Le ricadute sul sistema processuale italiano delle pronunce della Corte di giustizia UE 16 maggio 2022.

Di Damiano Micali -

Sommario: 1. Introduzione del tema. – 2. Premessa sul tema del giudicato implicito. – 3. L’avvento della giurisprudenza europea sul giudicato. – 4. Le sentenze del 17 maggio 2022. – 5. Giudicato implicito, accertamento di questioni e obblighi del giudice. – 6. Procedimenti sommari e capacità accertativa. – 7. Giudicato implicito, capacità preclusiva e processi a cognizione piena. – 8. Limite all’efficacia preclusiva e principio di uguaglianza. – 9. Accertamento, esecuzione e poteri del giudice dell’esecuzione. – 10. Conclusioni.

1.Nel suo scritto su L’interpretazione della legge processuale (1906), A. Rocco affermava che la legislazione processuale «non sente, se non in via molto lontana e molto indiretta, l’influsso dei mutamenti e delle evoluzioni dei fenomeni sociali», occupandosi del contenitore e non del contenuto. A distanza di un secolo da tale considerazione, invece, ci ritroviamo al centro delle “mobili frontiere” degli istituti processuali, esposti a un tempo di continue riforme e di grande mutamento culturale, sempre più spesso anticipato dalla giurisprudenza (nel nostro caso, quella europea) e talvolta seguito dalla legislazione[2].

Torna allora in mente, a questo proposito, il (diverso) rilievo di Chiovenda secondo cui «fra gli istituti giuridici il processo civile è l’organismo più delicato (…), così i più lievi mutamenti nelle condizioni morali, politiche, sociali del tempo si riflettono nel suo funzionamento»[3].

Il tema su cui desidero brevemente intrattenermi attiene, infatti, agli effetti del diritto e della giurisprudenza europea in materia di tutela del consumatore (i portatori del “mutamento culturale”, per l’appunto) su alcuni istituti processuali nazionali, tra i quali, in primis, il giudicato. In verità, il tema è troppo ampio e complesso per essere trattato in questa sede, cosicché ho ritenuto di affrontare la questione partendo da un problema pratico precisamente definito: la tutela processuale del consumatore secondo il diritto europeo, ovvero come gli istituti processuali nazionali debbano garantire la realizzazione dei diritti “inviolabili” del consumatore di matrice europea.

Tema che, come si vedrà, incide, a monte, sui limiti oggettivi del giudicato rispetto alle “questioni” non dedotte (ma deducibili) nel processo, nonché, a valle, sull’attitudine accertativa dei processi sommari e sui poteri del giudice dell’esecuzione rispetto al diritto del creditore di procedere.

2. Devo innanzitutto fare una premessa a proposito dei limiti oggettivi del giudicato rispetto alle questioni non dedotte nel processo, atteso che, in questi esatti termini, il tema sembra mal posto. Tradizionalmente, infatti, e sulla scorta dell’insegnamento chiovendiano che rinveniva nella sentenza l’atto attributivo di un bene della vita[4], si riteneva che l’accertamento derivante dal giudicato non fosse tecnicamente esteso alle “questioni” (pregiudiziali di rito o preliminari di merito), che sono oggetto del processo ma – con l’unica eccezione delle questioni cd. pregiudiziali di merito aventi ad oggetto un fatto-diritto o rapporto giuridico pregiudiziale di cui venga richiesto l’accertamento con efficacia di giudicato ai sensi dell’art. 34 c.p.c. – non del giudizio inteso come soluzione vincolante della controversia[5]. In altri termini, il giudicato rende definitivo e incontrovertibile l’accertamento contenuto nella sentenza (art. 2909 c.c.), ma tale accertamento verte sul diritto o rapporto controverso e non già sulle singole questioni che hanno condotto il giudice alla decisione[6] (artt. 34 e 187 c.p.c.), anche nel caso in cui la sentenza accerti l’inesistenza del diritto a causa di un determinato fatto impeditivo, modificativo o estintivo[7].

Più correttamente, allora, può affermarsi che il giudicato impediva (e impedisce tuttora) di far valere in un nuovo processo questioni dedotte o deducibili nel precedente processo, quando ciò sia finalizzato a neutralizzare la tutela già ottenuta con sentenza passata in giudicato (efficacia espressa con il noto brocardo secondo cui “il giudicato copre il dedotto e il deducibile”[8]), ovvero ancora impediva (e impedisce tuttora) di riproporre una domanda già rigettata sulla base di un motivo esaminato da un precedente giudicato (cd. vincolo al motivo portante della pronuncia di rigetto, in virtù del principio della “ragione più liquida”).

Da questo punto, però, molta strada è stata percorsa. Almeno dal 2008 (Sez. Un. 9 ottobre 2008, n. 24883), infatti, si discute di “giudicato implicito” (sulla giurisdizione, prima, sulla validità del contratto presupposto, poi), per intendere una capacità del giudicato di estendersi a questioni pregiudiziali o preliminari non espressamente esaminate, ma inevitabilmente oggetto del percorso logico della decisione del giudice. E se ciò, per le questioni pregiudiziali, semplicemente impedisce di sollevare l’eccezione processuale (e dunque di ostacolare l’adozione del provvedimento di merito) una volta che il processo sia andato avanti oltre un certo limite[9], e comunque cessa di avere rilevanza quando venga pronunciata (e passi in giudicato) la sentenza di merito definitiva, per le questioni preliminari si tratta invece di capire se il passaggio in giudicato della sentenza sia in grado di produrre un’efficacia non solo “preclusiva” alla riproposizione delle medesime questioni in diverso, ma connesso processo (ciò che era chiaro già prima), ma anche “accertativa” della questione (cd. effetto positivo e conformativo del giudicato).

Salvi i necessari, e qui impossibili, approfondimenti, la risposta è affermativa: una volta prodottosi tale “giudicato implicito sulle questioni di merito”, esse costituiscono diritto accertato e dunque produttivo di ulteriori effetti (art. 2909 c.c.). Ne è prova la giurisprudenza della Suprema Corte in tema di impugnative negoziali e validità dei contratti presupposti (Sez. Un. 12 dicembre 2014, n. 26242).

E tale predicato è stato esteso, senza particolari strappi, all’esito dei procedimenti sommari “a contraddittorio speciale”, primo fra tutti il decreto ingiuntivo non opposto ai sensi dell’art. 647 c.p.c., per il quale, è ormai cosa nota, la Suprema Corte riconosce una piena equivalenza rispetto alla sentenza passata in giudicato[10] (tra le tante, si vedano Cass. 12 maggio 2021, n. 12671, Cass. 16 dicembre 2020, n. 28829).

C’è, anche se poco visibile, un fil rouge che lega le superiori conclusioni a un rilievo di principio: la rilevanza preclusiva attribuita all’inattività qualificata della parte. In altre parole, dalla lettura della legislazione processuale secondo una prospettiva “dispositiva” si fa discendere un effetto preclusivo, e per certi versi anche accertativo, attribuibile all’inerzia della parte rispetto all’esercizio dei poteri di contestazione processuale (come il mancato rilievo di eccezioni nel corso del processo, la mancata opposizione al decreto ingiuntivo, la mancata contestazione dell’esecuzione forzata etc.). E ciò vale, naturalmente e sopra ogni altra cosa, rispetto al mancato esercizio delle impugnazioni (artt. 323-324 c.p.c.).

La certezza prevale sulla giustizia, anzi: l’ingiustizia non è un parametro applicabile al provvedimento giudiziale emesso all’esito di un valido processo (e passato in giudicato)[11]. Questo, almeno, è quanto l’evoluzione del nostro sistema processuale ha (aveva?[12]) prodotto.

3. Ma da molto tempo, ormai, il principio di autonomia e sovranità normativa sul processo è tenuto a convivere con tutt’altro ordine di regole e principi, quello proprio del diritto europeo (e internazionale), la cui primazia[13] è riconosciuta anche dalla Costituzione (artt. 10 e 117 Cost.). E il diritto europeo ha una sensibilità assai diversa, specie nel senso che non accetta l’assoluto delle categorie (la famosa “roccia non incrinata”, per usare le parole di un noto studioso[14]), soprattutto laddove si tratti di riconoscere pienezza di effetti a peculiari diritti soggettivi, come quelli del consumatore.

