Le cinque fallacie che viziano la motivazione di Cass., Sez. III, n. 14478/2024

Di Pier Girolamo Attanasio -

SOMMARIO: 1. Cinque fallacie su cinque premesse normative. – 2. Prima fallacia: la falsa dicotomia. – 3. Seconda fallacia: la dissociazione ex post indebita. – 4. Segue: rapporto norma eccezionale/norma regolare a norma speciale/norma generale. – 5. Terza fallacia: la contestomia. – 6. Quarta fallacia:     la equivocazione-sovrapposizione. – 7.  Quinta fallacia: la c.d. ignoratio elenchi. – 8. Vizi della decisione. – 9. Da giudice della nomofilachia a giudice-legislatore-sofista.

1. La motivazione di Cass., Sez. III, n. 14478/2024, a validazione della responsabilità civile dell’ufficiale giudiziario verbalizzante il rifiuto del pignoramento richiesto per difetto del titolo esecutivo, muove da cinque premesse normative[1]. La conclusione è nel senso di negare all’ufficiale giudiziario il potere officioso di verificare la sussistenza o meno del titolo esecutivo su cui si fonda la richiesta di esecuzione, posto che, in subjecta materia, vi sarebbe una vera e propria riserva di giurisdizione.

La conclusione si regge su cinque premesse normative, di cui due sono a fondamento giustificativo, due a corroborazione e una a confutazione.

(i) La prima premessa è quella di apertura (punti nn. 9, 10, 11, 13 e 14): «In primis, l’ufficiale giudiziario non è un organo giurisdizionale [in quanto è] organo ausiliario e subordinato [rispetto ai magistrati, ai quali] competono invece, in via esclusiva, i poteri giurisdizionali». Ciò verrebbe espresso dalle seguenti tre disposizioni:

a) art. 1, d.P.R. n. 1229/1959 (ordinamento speciale degli ufficiali giudiziari), a mente del quale «gli ufficiali giudiziari […] sono ausiliari dell’ordine giudiziario […]»;

b) art. 59, c.p.c., il cui «testo normativo è chiaro nell’escludere l’attribuzione all’ufficiale giudiziario, organo ausiliario e subordinato, di poteri giurisdizionali»[2];

c) art. 102 Cost., «secondo il [cui] disposto […] i poteri giurisdizionali […] competono invece, in via esclusiva, ai magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario».

(ii) La seconda premessa è quella di chiusura (punto n. 25): il potere officioso di controllo preventivo dell’ufficiale giudiziario in merito alla sussistenza o meno del titolo esecutivo ai fini della ricerca dei beni pignorabili con modalità telematica ex 492-bis c.p.c. (testo vigente post riforma Cartabia), con conseguente potere-dovere di rigettare l’istanza per difetto di condizioni, è – da un lato – «assimilabile parzialmente» a quello attribuito al presidente del tribunale e – dall’altro lato – «eccezionale» rispetto a una supposta regola di assoluta incompetenza dell’ufficiale giudiziario a esercitare il potere officioso in questione, giusta la “riserva di giurisdizione”, di cui alla prima premessa.

(iii) La terza premessa (punto n. 20) corrobora il tutto. Vengono richiamati, infatti, tre precedenti di legittimità, artatamente estrapolati ad hoc.

Il primo precedente viene indicato in Cass., Sez. III, n. 23625/2012, dal cui corpo motivazionale il collegio asporta la seguente frase: «[…] poiché l’attività svolta dall’ufficiale giudiziario in sede di pignoramento mobiliare è meramente esecutiva»; il secondo in Cass., Sez. III, n. 3030/1992, la quale avrebbe detto, tra le tante cose: «[All’ufficiale giudiziario richiesto di procedere al pignoramento mobiliare competono] verifiche strettamente formali, in quanto all’ufficiale giudiziario non è consentito di adottare alcuna decisione in ordine al potere del creditore o all’obbligo del debitore, perché la misura del primo e del secondo è rispettivamente determinata dal titolo esecutivo e dalla possibilità di proporre opposizioni»; il terzo in Cass., Sez. III, n. 13069/2007, in occasione della quale si disse: «[…] Alcun controllo è consentito compiere all’ufficiale giudiziario che non sia quello della semplice lettura delle risultanze estrinseche del titolo esecutivo, non essendo egli adatto a compiere indagini più delicate».

(iv) Anche la quarta premessa (punto n. 23) è, come la precedente, a corroborazione: vi si afferma che il controllo dell’esistenza o meno di un valido «titolo esecutivo – quale condizione dell’azione esecutiva […] – e, dunque, l’esistenza di un atto riconducibile a quelli elencati al secondo comma dell’art. 474 cod. proc. civ., per un diritto certo, liquido ed esigibile (requisiti che non possono formare oggetto di vaglio dell’ausiliario), idoneo alla specifica esecuzione forzata richiesta», compete esclusivamente al giudice in due modalità alternative: o ex officio, in pendenza del processo esecutivo (riferendosi ai poteri di cui è capace il G.E.) o prima dell’inchoatio executionis, a opera del giudice dell’opposizione preventiva.

(v) La quinta premessa (punti nn. 15, 16, 17, 18 e 19), infine, è quella a confutazione, in cui si sostiene una sorta di superiorità gerarchica del cancelliere sull’ufficiale giudiziario, in ragione del fatto che il primo (e non il secondo) sia (è stato) deputato all’apposizione della formula esecutiva; pertanto, l’ufficiale giudiziario non avrebbe alcun potere di controllo o riesame della validità (o meno) di tale apposizione, come già indicato dalla giurisprudenza di legittimità[3]. Da tale precedente sono estrapolate le seguenti frasi: «[La formula esecutiva è (rectius, era)] apposta all’esito di un controllo sulla “perfezione formale” del titolo prescritto dall’art. 153 disp. att. cod. proc. civ., sicché l’adempimento in questione vale a suggellare la rilevanza dell’atto come idoneo a sostenere l’azione esecutiva»; […] mediante la spedizione in formula esecutiva si verifica […] l’esistenza di una norma che conferisca all’atto la qualità di titolo esecutivo, giusta la riserva di legge contenuta nell’art. 474 cod. proc. civ. [e si] postula l’accertamento che non ne sia stata disposta la sospensione della provvisoria esecutività o che lo stesso non sia stato revocato, annullato o cassato […]».

Come si avrà modo di dimostrare in prosieguo, nella (apparentemente) tetragona struttura motivazionale appena descritta si annida una fallacia davvero esemplare.

La quintessenza della fallacia[4], vale a dire l’incontro in un’unica essenza dei concetti antitetici di apparenza (di argomentazione corretta) e di sostanza (di argomentazione scorretta), è riconoscibile intuitivamente attraverso il linguaggio metaforico: la motivazione del provvedimento in rassegna è come un castello dorato le cui mura, però, tutt’altro che solide, sono coperte di crepe. L’apparenza dell’argomentazione fallace, invero, inganna laddove la sua validità appaia reale grazie all’altissima abilità e raffinatezza del sofista, capace come nessun altro di celare e mascherare le sue fallacie.

Sennonché, i primi commentatori della decisione sono riusciti egregiamente a evidenziare tali fallacie, restituendo la perplessa questione alla sua corretta opinione giuridica[5].

2. La prima premessa normativa presenta una fallacia chiamata “falsa dicotomia” o “falso dilemma”, che riduce la questione a una scelta obbligata tra due sole opzioni opposte, senza lasciare spazio ad altre possibilità. Si tratta di una contraddizione apparente, poiché, in verità, non esiste una scelta obbligata tra le due alternative: in tali ipotesi, infatti, tertium datur[6].

Secondo il collegio, il rapporto logico-giuridico tra i termini “organo giurisdizionale” e “organo ausiliario” è di contraddittorietà, non di semplice contrarietà. Di conseguenza, si esclude la possibilità di una terza ipotesi, ossia che un organo possa essere contemporaneamente giurisdizionale e ausiliario. Più precisamente, il ragionamento, nella sua prima premessa normativa, si articola in una dicotomia: l’ufficio giudiziario o è un organo ausiliario, e dunque non giurisdizionale per definizione, oppure è un organo giurisdizionale e quindi, per definizione, non ausiliario. Così dicendo, allora, l’affermazione che «l’ufficiale giudiziario non è un organo giurisdizionale», è scelta obbligata, unica alternativa ritenuta logicamente possibile, derivante dalla dicotomia aut/aut che i poteri giurisdizionali competano in via esclusiva ai magistrati e, di conseguenza, l’ufficiale giudiziario, non essendo un magistrato, non può che essere un organo non giurisdizionale.

Tale conclusione non è giuridicamente corretta secondo il diritto vigente, poiché il Codice di rito distingue tra organo ausiliario non giurisdizionale e organo giurisdizionale ausiliario. Gli articoli 68, comma primo, 513, comma secondo, 560 e 608, comma secondo, c.p.c., infatti, identificano, in materia esecutiva, due tipi di ausiliari del giudice dell’esecuzione: uno dotato di poteri giurisdizionali autonomi e l’altro sfornito: da un lato, abbiamo il custode giudiziario dell’immobile pignorato (art. 560 c.p.c.) che, nell’attuare l’ordine di liberazione, è un organo ausiliario non giurisdizionale senza poteri autonomi né facoltà di nominare a sua volta ausiliari o richiedere assistenza della forza pubblica, che deve essere preventivamente autorizzata dal giudice dell’esecuzione. Dall’altro, l’ufficiale giudiziario, incaricato di procedere all’esecuzione forzata, che ha il potere autonomo di nominare propri ausiliari e richiedere l’assistenza della forza pubblica, senza bisogno di autorizzazione.

L’ufficiale giudiziario nel processo esecutivo ordinario, pertanto, non è un mero ausiliario del giudice dell’esecuzione, ma un organo giurisdizionale esecutivo con autonomia funzionale e poteri officiosi che, in larga parte, si sovrappongono a quelli giurisdizionali stricto sensu, come risulta chiaramente dall’art. 68 c.p.c. in combinato disposto con gli artt. 513, comma secondo, e 608, comma secondo, c.p.c. Ergo, l’ipotesi dell’ufficiale giudiziario quale organo giurisdizionale ausiliario non è esclusa (come pretenderebbe il collegio), bensì è ammessa dall’ordinamento giuridico vigente quale terza via interpretativa.

Al riguardo, non è inutile evidenziare che la figura professionale-istituzionale “ibrida” di organo giurisdizionale ausiliario è, apertis verbis, riconosciuta dalla giurisprudenza di merito, con riferimento ad altro pubblico ufficiale dipendente del Ministero della Giustizia e ausiliario del giudice: il cancelliere[7]. Conclusione che viene affermata anche per l’ufficiale giudiziario sia dalla dottrina[8], che dalla giurisprudenza di legittimità[9].

Quindi, ecco illustrata la fallacia della falsa dicotomia alla base dell’elaborazione della prima premessa normativa, fuorviata da un’operazione di preselezione e omissione di norme rilevanti. L’ordinanza in rassegna (punti 9, 10 e 11), infatti, seleziona e coordina tre disposizioni vigenti omettendo, però, di considerare altre disposizioni rilevanti che prevedono una parziale sovrapposizione dei poteri giurisdizionali tra il giudice e l’ufficiale giudiziario. Viene omesso, infatti, l’art. 68, comma primo, c.p.c., che attribuisce espressamente sia al giudice che all’ufficiale giudiziario il potere di nominare propri ausiliari. Questa disposizione, di rilevanza sistematica, è stata totalmente ignorata dalla Corte Suprema, favorendo il falso dilemma della prima premessa normativa.

La figura professionale dell’ufficiale giudiziario nell’ordinamento giuridico italiano, invece, ha una natura funzionalmente ibrida, poiché svolge contemporaneamente due funzioni istituzionali ontologicamente distinte: da una parte la mera notificazione, ovvero la notificazione senza   esecuzione forzata; dall’altra parte, l’esecuzione forzata, con o senza notificazione[10]. Questa duplicità di ruolo (mero notificatore/procedente in executivis) e della relativa sua funzione (mera notificazione/esecuzione forzata) è immanente nell’Ordinamento speciale di cui al d.P.R. n. 1229/1959 (recante «Ordinamento degli ufficiali giudiziari e degli aiutanti ufficiali giudiziari»)          sin dalla sua origine[11], ed è stata confermata dalla Suprema Corte, anche recentemente[12].

Chiaramente, l’ufficiale giudiziario, quando agisce in veste di mero notificatore, senza “por mano” a un titolo esecutivo, è un organo ausiliario non giurisdizionale. La funzione di mera notificazione ha un ruolo puramente servente rispetto alla funzione giurisdizionale e la dottrina, a tal proposito, considera l’attività dell’ufficiale giudiziario come un servizio di mera notificazione amministrativa, mentre qualifica l’attività di esecuzione forzata come esplicazione di un momento giurisdizionale[13]. In quest’ultima sua veste, l’ufficiale giudiziario è organo giurisdizionale ausiliario, dotato di autonomia funzionale, stante la titolarità di poteri officiosi giurisdizionali che risultano essere parzialmente sovrapponibili a quelli del giudice[14]. Pertanto, la prima premessa normativa della S.C. è suscettibile di doppia valutazione antitetica: da un lato, giuridicamente corretta con riferimento al ruolo istituzionale dell’ufficiale giudiziario quale mero notificatore; dall’altro lato, giuridicamente scorretta con riferimento al ruolo istituzionale dell’ufficiale giudiziario quale procedente in executivis.

Queste conclusioni trovano conforto in una quadruplice radice teorica, del tutto ignorata nella motivazione dell’ordinanza in questione:

(i)La giurisdizione civile include non solo quella cognitiva, ma anche quella esecutiva;

(ii)La giurisdizione civile esecutiva non è necessariamente successiva alla giurisdizione cognitiva; può sussistere indipendentemente da quest’ultima, come accade quando il titolo esecutivo è stragiudiziale e, quindi, essa si configura senza l’intervento diretto di un comando giudiziario;

(iii) Il processo esecutivo mantiene la sua natura giurisdizionale anche quando il giudice non vi interviene mai, come di frequente accade nel caso dell’esecuzione forzata per rilascio immobiliare: qui, l’ufficiale giudiziario si occupa di tutto, dalla notifica del preavviso di rilascio all’immissione in possesso dell’immobile a favore del creditore, senza che sia necessario l’intervento del giudice tramite un incidente di esecuzione ai sensi dell’art. 610 c.p.c.;

(iv) Questi ultimi due aspetti possono anche combinarsi: si pensi all’esecuzione di un rilascio immobiliare con un titolo esecutivo stragiudiziale, come un accordo di mediazione firmato dai procuratori delle parti senza necessità di omologazione da parte del Tribunale. In tale scenario, l’ufficiale giudiziario agisce autonomamente, conducendo l’esecuzione dall’inizio alla fine, senza “incidenti” di sorta (quali, ad esempio, quelli di cui agli artt. 610, 615 e 617 c.p.c.).

In tali casi specifici, evidentemente, l’ufficiale giudiziario opera come un organo esecutivo giurisdizionale autonomo, e non come un ausiliario del giudice.

