L’art. 614-bis c.p.c. nel prisma della tutela giurisdizionale

Di Ulisse Corea -

Sommario. 1. – Inquadramento sistematico dell’istituto. 2. – L’introduzione nel codice di rito dell’art. 614-bis e le successive riforme. 3. – La natura del provvedimento. 4. Il “provvedimento di condanna” con cui il giudice della cognizione determina la somma dovuta. 5. – Il nuovo potere del giudice dell’esecuzione di emettere le misure di coercizione. 6. La determinazione del quantum. 7. I limiti delle misure coercitive. 7.1 Le controversie di cui all’art. 409 c.p.c. 7.2 – Segue. Le obbligazioni aventi a oggetto somme di denaro. 7.3. La clausola di non manifesta iniquità.

 1.Inquadramento sistematico dell’istituto.

La previsione di una disciplina generale delle misure di coercizione, tradizionalmente considerate uno strumento di “esecuzione indiretta”[1], riveste una spiccata rilevanza sistematica non solo in termini di effettività della tutela giurisdizionale nel nostro ordinamento, quanto soprattutto in relazione all’ampiezza della tutela di condanna, segnatamente di quella in forma specifica, e ai suoi rapporti con l’esecuzione forzata[2].

L’analisi dell’istituto riflette anzitutto la complessità del tentativo di trovare un equilibrio tra l’esigenza di far rispettare gli obblighi liberamente assunti dalle parti (pacta sunt servanda) e quella di preservare il principio di libertà (nemo praecise ad factum cogi potest). Pur chiaramente distinte, infatti, esecuzione forzata e esecuzione indiretta hanno in comune l’uso della forza: non a caso, si è rilevato come il brocardo nemo praecise ad factum cogi potest si sia affermato storicamente proprio con riferimento all’utilizzo delle misure coercitive[3].

Con l’entrata in vigore dei codici del 1940 l’esame delle norme che prevedevano l’esecuzione in forma specifica, unitamente alla mancanza di un sistema di misure di coercizione indiretta, induceva a escludere la stessa possibilità di una tutela di condanna (in sede cognitiva) laddove questa non fosse stata suscettibile di surrogazione a opera di terzi (in sede esecutiva), ovvero nel caso degli obblighi c.d. infungibili. Il problema della tutela in forma specifica venne per tale ragione affrontato col tentativo di tracciare una nitida linea di demarcazione tra gli obblighi fungibili e quelli infungibili, senza tuttavia che se ne sia mai ricavata una nozione condivisa.

La prospettiva più restrittiva muove dall’assenza di una norma che disponga in via generale l’eseguibilità coattiva di tutte le obbligazioni. Il fondamento normativo di tale indirizzo consiste nel rimando che gli artt. 2931 e 2933 c.c. fanno alle “forme” previste dal codice di procedura civile, dalla dottrina considerate rigorosamente “tipiche”. Più precisamente, secondo tale orientamento, in linea di principio il nostro ordinamento è tarato per conferire piena tutela alle obbligazioni pecuniarie, a quelle aventi a oggetto la consegna di una cosa mobile determinata o il rilascio di un bene immobile, nonché alle obbligazioni relative a un facere fungibile e talora a un non fare. In tutti questi casi, dal mancato o inesatto adempimento di cui discorre l’art. 1218 c.c., discende il diritto del creditore a conseguire la prestazione dovuta, mentre il risarcimento del danno costituisce una prestazione accessoria rispetto a quella originaria. Tutte le altre obbligazioni, aventi a oggetto prestazioni diverse da quelle sopra indicate, sarebbero invece tutelate “esclusivamente” attraverso il risarcimento del danno per equivalente[4].

In questa prospettiva, il concetto di fungibilità dovrebbe essere inteso non già soggettivamente, sulla base della valutazione del creditore, ma oggettivamente, dovendo trattarsi di un opus che possa essere realizzato da un numero indeterminato di soggetti[5].

In mancanza di misure di coercizione l’“infungibilità” della prestazione equivaleva dunque a “incoercibilità” dell’obbligo, sì da trasformare, per forza di cose, l’obbligazione inadempiuta in una risarcitoria.

Sennonché, le tensioni dell’ordinamento verso una espansione della tutela specifica si fecero via via più pressanti al cospetto della necessità di vedere attuati diritti dotati di protezione costituzionale e, più in generale, al lume del principio di effettività della tutela giurisdizionale.

L’avvento della Costituzione, con l’affermazione del diritto di azione interpretato nel senso di una garanzia non solo dell’accesso alla giustizia ma anche della sua effettività, ha dato l’abbrivio a un ampio movimento di pensiero volto a riconoscere spazi sempre maggiori di incisività alla tutela giurisdizionale – specie se riferita a diritti “emergenti” che non tollerano di essere tutelati soltanto per “equivalente” – ed in particolare attraverso l’ampliamento delle forme di tutela specifica e l’affermazione del principio della c.d. “priorità dell’adempimento in natura” in luogo di una tutela soltanto risarcitoria[6]. Quest’ultimo avrebbe finalmente soppiantato l’opposto principio del nemo ad factum cogi potest, al quale lo stesso codice del 1940 aveva uniformato, stando alla prevalente opinione, la sua impalcatura[7].

La tesi ricorrente è che l’art. 24 Cost. abbia recepito il principio chiovendiano secondo cui il processo deve assicurare all’attore tutto quello che il diritto sostanziale gli attribuisce e che, pertanto, la tutela specifica goda di un primato che le deriva dalla stessa carta costituzionale. Inoltre, affinché questo primato non rimanga puramente virtuale, dallo stesso art. 24 Cost. si fa discendere il collegato diritto dell’attore vittorioso all’attuazione coattiva della condanna.

Ultimo tassello di questa tendenza, che ne costituisce l’indispensabile completamento, è l’introduzione di un adeguato sistema di misure coercitive, l’unico strumento in grado di assicurare l’attuazione dei diritti a prestazioni infungibili e insurrogabili con le forme tradizionali di esecuzione forzata. Così, il neo-introdotto art. 614-bis c.p.c. è stato interpretato come il definitivo superamento della teorica della correlazione necessaria tra condanna ed esecuzione forzata[8], spostando il cuore del problema dalla estensione dell’esecuzione in forma specifica a quella dell’esecuzione indiretta.

Occorre ricordare che il concetto di infungibilità è stato inteso variamente in dottrina. Accanto a manifestazioni di infungibilità legate alla natura della prestazione (diversa dalla realizzazione di un’opera materiale, di cui si legge nell’art. 612 c.p.c.) o all’interesse del creditore derivante dall’intuitus personae, o comunque all’obiettivo regolamento contrattuale, ulteriori elementi rivelatori della infungibilità erano fatti derivare da divieti inderogabili dell’ordinamento (riduzione in schiavitù, soggezione al potere altrui, status familiari) o più in generale da sfere di autonomia e libertà non coercibili in quanto protette al più alto livello costituzionale. Se le prime manifestazioni riguardano più da vicino la possibilità di accedere agli strumenti di esecuzione diretta degli obblighi di fare, le seconde attengono certamente anche a questa sfera ma oggi toccano soprattutto il tema della coercibilità indiretta.

Una volta che il nostro sistema è stato dotato di un apparato di misure coercitive di applicazione pressocché generale, i concetti di “infungibilità” e di “incoercibilità” (un tempo equivalenti) tornano a separarsi, connotando l’uno la sola esecuzione diretta, l’altro quella indiretta, a prescindere, quest’ultimo, dalla fungibilità della prestazione.

Se l’infungibilità non limita più la possibilità di una tutela in forma specifica in sede di cognizione, consentendo l’emissione di un provvedimento di condanna che il giudice potrà (o meno) corredare della comminatoria per rafforzarne l’effettività, l’incoercibilità invece rimane un limite insuperabile sul piano sostanziale, escludendo che il giudice possa emettere il provvedimento di condanna all’adempimento in natura. Il concetto di incoercibilità esprime, in tal modo, la contrarietà dell’ordinamento a una forma di tutela specifica che contrasti con diritti e libertà che possono risultare prevalenti e meritevoli di maggior tutela.

In linea di principio, il nostro sistema appare neutrale rispetto alle opzioni della tutela specifica o per equivalente, fatti salvi i casi in cui sia stato il legislatore a prediligere l’utilizzo dell’uno o dell’altro rimedio. In mancanza, non è sempre invocabile l’art. 24 Cost. per conseguire necessariamente la tutela in forma specifica, posto che tale articolo nulla dice circa la natura del rimedio esperibile in concreto se non che deve essere “effettivo”; e a non diversi risultati si giunge al lume dei Trattati, della Carta e della Convenzione europea[9].

Una volta ammessa la condanna a prestazioni infungibili, il limite che un tempo era rappresentato dalla infungibilità/insurrogabilità in sede esecutiva, deve pertanto oggi rinvenirsi nella incoercibilità di alcune prestazioni, ricavabile dalle indicazioni provenienti dalla legge sostanziale o dai principi costituzionali.

Se ne trae che l’esistenza di una disposizione generale che disciplina le misure di coercizione indiretta (come l’art. 614-bis c.p.c.), che certamente rafforza l’effettività della condanna, non comporta anche un ampliamento della tutela condannatoria, dovendosi escludere una lettura di tale norma in chiave “rimediale”, ovvero in funzione dell’attribuzione al giudice del potere di selezionare gli interessi “bisognosi di tutela” e di apprestare (dal “basso”) le conseguenti forme di tutela più acconce. In altre parole, l’esistenza del “rimedio processuale” non può essere utilizzata per piegare nel senso della tutela specifica la disciplina ricavabile dalla legge sostanziale.

La concreta erogabilità della misura coercitiva è dunque sottoposta a un duplice livello di controlli. In primo luogo, alla stessa ammissibilità della tutela di condanna in forma specifica – tema che il giudice deve affrontare e risolvere esclusivamente alla luce della disciplina sostanziale; in secondo luogo, all’operatività della clausola di non manifesta iniquità, prevista dall’art. 614-bis, il cui ruolo risulta in tal modo assai nitido. Detta clausola non ha nulla a che vedere con l’ammissibilità della tutela specifica ma rappresenta una valvola di chiusura del sistema, che consente al giudice di non irrogare la comminatoria solo laddove quest’ultima, seppur astrattamente erogabile, non potrebbe, secondo le circostanze, svolgere la funzione compulsiva per la quale è stata pensata[10].

2. L’introduzione nel codice di rito dell’art. 614-bis e le successive riforme.

Nella sua prima versione, il nuovo istituto contemplato dall’art. 614-bis c.p.c. non si discostava eccessivamente dai progetti che l’avevano preceduta[11]. Diversamente dal modello francese delle astreintes preso a riferimento[12], esso si applicava solo a una categoria di obblighi (di “fare infungibili e di non fare”), per i quali non si poteva accedere all’esecuzione forzata diretta, e presentava alcune espresse esclusioni, come le controversie di lavoro pubblico e privato e i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa. La norma non prendeva invece in considerazione, per escluderle dalla sua portata, specifiche situazioni soggettive (come quelle attinenti ai diritti della personalità), ma conteneva all’opposto una innovativa limitazione consistente nel potere del giudice di negare la comminatoria in caso di manifesta iniquità della stessa: disposizione che è stata particolarmente criticata in dottrina per la vaghezza dei suoi presupposti.

La novella del 2015 ha apportato notevoli modifiche alla norma, fatta transitare in un nuovo Titolo IV-bis del Libro III del codice, rubricato “Delle misure di coercizione indiretta”. Allo stesso tempo, è stato eliminato il riferimento alla infungibilità degli obblighi di fare e ampliata la sua sfera di applicazione a tutti gli obblighi diversi dalle prestazioni pecuniarie[13]. La novità è di assoluto rilievo, mutando completamente la fisionomia e la ratio dell’istituto, non più strumento residuale di tutela rispetto all’esecuzione forzata diretta, per i casi in cui essa non può operare, ma rimedio con essa concorrente, potendo essere utilizzato dal giudice anche a presidio di obblighi perfettamente fungibili e passibili di esecuzione nelle forme del codice di rito[14]. Possono essere corredati della comminatoria, infatti, tutti gli obblighi di fare e di non fare nonché quelli di consegna di cose mobili e rilascio di immobili[15], ma anche altri provvedimenti condannatori (“diversi” da quelli relativi a somme di denaro) pur di indole inibitoria. Rimane, tuttavia, il vincolo alla natura “condannatoria” del provvedimento, con esclusione delle sentenze dichiarative e costitutive. Eppure, la misura coercitiva non si attaglia esclusivamente a una pronuncia di condanna, ben potendosi immaginarla accessoria a una pronuncia costitutiva o di accertamento e finanche a un provvedimento endoprocessuale[16]. Autorevoli studi hanno, infatti, dimostrato che anche le sentenze costitutive o di accertamento possono essere idonee a porre delle regole di condotta per il futuro, da cui possono discendere corrispondenti obblighi di fare o non fare, senza che l’incoercibilità degli stessi possa farne venir meno l’imperatività nei confronti delle parti e dei giudici eventualmente chiamati a sindacarne i rapporti in futuro[17].