In verità, nei trattati manca un’attribuzione di potestà normativa in materia processuale, e ciò è confermato dal frequente riferimento al cd. principio di “autonomia procedurale” degli stati membri[15]. Ma già da tempo, e cioè almeno dagli anni ’70 del secolo scorso[16], pur nel vigore del conclamato principio di autonomia procedurale dei singoli stati membri, la giurisprudenza della Corte di Giustizia, partendo dal dettato dell’art. 19 TUE[17], ha enucleato i noti principi di equivalenza ed effettività, che indirettamente, ma effettivamente, incidono sulle scelte processuali dei singoli stati, sebbene in maniera diversa: se il primo, infatti, impone agli stati membri (e dunque, in via analogica, al giudice nazionale) di riconoscere ai diritti di fonte europea forme e mezzi di tutela almeno equivalenti a quelli previsti per analoghi diritti interni; il secondo, invece, richiede di orientare l’attività interpretativa del giudice nazionale attraverso gli strumenti dell’interpretazione conforme (teleologica e sistematica) e della disapplicazione del diritto interno difforme.

Ne è derivata una decisa “funzionalizzazione” del processo alla tutela effettiva dei diritti riconosciuti dalla normativa europea. Ed è accaduto così che, nel nostro campo, una lunga storia ci abbia condotto a interrogarci sulla tenuta del nostro concetto di giudicato, quando esso diventi stridente rispetto a situazioni di conclamato contrasto rispetto al diritto europeo.

Non è certo necessario riportare la cronistoria di questa evoluzione, di cui mi limito a ricordare, tra tutte, la famosa sentenza della Corte di Giustizia nel caso Lucchini, 18 luglio 2007 (C-119/05), che ha per la prima volta condotto all’affermazione della “cedevolezza” del giudicato interno di fronte alla violazione palese del diritto comunitario, accertata dalla Commissione e perpetrata dai giudici dello stato italiano[18].

Si tratta, tuttavia, di decisioni che sono state giustamente “contestualizzate” rispetto al caso concreto e seguite da una giurisprudenza che ha pienamente confermato il valore del giudicato come garanzia di ordine pubblico funzionale alla certezza del diritto, affermando espressamente il principio per cui «il diritto comunitario non impone ad un giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una decisione, anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione»[19].

4. Il tema è però rimasto sottotraccia in questi anni ed è riemerso prepotentemente in un gruppetto di sentenze del 17 maggio 2022, oggetto, per la loro attitudine servente rispetto a un determinato risultato (quello di tutela elevata dei diritti del consumatore, per l’appunto), di un comunicato della stessa Corte di Lussemburgo, intitolato icasticamente «Clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori: i principi processuali nazionali non possono ostacolare i diritti che i singoli traggono dal diritto dell’Unione»[20].

Prima di affrontarne, seppure per sommi capi, il contenuto, è opportuno riassumere la cornice sistematica entro cui sono maturate le predette pronunce, tutte relative alla tutela del consumatore secondo la Dir. 93/13/CEE[21].

In sintesi, questi i principi fatti propri dalla giurisprudenza europea:

a) è pacifico che, alla luce dello squilibrio esistente tra consumatore e professionista e dell’importanza dell’interesse pubblico su cui si fonda la tutela che la Dir. 93/13 offre ai consumatori, le cui norme sono di rango imperativo[22], il giudice nazionale è tenuto a valutare d’ufficio la natura abusiva di una clausola contrattuale non appena disponga degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine[23], pur se nei limiti dell’oggetto della controversia[24];

b) quando il giudice non disponga del testo del contratto, deve adottare d’ufficio i mezzi istruttori necessari per acquisirlo e, per conseguenza, accertare se alcuna delle clausole ivi inserite rientri nell’ambito di applicazione della Dir. 93/13 e, in caso di risposta positiva, se si tratti di clausola abusiva[25];

c) all’istruzione e al rilievo officiosi devono provvedere tanto il giudice del procedimento a cognizione piena ed esauriente, quanto il giudice del procedimento sommario, laddove il professionista-creditore abbia instaurato, ad es., un procedimento monitorio, a meno che ciò non implichi una supplenza alla totale e colpevole inerzia della parte interessata[26];

d) se il professionista-creditore instaura un procedimento monitorio, il giudice, prima di emettere l’ingiunzione, dovrà valutare ogni clausola contenuta nel negozio da cui il credito vantato deriva, al fine di ponderarne l’eventuale natura abusiva, se del caso chiedendo al creditore di depositare copia del contratto[27];

e) laddove la legislazione nazionale non consenta al giudice di compiere siffatta verifica nella fase sommaria del giudizio monitorio, se il decreto ingiuntivo non è stato opposto dal consumatore e il creditore l’abbia utilizzato per domandare tutela esecutiva, la valutazione ex officio dovrà essere compiuta dal giudice investito dell’esecuzione[28].

È in questa cornice che maturano le Sentenze Ibercaja Banco[29] (C-600/19), Unicaja Banco[30] (C-869/19), Impuls Leasing Romania[31] (C-725/19), oltre a quella SPV Project 1503 (C-693/19) e Banco di Desio e della Brianza (C-831/19). Si è posta molta attenzione (anche per ragioni “campanilistiche”) sull’ultima sentenza emessa nei casi riuniti, ma analoghi principi sono stati sanciti nelle altre tre, anche se con accenti diversi.

La vicenda italiana prende le mosse da un duplice rinvio del giudice dell’esecuzione del Tribunale di Milano.

Nel primo caso (SPV Project 1503, C-693/19), posto di fronte all’esecuzione di un decreto ingiuntivo non opposto su contratti di finanziamento, il giudice meneghino aveva dapprima richiesto alla banca la produzione dei contratti sottostanti e, poi, rilevato d’ufficio che i predetti contratti prevedevano, in caso di ritardo nell’adempimento, l’applicazione di una clausola penale e di un interesse moratorio ritenuti abusivi. Lo stesso invitava pertanto il consumatore a comparire in udienza per manifestare la volontà di avvalersi dell’eccezione di abusività delle clausole, cosa che il consumatore faceva, con l’opposizione del creditore, il quale eccepiva, da una parte, il passaggio in giudicato del decreto ingiuntivo, dall’altra, l’impossibilità di recuperare la valutazione di abusività a fronte dell’inerzia del debitore. Ritenendo tale impossibilità contraria al diritto europeo, il Tribunale rimetteva la questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia.

Nel secondo caso (Banco di Desio e della Brianza, C-831/19), il creditore agiva esecutivamente sui beni di due fideiussori sociali sulla base di decreti ingiuntivi non opposti, ma uno dei fideiussori eccepiva, nel corso dell’esecuzione, la sua natura di consumatore (prima ritenuta non spendibile a causa del vecchio orientamento, poi superato dal provvedimento della Corte di Giustizia 19 novembre 2015, Tarcau, C-74/15, secondo cui la natura di consumatore non era riconoscibile al fideiussore se l’obbligazione principale era di natura societaria) e dunque l’abusività di alcune clausole contenute nei contratti. Anche in tal caso, il creditore eccepiva che il giudice dell’esecuzione non potesse indagare sulla legittimità del titolo giudiziale presupposto, e anche in tal caso il Tribunale decideva di rinviare alla Corte di Giustizia, rappresentando che la normativa nazionale gli impediva di valutare l’intrinseco del titolo esecutivo giudiziale e che la mancata opposizione al decreto ingiuntivo consentiva il passaggio in giudicato anche della statuizione implicita in ordine alla validità delle clausole contrattuali.

In risposta ai quesiti, la Grande Sezione della Corte di Lussemburgo ha così pronunciato: «L’articolo 6, paragrafo 1, e l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale la quale prevede che, qualora un decreto ingiuntivo emesso da un giudice su domanda di un creditore non sia stato oggetto di opposizione proposta dal debitore, il giudice dell’esecuzione non possa – per il motivo che l’autorità di cosa giudicata di tale decreto ingiuntivo copre implicitamente la validità delle clausole del contratto che ne è alla base, escludendo qualsiasi esame della loro validità – successivamente controllare l’eventuale carattere abusivo di tali clausole. La circostanza che, alla data in cui il decreto ingiuntivo è divenuto definitivo, il debitore ignorava di poter essere qualificato come “consumatore” ai sensi di tale direttiva è irrilevante a tale riguardo».

La decisione della Corte Europea è di grande impatto, anche perché, con il suo solito fare pragmatico, con poche dense righe incide su principi consolidati del diritto nazionale, conformando le categorie processuali in funzione dell’obiettivo sostanziale di tutela del consumatore[32]. Si tratta, peraltro, di principi che hanno avuto un immediato effetto nei processi nostrani, come segnalato in una recente nota[33] e testimoniato da un’ulteriore, recentissima pronuncia del Tribunale di Milano[34].

Nella logica di Lussemburgo, il rimedio da riconoscersi deve essere effettivo, a prescindere dagli istituti nazionali considerati, e dunque alla Corte europea non interessa tanto il mezzo adoperato per perseguirlo, anche se la questione, così come prospettata nella sentenza, è stata chiaramente impostata come una discussione sulla (revocabile, nella specie) idoneità preclusiva del giudicato derivante dalla mancata opposizione al decreto ingiuntivo.