3. La seconda premessa normativa è caratterizzata dalla fallacia della dissociazione ex post

Preliminarmente, occorre puntualizzare che la dissociazione giuridica, come distinzione concettuale de iure è di due tipi: da un lato, quella ex ante, effettuata dal legislatore a priori; dall’altro lato, quella ex post, effettuata dall’interprete a posteriori[15]. Evidentemente, la dissociazione giuridica ex ante è “naturalmente” legittima, salva la dichiarazione di illegittimità costituzionale ad opera della Corte costituzionale; mentre la dissociazione ex post è da sottoporre al vaglio di legittimità ad opera della comunità scientifica giuridica, per controllarne la conformità (o meno) alla legge: ovviamente, la stessa è da valutarsi illegittima qualora contra legem.

La dissociazione ex post, di cui alla seconda premessa normativa, consiste nella costruzione giuridica di una norma eccezionale inespressa tramite un’operazione ermeneutica trascendentale rispetto ai limiti delle facoltà interpretative di chi si approcci al testo legale, ponendo in essere «una attività legislativa dissimulata», come messo in evidenza autorevolmente[16].

Precisamente, la dissociazione operata dal collegio al punto n. 25 della motivazione è da valutarsi illegittima (dunque indebita) per contrarietà triplice: sia alla ratio legis, sia alla littera legis sia alla cohaerentia legis, vale a dire al principio logico-giuridico di non contraddizione[17].

A ben guardare:

(i)La contrarietà della dissociazione rispetto alla ratio legis è evidente dalla Relazione illustrativa al D.Lgs. n. 149/2022, emanato per attuare la delega di cui alla legge n. 206/2021 e pubblicata nel supplemento straordinario n. 5 della Gazzetta Ufficiale – serie generale n. 245 del 19 ottobre 2022. Alla pagina 83 della Relazione, infatti, si afferma esplicitamente: «è stata soppressa la necessità di autorizzazione da parte del presidente del tribunale, poiché tale attività prevede solo controlli formali, analoghi a quelli che l’ufficiale giudiziario già compie prima di procedere al pignoramento».[18].

(ii)La contrarietà della dissociazione rispetto alla littera legis emerge dalla vigenza di due specifiche disposizioni di legge contenute nell’art. 155-ter delle disposizioni attuative del c.p.c., le quali, in maniera esplicita, non prevedono alcuna dissociazione, ma piuttosto un’assimilazione tra l’istanza di ricerca telematica dei beni pignorabili ex 492-bis c.p.c. e la richiesta di pignoramento. In particolare, il secondo comma, nell’ultima parte, definisce tale istanza come una “richiesta di pignoramento”. Inoltre, il primo comma rinvia all’art. 165 delle disposizioni attuative del c.p.c., con l’intento esplicito di applicare alla ricerca telematica dei beni pignorabili la stessa normativa prevista per la partecipazione del creditore alla ricerca fisica dei beni[19].

(iii) La contrarietà della dissociazione rispetto al principio logico-giuridico di non contraddizione emerge dall’interazione tra due principi legali: quello della cumulabilità dei mezzi di espropriazione forzata (art. 483 c.p.c.) e il principio cardine “nulla executio sine titulo” (art. 474 c.p.c.). Il creditore procedente può infatti utilizzare contemporaneamente sia il pignoramento mobiliare presso il debitore (art. 513 c.p.c.) sia la ricerca telematica dei beni pignorabili (art. 492-bisp.c.), avendo l’obbligo di consegnare all’ufficiale giudiziario territorialmente competente un titolo esecutivo valido come primo presupposto essenziale per l’accoglimento di entrambe le istanze di esecuzione forzata. Se si accettasse la legittimità della dissociazione di cui si discute, si giungerebbe a una contraddizione legale interna al sistema, per cui lo stesso documento consegnato dal creditore all’ufficiale giudiziario dovrebbe essere valutato in due modi opposti. Da un lato, come un documento privo di valore di titolo esecutivo e quindi non idoneo a sostenere l’istanza di ricerca telematica dei beni pignorabili, portando al rifiuto della ricerca. Dall’altro, lo stesso documento dovrebbe essere considerato come un valido titolo esecutivo, idoneo a sostenere la richiesta di pignoramento mobiliare presso il debitore, giustificando quindi il verbale di accesso per la ricerca fisica dei beni pignorabili. In altri termini, l’ufficiale giudiziario richiesto di procedere nello stesso tempo a doppia ricerca di beni mobili pignorabili, sia telematica ex art. 492-bis c.p.c. sia fisica ex art. 513 c.p.c., sulla base dello stesso documento – non titolo esecutivo (ad esempio, l’ordinanza del g.e. ex art. 510, comma primo, c.p.c., come il documento consegnato, nel caso concreto, dal creditore all’ufficiale giudiziario quale titolo esecutivo, ma non avente natura giuridica di titolo esecutivo in senso documentale), dovrebbe contraddire se stesso, sdoppiandosi: da un lato, quale controllore (i.e., soggetto dotato del potere officioso di controllo preventivo della sussistenza o meno del titolo esecutivo in senso documentale, idoneo a fondare la richiesta di esecuzione forzata), rifiutarsi di procedere alla ricerca telematica ex art. 492-bis c.p.c. per difetto originario del titolo esecutivo in senso documentale; dall’altro lato, quale mero esecutore (i.e., soggetto automa/acefalo, privo del potere officioso suddetto), procedere alla ricerca fisica ex art. 513 c.p.c. “ad occhi chiusi”[20], mettendo in esecuzione forzata lo stesso documento, pur non costituendo titolo esecutivo ope legis (in quanto non sussumibile in alcuna delle tre categorie legali di titoli esecutivi, di cui all’art. 474, comma secondo, c.p.c.).

Tutto ciò, evidentemente, cozza frontalmente con il principio di non contraddizione[21] e, pertanto,         il rapporto normativo di regola/eccezione, cui allude il punto n. 25 della motivazione, non solo         non esiste nel caso di specie ma, addirittura, conduce a esiti praticamente ingiusti.

La norma inespressa “eccezionale” è creata dal giudice di legittimità artatamente, al fine duplice, da un lato, di motivare la pretesa esistenza di una norma inespressa “regolare” consistente nella preclusione all’ufficiale giudiziario del potere officioso di controllo preventivo della sussistenza o meno del titolo esecutivo idoneo a fondare l’esecuzione forzata richiesta (con il connesso potere di rifiuto della domanda esecutiva per mancanza dei presupposti legali indefettibili, in primis, il titolo esecutivo), strumentalizzando il luogo comune «exceptio firmat regulam»[22]; dall’altro lato, di rendere operante il divieto legale di applicazione analogica di questa posticcia pseudo-norma eccezionale, giusta l’art. 14 delle disp. prel. c.c.

All’esito, la dissociazione de qua, concretantesi nella costruzione giuridica del rapporto normativo regola/eccezione, costituisce fictio juris giudiziale[23], cioè creazione ope judicis di due norme fittizie: da un lato, la norma fittizia eccezionale, che ammette il potere officioso dell’ufficiale procedente di controllo preventivo dell’esistenza (o meno) del titolo esecutivo soltanto ed esclusivamente nel caso (ritenuto appunto eccezionale) di istanza di ricerca dei beni pignorabili con modalità telematica ex art. 492-bis c.p.c.; dall’altro lato, la fittizia pretesa regula juris che preclude il medesimo potere officioso dell’ufficiale giudiziario in tutti i casi in cui il codice di rito preveda che l’ufficiale, richiesto di procedere all’esecuzione forzata, debba essere munito del titolo esecutivo: artt. 513 (pignoramento mobiliare presso il debitore), 606 (esecuzione forzata per consegna), 608 (esecuzione forzata per rilascio) c.p.c.

Ebbene, entrambe le norme de quibus, connesse dal rapporto di regola/eccezione, sono fittizie per la seguente ragione: esse non si fondano su fonti legali, ma su di una mera “costruzione giuridica” di carattere squisitamente dommatico e, quindi, priva di un ubi consistam di diritto positivo[24]. Tale    fictio juris giudiziale, nel nostro caso, ha causato apparenza normativa; il che è fuorviante sia giuridicamente che logicamente. Ergo, fallacia argomentativa non soltanto per falsa applicazione della legge, ma anche per irrazionalità/illogicità/assurdità del ragionamento giudiziale, stante la violazione del fondamentale principio logico di non contraddizione.

4. Nel punto n. 25 della motivazione, la Corte costruisce il rapporto tra norma eccezionale e norma generale basandosi sulla presunta natura non giurisdizionale del sub-procedimento di ricerca telematica dei beni da pignorare (art. 492-bis c.p.c.), richiamando la sospensione del termine di efficacia del precetto prevista dal terzo comma dello stesso articolo a conforto della sua presa di posizione. In questo ordine di idee, il potere dell’ufficiale giudiziario di rifiutare la ricerca telematica dei beni pignorabili per mancanza dei presupposti richiesti (come verificare l’esistenza di un titolo esecutivo valido, la sua notifica e la notifica del precetto) viene considerato una norma eccezionale, non applicabile per analogia secondo il divieto stabilito dall’art. 14 disp. prel. c.c.

Sennonché, la costruzione di una tale “norma eccezionale” è un’esagerazione interpretativa, che non tiene conto del più ampio contesto ordinamentale. La sospensione del termine di efficacia del precetto, infatti, è solo un elemento della disciplina dell’art. 492-bis c.p.c., e non è determinante ai fini della definizione della natura dell’istituto. Risulta invece più rilevante la natura della richiesta rivolta all’ufficiale giudiziario, che è qualificata come “richiesta di pignoramento” dall’art. 155-ter, comma secondo, disp. att. c.p.c.; nonché l’esistenza dei presupposti necessari, come il titolo esecutivo e  il precetto, per poter avviare l’esecuzione.

Analizzando congiuntamente le disposizioni degli articoli 474, 483, 492, 513, 543 c.p.c. e l’art. 155-ter disp. att. c.p.c., però, appare più coerente affermare il rapporto in termini di norma speciale/norma generale, così da ridefinire come segue la supposta “eccezionalità” (sia in relazione alla sospensione del termine di efficacia del precetto, sia in relazione al potere dell’ufficiale giudiziario ex art. 492-bis): la sospensione del termine è da considerarsi un aspetto di specialità, mentre il potere di controllo dell’ufficiale giudiziario riguarda il generale dovere di verificare la sussistenza dei presupposti per l’esecuzione forzata, a partire dal titolo esecutivo.

Questa reinterpretazione sistematica delle norme conduce ai seguenti risultati:

(i) Il potere dell’ufficiale giudiziario di verificare preventivamente la presenza di un titolo esecutivo valido, come requisito fondamentale dell’esecuzione (ex 474 c.p.c.), non deriva dall’eccezionalità della sospensione del termine di efficacia del precetto (art. 492-bis c.p.c.). Piuttosto, esso si basa sul principio generale nulla executio sine titulo, secondo cui l’ufficiale giudiziario deve avere a disposizione il titolo esecutivo e il precetto prima di dare avvio all’esecuzione. La sospensione, invece, è una disposizione speciale che si riferisce all’esigenza di evitare che la parte creditrice o l’ufficiale giudiziario subiscano le conseguenze del ritardo nella risposta da parte del gestore della banca dati.

(ii) L’istanza di ricerca telematica dei beni pignorabili (art. 492-bisp.c.), essendo assimilata alla richiesta di pignoramento (art. 155-ter disp. att. c.p.c.), è a tutti gli effetti un mezzo di espropriazione forzata. Il creditore può avvalersi di questo strumento anche in combinazione con gli altri tipi di pignoramento (mobiliare, immobiliare o presso terzi) come previsto dall’art. 483 c.p.c. Pertanto, l’ufficiale giudiziario conserva il potere di verifica del titolo esecutivo non solo in caso di istanza autonoma di ricerca telematica, ma anche nel caso di cumulo dei mezzi di espropriazione. Negare questo principio porterebbe a una contraddizione logico-giuridica all’interno del sistema, con una nuova violazione del principio di non contraddizione.

(iii) Il libro terzo del c.p.c. configura il pignoramento come un genus che si divide in due sotto-tipi: quello con ricerca dei beni da parte dell’ufficiale giudiziario e quello senza ricerca. Il primo tipo prevede un oggetto non predeterminato, che viene definito a posteriori in seguito alla ricerca dei beni da parte dell’ufficiale giudiziario; il secondo tipo,           invece, ha un oggetto predeterminato dal creditore (come il pignoramento immobiliare, il pignoramento presso terzi o il pignoramento di veicoli ex 521-bis c.p.c.). All’interno del sotto-tipo di pignoramento con ricerca dei beni, esistono due species: il pignoramento mobiliare presso il debitore (art. 513 c.p.c.) e il pignoramento a seguito di ricerca telematica (art. 492-bis c.p.c.). Questa distinzione legale tra i due tipi di pignoramento ha una rilevanza pratica, poiché la legge richiede che l’ufficiale giudiziario debba essere in possesso del titolo esecutivo solo per i pignoramenti che prevedono una ricerca dei beni e non per quelli senza ricerca, i quali vengono eseguiti tramite notificazione. La ratio legis di questa distinzione risiede nella necessità che l’ufficiale giudiziario, nel momento in cui procede alla ricerca dei beni pignorabili, sia in grado di documentare immediatamente al debitore, a eventuali terzi presenti o alla forza pubblica (in caso di resistenza), l’esistenza del titolo esecutivo che lo autorizza legalmente a procedere[25]. Questa esigenza riguarda sia le perquisizioni dei luoghi appartenenti al debitore, sia, se necessario, la persona del debitore stesso. Infatti, solo il pignoramento che include la ricerca dei beni comporta un contatto invasivo tra l’ufficiale giudiziario e la sfera patrimoniale del debitore, oltre al diritto del creditore di partecipare alla ricerca, sia fisicamente sia in via telematica, anche tramite un proprio avvocato o esperto, come previsto dagli artt. 155-ter e 165 delle disposizioni attuative del c.p.c.

Tirando le fila, è facile concludere che il potere dell’ufficiale giudiziario di effettuare un controllo preliminare sull’esistenza del titolo esecutivo, come presupposto fondamentale per l’esecuzione forzata ex art. 474 c.p.c., non è affatto eccezionale (ossia limitato alla situazione descritta nel terzo comma dell’art. 492-bis c.p.c., che prevede esplicitamente il potere-dovere dell’ufficiale giudiziario di rifiutare la ricerca telematica dei beni pignorabili “per mancanza di presupposti”). Conseguentemente, non si applica il divieto di analogia delle norme eccezionali ex art. 14 disp. prel. c.c. (e difatti, l’ufficiale giudiziario può esercitare lo stesso potere anche nel caso di una richiesta di pignoramento mobiliare presso il debitore, ai sensi dell’art. 513 c.p.c.).