Nonostante i reiterati interventi, l’istituto delle misure coercitive ha comunque stentato a decollare, essendo rimasto piuttosto trascurato dal ceto forense dagli avvocati e accolto con notevole riottosità dai giudici.

In merito alle cause di tale riluttanza, il principale problema è stato individuato nella collocazione della misura coercitiva “a monte”, ossia nella fase di cognizione, quale appendice della pronuncia di condanna. E ciò sul rilievo che la cognizione nel nostro sistema costituisce un “mondo separato” dall’attività esecutiva, di cui il giudice, al momento in cui pronuncia il provvedimento, non si cura[18]. Inoltre, la necessaria contestualità con la condanna (fino alla più recente riforma) non solo tagliava fuori dalla coercizione indiretta i titoli esecutivi stragiudiziali, ma impediva la modulazione dell’astreinte rispetto ai fatti successivi alla sua irrogazione.

Un secondo fattore è connesso alla mancata disciplina della fase liquidatoria della penalità, non essendosi seguito il modello francese che prevede la possibilità di rivolgersi a tal fine al giudice dell’esecuzione: con la conseguenza che la sua liquidazione è stata implicitamente rimessa allo stesso creditore che vi deve provvedere indicando l’importo (a suo dire) dovuto nell’atto di precetto, finendo però con il trasferire sul giudice dell’opposizione all’esecuzione le spesso inevitabili contestazioni del debitore.

A ciò si aggiunga che tale soluzione neppure è stata pacificamente accolta in giurisprudenza, essendosi formato un orientamento (per vero criticabile e criticato) che ha inteso onerare il creditore di adire nuovamente il giudice della cognizione per integrare quel requisito di liquidità che l’art. 614-bis c.p.c. invero già chiaramente riconosce alla misura sin dalla sua emanazione[19]. Il che rende defatigante il percorso che il creditore deve compiere per ottenere in tempi rapidi la tutela del suo buon diritto, rendendolo finanche intollerabile se applicato alle astreintes accessorie a un provvedimento cautelare.

Quanto ai rimedi per invertire la rotta, la dottrina aveva auspicato anzitutto che l’astreinte potesse divenire uno strumento generale di “assistenza” di tutti i titoli esecutivi, ivi compresi quelli stragiudiziali. In secondo luogo, si era suggerito al legislatore, ferma restando la competenza del giudice della cognizione, di dotare di un analogo potere di concedere il provvedimento anche il giudice dell’esecuzione. Infine, si era segnalata l’opportunità di riconoscere a quest’ultimo anche il potere di liquidazione della somma, pure nelle ipotesi in cui la misura fosse stata già irrogata dal giudice della cognizione, nell’ambito di un processo sommario in contraddittorio.

La legge delega sulla riforma del processo civile[20] e il decreto legislativo n. 149 del 2022, che vi ha dato attuazione, solo in parte hanno posto rimedio alle criticità del sistema previgente.

Un primo intervento previsto dalla delega ha riguardato la revisione dei criteri di determinazione della somma, nell’ottica di contenere la discrezionalità del giudice. Il decreto delegato, dopo aver confermato i criteri già previsti dal vecchio testo – ovvero il valore della controversia, la natura della prestazione dovuta, il danno quantificato o prevedibile e ogni altra circostanza utile – vi ha aggiunto quello del “vantaggio per l’obbligato derivante dall’inadempimento” ma non ha previsto una cornice edittale all’interno della quale il giudice può operare[21] (comma 3).

Al contempo, si è opportunamente stabilito che questi, da un lato, debba indicare la decorrenza (onde concedere al soccombente il tempo necessario ad adempiere) e, dall’altro, possa fissare il termine di durata della misura “tenendo conto della finalità della stessa e di ogni circostanza utile” (comma 1), termine oltre il quale l’astreinte perderà efficacia e al creditore non resterà che incamerare le somme (se necessario previa espropriazione dell’obbligato) e agire per le ulteriori conseguenze risarcitorie.

Si è, poi, tentato di dare una risposta a una delle principali criticità dell’istituto, ovvero quella consistente nella collocazione della misura compulsiva nella sola fase di cognizione. Tuttavia, l’intervento risulta limitato all’attribuzione di una competenza ulteriore a concedere la misura al giudice dell’esecuzione, nei soli casi in cui il creditore non l’abbia “richiesta nel processo di cognizione” (così, il comma 2) o il titolo esecutivo sia diverso da un provvedimento di condanna[22]. Non sono stati raccolti, quindi, i suggerimenti che in dottrina erano stati rivolti al legislatore nel senso di prevedere un ruolo per il giudice dell’esecuzione più consono alla sua natura, ovvero quello di liquidare l’importo della somma dovuta quando l’inottemperanza al provvedimento di condanna si è già manifestato, sì da tarare la penalità alla luce del concreto evolversi dei rapporti.

Il problema della liquidazione della misura già irrogata in sede di cognizione non è stato quindi risolto, come invece si era auspicato sulla scorta dell’esperienza francese[23]. Pertanto, ancora oggi l’art. 614-bis c.p.c. non prevede una fase liquidatoria del provvedimento emesso dal giudice della cognizione insieme alla condanna, che continua a essere qualificato come “titolo esecutivo”, lasciando irrisolti i dubbi circa le corrette modalità da seguire.

3.La natura del provvedimento.

Il legislatore italiano si è ispirato, come noto, alle astreintes francesi, delle quali non è dubbia la connotazione (anche) sanzionatoria[24], maturata in oltre un secolo di storia ed esperienza applicative, pur mantenendo il nostro istituto una certa originalità[25].

La nostra dottrina, avallata dalla Corte di cassazione, ne evidenzia in prevalenza una duplice finalità, che ne metterebbe in luce i profili più rilevanti: una funzione anzitutto compulsoria, ovvero tesa a stimolare l’adempimento alle statuizioni del provvedimento di condanna sotto pena del pagamento di una somma di denaro, secondo modalità variamente articolate in rapporto alla eventuale inosservanza o al ritardo; in secondo luogo sanzionatoria, ove riguardata ex post, nella misura in cui, non essendosi realizzata la prima funzione, in mancanza di esatto adempimento da parte del soggetto tenuto, questi sarà chiamato a corrispondere alla controparte una somma di denaro[26].

Va pur detto che sul tema si registrano anche opinioni diverse. Si è affermato, infatti, che la configurazione dell’astreinte in chiave sanzionatoria risulterebbe “fuori segno” e rischierebbe di tradursi in concezioni autoritarie volte a ribadire la coercitività del diritto e l’autorità degli organi statuali[27]. Le astreintes infatti, prescindendo da connotazioni soggettive quanto alle cause dell’inadempimento (che non devono essere fatte oggetto di indagine), assolverebbero più semplicemente a una funzione processuale, quale meccanismo per il buon funzionamento del processo, alla stregua di quanto accade per la (controversa) disposizione dell’art. 96, terzo comma, c.p.c. (di cui, però, è nota la funzione sanzionatoria)[28] Si assume, poi, che se la natura fosse sanzionatoria, vi potrebbero essere delle conseguenze anche ai fini della “tenuta” costituzionale della disposizione, dovendo essa in tal caso confrontarsi con il principio di legalità di cui all’art. 25, comma 2, Cost.[29]

Venendo al profilo strutturale, la misura coercitiva prevista dall’art. 614-bis c.p.c. si presenta anzitutto come accessoria al provvedimento di condanna e, nella sua ultima versione, può essere emessa dal giudice dell’esecuzione a corredo di un titolo esecutivo stragiudiziale rimasto inadempiuto. La statuizione con cui il giudice “fissa la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento”, ha a sua volta natura condannatoria, per quanto “ancillare” al titolo giudiziale o stragiudiziale che ne occasiona l’emissione[30]: a essa è, infatti, attribuita la qualità di “titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione, inosservanza o ritardo”. Si è parlato di una condanna “in due tempi”, in bilico tra la condanna in futuro[31] e quella condizionata[32], al cui schema preferisce ricorrere una parte della dottrina ponendo in evidenza la natura solo eventuale del credito, condizionato cioè all’esistenza di un evento futuro e incerto, quale l’inadempimento o il ritardo[33]: dapprima minaccia di sanzione per l’inadempimento, poi condanna vera e propria idonea a dar luogo a un’autonoma esecuzione[34].

Il fatto che la somma di denaro abbia come suo beneficiario il creditore e non lo Stato (così come per l’astreinte d’oltralpe) non è di per sé contrastante con la funzione (anche) sanzionatoria, essendosi escluso che la misura coercitiva abbia finalità risarcitoria[35].

Sembra comunque corretto affermare che la peculiarità delle misure di coercizione stia nel fatto che le stesse sono raccordate all’attuazione di obblighi che risultano già accertati in un provvedimento giurisdizionale (o risultino comunque da un titolo stragiudiziale), rispetto al quale si pongono in funzione esecutiva[36]. Si tratta pertanto di una tecnica di tutela finalizzata ad assicurare la “spontanea” esecuzione del provvedimento servendosi di una sanzione civile[37].

Se perciò una funzione sanzionatoria esiste, essendo oggettivamente correlata alla inottemperanza al precetto principale[38], essa non va peraltro enfatizzata.

Si è, infatti, sostenuto che laddove il debitore condannato proponga appello e riesca vittorioso, egli non avrebbe diritto alla ripetizione delle somme versate in pendenza del giudizio per effetto della persistente inottemperanza alla sentenza di primo grado, posto che la riforma avrebbe efficacia solo ex nunc e non per il passato. Non varrebbe, secondo questa lettura, affermare in contrario la natura dipendente della condanna rispetto al capo decisorio principale, dovendo prevalere proprio la natura sanzionatoria dell’astreinte, la cui connotazione pubblicistica escluderebbe che la violazione del comando possa comportare la ripetizione delle somme, pena il venire meno anche dell’efficacia deterrente della misura stessa[39]. In altri termini, la parte beneficiaria della misura coercitiva potrebbe trattenere per sé le somme ricevute dopo la sentenza di primo grado e fino al giorno della pubblicazione di quella di appello.

Per quanto la tesi sia suggestivamente argomentata, ci pare che in caso di riforma della condanna principale non vi siano ragioni per sostenere che debba mantenere efficacia il capo ancillare della comminatoria, analogamente a quanto avviene per le restituzioni delle prestazioni effettuate in base alla sentenza di primo grado. Né può condurre a una diversa conclusione il fatto che il titolo giustificativo della irripetibilità delle somme sia la mera violazione del provvedimento del giudice, posto che questo è stato riformato dalla sentenza di gravame e non è quindi ammissibile che colui che ha vinto in appello rimanga tenuto a pagare per aver violato un diritto che il giudice superiore ha accertato essere inesistente[40].

L’attribuzione della competenza a irrogare la misura al giudice dell’esecuzione, inoltre, ripropone e rilancia un altro aspetto della questione, già dibattuta, della natura dell’astreinte: provvedimento di indole processuale, e precisamente esecutiva, o sostanziale? Si tratta di una questione non meramente nominalistica, stante i risvolti che ne possono discendere anche sul piano dei rimedi[41].

Nel primo senso, si è sostenuto che la parte della sentenza con cui viene irrogata la misura ha un contenuto di rito, non essendo configurabile un diritto sostanziale a ottenere la misura coercitiva. L’aver attribuito al giudice dell’esecuzione il potere di emettere l’astreinte, oltre a correggere quello che si è affermato essere un errore del legislatore del tempo, confermerebbe la natura puramente esecutiva del provvedimento[42]. Altri vi hanno visto invece un provvedimento cui corrisponde un autonomo diritto soggettivo, traendone la conseguenza di sottoporre la relativa istanza alle preclusioni processuali valevoli per le domande[43], o comunque un istituto della cognizione, assimilato alla condanna in futuro o a quella condizionale[44], la cui natura non cessa di essere “sostanziale” essendo pur sempre accessoria al diritto principale azionato[45]. In questa seconda prospettiva, l’istituto rimarrebbe di natura cognitiva anche qualora si volesse riconoscere all’astreinte la natura di “sanzione civile” o nei casi in cui la misura venga erogata nella sede del processo esecutivo, considerate le crescenti situazioni in cui la legge assegna al giudice dell’esecuzione poteri cognitivi veri e propri.

In proposito, è a nostro avviso condivisibile la tesi per cui l’istanza per l’irrogazione della misura coercitiva non costituisca oggetto di una domanda in senso tecnico, soggetta come tale al regime delle preclusioni. Essa non introduce una nuova situazione soggettiva, non allarga il thema decidendum né il thema probandum, sicché nulla osta alla sua proposizione fino alla precisazione delle conclusioni e anche in appello[46]. Ma è da segnalare che la S.C. si è espressa in senso contrario, sul rilievo che i presupposti della misura si basano su circostanze che devono essere tempestivamente allegate (e, se del caso, provate), consentendo così alla parte avversaria una compiuta difesa che non sarebbe possibile se la domanda potesse essere avanzata oltre la barriera preclusiva stabilita per la proposizione delle domande e delle eccezioni o dopo la delimitazione del thema probandum[47]. Al contempo, non è dubbio che, nella valutazione della ricorrenza dei presupposti per la sua emissione, il giudice eserciti poteri cognitivi anche qualora la richiesta venga formulata al giudice dell’esecuzione.