In questo senso, come si è detto, un’ulteriore ipotesi da vagliare per preservare il valore del giudicato poteva essere quella di consentire l’opposizione tardiva al decreto ingiuntivo a causa della “decadenza non imputabile”, ovvero una sorta di rimessione in termini[35], oppure ancora ammettere un motivo di revocazione straordinaria del giudicato[36], ma, su questo aspetto, né la legislazione vigente né quella di riforma offrono agio di manovra, posto che l’unica apertura è stata concessa a proposito della conclamata contrarietà alla CEDU, così come accertata dalla Corte di Strasburgo.

Al di là della valutazione di merito sulla decisione europea – che peraltro, come tale, è immediatamente applicabile e vincolante per il nostro ordinamento -, vorrei provare a riflettere su alcune tematiche e conseguenze, anche in ottica di ulteriori sviluppi.

5. I primi commenti hanno evidenziato il rischio di un “superamento del giudicato”, o di un abbattimento delle sue “barriere”, per l’appunto[37]. Si è detto, in sostanza: se la Corte UE autorizza il giudice di una fase processuale successiva a interrogarsi, anche d’ufficio, su una questione (l’abusività della clausola, in particolare) già oggetto del precedente giudizio, allora il giudicato cede.

A mio avviso, però, non di vero e proprio superamento del giudicato si tratta[38], perlomeno non in via diretta (ma su questo aspetto v. ancora infra, a conclusione del paragrafo), ma di una sua delimitazione oggettiva, da un lato, e di un’eccezionale limitazione dell’effetto preclusivo, dall’altro. Non a caso, la giurisprudenza europea non ha mai, almeno direttamente, negato il principio del giudicato, ritenuto attinente all’ordine pubblico processuale. A tal proposito, già con la sentenza Banco Primus, 26 gennaio 2017, C-421/14, la Corte ha dichiarato che il diritto europeo non osta a una norma nazionale che vieta al giudice di riesaminare d’ufficio il carattere abusivo di una clausola contrattuale quando questo esame sia già stato effettuato da una decisione passata in giudicato.

Piuttosto, con le sentenze in commento, il giudice europeo ci ha invitati a non estendere il giudicato alle “questioni implicite”, a quelle cioè non affrontate e pertanto non espressamente decise. Non si tratta, pertanto, di un contrasto tra giudicato nazionale e diritto europeo (poiché, in tal caso, la stessa Corte UE ha affermato che l’eventuale violazione o falsa applicazione del diritto europeo non consente di superare il giudicato: cfr. sentenza EcoSwiss, 1 giugno 1999, C-126/97), ma di impossibilità di estendere il giudicato anche a ciò che “giudicato” non è.

Bisogna ammettere che il giudicato implicito non è mai stato particolarmente apprezzato dalla dottrina processualistica italiana[39], e ciò per i più svariati motivi, dal contrasto con il principio di ragione più liquida all’incoerenza con il principio del contraddittorio sulle questioni rilevate d’ufficio, passando per il confronto con il principio dispositivo e l’irritualità di una decisione senza motivazione[40]. Nessuno degli interpreti, naturalmente, ha mai negato il valore oggettivo del giudicato: quello che si censurava era la possibilità di trarre una decisione definitiva su un tema mai discusso, pur a fronte di disposizioni come gli artt. 101, comma 2 e 183, comma 4, c.p.c., che onerano il giudice a rimettere al contraddittorio le questioni rilevate d’ufficio[41], o l’art. 34 c.p.c., che, a proposito dei fatti-diritti, richiede la domanda di parte o la previsione di legge per l’efficacia di giudicato.

Incidentalmente, la sentenza in commento mi spinge a fare due ulteriori considerazioni.

In primo luogo, la Corte UE ci rammenta che il giudice è, e deve essere, parte attiva del processo, consapevole, cioè, dell’esistenza di poteri officiosi il cui esercizio, o mancato esercizio, ha rilievo sullo svolgimento del processo e sul raggiungimento dello scopo della tutela dei diritti. La rilevabilità officiosa delle eccezioni, allora, non può sussistere come potere meramente astratto, il cui mancato esercizio conduca addirittura all’esito opposto… dell’accertamento irretrattabile sulla questione, pur mai sollevata e mai discussa. Spetta al giudice la responsabilità – non solo astratta, ma – concreta di garantire il contraddittorio sulle questioni (art. 101, comma 2, c.p.c.).

In secondo luogo, mi sembra sia possibile rilevare, in controluce, un movimento contrario rispetto alla traiettoria di “svalutazione” della motivazione cui abbiamo assistito negli ultimi anni. E infatti – ma si erano già avuti dei segni interni con la giurisprudenza sulle impugnative negoziali e la differenza tra “nullità solo rilevata” e “nullità dichiarata in motivazione” o “nel dispositivo”, di cui alle già citate Sez. Un. gemelle nn. 26242 e 26243 del 2012 –, con questa pronuncia si valorizza il rilievo della motivazione non soltanto rispetto alla capacità esplicativa della soluzione assunta (art. 111, comma 6, Cost.), ma anche rispetto alla capacità di determinare e delimitare le questioni effettivamente trattate ai fini della decisione, con una rifluenza diretta sull’effetto preclusivo del giudicato. Il discorso potrebbe farsi molto lungo, poiché il rapporto tra motivazione e giudicato è uno dei temi più controversi del processo civile, ma non posso concedermelo[42].

Tornando al tema centrale, vorrei infine aggiungere che se, come già detto, non credo che le sentenze in commento abbiano negato il valore del giudicato interno, ma che lo abbiano piuttosto conformato in casi particolari, l’orientamento in commento si mostra invece dirompente, a mio avviso, nella parte in cui di fatto ammette la privazione anche dell’efficacia preclusiva rispetto alle questioni non dedotte (e pertanto non oggetto della motivazione del giudice) ma deducibili nel processo: la Corte UE, infatti, fa arretrare il divieto di nuova valutazione del fatto già deducibile e contrario a sentenza già passata in giudicato, laddove l’esigenza alla base sia quella di garantire l’effettività della tutela del consumatore.

Con ciò, la Corte di Lussemburgo incide su un profilo di irretrattabilità del decisum sinora assodato, lasciando aperta la strada a una sorta di “revisione” indiretta del giudicato per motivi di contrarietà a norme imperative che sanciscano regole di tutela effettiva del consumatore[43]. A tal proposito, pertanto, e tornando a quanto anticipato ad inizio paragrafo, se è vero che la Corte non tocca direttamente il giudicato, è altrettanto vero che, consentendo la deduzione successiva (e nel corso di ulteriori fasi dello stesso giudizio, siano esse di opposizione, impugnazione etc.) di una questione impeditiva, modificativa o estintiva che non era stata effettivamente dedotta nel precedente grado o nella precedente fase di giudizio, e dunque limitando l’operatività della preclusione da giudicato, il supremo giudice europeo apre alla possibilità di rimuovere il giudicato già prodottosi.

Non si tratta, dunque, di svalutare il giudicato, ma di consentire una “riapertura” del giudizio in ragione di una questione non preclusa perché non dedotta nel precedente giudizio e attinente alla effettività della tutela del consumatore. A questo fine, peraltro, la spendibilità della questione non dovrebbe essere limitata all’opposizione o impugnazione del provvedimento, potendo anche immaginarsi una sorta di actio nullitatis o comunque un nuovo processo avente ad oggetto il diritto “già giudicato” e la richiesta di una nuova pronuncia che tenga in considerazione il fatto prima non dedotto (naturalmente, anche se già esistente e non sopravvenuto).

6. Il secondo tema, solo indirettamente affrontato, è quello dell’idoneità dei procedimenti sommari a costituire fonte di giudicato.

In un passaggio della sentenza si legge che «una normativa nazionale secondo la quale un esame d’ufficio del carattere abusivo delle clausole contrattuali si considera avvenuto e coperto dall’autorità di cosa giudicata anche in assenza di qualsiasi motivazione in tal senso contenuta in un atto quale un decreto ingiuntivo può … privare del suo contenuto l’obbligo incombente al giudice nazionale di procedere a un esame d’ufficio dell’eventuale carattere abusivo delle clausole contrattuali» (corsivo mio). E, d’altra parte, il tema dell’idoneità accertativa dei procedimenti sommari era già stato affrontato in altre pronunce europee, seppur relative ad altri ordinamenti (si v. in particolare la sentenza nel caso Finmadrid, 18 febbraio 2016, C-49/14).

Il riferimento alla “adeguatezza” della tutela getta luce sull’effettivo terreno di discussione, che non è il giudicato tout court, ma il giudicato che proviene dai cd. accertamenti sommari[44], dove il peculiare svolgimento del processo (a cognizione parziale e contraddittorio differito) e l’estrema sinteticità della motivazione (solitamente limitata alla valutazione della sussistenza di una prova scritta e dell’esistenza dei presupposti processuali) non consentono di ritenere automaticamente preclusa ogni questione non affrontata.