Più precisamente, tale potere può essere dimostrato in tre modi alternativi:

a) o mediante applicazione analogica, in forza della reinterpretazione sistematica dell’art. 492-bis, comma terzo, c.p.c., da norma eccezionale/norma regolare a norma speciale/     norma generale[26];

b) o mediante interpretazione estensiva (non analogica) dell’art. 492-bis, comma terzo, c.p.c., in virtù dell’argomento a fortiori, del sotto-tipo a minori ad maius, per cui se tale potere è previsto espressamente nel caso di ricerca telematica di beni pignorabili (ove il contatto fisico invasivo tra l’ufficiale giudiziario e la sfera patrimoniale del debitore pignorando non è necessario, ma eventuale[27]) a maggior ragione lo stesso è ammissibile nel caso di ricerca fisica da pignoramento mobiliare presso il debitore ex 513 c.p.c. (ove il contatto fisico invasivo tra l’ufficiale giudiziario e la sfera patrimoniale del debitore pignorando è necessario, in quanto consustanziale alla species del pignoramento)[28];

c) o mediante applicazione diretta della regola generale, derivante dalla concretizzazione del principio legale generale nulla executio sine titulo, di cui all’art. 474 c.p.c., dal punto di vista dell’ufficiale giudiziario richiesto di procedere all’esecuzione forzata, avente lo status di organo giurisdizionale esecutivo ausiliario[29].

A parer nostro, la migliore confutazione circa l’esistenza della norma inespressa è quella svolta sub a): la norma risultante all’esito dell’accurata interpretazione dell’art. 492-bis c.p.c. non è eccezionale, bensì speciale e non derogante.

I fattori determinanti a favore della specialità giuridica (non derogante) e contro l’eccezionalità giuridica della norma desumibile dall’art. 492-bis c.p.c. sono i seguenti:

(i)La possibilità di cumulare la ricerca telematica di beni pignorabili con la ricerca fisica degli stessi beni, sia successivamente (ossia dopo l’evasione dell’istanza di ricerca telematica con esito positivo per l’individuazione di beni mobili materiali, trasformando così la ricerca telematica in ricerca fisica, come stabilito dal comma quinto dell’art. 492-bisp.c.), sia preventivamente (cioè attraverso il cumulo simultaneo di due domande esecutive all’ufficiale giudiziario: quella di pignoramento mobiliare presso il debitore, ex art. 513 c.p.c., e quella di ricerca telematica dei beni pignorabili, ex art. 492-bis c.p.c.), come previsto dall’art. 483 c.p.c.

(ii) La possibilità di inquadrare la ricerca telematica di beni pignorabili, prevista dall’art. 492-bisp.c., nel genere del pignoramento con ricerca da parte dell’ufficiale giudiziario (che include due modalità: quella fisica e quella telematica). Questo genere si distingue da quello del pignoramento senza ricerca dell’ufficiale giudiziario, poiché soltanto nel primo l’ufficiale deve essere munito in loco del titolo esecutivo e del precetto al momento del pignoramento, mentre nel secondo tale necessità non sussiste, essendo sufficiente l’esibizione del titolo e del precetto in fase di richiesta del pignoramento;

(iii) L’inclusione dell’art. 492-bisp.c. nel genere più ampio del pignoramento previsto dall’art. 492 c.p.c., attraverso una necessaria interpretazione sistematica, sia per sede normativa sia per il combinato disposto, come evidenziato dal rinvio espresso del comma ottavo dell’art. 492 c.p.c. all’art. 492-bis c.p.c.;

(iv)L’identità di natura giuridica tra l’istanza di ricerca telematica di beni pignorabili ex 492-bis c.p.c. e la richiesta di pignoramento, come esplicitato dalla chiara formulazione dell’art. 155-ter disp. att. c.p.c.;

(v) La limitazione dell’operatività della supposta eccezionalità della norma di cui all’art. 492-bisp.c. entro il solo ambito dell’effetto sospensivo del termine di efficacia del precetto, considerando che tale effetto non incide sui presupposti indispensabili per la domanda di ricerca di beni pignorabili all’ufficiale giudiziario. Tali presupposti restano invariati per entrambe le modalità di pignoramento con ricerca: l’esistenza del titolo esecutivo documentato e la sua notificazione, l’esistenza del precetto e la sua notificazione, e la consegna all’ufficiale giudiziario competente del titolo e del precetto notificati, affinché egli sia in possesso di questi documenti sia al momento della richiesta di pignoramento che al momento dell’esecuzione del pignoramento stesso.

5.La terza premessa normativa, espressa nel par. 1 della motivazione, è caratterizzata dalla fallacia della contestomia[30], essendo i tre precedenti giurisprudenziali richiamati (punto n. 20) l’estrapolazione fuori contesto, e così fuorviante, di alcuni spezzoni di massima tratti da altre sentenze. Al riguardo, è da premettere che la motivazione c.d. per relationem in tanto può considerarsi legittima in quanto la citazione dei precedenti giurisprudenziali conformi alla decisione non sia fuori contesto; diversamente opinando, si ha fallacia argomentativa per contestomia.

Nel caso concreto, i precedenti giurisprudenziali della S.C. sono citati fuori contesto[31]. Per dimostrarlo, non potremo che analizzarli singolarmente:

1) Viene richiamata Cass., Sez. III, n. 23625/2012 che, nel suo argomentare, si lascia sfuggire l’inciso: «poiché l’attività svolta dall’ufficiale giudiziario in sede di pignoramento mobiliare è meramente esecutiva». Ivi la frase “meramente esecutiva” è usata dalla S.C. non per escludere il potere dell’ufficiale giudiziario di controllo officioso preventivo della sussistenza o meno del titolo esecutivo (idoneo a fondare il pignoramento mobiliare richiesto), ma per precludere al medesimo il potere di qualsiasi valutazione giuridica dei titoli di appartenenza dei beni mobili da sottoporre al pignoramento, in virtù della presunzione legale relativa ex 513 c.p.c. di appartenenza al debitore dei beni mobili che si trovano nella casa del debitore e negli altri luoghi a lui appartenenti, salva l’opposizione di terzo all’esecuzione. Il medesimo precedente giurisprudenziale, peraltro, tiene a sottolineare che «l’ufficiale giudiziario, in occasione dell’accesso alla casa del debitore ed agli altri luoghi di sua appartenenza, ha il dovere di astenersi dal pignorare i beni indicati dall’art. 514 c.p.c., come assolutamente impignorabili, il che vuol dire che egli non è tenuto ad un pignoramento indiscriminato». Ne consegue che quell’attività c.d. “meramente esecutiva” dell’ufficiale giudiziario cui alludeva la sentenza era riferita a un diverso contesto, nel quale all’ufficiale procedente è precluso valutare i titoli di appartenenza dei mobili che sottopone a pignoramento; incapacità, peraltro, neppure così assoluta, visto che l’ufficiale giudiziario continua ad avere il potere-dovere di rilievo officioso dell’impignorabilità assoluta dei beni mobili (art. 514 c.p.c.);

3) Cass. Sez. III, n. 3030/1992, viene richiamata per la seguente frase: «[All’ufficiale giudiziario richiesto di procedere al pignoramento mobiliare competono] verifiche strettamente formali, in quanto all’ufficiale giudiziario non è consentito di adottare alcuna decisione in ordine al potere del creditore o all’obbligo del debitore, perché la misura del primo e del secondo è rispettivamente determinata dal titolo esecutivo e dalla possibilità di proporre opposizioni». Anche in tal caso, la citazione del precedente è frutto di estrapolazione indiscriminata, con effetto decontestualizzante/fuorviante, in quanto la stessa motivazione della sentenza richiamata, prima di delimitare l’ambito di operatività del controllo preventivo dell’ufficiale giudiziario, precisa che lo stesso ha il potere di rifiutarsi legittimamente di eseguire il pignoramento richiesto ex artt. 60 c.p.c. e 108 d.P.R. n. 1229/1959, ove il creditore procedente non gli consegni il titolo esecutivo a fondamento della richiesta di pignoramento. Paradossalmente, proprio tale precedente, nell’ammettere un potere di rifiuto dell’ufficiale richiesto per ragioni inerenti la sussistenza del titolo esecutivo è utilizzabile, a contrariis, per escludere la responsabilità civile dell’ufficiale che, richiesto, per motivazioni inerenti al titolo, si rifiuti di eseguire;

4) Cass. Sez. III, n. 13069/2007, infine, è “galeotta” della seguente affermazione: «Alcun controllo è consentito compiere all’ufficiale giudiziario che non sia quello della semplice lettura delle risultanze estrinseche del titolo esecutivo, non essendo egli adatto a compiere indagini più delicate». La frase, oltre a essere estrapolata dal contesto principale (in cui la S.C. recepisce in toto la tesi chiovendiana della non essenzialità della formula esecutiva, al fine della sussistenza o meno del titolo esecutivo, tanto da riprodurre per intero la celeberrima frase del Maestro di Premosello secondo cui “l’apposizione della formula esecutiva era non altro che un’affermazione esteriore e solenne d’una efficacia che già è inerente per sé al titolo esecutivo”), non è affatto incompatibile con il potere-dovere dell’ufficiale giudiziario di controllo officioso preventivo della sussistenza o meno del titolo esecutivo in senso documentale. Infatti, nel caso sotteso alla sentenza qui in pubblicata e commentata, l’ufficiale richiesto di procedere al pignoramento mobiliare si vedeva esibita un’ordinanza del G.E. ex art. 510, comma primo, c.p.c. con pedissequo precetto di pagamento e, messe a confronto le risultanze estrinseche dei due documenti, prendeva atto della carenza di titolo esecutivo: id est, l’assegno bancario insoluto. Precisamente, dalle risultanze estrinseche dell’ordinanza del G.E. de qua, emergeva (non solo l’ apposizione – indebita – della formula esecutiva di cancelleria, ma anche) l’autorizzazione espressa del G.E. a favore del creditore procedente al ritiro del titolo esecutivo attivato per l’espropriazione mobiliare, conclusasi con l’ordinanza medesima di assegnazione della somma ricavata e dichiarazione di incapienza parziale; nel contempo, dalle risultanze estrinseche del precetto, notificato pedissequamente alla stessa ordinanza del G.E., emergeva, invece, che il credito fosse «derivante da assegno bancario», con la conseguenza che, a seguito del controllo formale, svolto comparando le risultanze estrinseche dei due documenti formalmente collegati di ordinanza e pedissequo precetto, l’ufficiale procedente non avrebbe potuto che verbalizzare il rifiuto del pignoramento mobiliare (integrativo in reitera), risultando il richiedente sfornito di titolo esecutivo all’uopo.

Infine, non è inutile sottolineare che la fallacia della contestomia, di cui al punto n. 20, è aggravata al quadrato, in quanto amplificata dalla ulteriore fallacia argomentativa del c.d. argumentum ad auctoritatem. Quest’ultimo argomento va utilizzato con grande parsimonia e umiltà (se non si vuole gettare discredito sulla categoria professionale alla quale si appartiene). Pertanto, il richiamo alla propria autorità è da valutarsi in due modi antitetici alternativi: aut correttamente/legittimamente, quando la citazione dei precedenti medesimi sia contestualizzante/non fuorviante (i.e., a corroborazione della decisione giudiziale) aut scorrettamente/illegittimamente, qualora la citazione risulti essere decontestualizzante/fuorviante, stante la fallacia argomentativa al quadrato: sia per contestomia sia per argumentum ad auctoritatem[32] abusivamente speso.

6. La quarta premessa normativa è caratterizzata dalla fallacia della equivocazione-sovrapposizione[33]. Tale fallacia si sostanzia nella commistione tra due istituti giuridici nettamente distinti: precisamente, al punto n. 23 della motivazione, la nozione di titolo esecutivo viene assunta, promiscuamente, tanto nella sua accezione documentale (art. 474, comma secondo, c.p.c.) quanto in quella sostanziale (art. 474, comma primo, c.p.c.), con sovrapposizione indebita, al fine di motivare la preclusione all’ufficiale giudiziario del potere officioso di controllo preventivo del titolo esecutivo.

Al riguardo, è da sottolineare che la distinzione tra i due significati tecnico-giuridici del termine “titolo esecutivo”, di cui sopra, non è soltanto dottrinale[34], ma anche e soprattutto legale, in quanto già in nuce nei primi due commi dell’art. 474 c.p.c., così come ben evidenziato dalla dottrina[35]. Nel contempo, però, la distinzione è riconosciuta dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con le due sentenze gemelle nn. 11066 e 11067 del 2 luglio 2012: «Il titolo esecutivo giudiziale, ai sensi dell’art. 474, comma 2, n. 1, c.p.c., non si identifica, né si esaurisce, nel documento giudiziario in cui è consacrato l’obbligo da eseguire, essendo consentita l’interpretazione extratestuale del provvedimento, sulla base degli elementi ritualmente acquisiti nel processo in cui esso si è formato»[36] (ma forse la Corte ignora la sua stessa giurisprudenza…).

La rilevanza della distinzione suddetta ha consistenza pratica nella misura in cui influisce sulla qualificazione del relativo potere di controllo. Più precisamente, il titolo esecutivo in senso sostanziale, comprendente i tre requisiti legali di certezza, liquidità, esigibilità del diritto di credito, di cui al primo comma dell’art. 474 c.p.c., è suscettibile di controllo soltanto ed esclusivamente ad opera del giudice, o d’ufficio o su opposizione esecutiva, con conseguente preclusione di ogni potere per l’ufficiale giudiziario in ordine a questo aspetto. Al contrario, il titolo esecutivo in senso documentale è suscettibile di controllo non soltanto ad opera del giudice, ma anche dell’ufficiale giudiziario.

In sintesi, si può affermare che il sistema processuale attuale distingue tra titolo esecutivo come documento e titolo esecutivo come diritto sostanziale. Questa distinzione implica due tipi di controllo sul titolo esecutivo: il controllo dell’ufficiale giudiziario e il controllo del giudice.

Da una parte, l’ufficiale giudiziario verifica il titolo esecutivo in senso documentale, cioè controlla la validità del documento che giustifica la richiesta di esecuzione forzata. Questo controllo riguarda l’esistenza del titolo esecutivo in astratto, ossia se il documento presentato dalla parte creditrice rientra in una delle categorie previste dalla legge (art. 474, secondo comma, c.p.c.).

Dall’altra parte, il giudice effettua un controllo sul titolo esecutivo in senso sostanziale, cioè sulla legittimità del diritto di procedere con l’esecuzione forzata. Questo controllo riguarda l’effettiva presenza del diritto di credito, certo, liquido ed esigibile, e verifica l’assenza di eventuali circostanze che potrebbero impedirlo o estinguerlo. Questa importante distinzione non sembra affatto presente alla mente del collegio, che ha confuso i due concetti, con conseguente “fallo” interpretativo di equivocazione.

7. La quinta premessa normativa è una ignoratio elenchi, oggigiorno anche chiamata red herring (“aringa rossa”, rievocando il mezzo utilizzato, in ambiente venatorio, per confondere l’olfatto dei segugi degli altri cacciatori rivali), falsa pista[37].