Quale che sia la soluzione sistematicamente più corretta, è certa la netta distinzione delle misure di coazione rispetto all’esecuzione forzata diretta: quest’ultima, infatti, non mira a ottenere l’adempimento dell’obbligazione dal debitore (ancorché sotto la pressione della misura coercitiva), ma il medesimo risultato della prestazione ivi dedotta attraverso la surrogazione dell’apparato dello Stato. Inoltre, mentre l’esecuzione forzata non è una sanzione, essendo diretta a conseguire il bene dovuto mediante surrogazione del debitore, le misure di coercizione presentano anche un profilo sanzionatorio poiché premono sulla volontà dell’obbligato affinché questi adempia (tamen coactus volui)[48].

4. Il “il provvedimento di condanna” con cui il giudice della cognizione determina la somma dovuta.

Il riferimento della norma al provvedimento di condanna porta con sé il quesito su cosa debba intendersi con questa espressione[49]. Il problema non riguarda solo la condanna in sé, con tutto ciò che comporta lo strascico di opinioni sulla sua esatta definizione, ma anche provvedimenti che pur non assumendo la veste di sentenza siano comunque di indole condannatoria[50].

Con riferimento a questi ultimi, gli originari dubbi sono stati in fretta dissipati[51]. Sulla applicabilità della misura a provvedimenti diversi dalla sentenza di condanna, quali provvedimento sommari o cautelari, dottrina e giurisprudenza si sono espresse da tempo in senso positivo[52]. Sembra dirimente al riguardo la stessa locuzione, volutamente generica, utilizzata dal legislatore di “provvedimento” – e non “sentenza” – di condanna[53].

Non avrebbe pregio sostenere il contrario sul rilievo che l’originario riferimento della norma agli obblighi di fare e non fare, con l’implicito rinvio all’art. 612 c.p.c., dovesse interpretarsi nel senso di limitare la compulsabilità del provvedimento alle sole sentenze. È agevole obiettare come anche l’art. 612 c.p.c. sia pacificamente inteso come idoneo “a disciplinare l’esecuzione non soltanto delle sentenze, ma anche di altri provvedimenti che di queste non hanno forma e contenuto, quali, ad esempio, le ordinanze emesse in sede di procedimenti per denuncia di nuova opera o di danno temuto, nonché, secondo un indirizzo giurisprudenziale, dei provvedimenti concernenti l’affidamento dei minori”[54]. Senza contare che l’attuale testo dell’art. 614-bis più non si riferisce solo agli obblighi di fare e non fare ma anche a quelli di consegna o rilascio, per i quali gli artt. 605 e ss. c.p.c. non prevedono che il titolo debba essere rappresentato da una sentenza.

Neppure potrebbe valere opporre che i provvedimenti cautelari non costituiscono titoli esecutivi[55], sì da escludere che gli stessi possano essere contemplati dall’art. 614-bis c.p.c., che espressamente qualifica come titolo esecutivo il provvedimento di condanna al pagamento delle somme dovute in virtù della misura di coercizione. Se è vero che l’esecuzione forzata e l’attuazione cautelare sono fenomeni distinti[56], ciò non è di per sé sufficiente a escludere che anche al provvedimento cautelare possa attribuirsi tale qualità, come dimostrano gli artt. 669-septies e 669-octies c.p.c. con riguardo al capo relativo alla “condanna alle spese”. Ma l’argomento non sarebbe comunque risolutivo. Da un lato, è lo stesso art. 669-duodecies c.p.c. a prevedere che l’attuazione delle misure cautelari aventi a oggetto il pagamento di somme di denaro debba avvenire con le forme previste per l’esecuzione forzata, in quanto compatibili, così assimilandoli ai titoli esecutivi. Dall’altro, è noto che la qualità di titolo esecutivo può essere riconosciuta, diversamente da quanto recita l’art. 474 c.p.c., anche a provvedimenti per i quali la legge non la affermi espressamente, come nel caso dell’ordinanza di assegnazione ex art. 553 c.p.c. che una ormai consolidata giurisprudenza considera titolo esecutivo nei confronti del terzo pignorato[57].

Inoltre, la stessa nozione di condanna non richiede necessariamente che la stessa sia contenuta in un atto, come la sentenza, idoneo a passare in giudicato[58]. Militano, infine, in tal senso, i rilievi pienamente condivisibili di chi, in dottrina, ha ritenuto che la soluzione positiva dovesse accogliersi anche in ragione dell’esigenza di garantire l’effettività della tutela cautelare, specie là dove vengono in considerazione obblighi infungibili, potendo svolgere le misure coercitive una importante funzione di incentivazione alla spontanea ottemperanza al provvedimento cautelare[59]. D’altra parte, trattandosi di misure cautelari anticipatorie di sentenze di condanna, non si vede ragione alcuna per escludere la loro idoneità ad anticipare anche il capo che dispone la misura coercitiva[60].

Diverso è il caso in cui il “provvedimento di condanna” ex art. 614-bis sia un capo condannatorio accessorio a sentenza costitutiva che, in quanto non meramente dipendente ma in rapporto di sinallagmaticità con il capo costitutivo, non abbia acquistato esecutività, dovendo attendere il passaggio in giudicato[61]. In tal caso, a nostro avviso, non essendo esecutivo il provvedimento di condanna “principale”, neppure lo sarà il provvedimento “ancillare” comminatorio, il che esclude che si pongano problemi di raccordo tra i due ed esclude che l’obbligato sia tenuto a una prestazione immediata quando il regime della pronuncia principale lo esclude[62].

Un dubbio si pone poi per le c.d. condanne implicite. Secondo un autorevole insegnamento della dottrina, perché vi sia una condanna non occorrono formule sacramentali[63], a condizione che la sua esistenza possa ricavarsi dal contenuto complessivo della sentenza, non potendosi ricorrere a elementi esterni[64]. Occorre pertanto interpretare il titolo al fine di verificare se lo stesso contenga, pur in mancanza di una chiara esplicitazione nel dispositivo, una statuizione condannatoria comunque desumibile dal “contesto”, ovvero dall’esistenza obiettiva di una necessità di tutela esecutiva o, più in generale, di adeguamento della realtà materiale a quella giuridica. In questo senso, è corretto l’approccio della giurisprudenza là dove ricollega per l’appunto alla “funzione” svolta in concreto dalla sentenza costitutiva o dichiarativa la possibilità di ricavare l’esistenza di un capo condannatorio implicito[65]. In questi casi, l’irrogazione della misura può costituire ulteriore elemento per ricavare l’esistenza di un capo condannatorio implicito rispetto al quale la stessa si presenta come ancillare. Mentre il giudice dell’esecuzione richiesto dell’emissione di una misura coercitiva a fronte di una sentenza dichiarativa o costitutiva potrà legittimamente concederla qualora ritenesse inequivocamente presente un capo condannatorio implicito, alla luce dei predetti criteri.

Ulteriori dubbi sono stati sollevati per i verbali di conciliazione: la tesi prevalente ritiene ammissibile la previsione di una misura coercitiva in un verbale di conciliazione giudiziale per il particolare ruolo assunto dal giudice nella fase di formazione e verifica dell’accordo, mentre si è opinato in senso opposto per i verbali di conciliazione stragiudiziali[66].

Da ultimo, è discussa la proponibilità di una domanda di condanna ad adempiere l’obbligo di concludere un contratto sotto pena di astreinte, beneficiando in tal modo della naturale esecutività della sentenza di condanna. Tale domanda, si è detto, si potrebbe formulare in cumulo (non alternativo) con quella di sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c. e con quella di condanna al pagamento del prezzo o al rilascio del bene oggetto di compromesso[67].

Il problema è rappresentato dalla sorte del contratto costituito sub poena in ipotesi di riforma della sentenza in appello, eventualità che si è immaginato di poter disciplinare concedendo all’appellante un’azione di annullamento equiparabile a quella per “violenza morale” o un’azione di accertamento del diritto di proprietà sul bene oggetto del contratto definitivo, in ragione dell’avveramento della implicita condizione risolutiva cui la stipula del contratto era sottoposta e consistente, per l’appunto, nell’accoglimento del gravame[68].

La proposta è stata generalmente apprezzata ma ritenuta inaccoglibile[69], in considerazione dell’esistenza del rimedio tipico specifico di cui all’art. 2932 c.c., ma alle critiche si è risposto che l’art. 614-bis non esclude la possibilità di un concorso con altri strumenti, di natura (latamente) esecutiva, come quello previsto dall’art. 2932 c.c.[70]

In realtà, anche sulla scorta di quello che è, allo stato, l’orientamento della Suprema Corte, pare difficile ammettere la possibilità di una condanna a stipulare un contratto, in quanto si farebbe conseguire con una sentenza di primo grado lo stesso effetto della sentenza costitutiva prevista dall’art. 2932 c.c., ma in via anticipata rispetto al giudicato; ciò che pare contrastare con la diversa scelta del legislatore di consentire la produzione di quell’effetto, per le rilevanti conseguenze che discenderebbero dalla riforma della sentenza, soltanto al suo passaggio in giudicato. La possibilità di accogliere o meno questa proposta, pertanto, dipende a nostro avviso dalla soluzione della più generale questione della portata della provvisoria esecutività delle sentenze disposta in via generale dall’art. 282 c.p.c.[71].

5. Il nuovo potere del giudice dell’esecuzione di emettere le misure di coercizione.

La novità più importante della riforma consiste nell’attribuzione al giudice dell’esecuzione del potere di irrogare la misura coercitiva anche a beneficio dei titoli stragiudiziali, i quali sarebbero rimasti altrimenti penalizzati dalla limitazione al provvedimento di condanna[72]. La nuova versione dell’art. 614-bis, al secondo comma, consente però al giudice dell’esecuzione di munire di astreinte anche il provvedimento di condanna emesso dal giudice della cognizione, ma solo allorché la misura non gli sia stata “richiesta”. In tal modo viene a prefigurarsi chiaramente nel primo caso una competenza esclusiva del giudice esecutivo, nel secondo caso una competenza ripartita (e alternativa) tra giudice della cognizione e giudice dell’esecuzione.

I presupposti e i criteri di determinazione del quantum della misura coercitiva sono i medesimi di quelli applicati dal giudice della cognizione.

Il problema è che il comma in esame detta una laconica disciplina di questo potere, che lascia aperte diverse questioni. La scelta di attribuire una competenza in materia al giudice dell’esecuzione è sicuramente condivisibile, anzi, come si è detto, la dottrina aveva criticato il legislatore del 2009 per aver collocato l’istituto nell’ambito del processo di cognizione. Il g.e. infatti sarà (verosimilmente) adito quando l’inadempimento al provvedimento di condanna o al titolo esecutivo stragiudiziale si sarà già realizzato, il che consente al giudice di svolgere una verifica più consapevole tanto in merito alla sussistenza dei presupposti per la sua concessione quanto con riferimento alla sua più opportuna quantificazione, di guisa che la misura coercitiva potrà meglio adattarsi alle concrete peculiarità della fattispecie e alle eventuali difficoltà incontrate nell’esecuzione specifica.

Ma altrettanto opportuna sarebbe stata la scelta di attribuire al giudice dell’esecuzione un potere integrativo dei poteri del giudice della cognizione, come quello di liquidare l’importo della penale o di modificarla o revocarla, il che avrebbe conferito maggiore duttilità al sistema e ne avrebbe garantito, verosimilmente, una più estesa applicazione. Ma il legislatore non è andato in questa direzione, essendosi limitato a conferire al giudice dell’esecuzione una competenza del tutto analoga e speculare a quella del giudice della cognizione. Con l’unica differenza che mentre l’istanza rivolta al primo presuppone che il titolo si sia già formato e sia giudiziale o stragiudiziale, quella rivolta al secondo sfocerà di regola in un provvedimento unitario in cui il titolo rappresentato dalla misura coercitiva si aggiungerà al titolo, così contestualmente formato, relativo alla condanna “principale”.

Con locuzione quantomeno anodina, poi, il secondo comma prevede che l’istanza al giudice dell’esecuzione possa essere formulata solo quando la misura non sia stata “richiesta” al giudice della cognizione. Il che pone un problema di possibili conflitti di competenza tra le due autorità.

Sotto un primo aspetto, si potrebbe ritenere che, posto che l’istanza non incorre nelle preclusioni del giudizio di merito ed è proponibile anche per la prima volta in appello[73], il giudice dell’esecuzione possa intervenire solo quando non sia stata richiesta nell’intero corso del processo e non vi sia più ormai alcuna possibilità di proporla al giudice della cognizione per l’esaurimento dei rimedi impugnatori, diversamente la parte sarebbe tenuta a proporla in appello. A ben vedere, però, questa lettura risulterebbe eccessivamente rigorosa e neppure conforme alla ratio “espansiva” della riforma, dovendosi piuttosto ritenere che la parte sia solo facoltizzata a proporre l’istanza anche nel giudizio di appello, in alternativa alla possibilità di adire direttamente il g.e., scelta questa senz’altro più lineare ed efficace, non fosse altro che per il risparmio di tempo[74].