Dalla pronuncia in questione sembra allora derivare un monito a non estendere la potenzialità accertativa di strumenti processuali, quali il decreto ingiuntivo, che non sono pensati per accertare ma piuttosto per eseguire. È vero però che, nel diritto italiano, anche nel procedimento monitorio il giudice svolge una funzione cognitiva, seppur parziale quanto al suo oggetto, ma potenzialmente estensibile in via piena ed esaustiva per il tramite dell’opposizione del debitore, secondo il meccanismo del cd. contraddittorio differito, tale da non potersi negare, a monte, la sussistenza di un potere accertativo del giudice (che deve infatti valutare l’esistenza dei requisiti, tra cui il credito derivante da prova qualificata, e può anche richiedere integrazioni istruttorie ai sensi dell’art. 640, comma 1, c.p.c., in caso di ritenuta insufficienza della prova), sicché pare ampiamente possibile discutere di giudicato anche per tali processi sommari.

I problemi, comunque, vanno oltre l’astratta affermazione: basti pensare, da una parte, all’inidoneità di un accertamento sommario e parziale rispetto a questioni volutamente non dichiarate dallo stesso creditore o non emergenti ex actis, o comunque a questioni che richiedano necessariamente una cognizione piena (nel qual caso, alla luce dell’orientamento europeo, si potrebbe pensare che non è nemmeno percorribile, e dunque ammissibile, la via monitoria); dall’altra parte, alla delicatezza della posizione del giudice, il quale dovrà decidere se, stante il dubbio sull’abusività, anche solo potenziale, di una o più delle clausole contrattuali, ricostruita sulla base di un’istruttoria unilaterale, egli debba emettere o rifiutare il decreto ingiuntivo, pur in presenza di una prova scritta offerta dal creditore[45].

7. Se quanto detto, nel caso del decreto ingiuntivo, non fa altro che rivitalizzare la vecchia tesi redentiana della preclusio pro iudicato[46], rimane il grande interrogativo relativo alla capacità di tenuta del giudicato emanato a conclusione di un procedimento ordinario, dove però non si sia espressamente discusso della validità delle clausole contrattuali.

È vero, infatti, che la decisione europea verte principalmente sul tema dell’efficacia accertativa dei processi sommari, ma è altrettanto vero che la discussione è svolta non già attraverso il criterio dell’astratta capacità cognitiva (che infatti, come detto, può e deve riconoscersi anche al giudice del monitorio), bensì attraverso il prisma della motivazione, che deve essere espressa (e addirittura suggerire al consumatore i potenziali rimedi), come se solo la esplicitezza e sufficienza della motivazione consentissero la tenuta del giudicato rispetto all’effetto (almeno) preclusivo, non essendo invece possibile giustificare, di per sé, la preclusione sul deducibile ma non dedotto. In questo senso, portando ad consequentiam le parole della Corte di Giustizia, si potrebbe dire che non rileva tanto la “qualità” della cognizione (se sommaria o piena), quanto la completezza della motivazione, che dovrebbe poggiare su un’effettiva discussione della questione tra le parti[47].

La richiesta del Procuratore Generale della Corte di cassazione del 5 luglio 2022 rappresenta, a tal riguardo, un evidente tentativo di adattamento, nella misura in cui ammette la preclusione da giudicato anche rispetto alle clausole abusive a patto, però, che il giudice dichiari di avere officiosamente esaminato il contratto e che il debitore, preventivamente ed espressamente informato sul punto, non abbia opposto il decreto ingiuntivo. Si mantiene, dunque, l’auspicio di preservare la tenuta stagna del giudicato, seppure con il corollario di un sindacato effettivo sull’abusività delle clausole, di cui deve altresì darsi atto nella motivazione (si potrebbe però dire, completezza della motivazione a prescindere dall’effettiva qualità della cognizione), e mancando il quale il consumatore può sempre opporre l’abusività predetta e il giudice della fase successiva può sollevare d’ufficio la questione.

Mi chiedo allora se un’impostazione analoga possa (debba?) adottarsi rispetto al processo ordinario. Mi chiedo, cioè, se si possa o debba abbandonare la cd. preclusione del dedotto e del deducibile, in favore di un limite derivante dal solo dedotto, e perciò discusso e motivato, anche rispetto ai processi ordinari, dove pure la cognizione è piena.

A primo impatto, la logica porterebbe a dire di sì, perché non sarebbe ragionevole trattare diversamente situazioni analoghe. E tuttavia, le situazioni non mi paiono analoghe: a differenza di quanto si verifica nel procedimento monitorio, dove il contraddittorio è parziale e differito, oltreché rimesso a un’iniziativa onerosa della parte intimata, nel processo ordinario il contraddittorio è pieno e immediato, e il convenuto ha piene e immediate potenzialità difensive, oltre che oneri di contestazione ed eccezione (art. 167 c.p.c.). In questo senso, anche la giurisprudenza della Corte di Lussemburgo ha più volte valorizzato (e stigmatizzato) il profilo dell’atteggiamento (che deve essere responsabile) del convenuto, che pur potendo sollecitare la verifica delle questioni pregiudiziali, abbia deliberatamente scelto di rimanere inerte lungo tutto il corso del processo (Asturcom Telecomunicaciones SL, 6 ottobre 2009, C-40/08).

Non sembra che si possa arrivare a tanto, allora[48]. Segnalo però che, nella direzione sopra proposta, non si deve sottovalutare la contestuale sentenza nel caso Unicaja Banco, laddove la Corte ha addirittura legittimato il sollevamento “d’ufficio” di un motivo di impugnazione, meglio, di una questione di nullità fondata sull’abusività della clausola, anche quando la parte soccombente non abbia impugnato il relativo punto (anzi, nel caso di specie, non abbia impugnato la sentenza, appellata solo dall’altra parte), così superandosi apertamente, addirittura, anche il limite del giudicato parziale segnato dalla regola dell’acquiescenza (art. 329, comma 2, c.p.c.), noto anche all’ordinamento spagnolo (art. 465, paragrafo 5, Ley 1/2000 de Enjuiciamiento Civil).

Su tale ultimo aspetto, infatti, le conclusioni raggiunte vanno ben oltre quelle già condivise dai giudici nostrani, per le quali rammento che con le famose (e già citate) sentenze gemelle del dicembre 2014, la Suprema Corte aveva ammesso la rilevabilità officiosa anche in appello di un profilo di nullità solo ove non sollevato dalle parti e non rilevato d’ufficio in primo grado, e pertanto non oggetto di decisione in prime cure[49].

Ciò, naturalmente, presuppone che la questione di cui discutiamo possa essere equiparata alla questione di nullità, e dunque oggetto di rilievo officioso. A tal proposito, ritengo che, se l’abusività della clausola non determina l’invalidità del contratto ai sensi dell’art. 1418 c.c., essa tuttavia comporta una forma di nullità della sola clausola vessatoria, salvo il contratto per il resto (cfr. art. 36 cod. cons.). Si tratta pur sempre, dunque, di una questione relativa alla nullità, rilevabile anche d’ufficio ai sensi della normativa consumeristica, sebbene solo nell’interesse del consumatore. Una rilevabilità officiosa che però, stando alla Corte UE, sopravvivrebbe adesso anche al giudicato (salvo il caso in cui la motivazione del relativo provvedimento sia stata esplicita e sia invece mancata l’impugnazione della pronuncia che abbia, in questi termini, appurato l’inesistenza di clausole vessatorie).

8. Una volta riconosciuta la necessità di “derogare” alla regola del giudicato implicito, meglio, della preclusione del deducibile sulla questione inerente all’abusività della clausola vessatoria, si impone, a mio avviso, una riflessione sul trattamento da riservare a tutti i casi consimili, ovvero a tutte quelle fattispecie caratterizzate da un’analoga asimmetria economica o di potere contrattuale (penso, in primo luogo, al rapporto di lavoro), o a tutte quelle ipotesi in cui il mancato esame del giudice sia relativo ad altre norme imperative o di ordine pubblico, finalizzate a garantire un’elevata tutela per una parte del rapporto, situazioni per le quali si impone una riflessione sui rapporti tra specialità e uguaglianza, al fine di evitare disparità di trattamento.

E ciò, è importante sottolinearlo, deve a mio avviso valere non soltanto per i regimi di tutela disciplinati dalle fonti europee, ma anche, in una sorta di applicazione “inversa” del principio di equivalenza della tutela, anche per le situazioni giuridiche similari regolate da fonti interne, non fosse altro che per il criterio della cd. analogia legis. Non è, infatti, sconosciuta, anche dal diritto italiano, la tecnica dell’adozione di regole processuali differenti (speciali) per situazioni regolate in maniera particolare e “rafforzata” dal diritto sostanziale, spesso con radicamento nel tessuto dei diritti costituzionalmente garantiti (e si pensi, ancora una volta, al processo del lavoro).