Precisamente, l’effetto depistante, di cui ai punti nn. 15, 16, 17, 18 e 19 della motivazione è prodotto argomentativo di un mixtum compositum, in quanto si configura come risultato della combinazione-interazione di tre operazioni eterodosse simultanee:

(i)la contestomia per la citazione fuori contesto del precedente giurisprudenziale della S.C. 3967/2019;

(ii) la sopravvalutazione della formula esecutiva apposta dal cancelliere in calce all’ordinanza del G.E. ex 510, comma primo, c.p.c.;

(iii)la pretermissione della considerazione dei punti fondamentali, e. quelli rilevanti per la conclusione-decisione giudiziale.

Tutto ciò depista nella misura in cui si svia l’attenzione dalla questione giuridicamente rilevante: la giustezza (o meno) del motivo di rifiuto del pignoramento addotto a verbale dall’ufficiale giudiziario, al fine della valutazione della sua responsabilità civile (o meno) ex art. 60 c.p.c.[38] Il che è stato prontamente contestato in dottrina[39].

Nel caso di specie, allora, il motivo di rifiuto verbalizzato dall’ufficiale richiesto, espressamente richiamato tra virgolette dalla S.C. al punto n. 6, fu il seguente: «non ho potuto procedere al pignoramento mobiliare avverso il debitore precettato […], in quanto non sono stato munito da parte istante del titolo esecutivo idoneo all’uopo». Ora:

(i)Il motivo di rifiuto del pignoramento addotto a verbale dall’ufficiale giudiziario (id est, il non essere l’ufficiale giudiziario munito del titolo esecutivo idoneo all’uopo) è giusto, vale a dire causa di esclusione della sua responsabilità civile ex 60 c.p.c., in quanto si concretizza in due vizi-difetti giuridici formali simultanei, rilevabili d’ufficio: da un lato, la non sussumibilità dell’ordinanza del G.E. ex art. 510, comma primo, c.p.c., nella categoria dei provvedimenti giurisdizionali cui la legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva, ai sensi e per effetti dell’art. 474, comma secondo, n. 1, c.p.c.; dall’altro lato, la mancata consegna all’u.g. del titolo esecutivo originario (id est, l’assegno bancario insoluto), menzionato apertis verbis nel precetto pedissequo all’ordinanza ex art. 510, comma primo, c.p.c., di cui il G.E. aveva autorizzato espressamente la restituzione al creditore procedente, subito dopo la declaratoria giurisdizionale d’incapienza della somma ricavata dal compendio pignorato, nel contesto della stessa ordinanza.

(ii)Entrambi i vizi, di cui sopra, sono rilevabili d’ufficio (non soltanto dal giudice, ma anche) dall’ufficiale giudiziario, in quanto il relativo controllo (preventivo ed endo-esecutivo) non è esteso al titolo esecutivo in senso sostanziale (e., la fattispecie concretante il diritto di credito certo, liquido ed esigibile, ergo l’esecutorietà in concreto), ma è limitato al titolo esecutivo in senso documentale, riguardando l’esecutorietà in astratto (i.e. la riconducibilità o meno del documento-ordinanza g.e. ex art. 510, comma primo, c.p.c., nella categoria dei provvedimenti giurisdizionali cui la legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva, ai sensi e per effetti dell’art. 474, comma secondo, n. 1, c.p.c.), nonché la consegna o meno all’ufficiale procedente del documento-titolo esecutivo originario, idoneo a fondare la richiesta di pignoramento, così come individuabile attraverso la semplice lettura delle risultanze estrinseche (nel caso concreto, l’assegno bancario insoluto, così come risultante chiaramente dal testo dei due documenti congiunti, prodotti all’u.g. in sede di richiesta di pignoramento: l’ordinanza del g.e. ex art. 510, comma primo, c.p.c., e il precetto pedissequo all’ordinanza medesima).

(iii)La giurisprudenza della Suprema Corte afferma graniticamente che l’ordinanza del G.E. ex 510, comma primo, c.p.c., non costituisce titolo esecutivo, anche nella parte in cui contiene la liquidazione delle spese processuali esecutive di espropriazione forzata, contestualmente alla declaratoria di incapienza per la somma residua, in virtù del c.d. “principio della tara sul ricavato”[40].

(iv)La giurisprudenza afferma anche che la mancata consegna all’ufficiale giudiziario del documento-titolo esecutivo è giusto motivo di rifiuto del pignoramento medesimo (come già visto).

Pertanto, ancora una volta possiamo notare che la formula esecutiva apposta dal cancelliere in calce all’ordinanza del G.E. ex art. 510, comma primo, c.p.c., risulta essere stata sopravvalutata dalla Terza Sezione Civile per l’effetto fuorviante della contestomia: la citazione fuori contesto del precedente giurisprudenziale della S.C. n. 3967/2019[41].

Sennonché, tale precedente “roboante” è meramente apparente, posto che, nella sua conclusione di principio, aderisce alla tesi chiovendiana che svaluta la centralità della formula esecutiva.

A conferma della prevalenza suddetta è significativa la Relazione illustrativa del c.d. maxi-emendamento governativo al d.d.l. n. 1662/S/XVIII che, nell’illustrare la riforma del processo civile esecutivo, trascrive integralmente la massima ufficiale della sentenza n. 3967/2019 della S.C. come indice di ulteriore indebolimento della rilevanza della formula esecutiva, a giustificazione della previsione di abrogazione della stessa, in perfetta conformità all’orientamento dominante della dottrina e consolidato della giurisprudenza della Corte di Cassazione[42].

Pertanto, il precedente della S.C. n. 3967/2019, richiamato nei punti nn. 16 e 17 della motivazione della sentenza in rassegna non può che essere interpretato in conformità all’altro precedente della S.C. n. 13069/2007, con particolare riferimento al principio chiovendiano di non essenzialità della formula esecutiva di cancelleria, al fine della sussistenza o meno del titolo esecutivo[43].

8:Come abbiamo visto in apertura, la motivazione della decisione giudiziale deve riflettere su due piani la propria validità assiologica (e, ci verrebbe da dire, la propria legittimità “politica”, se si pretende il rispetto del Popolo per la Magistratura): in primis, sul piano di quella che i teorici chiamano “giustificazione interna”, vale a dire la coerenza logico–inferenziale intrinseca della motivazione come combinazione delle sue singole parti motivazionali (è necessario che, nel contesto, non venga detto, insieme, A e non A); in secundis, sul piano della giustizia legale, “nel merito”, delle proposizioni normative da essa assunte a premessa (giustificazione esterna)[44]. Ebbene, la pronuncia in commento risulta valida solo sotto il profilo della giustificazione interna, mentre sul piano de jure condito è evidentemente viziata dalle fallacie logiche commesse dal giudice di legittimità, in sede di costruzione dell’enunciato normativo astratto da offrire alla sussunzione.

Banalmente, la decisione giudiziale è corretta solo sul piano logico-formale, ma non anche su quello giuridico; tanto corretta sul piano meramente logico-formale quanto lo sarebbe, in un altro campo,      il sillogismo “ogni supereroe è capace di volare; tu non sei capace di volare; quindi tu non sei un supereroe”; conclusione che, alla prova delle realtà, non regge (si pensi a Batman, che non sa volare come Superman ma che comunque è un supereroe).

9.All’esito dell’analisi condotta appare evidente, allora, che il “castello” argomentativo sembra costruito su fondamenta solide, ma «non è tutto oro quello che luccica, [essendovi più di una] crepa»[45]. La mutazione della Suprema Corte di Cassazione da giudice della nomofilachia a        giudice-legislatore-sofista, infatti, è sotto gli occhi di tutti; e ciò viene affermato senza l’intenzione di negare che l’operato della Corte nomofilattica possa essere anche giusto e opportuno quando assuma i panni del “legislatore interstiziale”, correndo in aiuto del legislatore vero e proprio (per intenderci senza mezzi termini, quello eletto coi voti della maggioranza dei cittadini), qualora quest’ultimo lasci piccoli spazi vuoti (e sempre cum grano salis)[46]; ma ciò non significa che la Corte possa trasformarsi in un giudice-sofista che, forte della sua autorità, generi confusione nei          capisaldi del sistema; sistema che essa stessa pretenderebbe di elaborare. La costruzione di fallacie argomentative ad opera della Suprema Corte – inutile dirlo – è fenomeno giuridico patologico alquanto grave, nella misura in cui pregiudica non soltanto la razionalità della giustificazione della decisione giudiziale, ma anche l’autorevolezza dell’organo giurisdizionale di vertice, che dovrebbe cassare le decisioni fondate sulle fallacie argomentative (per vizio di falsa applicazione della legge), anziché costruirne di nuove. La motivazione dell’ordinanza in commento, quindi, va ben oltre      quello che (comunque per concessione del comune sentire della nostra scienza) è stato permesso alla Cassazione, giacché realizza una duplice mutazione (endogena e sincronica) del proprio ruolo istituzionale: prima, da giudice – interprete – applicatore di ultima istanza a legislatore interstiziale (cosa oggi che la dottrina e il Foro si sono decisi a “tollerare”), tramite la costruzione giuridica di norma inespressa eccezionale, in deroga a norma inespressa regolare/generale di preclusione all’ufficiale giudiziario del potere officioso di controllo preventivo della sussistenza o meno del titolo esecutivo; poi, da giudice – interprete – applicatore di ultima istanza a sofista, attraverso la posizione in essere di cinque fallacie argomentative.

Purtroppo, il fenomeno patologico della costruzione di fallacie argomentative ad opera della S.C.     non è facilmente eradicabile, dato che non è circoscritto, ma esteso dalle sezioni semplici usque ad sidera, fino alle sezioni unite[47]. Il che è tanto straordinario quanto aberrante. Quale migliore rimedio contro tale patologia, difficilmente diagnosticabile per l’essenza stessa ingannevole delle fallacie?   Lo sbugiardamento dottrinale; avere il coraggio di dire che il Re è nudo; lo smascheramento             delle fallacie attraverso la relativa analisi argomentativa ricostruttiva[48] a cura della dottrina, con la conseguente pubblicazione dei risultati[49], al fine di sottoporre le fallacie della S.C. all’attenzione della comunità scientifica, in modo tale che la piena consapevolezza delle stesse possa neutralizzare il rischio concreto di degenerazione della patologia de qua in “metastasi giurisprudenziale”, con conseguente intossicazione del sistema a causa dell’entrata in circolo di quei pezzi di massima infetti da tali vizi esecrabili.

Con tali riflessioni speriamo di aver restituito dignità funzionale alla figura professionale dell’ufficiale giudiziario[50], non dotato dei suoi poteri solo «eccezionalmente» (come afferma la Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione al punto n. 25 della motivazione, rimangiandosi, “con un sol boccone”, intere ricostruzioni giurisprudenziali pazientemente elaborate nell’ambito del mitico “progetto esecuzioni”).

[1] Chiassoni, Tecnica dell’interpretazione giuridica, Bologna, 2007, 11-47, spec. 13-15 ed ivi sub nota 5, in cui l’A. attribuisce a Wrόblewski la paternità della distinzione tra i due tipi di giustificazione della decisione giudiziale: l’una c.d. interna (riguardante il nesso logico di consequenzialità tra le premesse e la conclusione-decisione giudiziale, dunque la correttezza logica-inferenziale) e l’altra c.d. esterna (riguardante la fondatezza delle premesse de iure condito, vale a dire la correttezza giuridica sia delle premesse sia della relativa conclusione, dal punto di vista del diritto positivo vigente e vivente); Gianformaggio, L’argomentazione giuridica interpretativa: avvocati e giudici, in Teoria e tecnica dell’argomentazione giuridica, Mariani Marini (a cura di), Milano, 2003, 127-131; ivi l’A., sintetizzando il sillogismo giudiziale nella sua struttura minima (premessa maggiore = norma derivante dall’ordinamento giuridico inteso nel suo complesso, attraverso l’interpretazione del giudice; premessa minore = fatto, cui si applica la norma giuridica derivante dall’interpretazione medesima; conclusione = decisione giudiziale), afferma la sinonimia tra l’argomentazione giuridica interpretativa e la giustificazione esterna della premessa maggiore del sillogismo giudiziale. Per lo sviluppo in            concreto della duplice giustificazione suddetta si rinvia al par. 8. In questa sede occorre solo puntualizzare che le              premesse del ragionamento del giudice di legittimità sono esclusivamente normative (trattandosi, per l’appunto, di giudizio di legittimità); nel giudizio di merito, al contrario, il ragionamento si sviluppa sia su premesse normative che su premesse non normative (i.e., fattuali/probatorie).

[2]L’ufficiale giudiziario assiste il giudice in udienza, provvede all’esecuzione dei suoi ordini, esegue la notificazione degli atti e attende alle altre incombenze che la legge gli attribuisce”.

[3] Il riferimento è a Cass., Sez. III, n. 3967/2019.

[4] Secondo il dizionario di filosofia curato da Abbagnano (nella terza edizione aggiornata e ampliata da Fornero), Torino, 1998, 457-458 e 1016, vi è sinonimia tra fallacia e sofisma: la prima di origine latina, il secondo di origine greca. Entrambe le voci sono accomunate, nel significato principale, dal celeberrimo logico di età medievale Pietro Ispano (alias, papa Giovanni XXI), Trattato di logica, Summule logicales, Milano, 20102, Lib. VII, punti 26 e 27, che definisce la fallacia come l’inganno (“deceptio”) avente duplice causa: l’una è l’apparenza («causa apparentie in qualibet fallacia est quod movet ad credendum quod non est»; l’altra è la non esistenza ovverosia la falsità («causa non existentie […] sive causa falsitatis est quod facit creditum esse falsum»). In estrema sintesi, la fallacia è l’argomentazione sofistica idonea ad ingannare, nella misura in cui faccia apparire all’intelletto come vero ciò che in verità è falso; banalmente, l’apparenza senza esistenza. È interessante notare che la nozione di Pietro Ispano è ancora oggi condivisa dai logici contemporanei: D’agostini, Verità avvelenata. Buoni e cattivi argomenti nel dibattito pubblico, Torino, 2010, 106; ivi l’A. afferma testualmente: «Si definiscono comunemente fallacie gli argomenti che sembrano corretti ma non lo sono realmente.         Una fallacia è un errore argomentativo nascosto, di solito costruito ad arte per convincere […] Errori ingannevoli            (errori che non sembrano errori)». La coppia concettuale antitetica apparenza (di argomentazione corretta) vs sostanza                    (di argomentazione scorretta) costituisce la quintessenza della fallacia, in quanto quest’ultima ha sempre la stessa struttura logica: x che sembra y, ma che è z; v. anche Benzi, Il problema logico delle fallacie, in Mucciarelli – Celani (a cura di), Quando il pensiero sbaglia. La fallacia tra psicologia e scienza, Torino, 2002, 62-95.