Se questa soluzione è corretta, dovrebbe allora ritenersi che analoga facoltà risieda in capo alla parte che abbia ottenuto un provvedimento cautelare non munito di astreinte ma che intenda proporre istanza in tal senso. Posto che il giudice che ha emesso il provvedimento cautelare può essere adìto in ogni tempo per l’attuazione del medesimo, pare corretto concludere che in una siffatta situazione la parte possa scegliere se ricorrere al giudice della cautela ai sensi dell’art. 669-duodecies c.p.c., quale giudice della “cognizione” o al giudice dell’esecuzione ex art. 614-bis, secondo comma, c.p.c., competente per il fatto che al primo la misura “non è stata richiesta”.

Per converso, non sembra più plausibile la soluzione di rivolgersi al giudice della cognizione con autonoma domanda finalizzata solo a munire di astreinte un provvedimento di condanna emesso in precedente giudizio e passato in giudicato: in tal caso, deve ritenersi che la competenza del giudice della cognizione sia venuta meno e residui la sola possibilità di proporre istanza al giudice dell’esecuzione, non essendo stata “richiesta” la misura al primo giudice.

Non potrà invece ricorrersi al giudice dell’esecuzione in caso di rigetto dell’istanza in sede di cognizione e, stando al tenore letterale della nuova disposizione, (sembrerebbe) neppure in caso di omessa pronuncia. In realtà, in quest’ultimo caso non vi è ragione di escludere la competenza del g.e.: la logica seguita dal legislatore sembra infatti quella di non provocare interferenze tra il giudice della cognizione e quello dell’esecuzione, interferenze che non hanno ragione di porsi allorché l’istanza al giudice della cognizione sia rimasta del tutto trascurata (sempre che, ovviamente, non possa dirsi implicitamente rigettata)[75].

Neppure è previsto che il g.e. possa modificare o revocare la misura coercitiva già fissata dal giudice della cognizione[76]. Anche in tal caso, dovrebbe escludersi tale possibilità, valendo la stessa logica prescelta dal legislatore: ma non è dubbio che si tratta di una soluzione inefficiente. Laddove si fosse imboccata la direzione, opposta, di una integrazione dei poteri e di un maggiore raccordo tra i due giudici, il giudice dell’esecuzione non solo avrebbe potuto liquidare la somma indicata come dovuta per ciascuna violazione o inadempienza nel provvedimento emesso dal giudice di cognizione, ma gli si sarebbe consentito di incidere sull’efficacia di quel provvedimento, reso in un momento in cui non era ancora noto come si sarebbe comportato il soccombente, modificandolo o revocandolo alla luce della situazione concretamente esistente. Ma per far ciò sarebbe stato necessario dotare l’istituto di una vera disciplina, che viceversa risulta gravemente carente. In mancanza, affermare l’esistenza in capo al g.e. di un siffatto potere di modifica o revoca (ipotizzando, ad esempio, che lo stesso possa ritenersi disciplinato dalle disposizioni del procedimento cautelare uniforme, sovente prese in prestito dalla giurisprudenza) sarebbe certamente una forzatura.

Eppure, se tanto pare precluso al g.e. con riferimento al provvedimento di condanna[77], non sembra esserlo con riferimento alla misura dallo stesso irrogata ai sensi del secondo comma della norma, potendo egli sempre revocare o modificare il proprio provvedimento fino a quando lo stesso non abbia avuto esecuzione (art. 487 c.p.c.). Sempre che non si ritenga che la natura cognitiva del potere esercitato dal g.e non lo renda “sempre” modificabile o revocabile ai sensi dell’art. 177 c.p.c.

Ed altrettanto è a dirsi per il giudice cautelare, il quale potrà sempre revocare o modificare l’astreinte ai sensi dell’art. 669-decies c.p.c. laddove non sia iniziato il giudizio di merito, così come potrà farlo il giudice istruttore della causa di merito nell’ipotesi opposta.

La duplice competenza a emettere la misura coercitiva si riflette, poi, nella duplicità dei rimedi. Se il provvedimento è ancillare alla condanna, esso dovrà essere oggetto di tempestiva impugnazione secondo le regole ordinarie, nei casi in cui la condanna sia inflitta con sentenza, pena il suo passaggio in giudicato[78]; là dove invece il provvedimento sia di tipo cautelare o sommario, occorrerà far ricorso agli strumenti lato sensu impugnatori di volta in volta eventualmente previsti[79]. Mentre qualora sia irrogato dal giudice dell’esecuzione, dopo la notifica del precetto, il debitore (come il creditore, se intenda contestare il rigetto dell’istanza o la quantificazione della somma) potrà far ricorso all’opposizione agli atti esecutivi, essendo tale strumento ormai da tempo configurato come un rimedio di “chiusura”, idoneo a veicolare contestazioni anche sul merito dei provvedimenti del giudice che incidano su diritti delle parti[80]; e ferma restando la sua facoltà di proporre opposizione all’esecuzione prima ancora che il giudice si pronunci, ove si contesti il diritto del creditore di procedere a esecuzione forzata[81].

Giova, tuttavia, rilevare come queste conclusioni, apparentemente scontate[82] e alle quali perviene la dottrina prevalente, possano risultare più incerte là dove si assuma che la natura squisitamente cognitiva del potere esercitato dal giudice nel concedere la misura coercitiva possa incidere anche sul regime processuale, non potendosi escludere (benché non sia affatto suggeribile) in tal caso che il rimedio impugnatorio si possa individuare nell’appello ogni qual volta si faccia valere una lesione di una situazione soggettiva sostanziale[83].

Analoghi dubbi possono essere sollevati quanto al regime da applicare ai casi di conflitti di competenza tra i due giudici. Si è così ritenuto che, se il potere esercitato dal g.e. è un potere cognitivo esso sarà direttamente impugnabile con regolamento, senza che si debba ritenere assoggettabile a tale strumento solo la sentenza che concluda l’eventuale opposizione agli atti avverso detto provvedimento, come sostenuto da un consolidato orientamento della Cassazione[84].

Un’ulteriore considerazione merita la previsione secondo cui la somma dovuta a titolo di penalità è determinata dal g.e. solo dopo la notifica del precetto. Per quanto non lo si dica, è evidente che alla notifica del precetto si deve accompagnare, come di regola, la previa o contestuale notifica del titolo esecutivo, sia esso quello stragiudiziale che il provvedimento di condanna che l’astreinte mira a rafforzare[85]. La norma ha peraltro un suo rilievo sistematico, in quanto rivelatrice dell’idea del legislatore che, là dove la misura venga richiesta al g.e., ciò che si introduce con il ricorso ex art. 612 c.p.c. è un vero e proprio processo esecutivo, seppure del tutto particolare: non è previsto infatti il rispetto del termine dilatorio di cui all’art. 482 c.p.c., sicché potrebbe ritenersi che alla notifica del titolo e del precetto possa seguire immediatamente il deposito del ricorso[86].

Quanto al procedimento, la scelta del legislatore è ricaduta sull’art. 612 c.p.c., ovvero sulla disciplina dettata per l’esecuzione degli obblighi di fare e di non fare che si confà meglio di ogni altro all’istituto per la duttilità delle sue caratteristiche, il ruolo centrale che vi assume il giudice, l’immediatezza del suo coinvolgimento e la natura dei poteri ivi esercitati, nonché per l’espressa previsione del contraddittorio con le parti[87]. Queste dovranno essere sentite, infatti, in merito anzitutto all’esistenza di un idoneo titolo esecutivo (giudiziale o stragiudiziale che sia[88]), così come di un inadempimento rispetto agli obblighi contenuti nel titolo nonché rispetto alla quantificazione della somma, alla durata del provvedimento, alla sua decorrenza.

Si tratta di un rinvio nei limiti della compatibilità, essendo chiaro che nel caso di specie non si dovranno stabilire le modalità di esecuzione di un obbligo di fare o non fare, né si tratta di individuare le persone che devono provvedere all’esecuzione o alla rimozione di un’opera, ma occorre che il giudice svolga una ricognizione circa la sussistenza dei presupposti per l’emanazione della misura coercitiva – l’esistenza di un titolo stragiudiziale, la mancata richiesta della misura coercitiva al giudice della cognizione, l’esistenza di un inadempimento nonostante la notifica del precetto, la non manifesta iniquità della misura richiesta – come di tutti gli altri elementi da valutare ai fini della determinazione del quantum[89]: attività, queste, la cui natura è chiaramente cognitiva.

Il decreto legislativo n. 164 del 2024 ha aggiunto un periodo al secondo comma, in forza del quale il provvedimento perde efficacia in caso di estinzione del processo esecutivo. L’innesto non è ben chiaro, in quanto il provvedimento cui allude la norma è quello del g.e. che determina la somma dovuta, emesso il quale il procedimento esecutivo in questione è definito, sicché non è dato comprendere a quale ipotesi di estinzione faccia riferimento la norma.

Si possono avanzare al riguardo due interpretazioni alternative. La prima è che il legislatore si riferisca al processo esecutivo intentato dal creditore ai sensi del quarto comma dell’articolo, a seguito della violazione della comminatoria emessa ai sensi del secondo comma. Detto provvedimento è infatti a sua volta titolo esecutivo per l’espropriazione forzata in caso di inadempimento del debitore all’obbligo di pagare le somme determinate con l’astreinte: ma questo è un procedimento diverso e ovviamente successivo, retto dalle ordinarie regole anche con riferimento all’estinzione e non avrebbe senso stabilire la perdita di efficacia della misura coercitiva in una siffatta eventualità[90].

La seconda è reputare che la misura coercitiva emessa dal g.e. a seguito della notifica del precetto perda efficacia in caso di estinzione del processo di esecuzione forzata diretta del titolo “principale”, da iniziarsi entro i novanta giorni dalla notifica del precetto medesimo[91]. Ma anche una siffatta lettura ci appare poco perspicua e non coerente con l’impianto della norma oltrechè estremamente limitativa del potere riconosciuto dalla riforma Cartabia al g.e. Essa infatti legherebbe le sorti della misura coercitiva a quelle di un processo esecutivo che il creditore potrebbe decidere di non attivare o, se iniziato, di rinunciarvi, senza che ciò debba interferire con il “diverso” procedimento esecutivo previsto dal secondo comma per la concessione della misura coercitiva. In altre parole, nei casi di obblighi di fare fungibili o di consegna o rilascio, il creditore è libero di intraprendere l’esecuzione forzata diretta come quella indiretta, o entrambe, e l’estinzione dell’eventuale processo esecutivo diretto – per rinuncia, come per inattività – non dovrebbe comportare alcuna conseguenza negativa per l’esecuzione indiretta. Né, riteniamo, un simile onere potrebbe essere ricavato dalla disposizione aggiunta dal correttivo in assenza di una chiara previsione in tal senso, finendo per introdurre in modo equivoco e surrettizio una limitazione di efficacia della misura rilasciata dal g.e. del tutto estranea a quella emessa dal giudice della cognizione[92].

La previa notificazione del precetto, insomma, che pure nelle intenzioni del creditore potrebbe essere propedeutica (anche) a una esecuzione diretta del titolo (principale) giudiziale o stragiudiziale, è invero prevista dalla norma (se si vuole, in modo finanche superfluo) come propedeutica per la domanda al g.e. di concessione della misura coercitiva, senza che vi sia però alcun onere per il creditore di attivare o portare a termine un diverso processo esecutivo fondato sul titolo esecutivo principale (condanna non munita di astreinte o titolo stragiudiziale che sia).

Si deve, dunque, propendere per una lettura conservativa dei poteri del giudice dell’esecuzione e dell’impianto dell’istituto come prefigurato dal comma 2 della norma nella versione introdotta dalla riforma Cartabia, nel senso che il riferimento all’estinzione del processo esecutivo, che farebbe perdere efficacia alla misura coercitiva: (i) riguardi il processo esecutivo eventualmente introdotto dal creditore sulla base del titolo “principale”; (ii) debba intendersi nel senso che quel processo esecutivo si sia concluso con la soddisfazione del creditore ovvero con l’adempimento spontaneo del debitore che comporti la successiva estinzione del medesimo processo[93]; (iii) non operi in tutti quei casi in cui il titolo “principale” non sia stato azionato esecutivamente per scelta del creditore o per ineseguibilità nelle forme del Libro Terzo del c.p.c[94].

6. La determinazione del quantum.

Il legislatore, come si diceva, si è limitato a dettare alcuni criteri che il giudice è tenuto a prendere in considerazione nella determinazione della misura, senza una precisa cornice edittale[95]. Questi criteri in qualche modo contengono il potere discrezionale del giudice e lo vincolano nella redazione del provvedimento a motivare puntualmente le ragioni per cui ha ritenuto congrua la somma determinata. Inoltre, tenuto conto che la sanzione scatta in relazione a ogni “violazione” o “inosservanza” successiva ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento, il giudice sarà tenuto a individuare con la massima precisione possibile il contenuto della prestazione da adempiere, al fine di consentire il futuro controllo delle avvenute violazioni nella competente sede delle opposizioni all’esecuzione; nonché dovrà determinare l’unità di misura del ritardo (giorni, settimane, mesi) e fissare il termine di decorrenza della misura per dare modo al soccombente di adempiere in caso di prestazioni di dare o facere.

Infine, sarà opportuno fissare anche un termine di scadenza della misura stessa, come oggi consente espressamente il primo comma, posto che oltre una certa durata si deve ritenere che l’efficacia compulsoria della misura sia venuta meno e non resterà allora che rivolgersi nuovamente al giudice per ottenere una tutela di tipo risarcitorio[96].