Mi chiedo allora se, dopo le sentenze in commento e sulla base dei principi di equivalenza ed effettività, non si debba, da una parte, estendere questo meccanismo a tutte le consimili situazioni di matrice europea, che parimenti siano destinatarie di regole positive di particolari obblighi o divieti (si pensi alle regole in tema di concorrenza, di discriminazioni di genere, alle ulteriori forme di nullità di protezione etc.[50]), dall’altra parte, applicare il principio di equivalenza (ed uguaglianza) a parti inverse, estendendo (o applicando analogicamente) la regola a tutti i casi (pur disciplinati da norme interne) in cui risulti precluso l’esame di una questione, deducibile ma non dedotta, relativa a norme imperative o di ordine pubblico che impongano standard di elevata tutela per particolari soggetti del rapporto giuridico.

È lecito immaginare che, nell’immediato, assisteremo allo svilupparsi di tendenze contrapposte, l’una fondata sulla tutela dei confini tradizionalmente tracciati e della tenuta stabile degli effetti delle decisioni passate in giudicato, a scapito della deducibilità di questioni già esistenti ma non fatte valere, l’altra propositiva di una dimensione processuale in cui la certezza del giudicato debba coordinarsi all’esigenza di giustizia sostanziale della decisione, al punto da spingere per l’equiparazione e l’allargamento verso altre eccezioni sostanziali o processuali ritenute non precluse e, allo stesso tempo, di fondamentale importanza per garantire una tutela effettiva dei diritti delle parti in contesa.

9. Infine, è senz’altro da rilevare l’incidenza di questo orientamento sui poteri del giudice dell’esecuzione.

L’attenzione preferenziale al risultato, whatever it takes, tipica della Corte di Giustizia ha, infatti, condotto la stessa fino al punto di – non tanto consentire, quanto – addirittura obbligare il giudice dell’esecuzione a interrogarsi sulla liceità dell’atto presupposto al titolo esecutivo e, dunque, di compiere un rilievo officioso dell’abusività della clausola, non potendo al contempo dichiararla, ma rimettendo al debitore la scelta del rimedio da esercitare, previo “suggerimento” da parte dello stesso magistrato[51].

L’altro, importante tema, che si pone in controluce rispetto a quello principale, è infatti quello dei poteri del giudice del processo esecutivo di fronte al titolo di cui all’art. 474 c.p.c., tema sul quale, invece, la normativa interna, così come la giurisprudenza, non sono mai state chiarissime[52]. Non è questa la sede per un’adeguata digressione, che sintetizzo in questi termini[53]: il processo esecutivo è esercizio di attività giurisdizionale, e il giudice esecutivo è, per l’appunto, un giudice, con tutto ciò che ne deriva in ordine ai poteri nella direzione e conduzione del processo (art. 484 c.p.c.). Ad esso spettano, però, poteri esecutivi e non dichiarativi, poteri di direzione, compimento e ordine di atti esecutivi, nonché di “controllo” dei medesimi in sede di revoca o modifica (art. 487 c.p.c.). Pur nella comunanza di funzione generale (che è la tutela giurisdizionale dei diritti), la funzione specifica e, per conseguenza, la struttura formale dei due processi (esecutivo e cognitivo) è dunque radicalmente differente.

È vero, come si è sempre detto, che il giudice dell’esecuzione è titolare dell’ineliminabile potere di valutare la sussistenza dei presupposti del processo e delle condizioni dell’azione (principio cd. della Kompetenz-kompetenz), tra cui, in particolare, il titolo esecutivo. Si è parimenti tradizionalmente sostenuto, però, che al giudice dell’esecuzione sia preclusa la valutazione del cd. intrinseco del titolo, di quello, cioè, che riguarda il diritto e non il documento “titolo esecutivo” formalmente inteso. Di ciò – ne sono ancora convinto, nonostante le ultime evoluzioni sul punto[54] – sono chiari indici la differenza strutturale nello svolgimento del processo, l’esistenza di apposite parentesi cognitive (le opposizioni esecutive) e l’assenza di contraddittorio sul “merito”, di cui è corollario l’impossibilità per il giudice dell’esecuzione di pronunciare provvedimenti cognitivo-accertativi (e pertanto “decisori” e “definitivi”) sul diritto. In altre parole, mentre il giudice della cognizione accerta per dichiarare, il giudice dell’esecuzione accerta per procedere[55].

Si è sempre sostenuto, allora, che la “cognizione” del giudice dell’esecuzione non possa mai (almeno non direttamente) riguardare «le circostanze aventi carattere costitutivo, modificativo od estintivo del credito per la cui realizzazione si svolge il processo di esecuzione»[56], le quali sono rimesse alle opposizioni, il cui esercizio è prerogativa della parte.

Con la sentenza in commento, invece, si apre espressamente alla figura di un giudice dell’esecuzione accertatore, che può addirittura – e, si badi bene, anche al di fuori dell’opposizione del debitore – rilevare d’ufficio eccezioni di abusività delle clausole, o quantomeno suggerire al debitore di eccepirle. Un giudice protagonista, dunque, ancora imparziale, ma non neutrale[57].

Anche in questo caso, bisogna intendersi sul principio: nulla quaestio, a mio avviso, sull’idea di un giudice dell’esecuzione che “sollevi” la questione per rimetterla al contraddittorio delle parti, ma ciò potrebbe avvenire per le sole questioni che egli può valutare (presupposti processuali, condizioni dell’azione, titolo, esecutività) e, comunque, senza la possibilità di “dichiarare”, che spetta, nel nostro sistema, al solo giudice della cognizione (e dunque dell’opposizione)[58]. Già si (ripro)pone in dottrina, infatti, il problema di individuare il mezzo di tutela esperibile avverso il rilievo officioso, da parte del giudice dell’esecuzione, dell’abusività della clausola presupposta[59], che impinge sul diritto a procedere ad esecuzione forzata.

D’altro canto, sono consapevole della circostanza che si stia diffondendo sempre più, in verità, un modello diverso, di giudice indagatore e anche accertatore, che, anche nel compimento degli atti squisitamente esecutivi, può rilevare d’ufficio il pagamento del debito, l’estinzione del credito, la sospensione dell’efficacia del titolo[60]; la pronuncia della Corte di Lussemburgo sicuramente esalterà questa tendenza.

10. Concludo questa riflessione rilevando che, se non va certamente esclusa l’incidenza dei valori culturali e sociali sulle strutture processuali, e che, anzi, tale incidenza può garantire una piena corrispondenza e il costante adeguamento degli istituti formali ai valori che uniscono una data comunità civile[61], tale incidenza va, tuttavia, iscritta armoniosamente nel sistema, come evoluzione ordinata e non (sempre che si voglia rispettare la regola della separazione dei poteri) come rivoluzione “caotica” della giurisprudenza, e ciò può avvenire unicamente nel contesto di regole processuali chiare, prevedibili e universali[62].

Assistiamo talvolta all’introduzione di regole processuali “eccezionali”, che piovono dall’alto in maniera occasionale. Ciò può essere visto come un’opportunità, perché ci obbliga a sistematizzare l’esigenza maturata, a iscriverla nel sistema e a renderla equa e prevedibile, se non vogliamo ritrovarci in un sistema in cui, al fine di perseguire un certo concetto, culturalmente orientato, di giustizia sostanziale, si autorizza l’ingiustizia processuale, e cioè il superamento delle regole fondamentali che disciplinano il gioco del processo, a tutto discapito delle parti.

[1] Il testo del presente contributo riproduce il contenuto, parzialmente rivisto e arricchito con alcune essenziali note bibliografiche, del mio intervento al seminario su “Il processo civile tra riforma e giurisprudenza europea”, organizzato dalla Camera Civile di Patti e tenutosi presso l’Aula Magna del Tribunale di Patti il 2 dicembre 2022.

[2] Riguardo all’oggetto di questo piccolo contributo, non vi sono previsioni di particolare rilievo, ma è opportuno segnalare, da una parte, le nuove ordinanze “sommarie” di accoglimento (art. 183 ter c.p.c.) e rigetto (art. 183 quater c.p.c.) della domanda, introdotte con il d.lgs. n. 149 del 2022, che testimoniano una sorta di disinteresse verso il giudicato, in favore dell’efficacia immediatamente esecutiva dei provvedimenti giudiziali; dall’altra parte, l’istituto della «Revocazione per contrarietà alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo» (art. 391 quater c.p.c.), che (finalmente) sancisce la possibilità di revocare una sentenza passata in giudicato nell’ordinamento interno quando il suo contenuto sia stato dichiarato contrario alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo dalla Corte di Strasburgo.