[5] Cfr. Miccolis, Tanto rumore per nulla. Il potere dell’ufficiale giudiziario di rifiutare l’esecuzione del pignoramento,             in Giusto proc. civ., 2024, 767 ss. Ivi l’A., nel commentare la motivazione dell’ordinanza in rassegna, mette in evidenza la contrapposizione tra due livelli argomentativi: da un lato, quello iniziale/immediato, prima facie, contraddistinto dall’apparente inconfutabilità dell’impianto interpretativo della S.C., fondato in primis sull’interpretazione “da manuale” secondo cui l’ufficiale giudiziario non è un organo giurisdizionale; dall’altro, quello finale/mediato melius re perpensa, derivante dalla ricostruzione dell’argomentazione giudiziale, a seguito di approfondita analisi strutturale, per cui l’impianto interpretativo della S.C., non è così solido come vorrebbe apparire, dato che, in realtà, vi è più di una “crepa” nelle mura del castello dorato, per continuare la nostra metafora (condivisa dallo stesso Miccolis: «Sennonché non è “tutto oro quello che luccica”. Una prima “crepa” a questo impianto interpretativo la pone implicitamente la stessa Corte di legittimità […]»); De Cesare, Sull’irrifiutabilità del pignoramento da parte dell’ufficiale giudiziario. Considerazioni sparse (e perplesse) a proposito di Cass., 23 maggio 2024, n. 14478, in Judicium.it, 15 novembre 2024; Delle Donne, Sul rifiuto del pignoramento per difetto di titolo esecutivo (ragionando intorno a Cass. n. 14478/2024), in Judicium.it, 6 agosto 2024; Pilloni, L’eccessiva leggerezza della logica dell’ufficiale giudiziario quale mero «organo ausiliario-subordinato»,      capace di legittimare un’esecuzione condotta sine titulo, in Judicium.it, 30 ottobre 2024; Cagliari, L’ufficiale giudiziario                 non può sindacare il titolo esecutivo e risponde dei danni in caso di rifiuto a dare corso all’esecuzione, in www.eclegal.it, 16 luglio 2024.

[6] Marinelli, Il dilemma, contributo alla logica giuridica, Milano, 2014; spec. 148-151 e 157-159. Per la distinzione concettuale tra dicotomia e politomia nella logica giuridica, cfr. Costanzo, Logica dei dati normativi, Milano, 2005, 65. Per la falsa dicotomia come esempio di fallacia da evitare in sede interpretativa, cfr. Caringella – Rovelli,                            Il ragionamento giuridico, Roma, 2021, spec. 37 e 71, ove si inserisce la fallacia di falsa dicotomia = falso dilemma nella sub-categoria delle fallacie pseudo-deduttive.

[7] Cfr. Trib. Reggio Emilia, 27 aprile 2012, in www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/7262.pdf  (sentenza che, per ironia della sorte, risulta redatta dallo stesso magistrato relatore del provvedimento qui in rassegna). La sentenza qualifica il cancelliere «organo giurisdizionale ausiliario»: in particolare, viene detto che «rilevato che l’art. 475 c.p.c. dispone che le sentenze e gli altri provvedimenti dell’autorità giudiziaria, “per valere come titolo per l’esecuzione forzata, debbono essere muniti della formula esecutiva, salvo che la legge disponga altrimenti”; sotto il profilo della ratio, la previsione ha ragioni meramente storiche, che rendono l’origine della formula estranea ai moderni ordinamenti, e non se ne comprende la sua singolare vitalità (come osserva acuta dottrina “Basti pensare al ridicolo di un Cancelliere che comanda, sia pure in nome della legge, e col nos maiestatis, ai Giudici dell’Esecuzione ed al Pubblico Ministero”); l’apposizione della formula esecutiva non è altro che un’affermazione esteriore e solenne di un’efficacia inerente di per sé al titolo esecutivo (in altri termini, un ordine agli organi esecutivi che già deriva dalla legge in base al fatto concreto della esistenza di un titolo esecutivo, tanto più che la clausola è apposta da un organo giurisdizionale ausiliario, come il Cancelliere)».

[8] Non solo la dottrina tradizionale, ma anche quella contemporanea. Per la prima, cfr. Satta, Commentario al codice di procedura civile, Libro primo, Disposizioni generali, Milano, 1959/1965, 216-217, ove l’A., nel commentare l’art. 59 c.p.c., afferma che «L’ufficiale giudiziario è dotato di un potere originario, che non è altro se non il potere giurisdizionale. […] L’autonomia dell’ufficiale giudiziario è ancora più spiccata anzi di quella del cancelliere, perché gli è riconosciuta una propria sfera di competenza». Id., Commentario al codice di procedura civile, Libro terzo, Processo di esecuzione, Milano, 1959/1965, 245-247, ove l’A., nel commentare l’art. 513, comma secondo, c.p.c., afferma che la forza usata dall’ufficiale giudiziario nell’esecuzione forzata (sia quella diretta/personale sia quella indiretta/pubblica) è «l’ineliminabile corredo delle funzioni giurisdizionali demandate all’ufficiale giudiziario, [in quanto] forza strumentale e materiale che è necessaria per lo svolgimento della funzione». Chiovenda, Principii di diritto processuale civile, Napoli, 1928/1965, 387 ss., ove l’A. ritiene che il giudice, il cancelliere, l’ufficiale giudiziario formano un unico organo complesso di giurisdizione; Id., Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1934, vol. II, 68, ove l’A. afferma testualmente che «L’ufficiale giudiziario […] è il terzo organo giurisdizionale componente il tribunale, che integra l’attività di questo esercitando in alcuni casi il potere coercitivo […]. Ciò che rende autonomo e quindi giurisdizionale l’atto dell’ufficiale giudiziario è il principio, a noi derivato dal diritto francese, per cui l’ufficiale giudiziario procede […] agli atti del suo ministero senza permissione dell’autorità giudiziaria, salvo i casi in cui la legge stabilisca diversamente. Il nostro ufficiale giudiziario non è dunque un semplice missus iudicis ma un organo per sé stante, avente una sua propria sfera d’iniziativa e di responsabilità». Per la dottrina contemporanea, cfr. Segrè, Del cancelliere e dell’ufficiale giudiziario, in Commentario c.p.c., diretto da Allorio, I, Torino, 1973-1980, 674 ss.; Id., L’ufficiale giudiziario organo giurisdizionale e amministrativo, Riv. dir. proc., 1972, 301-311. Ivi l’A. afferma essere «pacifico che l’ufficiale giudiziario esercita la giurisdizione quando dà esecuzione agli ordini del giudice e quando procede in forza di titoli esecutivi anche stragiudiziali», e, nel contempo, precisa che l’ufficiale giudiziario è organo giurisdizionale quando svolge attività di esecuzione forzata, nonché organo amministrativo quando svolge attività di notificazione. Mandrioli – Carratta, Diritto processuale civile, I, Torino, 2024, 260, sub nota 41, ove si condivide la tesi di Segrè, affermandosi che l’ufficiale giudiziario è organo che «assomma funzioni tipicamente giurisdizionali (specialmente nel processo di esecuzione forzata) a funzioni amministrative, quali sono anche le notificazioni»; Id., Diritto processuale civile, IV, Torino, 2022, 25, ove gli AA. affermano che «al centro dell’attività esecutiva sta l’organo esecutivo (l’ufficiale giudiziario), che, nel processo esecutivo, è assai più che un ausiliario del giudice». Sassani, Lineamenti del processo civile italiano, Milano, 2017, ove l’A. qualifica l’ufficiale giudiziario, in sede di esecuzione forzata, come l’organo giurisdizionale minore, ausiliario del giudice, quale organo giurisdizionale primario, spec. 60: «Se la funzione giurisdizionale primaria è svolta dal giudice quale organo essenziale dell’apparato giurisdizionale, accanto ad esso il codice pone alcuni organi giurisdizionali minori a carattere ausiliario, organi non chiamati a giudicare ma a collaborare all’esercizio della funzione attraverso lo svolgimento di attività strumentali. I più importanti organi ausiliari del giudice civile sono il cancelliere e l’ufficiale giudiziario». Crivelli, Esecuzione forzata e processo esecutivo, Torino, 2006, 155, ove l’A., nel commentare le attività dell’ufficiale giudiziario, di cui all’art. 59 c.p.c., afferma che «l’esecuzione di ordini del giudice e tutte le attività esecutive compiute in attuazione di titoli anche stragiudiziali (quindi anche su    richiesta della parte), costituiscono altrettante ipotesi di esercizio di funzioni giurisdizionali». Castoro Pasquale – Castoro Nicola, Il processo di esecuzione nel suo aspetto pratico, Milano, 2017, 410, ove si afferma che «In mancanza del titolo esecutivo e del precetto, l’ufficiale giudiziario, in quanto organo giurisdizionale con autonoma sfera di iniziativa e di responsabilità, può e deve astenersi dall’esercitare il compito richiestogli [in particolare, il pignoramento mobiliare], a prescindere da qualsiasi iniziativa privata del debitore; altrimenti […] rischia di assumere la responsabilità prevista nell’art. 2043 c.c.». Con particolare riferimento al potere officioso dell’ufficiale giudiziario di controllo preventivo dell’esistenza (o meno) del titolo esecutivo (in senso documentale), in sede di richiesta di esecuzione forzata, cfr. Martinetto, L’espropriazione forzata, in Bove – Capponi – Martinetto – Sassani, Torino, 1988, 58 – 59; ivi l’A. afferma che «L’ufficiale giudiziario non è un mandatario o rappresentante privato del creditore, di cui debba accogliere passivamente l’istanza, ma un organo pubblico, ed ha, pertanto, l’obbligo di verificare che sussistano i presupposti stabiliti dalla legge per il pignoramento, rifiutandone il compimento qualora anche uno solo di essi faccia difetto. […] Si ritiene che l’ufficiale giudiziario debba, tra l’altro, verificare: […] l’esistenza di un titolo esecutivo […]». Capponi, Manuale di diritto dell’esecuzione civile, Torino, 2020, 79-80, ove l’A. afferma che «l’ufficiale giudiziario […] è vero organo dell’esecuzione con proprie competenze esclusive […]; è compito dell’ufficiale giudiziario quello di controllare l’esistenza dei presupposti dell’atto richiesto, [tra i quali] l’esistenza di un valido titolo esecutivo. In assenza di tali presupposti, l’ufficiale giudiziario è tenuto a rifiutare il compimento dell’atto, indicandone per iscritto i motivi (art. 108 t.u. sull’ordinamento degli ufficiali giudiziari, approvato con d.p.r. 15 dicembre 1959, n 1229)». Soldi, Manuale dell’esecuzione forzata, Padova, 2022, 958, sub par. intitolato Il rifiuto dell’ufficiale giudiziario di procedere al pignoramento ed i casi in cui esso è legittimo; ivi l’A. afferma che «L’ufficiale giudiziario deve rifiutare di procedere al pignoramento […] nei casi in cui riscontri che il documento in forza del quale il creditore richieda il pignoramento non ha natura di titolo esecutivo ai sensi dell’art. 474 c.p.c.». Tedoldi, Esecuzione forzata, Pisa, 2020, 98, il quale afferma che spetta all’ufficiale giudiziario il compito di verificare la sussistenza dei presupposti dell’azione esecutiva, cioè la giurisdizione e la competenza, l’esistenza, la validità e l’idoneità estrinseca del titolo esecutivo come atto-documento, la legittimazione attiva e passiva in base al titolo, la previa notificazione del titolo e del precetto.

[9] Precisamente, la S.C. si è pronunciata in tal senso con due precedenti, che, pur essendo alquanto remoti, non sono mai stati messi in discussione se non dall’ordinanza in rassegna. Sul punto, cfr. Cass., 30 giugno 1943, n. 1665, in Mass. Foro it., 1943, 411, secondo cui «Il sindacato positivo o negativo dell’ufficiale giudiziario sulla sussistenza del titolo esecutivo che sta a fondamento della esecuzione forzata discende dall’essere egli non un missus iudicis, ma un organo della giurisdizione con una autonoma sfera di iniziativa e di responsabilità»; Cass., 31 gennaio 1957, n. 342, in Giur. it., 1958, 95-111, in particolare col. 105, ove la S.C. afferma testualmente che «l’autonomia funzionale dell’ufficiale giudiziario è, poi, specialmente accentuata nell’ambito degli atti di esecuzione, dovendo l’ufficiale giudiziario essere considerato un vero e proprio organo autonomo giurisdizionale del processo di esecuzione». Entrambi i precedenti suddetti sono qualificati nel punto n. 12 della motivazione in commento come «non pertinenti»: il primo, quello del 1943, «perché anteriore alla Carta Costituzionale»; il secondo, quello del 1957, «perché anteriore al vigente Ordinamento degli ufficiali giudiziari e degli aiutanti ufficiali giudiziari». La qualificazione di “non pertinente” per ragioni di non attualità o obsolescenza sembra basarsi unicamente su una valutazione temporale a priori, ovvero sulla data di pubblicazione dei due precedenti rispetto all’entrata in vigore di specifici documenti normativi, che costituiscono fonti di diritto positivo vigente. Non deriva, invece, da una valutazione ponderata e critica ex post sull’attualità o meno dei due precedenti, considerando la loro compatibilità con l’ordinamento giuridico attuale nella sua complessità. Infatti, se sottoponiamo entrambi i precedenti giurisprudenziali della Corte Suprema a un esame critico a posteriori, emerge chiaramente la loro attualità e non obsolescenza, in quanto compatibili con disposizioni specifiche del c.p.c. vigente. Ad esempio, l’art. 68, comma 1, c.p.c. conferisce all’ufficiale giudiziario il potere di nominare propri ausiliari, un potere pienamente sovrapponibile a quello del giudice; inoltre, l’art. 492-bis, comma 3, attribuisce all’ufficiale giudiziario il potere di rigettare l’istanza di ricerca telematica dei beni pignorabili per mancanza di presupposti legali, un potere parzialmente sovrapponibile a quello del presidente del tribunale.

[10] Esempio di esecuzione forzata senza notificazione è il pignoramento mobiliare presso il debitore, alla presenza del debitore, avente per oggetto beni mobili non registrati; esempi tipici di esecuzione forzata mediante notificazione: il pignoramento presso terzi ed il pignoramento immobiliare.