Venendo ai criteri indicati dalla legge, essi sono i seguenti: il valore della controversia, il danno quantificato o prevedibile, la natura della prestazione, il vantaggio per l’obbligato derivante dall’inadempimento e ogni altra circostanza utile. La novità introdotta dalla riforma è relativa al criterio del vantaggio, la cui logica è spiegata nella Relazione illustrativa sul rilievo che la misura di esecuzione indiretta ha la finalità di indurre l’obbligato ad adempiere volontariamente per il fatto che l’inadempimento gli provoca un pregiudizio superiore al vantaggio che ne deriva.

Tutti i criteri rispondono all’esigenza di rispettare il principio di proporzionalità della sanzione[97] e, in qualche modo, anche di prevedibilità della stessa, fermo restando, sotto quest’ultimo profilo, quanto diremo appresso in merito alla mancanza di minimi e massimi edittali[98], per la quale si pone il dubbio di illegittimità costituzionale[99].

Nella sentenza n. 139 del 2019 la Corte costituzionale, dopo aver ribadito il significato della riserva relativa di legge dell’art. 23 Cost., ha ricordato come, nella sua giurisprudenza, questo precetto costituzionale si possa intendere rispettato allorché la fonte primaria stabilisca “sufficienti criteri direttivi e linee generali di disciplina”, richiedendosi in particolare che “la concreta entità della prestazione imposta sia desumibile chiaramente dalla legge (sentenze n. 83 del 2015 e n. 115 del 2011)”. Con riferimento all’art. 96, terzo comma, c.p.c., essa ha quindi constatato che il legislatore processuale ha affidato al giudice il compito di quantificare la somma secondo un criterio puramente equitativo, così dando séguito a una tendenza volta a valorizzare “l’attività maieutica di formazione del diritto vivente” propria della giurisprudenza. Attività che nella specie la Corte di legittimità ha svolto richiamando il criterio di proporzionalità in base al quale ha fissato nel doppio dei parametri previsti per i compensi forensi, in rapporto al valore della causa, il limite oltre il quale la somma di denaro prevista da quella disposizione non può andare[100]. Il che è stato ritenuto dalla Corte costituzionale alla stregua di una “sufficiente base legale” della disposizione, nonostante la carenza di una cornice edittale.

Una cornice edittale manca anche nell’art. 614-bis c.p.c., ove sono indicati solo i criteri cui il giudice si deve attenere nella valutazione, senza tuttavia poter contare su tetti fissi, minimi e massimi, previsti dalla legge. Si tratta, allora di capire, se questi soli criteri siano idonei a fornire una sufficiente base legale alla disposizione, sì da non costituire violazione dell’art. 23 Cost. Se i criteri indicati appaiono sufficienti a delimitare il potere discrezionale del giudice, ove parametrati ad altre disposizioni che prevedono l’irrogazione di sanzioni civili o amministrative[101], il vero problema è quindi costituito dalla mancanza della cornice edittale. Conseguentemente, o si ritiene sotto questo aspetto la disposizione incostituzionale o si tenta un’interpretazione orientata, analoga a quella effettuata dalla Corte costituzionale sull’art. 96, terzo comma, c.p.c., ritenuto legittimo in quanto implicitamente contenente il limite della “misura dei compensi liquidabili in relazione al valore della causa”[102].

Nel nostro caso, tuttavia, il riferimento a questo criterio non ci pare altrettanto agevole, vuoi per la diversità di fini perseguiti dalle due norme, vuoi per le caratteristiche della condotta presa in considerazione, nel primo caso costituente un abuso del processo, nel secondo caso una inottemperanza a un provvedimento giurisdizionale che può assumere connotati molti diversi e complessi, legata com’è a singole reiterate violazioni o al ritardo nell’esecuzione del provvedimento di condanna o anche a forme di inadempimento parziale. Pare allora più coerente – se si vuole salvare la disposizione da una dichiarazione di incostituzionalità – contemplare delle fattispecie legali affini in cui è prevista una cornice edittale che risulti utilizzabile anche ai fini della norma in esame[103].

In questa prospettiva, ci sembra possibile fare riferimento alla nuova misura coercitiva prevista dall’art. 140-terdecies del codice di consumo come ancillare ai provvedimenti inibitori di cui all’art. 140-octies, nel quale viene definita la forbice entro la quale può essere determinata la somma dovuta, da un minimo di 1000 euro a un massimo di 5.000 euro per ogni inadempimento o giorno di ritardo[104]. Il giudice dovrebbe allora fare riferimento, anche esplicitandolo, a questi parametri, da cui potrebbe discostarsi, nel rispetto del principio di proporzionalità e con riferimento specifico ai criteri considerati dalla stessa norma, solo con analitica e puntuale motivazione.

A ciò si aggiunga che, come rilevato, il nuovo testo dell’art. 614-bis c.p.c. oggi prevede espressamente che il giudice fissi la decorrenza dell’obbligo di pagare le somme e il “potere” del giudice di fissare un termine di durata della misura, tenendo conto delle finalità della stessa e di ogni altra circostanza utile. Si tratta di una limitazione temporale idonea a perimetrare ulteriormente la efficacia del provvedimento, onde evitare, ancora una volta, effetti perniciosi ed ultronei rispetto agli obiettivi della norma.

7.I limiti delle misure coercitive.

7.1 Le controversie di cui all’art. 409 c.p.c.

L’art. 614-bis c.p.c. esclude dal suo ambito di applicazione le “controversie di lavoro subordinato pubblico e privato” e “i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’art. 409” del codice di rito[105]. Si tratta dell’unica esclusione espressamente disposta ratione materiae, sulla quale la maggior parte dei commentatori si è espressa in senso molto critico, non soltanto sotto il profilo della opportunità[106] quanto anche della legittimità costituzionale, per la ritenuta violazione dei parametri dell’eguaglianza e della ragionevolezza, con ricadute sull’art. 24 Cost.[107] In particolare, si è evidenziata una grave discriminazione sotto un duplice profilo: da un lato, “interno” alla materia esclusa, rispetto ad una serie di prestazioni la cui mancata esecuzione è sanzionata da misure coercitive assai più severe, sì da rendere irragionevole il differente trattamento[108]; dall’altro lato, perché priva il lavoratore della tutela specifica a differenza di tutti gli altri creditori di prestazioni di facere per le quali invece opera l’esecuzione indiretta.

La discriminazione, poi, è stata letta quale scelta “tipicamente classista” da chi vi ha visto l’implicita finalità di esentare dalle misure coercitive non certo il lavoratore, per il quale certamente opportuno poteva ritenersi il divieto onde escludere moderni fenomeni di riduzione in schiavitù[109], ma il datore di lavoro, che invece ben si sarebbe potuto assoggettare a esecuzione indiretta, come del resto previsto anche dal codice del processo amministrativo per la parte datoriale che sia pubblica amministrazione[110]. Ancora, si è rilevato come le obbligazioni del datore di lavoro, diversamente da quelle del lavoratore, non avrebbero in sé nessun “elemento di coinvolgimento personale o intellettuale” sì da rendere ingiustificabile la disparità di trattamento con le altre obbligazioni civili[111]. L’irragionevole discriminazione opererebbe altresì con riferimento alla categoria del lavoro autonomo, rispetto al quale non paiono sussistere validi motivi per giustificare un differente trattamento[112].

Non tutti, però, sono stati così drastici nel sostenere la censura di illegittimità costituzionale.  Da un lato, si è pure osservato come questa forte limitazione si spieghi con la progressiva, drastica riduzione della tutela “reale” nei rapporti di lavoro, attestata dalle sopravvenute e anche recenti modifiche della disciplina sui licenziamenti. La “monetizzazione” della tutela nel settore esclude o comunque riduce fortemente la necessità di applicazione delle misure di coercizione[113]. Soprattutto, si è rilevato come non soltanto la prestazione del lavoratore ma anche quella del datore conterrebbe un nucleo ineliminabile di incoercibilità, legata agli ambiti di libertà e discrezionalità che caratterizzano l’inserimento del lavoratore in azienda e la collaborazione continua tra le due parti[114]. Diversi autori hanno poi tentato una lettura costituzionalmente orientata della norma, assumendo che, a dispetto del testo, che sembra chiaro nell’escludere l’applicabilità alle “controversie” di cui all’art. 409 (con eccezione del n. 2), la stessa debba intendersi limitata alle controversie aventi a oggetto prestazioni del lavoratore, che in tal modo sarebbe preservato dalla coercizione indiretta[115].

In verità, se è evidente che la prestazione del lavoratore è incoercibile, per contrasto con il principio di libertà e di dignità personale[116], è anche vero che la situazione non è diversa in molti casi se si guarda alla posizione dell’imprenditore. Anch’egli è infatti titolare di una libertà che è protetta a livello costituzionale, occupando altresì una posizione di assoluta centralità nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, e che per tale motivo è, al pari di quella del lavoratore, incoercibile, sussistendo ragioni analoghe a quelle che la giurisprudenza unanime ha affermato per sostenerne la infungibilità ai fini dell’esecuzione diretta[117].

Non ci pare, inoltre, di riscontrare una discriminazione rispetto a fattispecie sostanziali sempre rientranti nel quadro delle controversie di lavoro (quali quelle previste dagli artt. 18 e 28 st. lav.) assoggettate a un regime coercitivo più rigoroso di quello dell’art. 614-bis c.p.c.[118] Evidentemente, in quei casi il legislatore ha selezionato delle fattispecie per le quali ha ritenuto opportuno proteggere in maniera più forte alcuni diritti, il che pare coerente con l’impostazione più “garantista” secondo cui bene avrebbe fatto il legislatore del 2009 a porre in essere un intervento più mirato in funzione di fattispecie tipiche. Peraltro, l’assoluta specialità della materia lavoristica rispetto agli altri comparti del diritto civile, rende plausibile (benché non necessariamente condivisibile nel merito) l’adozione di un criterio opposto a quello che sta alla base dell’art. 614-bis c.p.c.: non una generalizzata ammissibilità della misura per tutti i tipi di condanne, ma una pluralità di misure specificamente pensate per bisogni rafforzati di tutela tipizzati dalla legge, secondo un criterio di discrezionalità del legislatore che ben può essere ritenuto compatibile con la Costituzione.

Neppure sono assimilabili le situazioni del dipendente “privatizzato” rispetto a quello pubblico per il quale vi è giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo[119]. Come è stato osservato, “il datore di lavoro pubblico non può invocare lo jus variandi di quello privato, che trova un limite soltanto nel rispetto del diritto fondamentale “alla libera esplicazione della sua personalità sul luogo di lavoro”; ma è vincolato alla esatta osservanza delle previsioni legali e contrattuali, anche in riferimento ai dirigenti”[120]. Dev’essere considerato, a riguardo, che a differenza dell’attività privata, che è libera nei fini, quella pubblica è funzionalizzata, intendendosi per tale quell’attività che è “obiettivamente e globalmente controllabile nello svolgimento e finalizzata al perseguimento di un interesse (il c.d. interesse pubblico) che, per quanto non attribuibile all’ordinamento nella sua universalità, non può ridursi ad un interesse “proprio” del soggetto agente”[121]. Caratteristica che consente la fungibilità della prestazione attraverso la sostituzione del giudice al soggetto istituzionalmente gravato dell’obbligo, in quella particolare sede giurisdizionale, misto di cognizione ed esecuzione, che è il giudizio di ottemperanza. Ed è questa fungibilità e questa surrogabilità, così giuridicamente caratterizzate dalla funzionalizzazione dell’attività, che rendono non solo coercibile direttamente il precetto giurisdizionale, ma anche indirettamente, per via delle misure in esame.

Ciò detto, è vero che il legislatore avrebbe dovuto meglio esplicitare certe sue scelte di valore[122], come in taluni dei progetti di riforma passati pure si era tentato di fare, e come accade in altri ordinamenti. Infatti, una discriminazione (al contrario) sembra rinvenibile rispetto al lavoro autonomo, rimasto fuori dal divieto[123]; ma ciò non toglie che là dove vengono in considerazione gli obblighi relativi all’esecuzione delle prestazioni tipiche del lavoratore autonomo, i medesimi limiti costituzionali che si è ritenuto essere alla base della espressa esclusione delle controversie di lavoro subordinato o parasubordinato, potranno essere invocati, a seconda delle pretese concretamente dedotte in giudizio, anche per i contratti e i diritti in esame[124].

7.2 Segue. Le obbligazioni aventi a oggetto somme di denaro.

Un ulteriore limite attiene ancora alla tipologia di obblighi per i quali è stata aperta la strada dell’esecuzione indiretta. Se nella versione originaria, erano solo gli obblighi infungibili di facere a poter beneficiare delle misure coercitive, con la riforma del 2015 il campo di applicazione si è esteso a tutti i provvedimenti di condanna “all’adempimento di obblighi diversi dal pagamento di somme di denaro”.