[3] G. Chiovenda, Principii di diritto processuale civile. Le azioni. Il processo di cognizione, Napoli, 1965, 131.

[4] G. Chiovenda, op. cit., 906.

[5] Con la conseguenza che la risoluzione di una questione in un dato senso non vincola il giudice di una causa avente a oggetto un diverso diritto soggettivo, salva l’intangibilità del precedente giudicato, a differenza di quanto invece accade negli ordinamenti di Common Law con il cd. collateral estoppel, la cui applicabilità è stata tradizionalmente esclusa in Italia (a tal proposito, v. M. Cappelletti-J.M. Perillo, Civil procedure in Italy, The Hague, 1965, 254). Il tema è naturalmente assai complesso, per cui faccio rinvio a G. Pugliese, voce Giudicato (dir. civ.), in Enc. dir., XVIII, Milano, 1969, 737 e segg., 871 e segg., nonché, anche per ulteriori indicazioni, al recente studio di M. Gradi, Il contrasto teorico fra giudicati, Bari, 2020, spec. 88 e segg., 353 e segg.

[6] S. Menchini, voce Regiudicata civile, in Dig. disc. priv., sez. civ., Torino, 1997, § 5, chiarisce che “la preclusione deve essere distinta, sotto il profilo degli effetti, dal giudicato materiale, in quanto essa non si risolve in un vincolo positivo, che colpisce direttamente la questione, impedendone comunque il riesame, ma ha valenza soltanto negativa ed indiretta, poiché investe gli elementi della fattispecie decisa in via mediata, al fine di garantire al vincitore il godimento del risultato del processo”. Già così, G. Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1935, I, 341.

[7] Con la precisazione che viene comunemente riconosciuta un’efficacia esterna di tipo cd. panprocessuale alle sentenze definitive (o non definitive poi seguite da estinzione del procedimento) su questioni, non coincidente, però, con l’accertamento definitivo e irretrattabile di un rapporto giuridico ai sensi dell’art. 2909 c.c., ma unicamente vincolante le parti e i giudici del futuro processo in cui fosse riproposta la medesima azione non esaurita con il precedente giudicato. Sulla questione, v. S. Menchini, op. cit., § 7.

[8] Rileva G. Pugliese, op. cit., 864, che “il principio che il giudicato copre il dedotto e il deducibile è la logica conseguenza della natura del giudicato come concreta determinazione delle reciproche situazioni giuridiche delle parti riguardo all’interesse in contesa, e non come mera operazione conoscitiva, sia pure vincolante, circa la fondatezza o no di date ragioni e argomentazioni o circa il valore persuasivo o no di date prove. Stabilita in concreto la relazione giuridica tra le parti circa l’interesse dato, con quel petitum e quella causa petendi, è irrilevante che a tale risultato si sia giunti accogliendo o respingendo questa o quella ragione o argomentazione, prestando o negando fede a questa o quella prova”. Analogamente, S. Menchini, op. cit., § 5, afferma che “il giudicato impedisce, cioè, non soltanto di proporre di nuovo le questioni già sottoposte all’attenzione del primo giudice, ma anche di sollevare per la prima volta quelle questioni che non siano state fatte valere in precedenza, le quali, però, in quanto ricomprese nell’ambito oggettivo del procedimento anteriore, erano prospettabili all’interno di esso”.

[9] Questione in parte diversa, invece, è quella relativa alla capacità di costituire giudicato “esterno” delle pronunce definitive su questioni processuali (che abbiano perciò espressamente accertato l’inesistenza di un presupposto processuale o di una condizione dell’azione), solitamente esclusa in dottrina, ma sostenuta da alcuni illustri autori, pur se, normalmente, nella forma della cd. efficacia pan-processuale (ricordo, tra questi, la posizione di F.P. Luiso, Diritto processuale civile, I, Milano, 2011, 194 e segg.). Sulla questione, v. G. Pugliese, op. cit., 839 e segg., il quale peraltro sostiene che “anche le sentenze di contenuto processuale possano, salvo le eccezioni introdotte da precise norme, passare in giudicato e avere la normale autorità stabilita dall’art. 2909” (ivi, 845); contra, S. Menchini, op. cit., § 7.

[10] Lo ricorda anche P. Bertollini, Procedimento monitorio, decreto ingiuntivo non opposto e tutela del consumatore: considerazioni a margine di due interessanti pronunce della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, in Rivistapactum.it, 10/2022; per ulteriori approfondimenti a commento delle pronunce della Corte UE, v. F. Troncone, Decreto ingiuntivo non opposto: la Corte UE amplia il sindacato del giudice dell’esecuzione, in Altalex.com, 8 giugno 2022.

[11] A tal riguardo, tra i primi, si può ricordare la peculiare posizione di S. Satta, Commentario al codice di procedura civile, I, Milano, 1959, 16 e segg., III, 1965, 63 e segg., sicuramente indirizzata dalla sua concezione della sentenza come “atto di determinazione del concreto” e debitrice, per certi aspetti, delle posizioni di una parte della dottrina germanica (tra cui, soprattutto, Bülow e Binder); ma anche quella di E.T. Liebman, Ancora sulla sentenza e sulla cosa giudicata, in Riv. dir. proc. civ., 1936, 144; U. Rocco, L’autorità della cosa giudicata e i suoi limiti soggettivi, I, Roma, 1917, 39 e segg., 373 e segg.; P. Calamandrei, Istituzioni di diritto processuale civile secondo il nuovo codice, I, Padova, 1941, 125; F. Carnelutti, Diritto e processo, Napoli, 1958, 271. Il concetto è più modernamente espresso da S. Menchini, op. cit., § 4, con l’affermazione che “non vi è, infatti, una verità reale ed una formale, in quanto, per l’ordinamento, dopo la formazione del giudicato, esiste una sola verità, ossia quella risultante dall’accertamento incontrovertibile”.

[12] In questa sede non posso fare ulteriori considerazioni generali, ma è opportuno osservare che il rigido rapporto di prevalenza della certezza sulla giustizia inizia ad essere rivisto, data l’insofferenza di un’autorevole e recente dottrina rispetto alla tolleranza (e addirittura alla legittimazione) del giudicato “ingiusto” in casi peculiari, che possano essere risolti diversamente con il conforto delle norme già esistenti. A tal riguardo, faccio rinvio ai recenti studi di M. Gradi, tra l’altro espressi in Cosa giudicata incostituzionale, in Riv. dir. proc., 2022, 1190 e segg., nonché, più in generale, in Il contrasto teorico fra giudicati, cit., passim.

[13] Sulla cui centralità, con il conseguente “obbligo” di dialogare tra corti interne e corti europee, nel rispetto delle prerogative della Corte di giustizia rispetto all’interpretazione del diritto comunitario, è tornata anche di recente la Corte costituzionale con la sentenza n. 67 dell’11 marzo 2022, su cui v. A.O. Cozzi, Per un elogio del primato, con uno sguardo lontano, in Consulta online, 2022, 410 e segg.

[14] L. Lanfranchi, La roccia non incrinata. Garanzia costituzionale del processo civile e tutela dei diritti, Giappichelli, Torino, 2011.

[15] Salva l’applicazione del principio di leale cooperazione (art. 4 TUE), infatti, la disciplina degli strumenti processuali interni è di competenza degli Stati membri; P. Biavati, Le categorie del processo civile alla luce del diritto europeo, in Riv. trim. dir. proc., IV, 2018, 1323 e segg.

[16] Tra le prime, come ricordato da G. Fiengo, Il ruolo del giudice alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia, in Aa.Vv., Consumatore e procedimento monitorio nel prisma del diritto europeo, a cura di S. Caporusso ed E. D’Alessandro, in Giur. it. 2022, 526, si segnala la pronuncia nel caso Rewe-Zentralfinanz eG, 16 dicembre 1976, C-33/76.

[17] In particolare, nella parte in cui prevede che «Gli Stati membri stabiliscono i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizio­nale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione».

[18] Sul tema, per tutti, rinvio a P. Biavati, La sentenza Lucchini: il giudicato nazionale cede al diritto comunitario, in Rass. trib., 2007, 1579 e segg., e C. Consolo, Il primato del diritto comunitario può spingersi fino ad intaccare la “ferrea” forza del giudicato sostanziale?, in Corr. giur. 2007, 1189, nonché Id., La sentenza “Lucchini” alla Corte di giustizia: quale possibile adattamento degli ordinamenti processuali interni e in specie del nostro?, in Riv. dir. proc., 2008, 225 e segg.; più in generale, si v. la ricostruzione di R. Caponi, Corti europee e giudicati nazionali, Relazione al XXVII Congresso nazionale dell’Associazione italiana fra gli studiosi del processo civile, Verona, 25-26 settembre 2009. Si v. altresì la sentenza nel caso Kobler, CGUE 30 settembre 2003, C-224/01, per l’affermazione della salvezza del giudicato, ma della responsabilità dello stato per la violazione del diritto europeo commessa dal giudice di ultima istanza.