[11] Al momento della sua entrata in vigore, avvenuta il primo marzo 1960 (il primo giorno del mese successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale n. 26 del primo febbraio 1960, Supplemento Ordinario n. 1), vi era la distinzione tra l’aiutante ufficiale giudiziario e l’ufficiale giudiziario: al primo era preclusa la funzione di esecuzione forzata, essendo quest’ultima riservata al secondo; infatti, l’aiutante ufficiale giudiziario era così denominato in quanto ausiliario dell’ufficiale giudiziario nell’espletamento della funzione di mera notificazione. Successivamente, l’aiutante ufficiale giudiziario ha cambiato più volte la propria denominazione nel corso degli anni: con il d.P.R. n. 44/1990 è diventato «assistente UNEP»; con il contratto collettivo nazionale integrativo, sottoscritto per il personale del Ministero della Giustizia nell’anno 2000, l’ex-aiutante ufficiale giudiziario/ex-assistente UNEP è diventato “ufficiale giudiziario B3”; con il contratto collettivo nazionale integrativo, sottoscritto per il personale del Ministero della Giustizia nell’anno 2010, l’ex-aiutante ufficiale giudiziario/ex-assistente UNEP/ex-ufficiale giudiziario B3 è diventato «ufficiale giudiziario» quale profilo professionale appartenente alla seconda area, in contrapposizione al «funzionario UNEP», quale profilo professionale appartenente alla terza area. Anche nell’ultimo CCNI del Ministero della Giustizia (in attesa di sottoscrizione entro la fine) dell’anno 2024, in cui si passa dalla classificazione del personale per profili professionali/aree (prima – seconda – terza) a quella per c.d. “famiglie professionali”, permane la distinzione funzionale tra l’ex «ufficiale giudiziario», quale profilo professionale appartenente alla seconda area, che va a confluire automaticamente nella “famiglia professionale dei cancellieri, dei servizi giudiziari e di supporto alla giurisdizione” – “Area Assistenti”, con ruolo ad esaurimento, e l’ex «funzionario UNEP», quale profilo professionale appartenente alla terza area, che va a confluire automaticamente nella “famiglia professionale degli ufficiali giudiziari e dei servizi UNEP” – “Area Funzionari”. Pertanto, in ogni caso, il cambio di denominazione dell’originario aiutante ufficiale giudiziario non ha         mai alterato la sostanza normativa, essendosi conservata la necessaria distinzione di ruolo istituzionale tra l’ufficiale giudiziario espletante funzione di mera notificazione e l’ufficiale giudiziario espletante funzione di esecuzione forzata. Conferma di ciò è data dall’orientamento giurisprudenziale consolidato della Suprema Corte di Cassazione in subiecta materia. Inoltre, giova sottolineare che la duplicità del ruolo istituzionale dell’ufficiale giudiziario (mero notificatore/procedente in executivis) e della relativa sua funzione (mera notificazione/esecuzione forzata) ha rilevanza non soltanto all’interno dell’Amministrazione (sia tra Ministero della Giustizia quale datore di lavoro e ufficiale giudiziario quale dipendente ministeriale, sia nell’ambito di ogni ufficio UNEP., con riferimento alla relativa organizzazione dei servizi), ma anche all’esterno, con particolare riferimento al rapporto tra l’ufficiale giudiziario e la parte richiedente l’esecuzione forzata. Infatti, la S.C., con significativo precedente del 2003, ha sancito la nullità del pignoramento eseguito, anziché dall’ufficiale giudiziario, da aiutante ufficiale giudiziario, stante l’incompetenza funzionale di quest’ultimo: soggetto non legittimato all’espletamento della funzione di esecuzione forzata, in quanto mero notificatore, quindi privo del ruolo istituzionale idoneo all’uopo: cfr. Cass. n. 5583/2003. Il che salva apposita autorizzazione presidenziale straordinaria, per comprovate esigenze di servizio.

[12] Cfr., Cass., 2022, n. 16626 e Cass., 2022, n. 29312. I due precedenti della Suprema Corte di Cassazione confermano la conservazione della necessaria distinzione di ruolo istituzionale tra l’ufficiale giudiziario espletante funzione di mera notificazione e l’ufficiale giudiziario espletante funzione di esecuzione forzata, anche a seguito dell’evoluzione giuridica della prima figura istituzionale: da ex-aiutante ufficiale giudiziario/ex-assistente UNEP/ex-ufficiale giudiziario B3 a «ufficiale giudiziario» quale profilo professionale appartenente alla seconda area, in contrapposizione al «funzionario UNEP», quale profilo professionale appartenente alla terza area. Precisamente, la S.C., nel rigettare il ricorso per cassazione proposto dagli ufficiali giudiziari ex B3 per supposto danno da demansionamento degli stessi, ha disconosciuto il presupposto interpretativo (sostenuto dai ricorrenti e ritenuto erroneo sia dalla Corte di Cassazione sia dalla Corte di Appello) della interfungibilità delle funzioni di notificazione e di esecuzione, quale conseguenza dell’interpretazione del CCNI del Ministero della Giustizia dell’anno 2000 nel senso dell’avvenuta unificazione nell’unico profilo professionale di «ufficiale giudiziario» delle funzioni di ufficiale giudiziario B3 e C1. A corroborazione di tale interpretazione, si legge, nel precedente giurisprudenziale del 2022, n.16626 che: «Il successivo CCNI dell’anno 2010, pertanto, si poneva in continuità con il contratto integrativo del 2000, senza determinare alcun demansionamento dell’ufficiale giudiziario B3; anzi, esso consentiva ai capi degli uffici di demandare agli ufficiali giudiziari ex B3 e B3S le attività di esecuzione in caso di esigenze di servizio, attribuendo a tali dipendenti una specifica competenza, seppur in via straordinaria». Infatti, la straordinarietà de qua è comprovata dal fatto che l’ufficiale giudiziario ex B3 e B3S (ex-aiutante ufficiale giudiziario/ex-assistente UNEP), ossia l’attuale ufficiale giudiziario appartenente alla seconda area professionale (in contrapposizione al funzionario UNEP, il quale è appartenente alla superiore terza area professionale), in tanto può considerarsi legittimato all’espletamento della funzione di esecuzione forzata (ordinariamente riservata al funzionario UNEP), in quanto sia munito dell’autorizzazione ad hoc del capo ufficio giudiziario (i.e. il Presidente della Corte d’Appello oppure il Presidente del Tribunale, a seconda che si tratti di U.N.E.P. incardinato presso la Corte d’Appello oppure presso il Tribunale). Il che è confermato anche nell’ultimo CCNI del Ministero della Giustizia (in attesa di sottoscrizione entro la fine) dell’anno 2024, in cui è previsto che l’ex «ufficiale giudiziario», quale profilo professionale appartenente alla seconda area, che va a confluire automaticamente nella “famiglia professionale dei cancellieri, dei servizi giudiziari e di supporto alla giurisdizione” – “Area Assistenti”, con ruolo ad esaurimento, è assegnato all’U.N.E.P. ed esplica, secondo le direttive ricevute, compiti di collaborazione qualificata nell’ambito delle specifiche attività degli Uffici N.E.P., curando l’attività di notificazione e, qualora, a giudizio del Capo dell’Ufficio, lo richiedano le esigenze del servizio, l’attività di esecuzione, secondo quanto previsto dalla legge.

[13] Cfr. i richiami dottrinali di cui alla nota 8.

[14] Il potere di nominare propri ausiliari giudiziari spetta non soltanto al giudice, ma anche all’ufficiale giudiziario, secondo la chiarissima disposizione di legge, di cui all’art. 68, comma primo, c.p.c.; il potere di richiedere l’assistenza della forza pubblica spetta al giudice «sempre», a norma del terzo ed ultimo comma dell’art. 68 c.p.c., e all’ufficiale giudiziario nei casi previsti dalla legge: artt. 513, comma secondo, 606, 608, comma secondo, 613, c.p.c.

[15] Per l’analisi dei due tipi di dissociazione giuridica, cfr. Costanzo, L’argomentazione giuridica, Milano, 2003, spec. 113-116. Ivi, l’A. configura la dissociazione giuridica ex post, come tecnica argomentativa duplice: di re-interpretazione/ ri-definizione concettuale finalizzata a sciogliere l’opposizione apparente tra dati normativi (in antitesi alla dissociazione giuridica ex ante prodotta dal legislatore al fine di risolvere l’opposizione reale tra dati normativi) oppure di decostruzione/ricostruzione di incompatibilità normativa, al fine di ridisegnare l’architettura del discorso legislativo. Nel contempo, si afferma che l’argomentazione giuridica consistente nella dissociazione può comportare rilevanti conseguenze applicative se ratificata nella comunità linguistica degli interpreti del diritto.

[16] Cfr. Guastini, Filosofia del diritto positivo, Torino, 2017, 336-337; ivi l’A. definisce la dissociazione come la tecnica argomentativa finalizzata alla costruzione giuridica di norma eccezionale inespressa: «la costruzione giuridica di eccezioni inespresse […] per mezzo della dissociazione, ossia introducendo nella classe di fattispecie prevista dal legislatore una distinzione che il legislatore non ha fatto per nulla. […] Costruendo norme inespresse, gli interpreti compiono una attività legislativa dissimulata». Ovviamente, non bisogna confondere due tipi di dissociazione giuridica ex post: da un lato, quella intesa come tecnica di costruzione di norma eccezionale inespressa, di cui sopra; dall’altro lato, quella intesa come tecnica di interpretazione restrittiva mediante riduzione teleologica. La differenziazione tra i due tipi di tecnica argomentativa, di cui sopra, è ben focalizzata dall’A., spec. 330-336.

[17] Cfr. Ferraro, razionalità legislativa e motivazione delle leggi, un’introduzione teorica, in Quaderni di filosofia analitica del diritto n. 15, Milano, 2019, spec. 156. Ivi l’A., concludendo il suo discorso teorico, afferma la «necessaria distinzione tra razionalità legislativa interna ed esterna», precisando che la prima riguarda la coerenza logica e                         la congruenza del ragionamento legislativo. Dunque, lo stesso A. configura il mito/dogma del legislatore razionale        come modello per il legislatore reale, con la conseguenza che la razionalità legislativa interna sottende il principio     logico-giuridico di non contraddizione legale intra-sistematica; al riguardo v. amplius infra (iii), nonché sub nota 21.

[18] La contrarietà della dissociazione alla ratio legis, di cui alla Relazione illustrativa della riforma c.d. Cartabia, è stata già messa in evidenza in dottrina. Precisamente, Delle Donne, ivi, nel richiamare sub nota 8 la frase virgolettata della Relazione suddetta, afferma che il potere originario del Presidente del Tribunale di rigettare l’istanza motivando con l’assenza di un valido titolo esecutivo (anche in presenza della relativa formula) «non può che essere transitato nella sfera dell’ufficiale giudiziario». Parallelamente, Miccolis, ivi,  nel commentare lo stesso passo della Relazione, afferma: «L’equiparazione dei “meri controlli formali” dell’ufficiale giudiziario vuoi per l’autorizzazione alla ricerca telematica dei beni da pignorare, vuoi per l’esecuzione del richiesto pignoramento, contenuta nella relazione ministeriale, sembrerebbe escludere tanto il carattere eccezionale del nuovo  art. 492 bis, comma 1, c.p.c., quanto la diversificazione del potere di rifiuto dell’ufficiale giudiziario nell’uno e  nell’altro caso».

[19] La contrarietà della dissociazione alla littera legis, di cui all’art. 155-ter disp. att. c.p.c., è stata già messa in luce                da Delle Donne, ivi, secondo cui «l’art. 155-ter, c. 2, ultimo periodo, disp. att. c.p.c. fa chiaramente intendere che l’istanza di accesso telematico ex art. 492-bis c.p.c. configura una vera e propria richiesta di pignoramento».

[20] V. amplius infra sub nota 50.

[21] Abbagnano, Dizionario di filosofia, op.cit., 208 ss., voce Contraddizione, principio di. Ivi si afferma la sua nascita come principio ontologico nel libro quarto della Metafisica di Aristotele, che lo pone a fondamento della «filosofia prima», scienza dell’essere in quanto essere. Aristotele tuttavia dà costantemente del principio una duplice formulazione. Una è quella strettamente ontologica, che egli esprime dicendo: «Niente simultaneamente può essere e non essere», ossia «È impossibile che il medesimo contemporaneamente sia e non sia»; l’altra è quella logica, che si esprime dicendo: «È impossibile per la stessa cosa e nello stesso tempo inerire e non inerire ad una stessa cosa nello stesso rispetto». Nel caso esaminato dall’ordinanza in questione, la tesi dogmatica del rapporto normativo tra regola ed eccezione, come indicato al punto n. 25 della motivazione, viola il principio di non contraddizione. Questa tesi infatti porta alla situazione assurda di un ufficiale giudiziario “dimezzato” o, se così si può dire, “schizofrenico” quando richiesto di procedere, sulla base dello stesso documento-non titolo esecutivo, sia alla ricerca telematica di beni pignorabili (art. 492-bis c.p.c.) sia alla ricerca fisica di beni pignorabili (art. 513 c.p.c.). Da un lato, l’ufficiale giudiziario si troverebbe a dover agire come controllore, rilasciando un verbale di rifiuto per la ricerca telematica per mancanza del titolo esecutivo valido. Dall’altro lato, lo stesso ufficiale dovrebbe agire come mero esecutore, stillando un verbale di ricerca fisica, cioè di pignoramento mobiliare presso il debitore, basato sullo stesso documento che, nell’altro verbale, era stato valutato negativamente come non idoneo a costituire un titolo esecutivo, poiché non rientra nelle tre categorie di titoli previsti dall’art. 474, comma secondo, c.p.c.

[22] Sull’origine e la consistenza del famoso brocardo latino, tradotto nella formula italiana «l’eccezione conferma la regola», cfr. Nitsch, «Exceptio firmat regulam». Un contributo sul ragionamento giuridico, in Fides, humanitas, ius. Studii in onore di Luigi Labruna, vol. VI, C. Cascione e C. Masi Doria (a cura di), Napoli, 2007, 3787-3827.

[23] Chiassoni, Finzioni giudiziali. Progetto di voce per un vedemecum giuridico, in Le finzioni del diritto, F. Brunetta d’Usseaux (a cura di), Milano, 2002, 59 ss., spec. 86-87, nonché sub nota 38. Ivi l’A. afferma che la fictio iuris giudiziale non è concepibile nell’ordinamento giuridico italiano vigente, dato che quest’ultimo ammette soltanto le finzioni legali, con esclusione di quelle giudiziali; il che in forza del principio costituzionale di legalità della giurisdizione, secondo cui il giudice è sottoposto soltanto alla legge ex art. 101, comma secondo, Cost.

[24] Al riguardo, occorre puntualizzare che non vi è corrispondenza biunivoca tra norma totalmente inespressa e     costruzione giuridica a-sistematica, in quanto l’ordinamento giuridico italiano vigente ammette la costruzione di          norma totalmente inespressa, purché si tratti di costruzione giuridica sistematica: ne costituisce esempio paradigmatico l’analogia giuridica, nella sua duplice forma di analogia legis e analogia iuris, di cui all’art. 12, comma secondo, delle            disp. prel. c.c. Inoltre, nella maggior parte dei casi, la norma giuridica inespressa è (non totalmente, ma solo) parzialmente inespressa: esempio paradigmatico è la norma derivante da interpretazione estensiva non analogica, in forza del c.d. argomento a fortiori. Illuminante la differenziazione tipologica delle norme inespresse operata da Guastini, L’interpretazione dei documenti normativi, Milano, 2004, 103-106. Ivi l’A., nel dare la prima definizione generale di norme inespresse come norme prive di disposizione, distingue due genera di norme inespresse: da un lato, le norme consuetudinarie; dall’altro lato, le norme (non consuetudinarie) non costituenti il significato di una determinata disposizione. Secondo l’A., le norme inespresse appartenenti al secondo genus non sono sempre e necessariamente derivate da norme espresse, potendo esistere norme inespresse non derivate da norme espresse, in quanto prodotto non tanto di interpretazione in senso stretto (operazione ermeneutica di attribuzione di significato a determinata disposizione), bensì di mera “costruzione giuridica” c.d. dogmatica. Precisamente, Guastini, nella sua “tetracotomia” di norme inespresse non consuetudinarie, annovera tra quelle del terzo tipo quelle aventi come premesse (non norme espresse, ma) «tesi dogmatiche costruite previamente e indipendentemente dall’interpretazione di qualsivoglia specifico enunciato normativo […]; sono frutto di creazione di diritto – “legislazione interstiziale”, come si usa dire – da parte degli interpreti. […]; sono il prodotto di un lavoro di “costruzione giuridica”: nascono insomma da una combinazione di interpretazione e dogmatica». Nel caso concreto in commento, costituisce esempio di costruzione giuridica meramente dogmatica (secondo la tesi suddetta) la norma inespressa eccezionale fondata dalla S.C. sulla natura non giurisdizionale esecutiva del sub-procedimento di ricerca telematica dei beni da pignorare ex art. 492-bis c.p.c.; infatti, in tal caso, si ha norma inespressa “apocrifa”, vale a dire, che «non costituisc[e] il significato (nessuno dei significati plausibili) dell’una o dell’altra disposizione, ma [è] elaborat[a] dagli interpreti, qual[e] conclusion[e] di  ragionamenti (raramente stringenti) nelle cui premesse trovano posto le complesse costruzioni dogmatiche della dottrina e, s’intende, della giurisprudenza»: v. anche Guastini, in DeS, 2012, 413 – 422, spec. 420. Id., Lezioni sul linguaggio giuridico, Torino, 1985, 95, ove si discorre di «enunciati legislativi apocrifi» in riferimento alle norme inespresse.