Anche su questa limitazione sono sorte perplessità, una volta che la scelta del legislatore si era orientata sull’escludere qualsiasi rilievo alla natura infungibile degli obblighi, al punto da connotare la misura in esame in modo affatto diverso rispetto a prima. La diversa soluzione adottata nel codice del processo amministrativo che, già forte di quell’incisivo strumento di tutela che è il giudizio di ottemperanza, si è arricchito dello strumento delle misure coercitive senza alcun limite legato alla tipologia di contenuto della sentenza e quindi dei sottesi obblighi delle parti, estendendone il campo alle obbligazioni pecuniarie, aveva infatti lasciato pensare che il passo in quella direzione fosse breve anche per il processo civile. Così non è stato, ma le ragioni sono intuitive[125].

Invero, la comminatoria del pagamento di una somma di denaro legata all’inadempimento di una sentenza di condanna avente pure contenuto pecuniario costituisce un evidente moltiplicatore del debito. Se è vero che talvolta il debitore riottoso possa essere indotto a ottemperare alla condanna dalla minaccia di ulteriori, pesanti conseguenze economiche, è anche vero che un debitore in difficoltà, con i beni già pignorati, difficilmente riuscirebbe a dar seguito alla condanna, nonostante quella minaccia, con l’unica conseguenza di un arricchimento ingiustificato del creditore[126]. Naturalmente, questa eventualità può essere scongiurata da un sapiente utilizzo della clausola di non manifesta iniquità, che in ipotesi come questa sarebbe chiamata a esprimere tutto il suo potenziale di duttilità. Ma vi è una ulteriore osservazione da fare.

Anche a non voler considerare tali rilievi, occorre ricordare che per effetto dell’art. 17, comma 1, del d.l. 12 settembre 2014, n. 132, conv. in legge 10 novembre 2014, n. 162, sono stati aggiunti due commi all’art. 1284 c.c., nei quali è stabilito un tasso di interesse moratorio particolarmente elevato per i crediti sfociati in contenzioso. In breve, la disposizione prevede che dal giorno della litispendenza è dovuta dal debitore una maggiorazione sul tasso di interesse legale pari a quanto previsto dalla legge sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. In base all’art. 5 del d. lgs. n. 231 del 2002, il tasso di interesse moratorio è pari a quello applicato dalla Banca centrale europea, maggiorato di otto punti percentuali. Ne deriva che la durata del processo va a netto discapito di colui che sarà soccombente, esercitando quella previsione una funzione deflattiva del contenzioso e coercitiva rispetto all’obbligo di pagare.

Il problema, anche quanto all’effettiva capacità coercitiva di tale misura, si pone non tanto per il debitore insolvente, che tale resterà senza eccessivi sussulti, ma per quello che sia convinto di aver ragione e dunque rimane fermo nella sua determinazione di proseguire il giudizio. La decorrenza del rilevante tasso moratorio a far data dalla proposizione della domanda, quando ancora cioè non esiste una sentenza che chiarisca torti e ragioni, rischia già di porre seri problemi di giustizia e di equità[127], ai quali non sarebbe stato il caso di aggiungere ulteriori carichi sanzionatori.

In queste condizioni, la previsione di un’ulteriore somma di denaro a titolo di astreinte è sembrata al legislatore eccessiva e, per quanto nulla osti ad una apertura alla stregua di quanto previsto per la pubblica amministrazione nel codice del processo amministrativo, può comprendersi la sua riottosità rispetto all’eliminazione di tale limite[128].

 

7.3. La clausola di non manifesta iniquità.

Come noto, il giudice – della cognizione come dell’esecuzione – in tanto si potrà determinare a concedere la misura coercitiva in quanto la stessa non risulti manifestamente iniqua.

La dottrina non è stata tenera con il legislatore a proposito di tale limitazione. Si è parlato di una norma “vuota, che rischia di alterare i rapporti tra diritto sostanziale e processo”, ricordando come spetti al primo “trasformare” l’obbligo originario in obbligo risarcitorio, che sostanzialmente è quanto accade se la misura esecutiva è negata[129]. Ma vi è anche chi, all’opposto, ha ritenuto che la stessa fosse da ritenere il “fulcro” della disciplina in oggetto[130].

Sono state al riguardo prospettate numerose proposte interpretative: in particolare, e salvo omissioni, si è argomentato ex art. 2058 c.c. per ricavarne l’esclusione dell’astreinte in quei casi in cui la sua concessione possa risultare eccessivamente onerosa per il debitore o quando sia possibile espletare fruttuosamente l’esecuzione diretta, trattandosi pur sempre di uno strumento la cui utilità e principale funzione ha a che fare proprio con l’evenienza in cui risulti difficile la realizzazione forzosa dei diritti[131]; altri ha ritenuto applicabile l’esclusione ai casi in cui il debitore non possa adempiere per causa dipendente da terzi[132] o anche soltanto perché nullatenente[133]; altri ancora vi ha visto uno strumento di contemperamento di interessi tra conservazione del programma negoziale e la migliore allocazione delle risorse derivanti dall’inadempimento[134]. Altra dottrina ha poi evidenziato come la clausola in questione non possa essere letta come un arbitrario potere del giudice di liberare il debitore dall’adempimento sulla scorta di una valutazione del contenuto della obbligazione e del vincolo che ne deriva, dovendosi piuttosto radicare la scelta sul terreno processuale attraverso il contemperamento degli interessi e dei valori rilevanti in concreto[135].

Si è altresì ritenuto che proprio grazie alla clausola in questione si potrebbe escludere l’applicazione della misura coercitiva là dove l’obbligazione dedotta in giudizio abbia ad oggetto: a) prestazioni che coinvolgono “diritti di libertà” o “della personalità” o diritti “fondamentali” dell’obbligato[136]; b) prestazioni che abbiano carattere “strettamente personale o intellettuale”[137] come attività “creative” o “artistiche”[138]. Si è, peraltro, e in senso inverso, espresso anche il timore che questi criteri finiscano per restringere troppo l’ambito (già ristretto) di applicazione dello strumento[139].

A nostro avviso, queste letture non inquadrano in modo soddisfacente la sfera di applicazione della clausola. Il tema della tutela dei diritti della personalità e più in generale dei diritti che trovano fondamento e protezione nella Costituzione riguarda, più a monte, i limiti della tutela di condanna in forma specifica e, sul piano dei rapporti obbligatori, i limiti dell’adempimento in natura. Quando vengano in gioco questi diritti non sempre il creditore può pretendere e ottenere una tutela specifica, sicché il giudice non ha alcuna possibilità non solo di concedere l’astreinte ma neppure di emettere la condanna, residuando, al limite, una tutela di tipo risarcitorio. Si tratta, per l’appunto, del rispetto dei diritti fondamentali e delle libertà costituzionali, che possono emergere nei rapporti di famiglia (si pensi ai doveri, ritenuti incoercibili dalla Suprema Corte, di frequentazione e visita del minore gravante su ciascun genitore[140]), ma anche nei rapporti tra privati in presenza di atti di disposizione aventi a oggetto quelle particolari situazioni soggettive e suscettibili di arrecarvi pregiudizio pur se posti in essere dal relativo titolare.

Rileva in particolare, sotto questo profilo, tra i diversi parametri costituzionali, quello della “dignità” della persona[141], vista quale argine invalicabile anche verso l’esercizio di un altro diritto costituzionale, quale l’autonomia privata[142], di cui la stessa dignità viene vista come una proiezione, essendo considerata secondo alcuni punti di vista sinonimo di libertà e autonomia[143], al contempo costituendone un limite (art. 41, comma 2, Cost.).

Due sono i livelli di tutela concepibili in queste ipotesi. Il primo livello di tutela è il più severo ma anche il più rigido: se vi è indisponibilità del diritto, da ritenersi limite invalicabile, nessuna opera di bilanciamento è possibile e l’atto dispositivo posto in essere si dovrà ritenere invalido[144]. Al secondo livello, che presuppone superato il vaglio di validità, se si desse prevalenza alla libertà del contraente rispetto alla dignità (che in tal modo verrebbe ritenuta recessiva rispetto alla prima), il contratto sarebbe allora valido, ma ciò impone di verificare se si versi in un’ipotesi in cui sia legittimo chiedere l’adempimento in natura. E se risultasse che la prestazione dedotta in contratto è incoercibile in quanto non è possibile, senza ledere la dignità umana, coartare la volontà del debitore, si dovrebbe escludere che, pur dove sussista un valido potere di disposizione, sia possibile per il creditore ottenere l’adempimento coatto, restando preclusa tanto l’esecuzione in forma specifica che la c.d. esecuzione indiretta.

Ciò che potrà pretendere il creditore sarà tutt’al più una tutela di tipo risarcitorio, ossia l’applicazione di una liability rule.

Si pensi al caso in cui un giudice ha ritenuto astrattamente ammissibile l’emanazione di un provvedimento d’urgenza corredato da astreinte al fine di inibire a un notaio il recesso dall’associazione notarile in essere con un collega al fine di coartarlo all’adempimento delle obbligazioni derivanti dal contratto di associazione, ovvero ad un “facere complesso ed articolato, quale l’esercizio della professione intellettuale con ripartizione delle spese e degli utili”. A noi pare che non solo non fosse ammissibile la comminatoria ma ancor prima la condanna all’adempimento coattivo del contratto di associazione, avente per di più a oggetto l’esercizio di una professione. Anche in tal caso rilevano gli stessi parametri costituzionali già evocati e dunque l’impossibilità di comprimere il diritto di sciogliersi dal vincolo associativo, residuando, di fronte all’inadempimento determinato dal recesso dall’associazione solo una tutela risarcitoria, laddove ne ricorrano i presupposti[145].

Un discorso a parte va fatto per quegli obblighi che in taluni casi pure possono investire la personalità. Alludiamo ai classici esempi dello scultore, del pittore, dello scrittore, del cantante d’opera, ovvero quegli obblighi che nel progetto Liebman erano definiti “strettamente personali” e perciò esclusi dalla sfera applicativa dell’istituto, con dicitura che richiama le corrispondenti locuzioni utilizzate anche dalla giurisprudenza francese e anglosassone anche qui per escludere l’applicazione delle misure coercitive. Sul punto, non vi è piena concordia in dottrina, posto che accanto a opinioni in linea con quella tradizione garantista[146] altri autori hanno invece manifestato un’opinione contraria, non vedendo ragioni per non “costringere” colui che si è liberamente vincolato a non tener fede all’impegno, consentendogli in tal modo di svincolarsi unilateralmente, fermo il risarcimento del danno[147]. Propenderemmo per la prima soluzione, ma è pur vero che non si possa dare una risposta in via generale e che la soluzione corretta è quella che deriva da un’analisi concreta del caso di specie. Non può escludersi, infatti, che vi siano delle prestazioni in cui il contributo “creativo” del debitore è assai limitato, anche se, in questi casi, potrebbe essere il giudice a non concedere la comminatoria per manifesta iniquità allorché la prestazione non resa sia facilmente surrogabile ad opera di altri soggetti, proprio in forza della mancanza di quel carattere “creativo” che di base connota le prestazioni c.d. artistiche o intellettuali[148].

Altrettanto è a dirsi per i c.d. diritti della personalità, come il diritto all’immagine o al nome, il cui sfruttamento economico (entro certi limiti) è certamente consentito o per gli atti dispositivi del proprio corpo (come nel caso dei trapianti[149]). Anche in questi casi, è escluso che il soggetto obbligato possa essere costretto a eseguire la prestazione caratteristica in forza di un titolo giurisdizionale, ma ciò ancora una volta deve essere valutato sul piano della stessa ammissibilità di una tutela di condanna (e non su quello processuale dell’ammissibilità di una misura di coercizione).

Occorre quindi separare la valutazione in punto di legittimità della condanna in forma specifica – che esula dalla norma in esame e riposa integralmente sul piano sostanziale, da quella di inopportunità (per la manifesta iniquità) che caratterizza invece la cognizione del giudice nel manovrare questo strumento processuale e che dovrà ricevere nel provvedimento congrua motivazione, onde consentirne il controllo della valutazione di iniquità in sede di gravame.

In sintesi, si può proporre uno schema del seguente tipo:

a) situazioni debitorie incoercibili in quanto vi osta la tutela costituzionale di libertà e diritti costituzionali o di diritti della personalità, per le quali può escludersi quindi una tutela in forma specifica;

b) situazioni debitore diverse da quelle sub a) per le quali la disciplina sostanziale prevede una tutela risarcitoria o comunque sconsiglia la condanna in forma specifica;

c) situazioni in cui la legge sostanziale prevede o consente la condanna in forma specifica e per le quali l’erogazione della comminatoria è subordinata al vaglio di “non manifesta iniquità”[150].

Per queste ultime situazioni, in cosa consiste, dunque, questa valutazione di non manifesta iniquità?