[19] Sentenza Kapferer, CGUE 16 marzo 2006, C-234/04; sentenza Olimpiclub, CGUE 3 settembre 2009, C-2/08.

[20] Disponibile al link https://curia.europa.eu/jcms/upload/docs/application/pdf/2022-05/cp220085it.pdf.

[21] Sul tema, v. E. D’Alessandro, Una proposta per ricondurre a sistema le conclusioni dell’avv. gen. Tanchev, in Aa.Vv., Consumatore e procedimento, cit., 541; della stessa A. si v., dopo le pronunce in commento, Il decreto ingiuntivo non opposto emesso nei confronti del consumatore dopo Corte di giustizia, grande sezione, 17 maggio 2022 (cause riunite C-693/19 e C-831/19, causa C-725/19, causa C-600/19 e causa C-869/19): in attesa delle Sezioni Unite, in Judicium.it, 2 novembre 2022.

[22] CGUE 6 ottobre 2009, Asturcom Telecomunicaciones SL, C-40/08.

[23] CGUE 4 giugno 2009, Pannon GSM, C-243/08, confermata da CGUE 11 marzo 2020, Lintner, C-511/17 e CGUE 4 giugno 2020, Kancelaria Medius, C-495/19.

[24] Esplicita in tal senso la sentenza Lintner, cit.

[25] CGUE 9 novembre 2010, VB Penzugyi Lızing, C-137/08; CGUE 7 novembre 2019, Profi Credit Polska, C-419/18 e C-483/18; nonché sentenza Lintner, cit.

[26] CGUE 6 ottobre 2009, Asturcom Telecomunicaciones SL, C-40/08.

[27] CGUE 19 dicembre 2019, Bondora, C-453/18.

[28] CGUE 18 febbraio 2016, Finmadrid, C-49/14.

[29] «L’articolo 6, paragrafo 1, e l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, devono essere interpretati nel senso che essi ostano a una normativa nazionale che, a causa degli effetti dell’autorità di cosa giudicata e della decadenza, non consente né al giudice di esaminare d’ufficio il carattere abusivo di clausole contrattuali nell’ambito del procedimento di esecuzione ipotecaria, né al consumatore, dopo la scadenza del termine per proporre opposizione, di far valere il carattere abusivo di tali clausole nel procedimento in parola o in un successivo procedimento dichiarativo, quando dette clausole siano già state oggetto, al momento dell’avvio del procedimento di esecuzione ipotecaria, di un esame d’ufficio da parte del giudice quanto al loro eventuale carattere abusivo, ma la decisione giurisdizionale che autorizza l’esecuzione ipotecaria non comporti alcun punto della motivazione, nemmeno sommario, che dia atto della sussistenza dell’esame in parola né indichi che la valutazione effettuata dal giudice di cui trattasi in esito a tale esame non potrà più essere rimessa in discussione in assenza di opposizione nel termine citato. L’articolo 6, paragrafo 1, e l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13 devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa nazionale che non autorizza un organo giurisdizionale nazionale, che agisce d’ufficio o su domanda del consumatore, a esaminare l’eventuale carattere abusivo di clausole contrattuali quando la garanzia ipotecaria sia stata escussa, il bene ipotecato sia stato venduto e i diritti di proprietà relativi a tale bene siano stati trasferiti a un terzo, purché il consumatore il cui bene è stato oggetto di un procedimento di esecuzione ipotecaria possa far valere i suoi diritti in un procedimento successivo, al fine di ottenere il risarcimento, ai sensi della direttiva in parola, delle conseguenze economiche risultanti dall’applicazione di clausole abusive».

[30] «L’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, deve essere interpretato nel senso che esso osta all’applicazione di principi del procedimento giurisdizionale nazionale, in forza dei quali il giudice nazionale, adito in appello avverso una sentenza che limita nel tempo la restituzione delle somme indebitamente corrisposte dal consumatore in base a una clausola dichiarata abusiva, non può sollevare d’ufficio un motivo relativo alla violazione della disposizione in parola e disporre la restituzione integrale di dette somme, laddove la mancata contestazione di tale limitazione nel tempo da parte del consumatore interessato non possa essere imputata a una completa passività di quest’ultimo».

[31] «L’articolo 6, paragrafo 1, e l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, devono essere interpretati nel senso che essi ostano a una normativa nazionale che non consente al giudice dell’esecuzione di un credito, investito di un’opposizione a tale esecuzione, di valutare, d’ufficio o su domanda del consumatore, il carattere abusivo delle clausole di un contratto stipulato tra un consumatore e un professionista che costituisce titolo esecutivo, dal momento che il giudice di merito, che può essere investito di un’azione distinta di diritto comune al fine di fare esaminare il carattere eventualmente abusivo delle clausole di un siffatto contratto, può sospendere il procedimento di esecuzione fino a che si pronunci sul merito solo dietro versamento di una cauzione di un’entità che è idonea a scoraggiare il consumatore dall’introdurre e dal mantenere un siffatto ricorso».

[32] Afferma F. De Stefano, La Corte di Giustizia sceglie tra tutela del consumatore e certezza del diritto. Riflessione sulle sentenze del 17 maggio 2022 della Grande Camera della CGUE, in Giustiziainsieme.it, 27 settembre 2022, che “le quattro sentenze del 17 maggio o2022 impattano in modo dirompente su consolidati principi”.

[33] S. Caporusso, Decreto ingiuntivo non opposto e protezione del consumatore: la certezza arretra di fronte all’effettività, in Giur. it. 2022, 2113 e segg., ove vengono riportati, per estratto, il provvedimento di merito di Trib. Napoli, 4 giugno 2022, che, pur dichiarando l’inammissibilità dei vari (e preclusi) motivi di opposizione all’esecuzione fatti valere dal consumatore, ha rilevato d’ufficio l’abusività di una clausola vessatoria non segnalata dal consumatore e aperto le porte del giudizio di merito dell’opposizione, nonché la richiesta del sostituto P.G. della Corte di Cassazione, dott. Nardecchia, rassegnata dinanzi a Cass. civ., sez. III, 5 luglio 2022, avente ad oggetto la pronuncia nell’interesse della legge ex art. 363 c.p.c. di un principio di diritto che fissi l’obbligo del giudice del monitorio di dichiarare di avere esaminato d’ufficio le clausole del contratto prodotto e di avere sommariamente escluso l’esistenza di clausole abusive, informando anche il debitore che, in assenza di opposizione, egli decadrà dalla possibilità di far valere l’abusività delle clausole.

[34] Si tratta di Trib. Milano, 9 gennaio 2023, che, pur rilevando l’inammissibilità (“improcedibilità”, vi si legge) di un’opposizione tardiva a decreto ingiuntivo, si è spinta a valutare, sulla scorta dell’orientamento europeo, la vessatorietà della clausola di deroga alla competenza contenuta nel contratto del consumatore, ritenendola illegittima e pronunciando sulla stessa, a fronte dell’assenza, nella motivazione del provvedimento monitorio, di un riferimento all’esistenza o inesistenza di clausole abusive.

[35] Così, ad es., si era espresso A. Carratta, Introduzione. L’ingiuntivo europeo nel crocevia della tutela del consumatore, in Aa.Vv., Consumatore e procedimento, cit., 485 e segg., spec. 487, ove l’A. esclude la praticabilità della soluzione che consenta al giudice dell’esecuzione il rilievo officioso, preferendo allargare le “maglie dell’opposizione tardiva, nel caso del procedimento ingiuntivo interno (ai sensi dell’art. 650 c.p.c.), e di quelle del riesame, nel caso del procedimento ingiuntivo europeo (ai sensi dell’art. 20, par. 2, Reg. n. 1896/2006). Consentendo, di conseguenza, l’esperibilità di questi rimedi, nell’un caso e nell’altro, anche nelle residue ipotesi in cui il debitore-consumatore dimostri che, a causa del mancato esercizio dei poteri ufficiosi del giudice del monitorio, non abbia potuto consapevolmente prendere in considerazione l’opportunità di proporre l’opposizione tempestiva”.

[36] Si v. in tal senso la provocazione di S. Caporusso, op. cit., 2124.