[25] Cfr. Corte cost. n. 67/1967, che dichiara «non fondata la questione di legittimità costituzionale della norma contenuta nell’art. 513, ultima parte del primo comma, del Codice di procedura civile, in riferimento alla norma contenuta nell’art. 13, secondo comma, della Costituzione». Precisamente, nella motivazione della sentenza predetta, la Corte costituzionale afferma che «Quello di ricercare sulla persona del debitore ciò di cui questi deve essere espropriato è allora un potere dell’ufficiale giudiziario che si pone sullo stesso piano del potere che ha di operare nella casa del debitore. Il relativo esercizio non richiede un’autorizzazione speciale, perché l’autorizzazione è nel titolo esecutivo; il quale abilita a compiere tutti gli atti coattivi che sono necessari alla realizzazione forzata dell’obbligazione […]». Altrettanto significativo è il testo della massima ufficiale correlativa: «La ricerca di beni da pignorare sulla persona del debitore da parte dell’ufficiale giudiziario è un atto di istruzione del pignoramento, che, essendo già autorizzato dal titolo esecutivo, non richiede una speciale autorizzazione del giudice ai sensi dell’art. 13 secondo comma della Costituzione». Il che risulta alquanto importante, tenendo in debita considerazione l’esistenza nell’ordinamento giuridico italiano di titoli esecutivi (non soltanto giudiziali, ma anche) stragiudiziali; questi ultimi in notevole espansione.

[26] Per la dottrina favorevole alla necessità di distinzione tra norma eccezionale, soggetta al divieto di applicazione analogica ex art. 14 disp. prel. c.c., e norma speciale, suscettibile di applicazione analogica, cfr. Velluzzi, Le Preleggi e l’interpretazione, Pisa, 2013, 80-83; Orlandi, Introduzione alla logica giuridica, Bologna, 2021, 186. Al riguardo, si condivide la dottrina che nega la sinonimia tra norma speciale, norma eccezionale e norma derogante, in quanto la norma speciale, a differenza di quella eccezionale, non è sempre e necessariamente derogante (i.e., incompatibile con quella generale per antinomia), potendo essere compatibile con quella generale: cfr. Zorzetto, La norma speciale. Una nozione ingannevole, Pisa, 2010, spec. 30-36, 414-416, 539-540. Per la prima formulazione teorica in sede civile della norma speciale non derogante, cfr. Chiassoni, La giurisprudenza civile. Metodi d’interpretazione e tecniche argomentative, Milano, 1999, 344 sub nota 30. La distinzione tra la norma speciale non derogante e la norma eccezionale ha rilevanza giuridica (non meramente teorica, ma anche e soprattutto) pratica-operativa, in quanto influisce sotto due profili applicativi de iure condito: la suscettibilità o meno di applicazione analogica ex art. 14 disp. prel. c.c.; la suscettibilità o meno di concorso con la norma generale/regolare; infatti, la prima, a differenza della seconda, può essere tanto applicabile analogicamente, quanto concorrente con la norma (più) generale, essendovi rapporto strutturale non di antinomia/incompatibilità, ma di integrazione/complementarità. L’antitetica tesi dottrinale della sinonimia tra norma speciale, norma eccezionale e norma derogante è sostenuta da Modugno, Norme singolari, speciali, eccezionali, voce dell’Enc. dir., Milano, 1979, spec. 513 e 517. Ivi, l’A. afferma che la norma speciale deroga di per sé alla norma generale poiché l’attributo della specialità «non si risolve in altro che nella […] deroga, ossia nella limitazione della […] forza espansiva o della estensione (più generale) della […] forza prescrittiva» della norma. In estrema sintesi, il principio di specialità giuridica, espresso dal noto brocardo «lex specialis derogat legi generali», è operante come criterio logico-giuridico di soluzione dell’antinomia tra due norme vigenti equiordinate e sincroniche, di cui l’una speciale e l’altra generale, se ed in quanto quella speciale sia effettivamente (i.e., non apparentemente) incompatibile con quella generale; il che è da valutarsi necessariamente a posteriori, ossia a seguito di apposita interpretazione sistematica. Argomentando a contrario, il principio in parola non sarebbe invece operante quando la norma (non generale) risulti essere speciale ma non derogante, vale a dire, compatibile con quella generale.

[27] Vale a dire, nell’ipotesi, alquanto rara, di esito positivo della ricerca telematica per individuazione di beni mobili materiali del debitore pignorando; normalmente, secondo l’id quod plerumque accidit, l’esito positivo della ricerca telematica ha per oggetto crediti, quindi beni mobili immateriali presso terzi debitores debitoris.

[28] Per l’argomento a fortiori come tecnica di interpretazione estensiva/auto-integrazione non analogica, cfr. Velluzzi, ivi, spec. 44-45 ed ivi sub nota 79, 85 ed ivi sub nota 167, nonché 93-94 ed ivi sub nota 195. La comparazione tra le due species di ricerca beni pignorabili mette in evidenza la diversità del grado di incidenza sulla libertà del debitore pignorando: maggiore nella ricerca fisica e minore nella ricerca telematica. Infatti, quella fisica comporta il potere officioso dell’ufficiale giudiziario di perquisizione non solo locale, ma anche personale, a norma dell’art. 513, comma primo, secondo periodo, c.p.c; mentre quella telematica può restare tale, senza trasformarsi in fisica, qualora i beni individuati tramite accesso telematico dell’ufficiale giudiziario alle banche dati pubbliche siano esclusivamente immateriali, come i crediti (presso i terzi debitores debitoris) ovvero le quote di partecipazione a s.r.l. Giova puntualizzare che la trasformazione della ricerca telematica in ricerca fisica è possibile giuridicamente (de iure condito, ex art. 492-bis, comma quinto, c.p.c.), ma improbabile concretamente (secondo l’id quod plerumque accidit), dato che i beni individuati a seguito della ricerca telematica ex art. 492-bis, c.p.c., sono esclusivamente immateriali nella stragrande maggioranza dei casi: è rara l’ipotesi di ricerca telematica con esito positivo costituito esclusivamente da beni materiali. Evidentemente, il potere officioso dell’ufficiale giudiziario di perquisizione non solo locale, ma anche personale, postula l’esistenza del titolo esecutivo in senso documentale in capo all’ufficiale giudiziario al momento del compimento del pignoramento mobiliare presso il debitore, così come prescrive apertis verbis l’art. 513, comma primo, c.p.c; dunque, l’essere l’ufficiale giudiziario munito del titolo esecutivo (in senso documentale) in sede di ricerca dei beni pignorabili è conditio sine qua non per poter procedere alla perquisizione locale/personale nei confronti del debitore pignorando. Infatti, il documento-titolo esecutivo in capo all’ufficiale giudiziario., richiesto di procedere al pignoramento mobiliare presso il debitore, funge da autorizzazione legale alla perquisizione locale/personale nei confronti del debitore medesimo, non essendovi la necessità di autorizzazione giudiziale ad hoc; al riguardo è illuminante la motivazione di Corte Cost. n. 67/1967, cit.

[29] V. amplius supra par. 2, per il riconoscimento dello status di organo giurisdizionale esecutivo ausiliario in capo all’ufficiale giudiziario secondo il diritto vigente, nonché infra par. 6, per la necessità giuridica di distinzione tra titolo esecutivo in senso documentale e titolo esecutivo in senso sostanziale.

[30] “Contestomia” è la traduzione in italiano del vocabolo di origine inglese contexstomy, coniato dal giornalista statunitense M. Mayer, What can a man do? Chicago, 1964, 33. Trattasi di neologismo per suffissazione, in quanto consiste nell’apposizione del suffisso derivazionale «-tomia» al radicale «contesto», ove il suffisso medesimo ha il significato di taglio (dal verbo greco τέμνω, che significa tagliare). Infatti, “contestomia” significa, etimologicamente, taglio del contesto, ossia, parafrasando, citazione di testo fuori dal suo contesto; il che costituisce fallacia argomentativa, in quanto ogni testo citato fuori dal suo contesto, mediante estrapolazione, degrada a pretesto. L’effetto decontestualizzante/fuorviante della contestomia trae in inganno, quindi è una fallacia.

[31] Cfr. infatti Delle Donne, ivi.

[32] La debolezza dell’argumentum ad auctoritatem emerge chiaramente considerando l’esempio che di tale argomento fornisce lo stesso Pietro Ispano nelle sue Summulae (V, 36) che, a distanza di secoli, scatena parecchia ilarità. Come noto, ai tempi di Pietro Ispano si credeva che la terra fosse fissa e immobile al centro dell’universo, mentre il sole, incastonato in una delle tante sfere celesti, ruotasse con tutta la sfera intorno alla Terra. Ebbene, per fornire rapidamente un esempio di argomento ad acutoritatem, Pietro Ispano fa l’esempio che si suole addurre a dimostrazione del fatto che il Sole ruoti attorno alla terra. Egli dice “è così, poiché lo dicono gli astronomi” (“gli esperti”, “i tecnici”, si direbbe oggi…). Forse, non c’è nessun argomento retorico rispetto al quale la storia della logica sia stata più beffarda che con questo dell’argumentum ad auctoritatem (“Auctoritas, ut hic sumitur, est iudicium sapientis in sua scientia. Unde a rei iudicio solet denominaci locus iste. Locus ab auctoritate est habitudo auctoritatis ad id quod per eam probatur, ut ‘astronomus dicit celum esse volubile; ergo celum est volubile’. Unde locus? Ab auctoritate. Maxima: unicuique experto in sua scientia credendum est”).

[33] L’equivocazione è la prima delle fallacie classificate da Aristotele tra quelle in dictione, ossia quelle dipendenti                 da espressioni linguistiche, contrapposte a quelle extra dictionem. Precisamente, Aristotele definisce la fallacia di equivocazione come omonimia, vale a dire ambiguità del termine, allorquando lo stesso significante è usato per esprimere due significati differenti. Nell’ordinamento giuridico italiano, vigente e vivente, lo stesso nome-istituto “titolo esecutivo” è equivoco = ambiguo, in quanto può essere usato in due sensi differenti: o in senso documentale o in senso sostanziale; pertanto è importante la relativa distinzione/disambiguazione. Nel caso di specie, la sovrapposizione operata dalla S.C. tra i due sensi ha prodotto equivocazione.

[34] Nella dottrina contemporanea, tale distinzione è focalizzata ripetutamente da Luiso, Diritto processuale civile, III, Milano, 2023, in riferimento al potere – dovere dell’organo esecutivo di verificare sì la sussistenza del titolo esecutivo, ma solo in senso documentale e non sostanziale.

[35] Crivelli, Esecuzione forzata e processo esecutivo, I, Torino, 2006, 226. Ivi l’A. afferma che «La disposizione di cui all’art. 474 c.p.c., ridondando la distinzione tra diritto sostanziale fatto valere e titolo documentale, dopo avere espresso il principio nulla executio sine titulo, si occupa del primo al 1° co. e del secondo al 2° co.».

[36] Illuminante è il commento della massima de qua ad opera di Bellè, Le Sezioni Unite riscrivono i requisiti (interni      ed esterni) del titolo esecutivo: opinioni a confronto intorno a Cass., S.U., n. 11067/2012 (commenti di B. Sassani, E. Zucconi Galli Fonseca, E. Fabiani, C. Delle Donne. M. Pilloni, R. Bellè), in Riv. es. forz. 2013, 126-128. Ivi l’A. afferma che la distinzione dottrinale tra titolo esecutivo in senso documentale e titolo esecutivo in senso sostanziale è recepita e valorizzata dalle S.U. civili della S.C. che, attraverso l’intervento nomofilattico del 2012, hanno confermato e, nel contempo, sviluppato la possibilità di duplice interpretazione del titolo esecutivo ex art. 474 c.p.c.: non soltanto in senso documentale, ma anche in senso sostanziale. Inoltre, lo stesso A., alla luce del duplice significato tecnico-giuridico del termine titolo esecutivo, mette in evidenza che l’ufficiale giudiziario (in primis tra gli organi esecutivi), per poter procedere al pignoramento richiesto, deve limitarsi a controllare la preventiva sussistenza (o meno) del titolo esecutivo in senso documentale, senza alcun riguardo al titolo esecutivo in senso sostanziale (il cui controllo è riservato al giudice dell’opposizione).

[37] Inclusa da Aristotele tra le fallacie extra dictionem nel suo trattato De sophistici elenchis. Come giustamente osservato da D’agostini, Verità avvelenata, ivi, 119, «La formula ignoratio elenchi significa letteralmente “ignoranza della confutazione”. Anticamente era usata per descrivere casi in cui non si conoscono bene le regole della confutazione e quindi si pensa di avere confutato qualcosa senza averlo confutato davvero. [Attualmente] L’ignoratio elenchi è la tipica diversione in funzione di confutazione; si sposta cioè l’attenzione dal centro del discorso, allo scopo di smentire la tesi [oggetto di confutazione] (in greco λεγχος = confutazione)».

[38] Testualmente, il n.1) dell’art. 60 c.p.c. prevede la responsabilità civile del cancelliere e dell’ufficiale giudiziario «quando, senza giusto motivo, ricusano di compiere gli atti che sono loro legalmente richiesti […]».