Anzitutto, la disposizione riferisce espressamente la valutazione al provvedimento di comminatoria[151], coerentemente con la già rilevata natura processuale, non sostanziale, del rimedio. È da ritenersi che, non essendo legato ad una situazione sostanziale ed essendo la sua pronuncia dovuta solo su istanza della parte, l’iniquità giochi un ruolo di valvola di chiusura, per quei casi in cui la comminatoria non potrebbe assolvere alla sua funzione compulsoria e, conseguentemente, neppure (legittimamente) alla sua funzione sanzionatoria. Più in particolare, la manifesta iniquità può legittimamente trarsi:

– dalla eccessiva onerosità per il debitore[152], ma solo nei limiti in cui questa venga verificata in concreto con riferimento alla situazione economico-patrimoniale del medesimo, dovendo risultare la misura inutilmente vessatoria se non addirittura idonea a ledere, indirettamente, beni primari della persona;

– dalla possibilità di espletare fruttuosamente l’esecuzione diretta, secondo la dottrina del “cumulo temperato”, ma anche qui solo in presenza di una evidente e ingiustificata sproporzione dei mezzi al fine[153];

– dalla temporanea impossibilità di adempiere per causa non imputabile di forza maggiore, fino all’inopportunità di cumulare l’astreinte con le comminatorie speciali preesistenti[154], di nuovo al fine di non sovraccaricare la responsabilità del debitore, laddove applicabili.

In questi sensi, la sua previsione ci pare opportuna perché, pur scontando una certa indeterminatezza fisiologicamente insita nella valutazione “integrativa della fattispecie” (per riprendere le parole della Consulta), ribadisce la prudenza del nostro ordinamento verso forme di coazione che implicano pur sempre l’uso di una vis compulsiva. Il vaglio giudiziale, in luogo di un piatto automatismo nell’applicazione della misura, deve qui intendersi dunque come una forma di garanzia della persona – non come un ostacolo all’applicazione della misura, né tantomeno come una ottusa quanto ingiustificata difesa del debitore, come una lettura solo superficiale può far credere, e neppure come un segno di timidezza del legislatore, da ritenersi per contro nel caso assai consapevole – del tutto corrispondente alla nostra tradizione liberale.

[1] Secondo la nota definizione risalente a L. Ferrara, L’esecuzione processuale indiretta, Napoli, 1915. Le misure di esecuzione indiretta non consentono al creditore di realizzare il proprio diritto in via surrogatoria, mediante una invasione della sfera giuridica del debitore e a prescindere dalla sua cooperazione, come avviene nella espropriazione o nella esecuzione diretta in forma specifica, ma attraverso l’adempimento spontaneo del medesimo, sia pure indotto dalla minaccia di applicazione di una sanzione pecuniaria. La loro introduzione nel nostro ordinamento con l’art. 614-bis c.p.c. è dovuta alla legge n. 69 del 2009, successivamente modificato nel 2015 e nel 2022.

[2] Per un approfondimento del tema, si consenta il rinvio a U. Corea, Condanna civile e misure coercitive, 2023, passim.

[3] S. Chiarloni, Misure coercitive e tutela dei diritti, Milano, 1980, 57, 62.

[4] Si rimanda per questo indirizzo a R. Vaccarella, Esecuzione forzata, in Riv. esec. forz., 2007, 1 ss., laddove “esclusivamente” vuol dire in assenza di misure di coercizione indiretta, che solo nel 2009 hanno fatto il loro ingresso nel nostro ordinamento come misura di carattere generale. Il che, secondo Vaccarella, spiega “l’altrimenti singolare collocazione della norma” che consente l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere un contratto in senso al codice civile (art. 2932 c.c.), la quale completa quindi il “catalogo” delle situazioni soggettive suscettibili di tutela specifica.

[5] R. Vaccarella, Esecuzione forzata, cit., 6-8.

[6] Traendo spunto da alcuni elementi testuali della legge non meno che da una lettura più ampia dei precetti costituzionali e da un confronto con l’esperienza di altri paesi soprattutto europei. Basti pensare all’art. 1453 c.c., il quale prevede espressamente l’alternativa tra azione di adempimento e di risoluzione, oltre a quella di risarcimento del danno. Si vedano anche i Principles of Contract Law dell’Unidroit nonché i Principles of European Contract Law elaborati dalla Commissione Lando (7.2.1. e ss) e il  Draft Common Frame of Reference (DCFR) (III-3:301, ma si veda anche III-3.302 per i limiti dell’adempimento in natura), nei quali sono previsti diversi rimedi a carattere specifico.

[7] Cfr. S. Mazzamuto, L’attuazione degli obblighi di fare, Napoli, 1978, 119 ss.; L. Mengoni, Responsabilità contrattuale, in Enc. Dir., XXXIX, Milano, 1988, 120 ss.; Id. Discussioni, in AA.VV., Processo e tecniche di attuazione dei diritti, I, Napoli, 1989, 151; nella dottrina processualistica, aveva teorizzato il diritto all’esecuzione della condanna M. Taruffo, Note sul diritto alla condanna e all’esecuzione, in Riv. crit. dir. priv., 1986, 635 ss. Per un attento esame del rapporto tra regole sostanziali di tutela e strumenti processuali, v. I. Pagni, Tutela specifica e tutela per equivalente, Milano, 2004, passim. Sulla coloritura “politica” del dibattito esploso negli anni settanta, v. G. Monteleone, Esecuzione specifica e misure coercitive, in www.judicium.it, 2025.

[8] S. Mazzamuto, La comminatoria di cui all’art. 614-bis c.p.c. e il concetto di infungibilità processuale, in Eur. dir. priv., 2009, 947 ss.; in questo senso, v. altresì, senza pretesa di completezza, A. Saletti, Commento all’art. 614-bis, in Commentario alla riforma del codice di procedura civile (Legge 18 giugno 2009, n. 69), a cura di A. Saletti e B. Sassani, Torino, 2009, 194; E. Zucconi Galli Fonseca, Le novità della riforma in materia di esecuzione forzata, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2010, 197; M. Bove, Diritto e processo nell’applicazione dell’art. 614-bis c.p.c.: un rapporto circolare, in Giusto proc. civ., 2020, 1523; G. Costantino, Tutela di condanna e misure coercitive, in Il processo esecutivo. Liber amicorum Romano Vaccarella, Torino, 2014, 917; C. Consolo, F. Godio, Commento all’art. 614-bis, in Commentario al codice di procedura civile, a cura di Comoglio, Consolo, Sassani e Vaccarella, Torino, VII, v. 1, 2014, 146.

[9] Gli sforzi di una parte della dottrina non si sono rivelati sufficienti, a mio giudizio, per dimostrare l’esistenza, ricavabile dalla legge ordinaria, di un principio di priorità dell’adempimento in natura sul versante dei rapporti obbligatori. Sul punto, per la ricostruzione di questo percorso, mi si consenta nuovamente di rinviare al mio Condanna civile e misure coercitive, cit., passim e 112 ss., 192 ss. In dottrina, per la tesi favorevole al primato dell’adempimento in natura, senza pretese di completezza, v I. Pagni, Tutela specifica, cit., passim; G. Grisi, Inadempimento e fondamento dell’obbligazione risarcitoria, in Studi in onore di Davide Messinetti, a cura di F. Ruscello, II, Napoli, 2009, 120; A. di Majo, L’adempimento “in natura” quale rimedio (in margine a un libro recente), in Eur. dir. priv., 2012, 1149 ss.; F. Piraino, Adempimento e responsabilità contrattuale, Napoli, 2011, 120 ss.; L. Nivarra, I rimedi specifici, in Eur. Dir. priv., 2011, 170; R. Oriani, Il principio di effettività della tutela giurisdizionale, in Studi in onore di Colesanti, Napoli, 2009, 867; in senso contrario, R. Sacco, Concordanze e contraddizioni in tema di inadempimento contrattuale (una veduta d’insieme), in Eur. dir. priv., 2001, 143 ss.; M. Pacifico, Il danno nelle obbligazioni, Napoli, 2008, 108; M. Dellacasa, Adempimento e risarcimento nei contratti di scambio, Torino, 2013; A. Nervi, Sul c.d. primato dell’adempimento in forma specifica, in Eur. dir. priv., 2019, 923 ss.; tra i processualisti, cfr. A. Chizzini, Patrimonialità dell’obbligazione tra condanna ed esecuzione forzata, in Giusto proc. civ., 2009, 659 ss.

[10] V. infra, §3.

[11] L’art. 614-bis c.p.c., rubricato “Attuazione degli obblighi di fare infungibile o di non fare”, viene introdotto dalla legge n. 69 del 2009. Per un excursus dei vari progetti, cfr. I. Risolo, L’effettività della tutela esecutiva e il problema delle misure coercitive, in L’esecuzione processuale indiretta, a cura di B. Capponi, Milano, 2010, 17 ss.; A. Nascosi, Le misure coercitive indirette nel sistema di tutela dei diritti in Italia e in Francia, Napoli, 2019, 20 ss.

[12] Modello che non conosce limitazioni di tal fatta, essendo vocato a garantire l’effettività di tutti i provvedimenti di condanna e finanche di tutele non esecutive.

[13] La modifica è stata introdotta dall’art. 13 del d.l. 27 giugno 2015, n. 83, conv. in legge 6 agosto 2015, n. 132.

[14] B. Capponi, Manuale di diritto dell’esecuzione civile, Torino, 2017, 51, rileva come la riforma abbia portato la misura coercitiva dentro i confini dell’esecuzione forzata; E. Zucconi Galli Fonseca, Misure coercitive e arbitrato, in Il processo esecutivo, cit., 389 ss.

[15] In questo settore si è potuta rilevare una certa diffusione dell’astreinte, con particolare riferimento ai procedimenti di convalida di sfratto o di licenza per finita locazione: Trib. Busto Arsizio, 17 dicembre 2015, in www.ilcaso.it, 21.1.2016; Trib. Bologna, 19 aprile 2018, ivi, 27.12.2018; cfr. per una rassegna generale, G. Cicalese, Le misure coercitive, in Riv. esec. forz., 2023, 203 ss.

[16] B. Capponi, Introduzione, in L’esecuzione processuale indiretta, cit., 10; C. Besso, L’art. 614-bis c.p.c. e l’arbitrato, in Il processo esecutivo, cit., 890, con riferimento al diritto francese. Si vedano, peraltro, le recenti modifiche agli artt. 118 e 210 c.p.c., con la previsione della irrogazione di una sanzione in caso di inottemperanza agli ordini istruttori.

[17] B. Sassani, Impugnativa dell’atto e disciplina del rapporto, Padova, 1989, passim, con particolare ma non esclusivo riferimento alla tutela impugnatoria; cfr. anche R. Vaccarella, Il procedimento di repressione della condotta antisindacale, Milano, 1977, 171; L. Montesano, Limiti oggettivi di giudicati su negozi invalidi, in Riv. dir. proc., 1991, 19 e ss.; il tema è ripreso, da ultimo, da R. Tiscini, Riflessioni sparse intorno alla tutela costitutiva, in Riv. dir. proc., 2021, 1244.

[18] Capponi e Sassani, Editoriale, in Rass. esec. forzata, 2021, 890 ss.

[19] Trib. Roma, 2 febbraio 2017, in www.judicium.it, con nota contraria di U. Corea.

[20] All’art. 12, lett. a), della legge n. 206 del 2021, si demandava al Governo di “prevedere criteri per la determinazione dell’ammontare, nonché del termine di durata delle misure di coercizione indiretta di cui all’art. 614-bis del codice di procedura civile; prevedere altresì l’attribuzione al giudice dell’esecuzione del potere di disporre dette misure quando il titolo esecutivo è diverso da un provvedimento di condanna oppure la misura non è stata richiesta al giudice che ha pronunciato tale provvedimento”. La riforma è intervenuta anche estendendo l’applicazione dell’art. 614-bis c.p.c. in materia di inadempimenti o altri atti che arrechino pregiudizio al minore o che ostacolino le modalità del suo affidamento e l’esercizio della potestà genitoriale: cfr. a riguardo l’art. 373-bis.39 c.p.c.

[21] La Relazione illustrativa al decreto legislativo al riguardo precisa che non è stato fissato un minimo e un massimo alla misura coercitiva, ritenendo che una siffatta quantificazione esorbitasse “da valutazioni di natura giuridica, investendo essenzialmente profili di politica legislativa”.

[22] Si apre in tal modo la possibilità di dotare di misure di coercizione indiretta anche i titoli esecutivi stragiudiziali, naturalmente negli stessi limiti di ammissibilità previsti per le diverse categorie di titoli dall’art. 474 c.p.c. e per le diverse tipologie di obbligazioni (id est, con l’esclusione di quelle pecuniarie) dall’art. 614-bis c.p.c.

[23] E come era invece previsto nel progetto elaborato dalla commissione Vaccarella, nel quale si prospettava l’introduzione di un procedimento sommario finalizzato alla verifica dell’inadempimento o del ritardo e alla liquidazione della penalità.

[24] F. Auletta, Diritto giudiziario civile, Bologna, 2021, 466, parla di “comminazione punitiva”; C. Consolo, Una buona “novella” al c.p.c.: la riforma del 2009 (con i suoi artt. 360-bis e 614-bis) va ben al di là della dimensione processuale, in Corr. giur., 2009, 742; M. Bove, La misura coercitiva di cui all’art. 614-bis c.p.c., in Riv. trim. dir. proc. civ., 2010, 783; B. Gambineri, Attuazione degli obblighi di fare infungibile o di non fare, in Foro it., 2009, 319; A. Nascosi, Le misure coercitive indirette nel sistema di tutela dei diritti in Italia e in Francia, Napoli, 2019, 47.