[37] Si v. F. Marchetti, Note a margine di Corte di Giustizia UE, 17 maggio 2022, (cause riunite C-693/19 e C-831/19), ovvero quel che resta del brocardo “res iudicata pro veritate habetur” nel caso di ingiunzioni a consumatore non opposte, in Judicium.it, 24 giugno 2022, nonché I. Febbi, La Corte di Giustizia Europea crea scompiglio: il superamento del giudicato implicito nel provvedimento monitorio, ivi, 12 luglio 2022; anche F. Troncone, op. cit., si preoccupa del “progressivo scardinamento del principio dell’autorità della cosa giudicata”; di introduzione in via ermeneutica di “un’ipotesi di sopravvenuta inefficacia del giudicato” parla P. Bertollini, op. cit., 4.

[38] Di questo avviso anche E. D’Alessandro, Il decreto ingiuntivo non opposto, cit., 5.

[39] Si v. già E. Allorio, Critica alla teoria del giudicato implicito, in Riv. dir. proc. civ., 1939, 245 e segg. Da ultimo, ricordo i contributi di A. Panzarola, Contro il cosiddetto giudicato implicito, in Judicium.it, 2019, 307 e segg., nonché di F.P. Luiso, Contro il giudicato implicito, in Judicium.it, 2019.

[40] A. Panzarola, op. cit., 315, ricorda che “ritenere possibile una decisione implicita (prodromica al giudicato implicito) su un certo tema può tradursi nella lesione del diritto al contraddittorio”, ma anche che, alla luce dell’art. 34 c.p.c., “la tesi del giudicato implicito (…) rappresenta una manifesta violazione del principio dispositivo” (ivi, 318).

[41] Sul tema rinvio, per tutti, a M. Gradi, Il principio del contraddittorio e la nullità della sentenza della «terza via», in Riv. dir. proc., 2010, 826 e segg.

[42] Segnalo a tal fine, di recente, l’interessantissimo saggio di M. De Cristofaro, Giudicato e motivazione, in RDP 2017, 41 e segg., tratto dalla Relazione tenuta al XXX Convegno nazionale della Associazione Italiana fra gli Studiosi del Processo Civile, Cagliari, 2 ottobre 2015.

[43] Il solo limite posto dalla Corte è che tali questioni rientrassero nell’oggetto del processo siccome formulato dalle parti: non potrebbe, infatti, il giudice rilevare d’ufficio una vessatorietà che, nel precedente processo, esulava dalla prospettazione del rapporto (e dell’oggetto della domanda) fatta dalle parti (cfr. sentenza Lintner, 11 marzo 2020, C-511/17).

[44] Il tema dell’accertamento nel fatto nei “processi sommari”, che è problema che accomuna il procedimento monitorio a tutte le ulteriori fattispecie processuali in cui la cognizione del giudice non si esercita nelle forme piene ed esaurienti di cui al processo ordinario di cognizione et similia, trascende i confini di questo contributo, sicché mi limito a rinviare, fra gli altri, a R. Tiscini, L’accertamento del fatto nei procedimenti con struttura sommaria, in Judicium.it, 29 aprile 2010; A. Proto Pisani, L’istruzione nei processi sommari, in Foro it., 2002, 2, 17 e segg.; A. Carratta, voce Processo sommario, in Enc. dir., Annali, II-1, Milano, 2008, 877 e segg., spec. 886 e segg.

[45] E “indipendentemente dalla possibilità di sottoporla (la questione di abusività della clausola, ndr) all’interessato e a prescindere dalla sua volontà di non avvalersene”, come evidenzia P. Bertollini, op. cit., 5; ma sul punto si può ricordare che il giudice del monitorio pare legittimato a rilevare anche (alcune) eccezioni in senso stretto, come ricorda E. D’Alessandro, Il decreto ingiuntivo non opposto, cit., 3, a proposito dell’eccezione di incompetenza territoriale derogabile.

[46] Per cui si v. E. Redenti, Diritto processuale civile, Milano, 1957, I, 71 e segg.; III, 25 e segg.

[47] In questo senso, l’orientamento sembra ricalcare l’istituto della cd. collateral estoppel o collateral issue, su cui v. G. Pugliese, op. cit., spec. 737 e segg. e 866 e segg., poiché “la decisione di una issue può essere considerata vincolante in un altro processo e venire compresa quindi nel giudicato, solo se essa sia stata effettivamente discussa tra le parti e seriamente decisa dal giudice; non basta che la questione abbia potuto bensì venire discussa, ma non lo sia effettivamente stata” (ivi, 867-868).

[48] In questo senso, anche a proposito dei cd. giudizi contumaciali, si v. E. D’Alessandro, Il decreto ingiuntivo non opposto, cit., 11-12.

[49] Sul tema, per sintesi, rinvio al dettagliato contributo di S. Menchini, Nullità del contratto e impugnative negoziali, in Il libro dell’anno del diritto, Treccani, a cura di A. Carratta, P. D’Ascola, Roma 2016, 516 e segg.

[50] Si v. ad es. P. Bertollini, op. cit., 8 e segg., per un “possibile impiego di tali principi al settore antitrust”. E. D’Alessandro, Il decreto ingiuntivo non opposto, cit., 6, ritiene invece che “non sembra che la citata sentenza della Corte di giustizia sia applicabile oltre la materia consumeristica”.

[51] Non ha fatto così, però, il Tribunale di Napoli nel provvedimento sopra citato, che ha invece rilevato d’ufficio la vessatorietà e direttamente aperto le porte del giudizio di merito dell’opposizione.

[52] Per alcune informazioni, su tutti, si v. B. Capponi, Il giudice dell’esecuzione e la tutela del debitore, in Riv. dir. proc., 2015, 1447 e segg.

[53] Per un’analisi funditus, mi permetto di rinviare al mio L’opposizione all’esecuzione come azione in giudizio, ESI, Napoli, 2020, oltre che al mio Sul provvedimento «di merito» del giudice dell’esecuzione e le opposizioni. Brevi note sui concetti di provvedimento esecutivo «decisorio», «a cognizione impropria» e «abnorme», in Il giusto proc. civ., 2018, 899 e segg.

[54] A tal proposito, rinvio ancora a L’opposizione all’esecuzione, cit., spec. 478 e segg., oltre che al mio L’opposizione all’esecuzione come rimedio avverso l’esecuzione illegittima o ingiusta: oggetto del giudizio ed efficacia della sentenza, in Riv. esec. forz., 2021, 896 e segg.

[55] In tal senso, tra gli altri, F. Carnelutti, Istituzioni del nuovo processo civile italiano, II, Roma, 1942, 105, secondo cui “la differenza tra processo esecutivo e processo giurisdizionale non sta in ciò, che in quello non si giudichi come in questo, ma che in questo si giudica soltanto cioè l’agire del giudice si risolve nel giudicare, mentre in quello l’azione del giudice non è il giudizio ma richiede naturalmente il giudizio»; sostanzialmente in termini, C. Mandrioli, L’azione esecutiva. Contributo alla teoria unitaria dell’azione e del processo, Milano, 1955, 448 e segg.

[56] G. Martinetto, Gli accertamenti degli organi esecutivi, Milano, 1963, 45. Sul tema, si v. anche G Basilico, La revoca dei provvedimenti civili contenziosi, Padova, 2001, 293 e segg.

[57] G. Fiengo, op. cit., 527.

[58] E. D’Alessandro, Il decreto ingiuntivo non opposto, cit., 10, propone invece di riconoscere allo stesso giudice dell’esecuzione il “potere/dovere di rilievo e anche di dichiarazione della nullità della clausola abusiva, quante volte il consumatore-esecutato, convocato avanti a lui nel contraddittorio con il creditore-professionista procedente, dichiari di volersene avvalere”.

[59] E. D’Alessandro, Una proposta, cit., 544.

[60] Su tali aspetti, da qualche decennio, si v. principalmente la posizione di B. Capponi, già espressa in Una pseudopolemica su “cognizione” ed “esecuzione forzata”, in Il fall., 1990, 1180 e segg.

[61] È il caso, ad es., della possibilità di interpretare la normativa italiana in modo da consentire, già a regole invariate, la cessazione dell’esecuzione (in senso ampio) della sentenza, pur se passata in giudicato, fondata su una disposizione poi dichiarata incostituzionale, per l’evidente aporia di un ordinamento che imporrebbe l’esecuzione di una sentenza ritenuta ingiusta per eccellenza, come recentemente sostenuto, con dovizia di argomenti, da M. Gradi, Cosa giudicata incostituzionale, cit., che propone, altresì e per converso, l’introduzione di un nuovo motivo di revocazione straordinaria per contrarietà al giudicato incostituzionale (ivi, 1211 e segg.).

[62] A tal riguardo, F. De Stefano, op. cit., ritiene “davvero inevitabile l’intervento del legislatore”, ed E. D’Alessandro, Il decreto ingiuntivo non opposto, cit., 12, rileva l’opportunità di “compiere un passo ulteriore, ossia quello di codificare tali regole in un atto normativo europeo”.