito analoghi per oggetto e per titolo non possono essere proposte in giudizi diversi quando i relativi fatti costitutivi, ancorché diversi, si inscrivano nell’ambito di una relazione unitaria tra le parti, anche di mero fatto, caratterizzante la concreta vicenda da cui deriva la controversia, a meno che l’attore non abbia un interesse oggettivo, il cui accertamento compete al giudice di merito, ad esercitare l’azione solo per uno o alcuni dei predetti crediti. L’improponibilità della domanda, conseguente alla violazione di tale divieto, non preclude tuttavia al creditore la facoltà di riproporre la stessa in giudizio, in cumulo oggettivo ex art. 104 c.p.c. con tutte le altre relative agli analoghi crediti sorti nell’ambito della menzionata relazione unitaria tra le parti».

[11] Non è questa la sede per approfondire le considerazioni di opportunità sottese alla proposizione cumulativa di domande connesse, anche solo sul piano soggettivo, né per soffermarsi sulle regole che consentono di derogare al criterio ordinario di riparto della competenza al fine di rendere possibile il simultaneus processus. Ci si limita a ricordare che, a seconda del grado di connessione tra le domande, tale cumulo può essere giustificato dall’esigenza di evitare decisioni potenzialmente contrastanti, oppure, più semplicemente, da considerazioni di economia processuale, che di per sé legittimano il ricorso al simultaneus processus. Cfr. R. TISCINI, Le categorie del processo civile, Bologna, 2017, 126 ss.

[12] Cfr. B. SASSANI, Interesse ad agire, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, ove si offre una ricostruzione puntuale delle principali problematiche interpretative e applicative emerse attorno alla nozione di interesse ad agire. l’A. qualifica l’art. 100 c.p.c. come «norma specificamente precettiva e, in tale funzione, insurrogabile; essa impone il rispetto, nel caso concreto, dell’effettività della relazione da mezzo a fine stabilita dall’ordinamento tra la tutela esperita e l’interesse tutelato».

[13] Sul rilievo che l’interesse ad agire assume in chiave di economia processuale, F.P. LUISO, Diritto Processuale Civile, I, Principi generali, Milano, 2025, 229 ss. Già in epoca risalente, A. ATTARDI, L’interesse ad agire, Padova, 1958, 24-27, aveva proposto una duplice lettura dell’art. 100 c.p.c.: da un lato, l’impostazione classica che lo collega a una situazione giuridica lesa; dall’altro, una lettura più funzionale, che collega l’interesse all’indispensabilità dello strumento processuale rispetto al risultato utile non conseguibile altrimenti.

[14] La funzione dell’interesse ad agire quale parametro del corretto esercizio dell’azione trova significativo riscontro anche nella giurisprudenza in materia di esecuzione forzata, ove la Corte ha ravvisato una carenza di interesse a promuovere l’azione esecutiva allorché il credito vantato sia di entità economicamente minima (Cass., 3 marzo 2015, n. 4228, in Corr. giur., 2016, 251 ss.).

In senso critico, A. PANZAROLA, Davvero il diritto di azione (art. 24, comma 1, Cost.) dipende dal valore economico della pretesa?, ivi, 256, osserva come l’ordinamento non contenga alcuna disposizione che subordini l’accesso alla giurisdizione alla consistenza economica della domanda, e sottolinea che «se pure il legislatore si fosse arrischiato ad introdurla, sino ad oggi nessuno avrebbe dubitato della sua illegittimità costituzionale, e proprio per contrasto con l’art. 24 Cost., il cui comma 1, come noto, assegna a “tutti”, incondizionatamente, il potere di “agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”». In senso critico anche G. COSTANTINO, L’interesse ad eseguire tra valore del diritto e abuso del processo (note a margine di cass. 3 marzo 2015, n. 4228), in Giusto processo civ., 2015, 929 ss.

[15] Cfr. Cass., 6 ottobre 2021, n. 27089, in Giust. civ. mass., 2021.

[16] Già M.F GHIRGA, in Abuso del processo e sanzioni, Milano, 2012, 46, affrontando il tema delle sanzioni per l’abuso dell’azione giudiziale, osservava come nel nostro ordinamento mancasse una riflessione approfondita e sistematica sulle sanzioni processuali.

[17] In questi termini, Cass., ord. 8 febbraio 2024, n. 3643, cit., «la proporzionalità delle misure che l’ordinamento appresta per contrastare l’abuso del processo, nel silenzio del legislatore, non pare possa prescindere dalla necessità di pervenire ad un corretto bilanciamento che tenda a realizzare un ragionevole accomodamento fra i diritti in contesa (Cass. S.U. n. 24414/2021), muovendo dal dato, ormai ben assimilato nel diritto vivente, sia dei giudici costituzionali e di quelli comuni, che fra i diritti fondamentali non esiste un diritto tiranno e che non può dunque esistere nemmeno un’idea di “abuso tiranno” capace cioè di comprimere oltre ogni comprensibile limite di ragionevolezza e proporzionalità i diritti delle parti in causa».

[18] Come parte delle misure volte a rafforzare i doveri di leale collaborazione tra le parti nel processo, la legge delega n. 206 del 2021 ha introdotto la previsione del riconoscimento dell’Amministrazione della giustizia quale soggetto danneggiato in caso di responsabilità aggravata, prevedendo contestualmente sanzioni specifiche a favore della cassa delle ammende. Tale delega è stata attuata con il decreto legislativo n. 149 del 2022, che ha modificato l’art. 96 c.p.c. inserendo un quarto comma. Questo nuovo comma consente al giudice, nei casi previsti dai primi tre commi, di irrogare una sanzione pecuniaria a carico della parte, con un importo compreso tra 500 e 5.000 euro, da versare alla cassa delle ammende.