[39] Cfr. Pilloni, ivi, par. 4, significativamente intitolato «Il travisamento del focus della questione», ove l’A. scrive: «L’ordinanza emessa ai sensi dell’art. 510, c. 1, c.p.c. è titolo esecutivo per le somme non soddisfatte? La risposta non può che essere negativa se si considera l’orientamento giurisprudenziale in punto di “accertamenti” compiuti dal g.e. in sede di assegnazione [quivi il richiamo in nota di Cass. 5 ottobre 2018, n. 24571, che consolida la giurisprudenza della S.C. nel senso che l’ordinanza del g.e. ex art. 510, comma primo, c.p.c., non costituisce titolo esecutivo: Cass. 30 dicembre 2011, n. 30457; Cass. 29 maggio 2003, n. 8634; Cass. 5 marzo 2003 n. 3282; Cass. 25 giugno 2003, n. 10129; Cass. 18 marzo 2003, n. 3985. Ergo, trattasi di orientamento giurisprudenziale consolidato della Corte di Cassazione, che, in quanto tale, integra vero e proprio diritto vivente]: orientamento che la pronuncia in esame neppure prende in considerazione. Ed allora, pur quando vi sia stato un previo rilascio della formula esecutiva da parte del cancelliere, è del tutto legittimo il rifiuto dell’u.g. ad eseguire il pignoramento richiesto, non essendogli del resto precluso, nonostante la spedizione esecutiva del documento, il riscontro sul se effettivamente possa ritenersi “munito di titolo esecutivo” onde procedere a pignoramento. Si tratta di soluzione assolutamente condivisibile, se si considera che la prospettiva della responsabilità civile dell’u.g. di cui all’art. 60, n. 1, c.p.c., per non aver compiuto un atto legalmente richiesto, rinviene la propria esimente nel ricorrere di un giusto motivo di diniego: fermo restando che la giurisprudenza riconosce alla parte alla quale è opposto il rifiuto la possibilità di censurarlo, rivolgendosi al giudice dal quale l’u.g. dipende, affinché ordini a quest’ultimo di compiere l’atto richiesto entro un determinato termine. Del resto, nel caso da cui prende le mosse la decisione in epigrafe, l’u.g. – al quale era stato richiesto di compiere un pignoramento mobiliare esibendosi l’ordinanza del g.e. emessa ai sensi dell’art. 510, c. 1, c.p.c. e il precetto – aveva preso atto della mancata consegna del t.e. originario nonostante fosse stato richiamato nel precetto (nello specifico il t.e. era integrato da un assegno bancario): niente di più e di diverso aveva, dunque, compiuto rispetto al potere riconosciutogli dalla stessa Corte di Cassazione, ossia di provvedere a una semplice lettura delle risultanze estrinseche del titolo pure richiamato nell’atto di precetto, ma non all’uopo esibito. È dunque legittimo il rifiuto di pignoramento da parte dell’u.g. in difetto di titolo esecutivo, spedito o non spedito che sia? Questo solo è il focus della questione che la Corte ha completamente perso di vista, forse abbagliata da un obiettivo diverso che era quello di rivendicare la subalternità dell’u.g. alle prerogative del cancelliere in parte qua, ma così indotta a impiegare le sue migliori energie in un ragionamento che si è risolto, per certi aspetti, in una mera fatica di Sisifo».  In senso conforme cfr. Miccolis, ivi, par. 3, ove è affermato «Occorre considerare che le argomentazioni espresse dalla Corte, al di là della legittima affermazione che “l’ufficiale giudiziario non è un organo giurisdizionale”, trascurano del tutto il fatto che poi, in fin dei conti, il provvedimento pronunciato ai sensi dell’art. 510 c.p.c., alla base del rifiuto dell’ufficiale giudiziario, determinando un accertamento strumentale alla distribuzione, ha una efficacia meramente interna alla esecuzione e, pertanto, non è suscettibile di giudicato, né costituisce titolo esecutivo; e ciò nonostante il cancelliere vi abbia apposto la formula esecutiva. Il che ha indotto la Corte ad omettere del tutto l’approfondimento di questioni non secondarie. Poiché l’art. 60 c.p.c. prevede che «il cancelliere e l’ufficiale giudiziario sono civilmente responsabili: 1) quando senza giusto motivo, ricusano …», la prima questione non approfondita riguarda se l’insussistenza del titolo esecutivo, ancorché il provvedimento fosse munito della formula esecutiva, possa costituire “giusto motivo” del rifiuto quale scriminante della responsabilità civile dell’ufficiale giudiziario. Il tutto anche considerando che il controllo dell’ufficiale giudiziario sia limitato alla “legalità” e non alla “legittimità” della richiesta formulata dal creditore procedente».

[40] Trattasi di vero e proprio diritto vivente, di cui esempio è Cass. civ., Sez. III, n. 24571/2018, che va a consolidare l’orientamento giurisprudenziale della S.C., già espresso in tal senso con i suoi molteplici precedenti; v. anche Cass.,        20 febbraio 2019, n. 4964; Cass., 17 gennaio 2020, n. 1004. Questi ultimi precedenti, peraltro, tengono a precisare di essere pronunce «di espresso valore nomofilattico emess[e] nell’ambito del […] c.d. “progetto esecuzioni” della Terza Sezione Civile».

[41] Di Marzio, Omessa spedizione in forma esecutiva di copia del titolo esecutivo e opposizione agli atti esecutivi,                 in Riv. esec. forz., 2019, 904 – 918. Ivi, l’A. definisce la sentenza Cass. civ., sez. III, 12 febbraio 2019, n. 3967, come «sentenza-arabesco», in quanto la stessa giunge alla conclusione della svalutazione della formula esecutiva come residuo storico (in conformità all’orientamento dominante della dottrina e consolidato della giurisprudenza della S.C.) attraverso un «percorso tortuoso, fors’anche contraddittorio». Infatti, l’autorevole commentatore afferma che «La sentenza in commento opziona […] la tesi Grasso [n.d.r., la tesi secondo cui l’apposizione del “comandiamo” sia condicio juris dell’esecutorietà]; tesi per la quale la formula esecutiva, lungi dal costituire mero elemento estrinseco, che al titolo esecutivo […] nulla dà e nulla toglie, è un quid in mancanza del quale l’attitudine del titolo all’esecuzione non sussiste»; ma, nel contempo, «la tesi Grasso vira di 180 gradi rispetto alla giurisprudenza della S.C., che con la sentenza in commento vira essa stessa di 180 gradi rispetto a se stessa».

[42] Il testo integrale della Relazione illustrativa del c.d. maxi-emendamento governativo al d.d.l. n. 1662/S/XVIII                     è leggibile in www.giustiziainsieme.it, 18 maggio 2021, come allegato pdf al commento di Capponi, Prime note sul maxi-emendamento al d.d.l. n. 1662/S/XVIII. In particolare, v. sub lettera a) dell’art. 8, a commento della riforma del processo civile esecutivo, a partire dalla prevista abrogazione della formula esecutiva.

[43] Cfr., Delle Donne, ivi, spec. sub nota 9, ove, nel commentare il brano estrapolato da Cass. 14478/2024 afferma: «La frase […] non solo non è incompatibile ma addirittura fotografa il potere-dovere dell’ufficiale giudiziario di controllo officioso preventivo della sussistenza o meno del titolo esecutivo in senso formale. Ed in effetti, nel caso concreto, l’ufficiale giudiziario richiesto di procedere al pignoramento mobiliare sulla base di ordinanza del G.E. ex art. 510, comma primo, c.p.c., e pedissequo precetto di pagamento, ha messo a confronto le risultanze estrinseche dei due documenti predetti, prendendo atto della mancata consegna del titolo esecutivo originario costituito da un assegno bancario insoluto».

[44] Canale – Tuzet, La giustificazione della decisione giudiziale2, Torino, 2020, spec. 26-27. Ivi gli AA., nell’analizzare il rapporto tra i due tipi di giustificazione della decisione giudiziale e l’influenza delle fallacie nel ragionamento giudiziale sottolinea: «La correttezza di una premessa è cosa diversa dalla correttezza di un’inferenza». Carcaterra, La logica nella scienza giuridica, Torino, 2015, spec. 25-40 e 59-61. Ivi l’A., dopo avere messo in evidenza la necessaria distinzione tra la verità (o meno) delle premesse e la sussistenza (o meno) del nesso di consequenzialità tra le premesse e la conclusione («E infatti può accadere che in un argomento le premesse siano vere ma non sussista il nesso di consequenzialità, e, viceversa, che le premesse siano false ma che il nesso di consequenzialità stia a posto»), tiene a precisare che il problema riguardante l’an (in caso di argomentazione deduttiva) o il quantum (in caso di argomentazione induttiva) del nesso di consequenzialità è di competenza della logica in senso stretto, mentre il problema della verità/falsità delle premesse e della rispettiva conclusione di un’argomentazione è di competenza epistemologica variabile, a seconda della natura dell’argomentazione medesima; nel caso di argomentazione giuridica interpretativa, la competenza è della scienza giuridica. Parallelamente, lo stesso A. distingue due tipi di vizi strutturali dell’argomentazione: da un lato, i vizi delle premesse (ad esempio, la premessa falsa consistente nell’alternativa incompleta, vale a dire la fallacia della falsa dicotomia); dall’altro lato, i vizi del nesso di consequenzialità, qualificati come «vizi specificamente logici». Precisamente: «Un argomento è viziato nel nesso di consequenzialità, ossia logicamente scorretto, se ha un nesso che non è deduttivamente valido e non è neppure induttivamente abbastanza forte».

[45] Miccolis, ivi.

[46] Precisamente, la metamorfosi istituzionale della Suprema Corte di Cassazione da giudice-interprete-applicatore                   a legislatore interstiziale è ammissibile de iure condito, purché non illimitatamente; diversamente opinando vi sarebbe arbitrarietà interpretativa, con sovrapposizione/confusione tra giurisdizione e legislazione. Evidentemente, la S.C.,             pur essendo giudice di ultima istanza, al vertice della giurisdizione, non è giudice sui generis, così come lo è la                 Corte costituzionale, che ha il ruolo istituzionale di legislatore interstiziale attraverso le sue sentenze c.d. manipolative                      (sia additive sia riduttive), aventi efficacia erga omnes. I limiti di ammissibilità del ruolo istituzionale della S.C. come giudice-legislatore interstiziale sono desumibili dalla dottrina: cfr. CHIASSONI, Tecnica dell’interpretazione giuridica, op. cit., 18. Ivi l’A., dopo avere escluso i due modelli estremi, da un lato quello irrazionale del giudice libero-decisore non motivante (c.d. giustizia di cadì) e dall’altro lato quello illuministico del giudice meccanico applicatore del               diritto (giudice c.d. bocca della legge), condivide, come giusto mezzo, «il modello, più realistico, del giudice             prudente applicatore del diritto e prudente legislatore interstiziale». Ergo, la prudenza come limite di ammissibilità del              giudice-legislatore interstiziale: significativa l’etimologia di giurisprudenza = prudentia iuris. GUASTINI, nella sua distinzione (non dicotomica, ma graduabile) tra interpretazione e costruzione giuridica, con la connessa quadricotomia delle norme inespresse (non consuetudinarie), qualifica il giudice-legislatore interstiziale come costruttore di norme inespresse derivate (non da norme espresse, ma) da tesi dogmatiche, ossia creatore di norme apocrife, ferma restando        la piena legittimità di costruzione di norme inespresse o in quanto derivate da norme espresse o in quanto prodotto di analogia (legis o iuris) ex art. 12 delle Preleggi  (v. amplius supra sub nota 24). Recentemente, sulla prima metamorfosi del ruolo istituzionale della Corte di Cassazione, cfr. CAPPONI, Legittimità, interpretazione, merito. Saggi sulla Cassazione civile, Napoli, 2023. Ivi, l’A., nell’analizzare il trend della Suprema Corte di Cassazione, in sede civile, afferma quanto segue: «Non più giudice dei casi concreti, ma giudice delle questioni astratte, che somministra principi di diritto cui dovrebbero adeguarsi i giudici di merito secondo una concezione della giurisdizione più autoritaria che in passato»; e quindi, «alla ricerca di una funzione in purezza, con i rischi di una operazione destinata a snaturare ruolo e funzione della Corte» (pp. 78-79); con pronunce che hanno costituito creazione di diritto più che interpretazione dello stesso, Gli orientamenti nomopoietici: l’esempio della Cass., sez. III, n. 26285/2019 sulle opposizioni all’esecuzione e      le c.d. preclusioni sospensive (pp. 243 ss.); «la funzione della Corte rischia di scivolare fuori dal circuito francamente giurisdizionale per approdare in un contesto nuovo, dove si presuppone che il dialogo sia con la norma e non con il caso, e si presuppone anche che il frutto di un simile dialogo sia vincolante per ogni interprete (e non soltanto per le parti             in lite)» (p. 281); conclusivamente «La tendenza che sta prendendo piede all’interno della Corte è così quella di fare della Cassazione non più o non soltanto un giudice bensì un organo di coordinazione tra funzione legislativa e funzione giudiziaria» (p. 289).

[47] Terrusi, Le Sezioni Unite e l’art. 363-bis c.p.c.: ovvero le fallacie di un ragionamento controintuitivo, in Judicium.it, 8 ottobre 2024. Illuminante il commento d’apertura: «C’è una strana tendenza in alcuni recenti arresti delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. Si tende ad affermare principi a valle di modelli teorici assunti a postulato, tuttavia rappresentati in base a informatori sintetici assertivi, neppure esattamente colti nella loro intima essenza, e in ogni caso trascurati negli effetti. Ne risulta la pretesa (quasi mai vincente) di delineare in poche battute la migliore delle concezioni possibili nelle materie date, senza avvedersi però delle contraddizioni, e senza adeguata ponderazione degli effetti a medio e lungo termine. Quello in esame è uno di questi casi, emblematicamente rappresentativo di una lista di postulati a monte del ragionamento, difettosa dal punto di vista degli stessi criteri di elaborazione. E difatti l’asserzione della Corte sul rinvio pregiudiziale appare popolata di fallacie, sia di metodo che di sostanza».

[48] Carcaterra, ivi, 9-16 e 59-61, ove l’A. effettua duplice distinzione nell’ambito dell’argomentazione giuridica: la prima tra argomento testuale ed argomento ricostruito; la seconda tra vizi della comunicazione e vizi strutturali. Tale distinzione è importante, in quanto soltanto attraverso la ricostruzione dell’argomento è possibile scoprire le fallacie quali vizi strutturali dell’argomentazione coperti da inganni retorici.

[49] Com’è noto, i canali principali di diffusione della dottrina giuridica, almeno per capillarità, sono le riviste specializzate di diritto a carattere scientifico, in quanto classificate dall’ANVUR in fascia “A”: ormai facilmente accessibili on-line.

[50] Cfr. Pilloni, ivi, che evidenzia la non riducibilità del ruolo istituzionale dell’ufficiale giudiziario a «mero organo ausiliario-subordinato», dato che lo stesso non è «mero esecutore “ad occhi chiusi” di ordini impartiti», ma «assai più che un ausiliario del giudice»; il che ancor prima dell’abrogazione della formula esecutiva, nella misura in cui «l’abolizione della spedizione in forma esecutiva ad opera del d. lgs. n. 149/2022 [è avvenuta] a suggello di un’evoluzione che si è posta in termini non innovativi, ma meramente confermativi-accompagnatori della svalutazione dell’atto di “spedizione” in forma esecutiva, e dunque di prerogative dell’ufficiale giudiziario sussistenti anche in precedenza».