[25] L’astreinte francese può essere provvisoria o definitiva. Quella provvisoria può essere emessa tanto dal giudice della cognizione che dell’esecuzione, anche d’ufficio, e può essere modificabile e revocabile. Solo in una seconda fase viene liquidata su istanza della parte (nella maggior parte dei casi dal giudice dell’esecuzione, pur mantenendo una competenza a riguardo anche il giudice della cognizione che ha emesso la misura) laddove la minaccia si è rivelata improduttiva e prelude all’avvio del processo esecutivo. L’astreinte definitiva è invece subordinata alla previa emissione di quella provvisoria rimasta inutilmente accordata; il giudice è libero di determinarne durata e importo e anch’essa conosce una successiva fase di liquidazione nella quale il giudice non può discostarsi dal taux precedentemente fissato, riducendosi a un mero calcolo aritmetico. Sono dunque evidenti le differenze con la nostra comminatoria, che nasce già “definitiva” e non è modificabile o revocabile se non per effetto del gravame. In tema, A. Nascosi, Le misure coercitive indirette nel sistema della tutela dei diritti in Italia e in Francia, cit., 58 ss.

[26] Cfr. Cass., 15 aprile 2015, n. 7613, in Danno e resp., 2015, 1155; Cons. St., Ad. Plen., 26 giugno 2014, n. 15, in Corr. giur., 2014, 1406, con nota d F. Scoca; in dottrina, B. Capponi, Manuale di diritto dell’esecuzione civile, cit., 32; C.V. Giabardo, Effettività della tutela giurisdizionale e misure coercitive nel processo civile, Torino, 2022, 7. Una parte minoritaria della dottrina sostiene, invece, la natura risarcitoria o, all’opposto, quella di pena privata, ovvero entrambe (un’apertura in tal senso, benché poi la escluda, in A.M. Soldi, Manuale dell’esecuzione forzata, Milano, 2024, 2527).

[27] S. Mazzamuto, Esecuzione forzata, in Commentario Scialoja-Branca-Galgano Bologna-Roma, 2020, 145; v. anche P. Cendon, Le misure compulsorie a carattere pecuniario, in AA.VV., Processo e tecniche di attuazione dei diritti, I, Napoli, 1989, 307; D. Amadei, Una misura coercitiva generale per l’esecuzione degli obblighi infungibili, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2010, 350; G. Miccolis, Sub art. 614-bis c.p.c. in Nuova giur. civ. comm., 2010, 1055.

[28] Così, per l’art. 96, terzo comma, c.p.c., Corte cost., 23 giugno 2016, n. 152.

[29] A. di Majo, La tutela civile dei diritti, 3^ ed., Milano, 2001, 66; in tema anche R. Donzelli, Sanzioni civili pecuniarie e giusto processo, in Giust. civ., 2019, 373 ss., spec. §5.

[30] B. Capponi, Manuale di diritto dell’esecuzione civile, cit., 32.

[31] B. Capponi, Manuale di diritto dell’esecuzione civile, cit., 36.

[32] Ammessa, come noto, da un consolidato orientamento della Corte di cassazione: Cass., 6 ottobre 2015, n. 19895; Cass., 12 ottobre 2010, n. 21013; Cass., 13 ottobre 2000, n. 13665; Cass. 12 luglio 1996 n. 6329; Cass. 25 febbraio 1999 n. 1642.

[33] A. Chizzini, in AA.VV., La riforma della giustizia civile: commento alla legge n. 69 del 2009, Torino, 2009, 162; C. Consolo, F. Godio, Sub art. 614-bis c.p.c, in Commentario del codice di procedura civile, a cura di Comoglio, Consolo, Sassani e Vaccarella, Torino, VII, v. 1, 2014, 183; F. Tommaseo, L’esecuzione indiretta e l’art. 614-bis c.p.c., in Il processo esecutivo, Liber amicorum Romano Vaccarella, cit., 1010; parla, invece, di condanna generica, in quanto non ne è determinato nel quantum l’oggetto, G. Monteleone, Misure coercitive ed esecuzione forzata: attualità del pensiero di Salvatore Satta. Commento teorico-pratico al nuovo Titolo IV-bis ed all’art. 614-bis c.p.c., in Riv. esec. forz., 2016, 554.

[34] B. Capponi, Manuale di diritto dell’esecuzione forzata, cit., 32.

[35] Ciò trova conferma in quella sentenza della Corte costituzionale che, a proposito dell’art. 96, terzo comma, c.p.c., ha affermato a chiare lettere la natura sanzionatoria della misura nonostante il destinatario del pagamento non sia lo Stato, anzi rilevando come l’attribuzione al privato ne garantisca la maggiore effettività, considerando la sua maggiore solerzia nel procedere alla riscossione della somma, anche con oneri inferiori rispetto a quelli che sarebbero altrimenti gravati sul soggetto pubblico: Corte cost., 23 giugno 2016, n. 152, in Riv. dir. proc., 2018, 498, con commento di M.F. Ghirga; in Foro it., 2016, I, 2639, con nota di E. D’Alessandro.

[36] A. Proto Pisani, L’effettività dei mezzi di tutela giurisdizionale con particolare riferimento all’attuazione della sentenza di condanna, in Riv. dir. proc., 1975, 620 ss.; M. Bove, Diritto e processo nell’applicazione dell’art. 614-bis c.p.c.: un rapporto circolare, in Giusto proc. civ., 2020, 1535.

[37] R. Donzelli, Sanzioni civili pecuniarie e giusto processo, cit., 373 ss.; Mandrioli, Carratta, Diritto processuale civile, IV, Torino, 2024, 209.

[38] Per N. Bobbio, Sanzione, in Noviss. Dig. It., Torino, 1957, XVI, 530, sanzione è il termine utilizzato nelle discipline giuridiche per indicare le misure predisposte dall’ordinamento per “rafforzare l’osservanza delle proprie norme ed eventualmente porre rimedio agli effetti dell’inosservanza”.

[39] C. Consolo, F. Godio, Sub art. 614-bis c.p.c., cit., 192.

[40] F.P. Luiso, Diritto processuale civile, III, Milano, 2019, 256; G. Balena, La nuova pseudo-riforma della giustizia civile (Un primo commento della l. 18 giugno 2009, n. 69), in Giusto proc. civ., 2009, 749.

[41] V. oltre sul punto, al §5.

[42] F.P. Luiso, Diritto processuale civile, III, cit., 246 ss.; Mandrioli, Carratta, Diritto processuale civile, cit., 212, secondo cui, ove emesso dal giudice dell’esecuzione, il provvedimento non sarebbe assimilabile a quello pronunciato con la condanna in sede cognitiva, limitandosi a “integrare” il titolo esecutivo già esistente con la misura accessoria, e in quanto atto esecutivo sarebbe opponibile ex art. 617 c.p.c.

[43] A.M. Soldi, Manuale dell’esecuzione forzata, cit., 2534; contra Luiso, Diritto processuale civile, III, cit., 247; G. Olivieri, Le misure coercitive indirette riformate, in Inexecutivis, 2023, §2.

[44] Capponi, Manuale, cit., 36.

[45] B. Sassani, Possono gli arbitri pronunciare l’astreinte?, in www.judicium.it, 3 ss.

[46] Conf. G. Olivieri, Le misure coercitive indirette riformate, cit., §2; B. Capponi, L’art. 614-bis c.p.c. (versione 2022) e il giudice dell’esecuzione, in Foro it., 2024, V, 167.

[47] Cass. 23 maggio 2024, n. 14461. All’argomento addotto dalla Corte si può tuttavia opporre che gli elementi fattuali che il giudice deve considerare per la concessione della misura sono pur sempre quelli tempestivamente allegati oltre a quelli emersi successivamente al maturare delle preclusioni e come tali allegabili anche dopo la scadenza dei relativi termini. Ciò dunque non toglie che il giudice possa pronunciarsi su una istanza proposta al momento della precisazione delle conclusioni o finanche in appello, a seguito di inadempimento alla condanna da parte del soccombente. Inoltre, stando a questa decisione, l’attore potrebbe proporre l’istanza solo con l’atto introduttivo (e il convenuto, solo con la comparsa di risposta), il che sembra eccessivamente restrittivo e finisce per relegare l’utilizzo di questo istituto a un numero marginale di casi contrariamente alla volontà manifestata dal legislatore attraverso le due riforme di promuoverne una maggiore diffusione.

[48] Rileva G. Monteleone, Esecuzione specifica e misure coercitive, cit., che le misure coercitive non hanno nulla a che vedere con l’esecuzione forzata dovendo trovare la loro giusta collocazione non nel codice processuale ma nel codice sostanziale “nell’ambito dei rimedi per l’inadempimento alla stregua di consimili istituti, quali le clausole penali, gli interessi moratori, l’anatocismo e simili”.

[49] Ulteriori aspetti, sempre connessi alla natura del potere esercitato dal giudice, riguardano gli eventuali limiti temporali di proposizione della domanda con cui si chiede la misura di coercizione: sul punto si ritornerà nel paragrafo successivo.

[50] Devono ritenersi compresi nella nozione di condanna anche i provvedimenti inibitori, la cui effettività riposa in massima parte sulla tutela coercitiva indiretta: sul tema, si rinvia a G. Basilico, La tutela civile preventiva, Milano, 2013, 188 ss.

[51] È discussa la compatibilità della misura coercitiva con il lodo arbitrale: per la tesi contraria, F.P. Luiso, Diritto processuale civile, III, cit., 244; favorevoli, invece, a nostro avviso in modo condivisibile, B. Sassani, Possono gli arbitri pronunciare l’astreinte?, cit., sulla scorta di molteplici rilievi e il conforto della giurisprudenza francese; E. Zucconi Galli Fonseca, Misure coercitive e arbitrato, in Il processo esecutivo. Liber amicorum Romano Vaccarella, cit., 1015 ss., anche laddove dovesse prevalere la tesi della natura processuale della misura coercitiva; C. Besso, L’art. 614-bis c.p.c. e l’arbitrato, in Il processo esecutivo. Liber amicorum Romano Vaccarella, cit., 887 ss., la quale evidenzia come non sia neppure necessario un esplicito conferimento di potere nella convenzione arbitrale.

[52] In senso favorevole, senza pretese di completezza, E. Vullo, Procedimenti cautelari in generale, in Commentario del codice di procedura civile, a cura di S. Chiarloni, Bologna, 2017, 212; B. Capponi, Manuale, cit., 38; C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, I, Torino, 2017, 78; F.P. Luiso, Diritto processuale civile, III, Milano, 2015, 244; Mandrioli, Carratta, Diritto processuale civile, cit., 211; S. Mazzamuto, La comminatoria di cui all’art. 614-bis cod. proc. civ. e il concetto di infungibilità processuale, in Eur dir. priv., 2009, 947; G. Monteleone, Misure coercitive ed esecuzione forzata, cit., 551; J.V. D’Amico, Sull’applicabilità dell’art. 614 bis c.p.c. ai provvedimenti cautelari, in Riv. dir. proc., 2014, 713 ss.; R. Lombardi, Il nuovo art. 614 bis cod. proc. civ.: l’astreinte quale misura accessoria ai provvedimenti cautelari ex art. 700 cod. proc. civ., in Giur. merito, 2010, 398 ss.; in senso negativo, A. Chizzini, Commento all’art. 614-bis, in La riforma della giustizia civile. Commento alle disposizioni della legge sul processo civile n. 69/2009, a cura di Balena, Chizzini, Capponi, Menchini, Torino, 2009, 138 ss.; G. Balena, Istituzioni di diritto processuale civile, III, Bari, 2015, 177; G. Costantino, Tutela di condanna e misure coercitive, in Il processo esecutivo, cit., 923, ma solo in quanto ritiene già dotato del potere di emettere astreintes il giudice cautelare alla stregua di quanto previsto dall’art. 669-duodecies c.p.c. Anche la giurisprudenza appare orientata in senso favorevole all’ammissibilità delle misure coercitive accessorie a provvedimenti cautelari: Trib. Palermo, 27.3.2014, in www.ilcaso.it; Trib. Verona, 9.3.2010, in Giur. merito, 2010, 1857; Trib. Cagliari, 19.10.2009, in Contratti, 2010, 682; Trib. Terni, 6.8.2009, in Giur. it., 2010, 637.

[53] In tal senso, C. Consolo, F. Godio, op. cit., 148.

[54] C. cost., 12.7.2003, n. 336, in Riv. esec. forz., 2003, 137 ss.; così anche F. Tommaseo, L’esecuzione indiretta e l’art. 614-bis c.p.c., cit., 276.

[55] In passato, si veda ad es. L. Montesano, I provvedimenti d’urgenza nel processo civile. Art. 700-702 cod. proc. civ., Napoli, 1955, 118.

[56] V. sul punto, E.T. Liebman, Unità del procedimento cautelare, in Riv. dir. proc., 1954, I, 248; di recente, C. Delle Donne, L’attuazione delle misure cautelari, Roma, 2012, 20 ss.; per una diversa impostazione, E. Vullo, L’attuazione dei provvedimenti cautelari, Torino, 2001, 88 ss., che ne sottolinea la comune identità funzionale.

[57] Cfr. B. Capponi, Manuale, cit., 154; R. Giordano, Titolo esecutivo e precetto, in La nuova espropriazione forzata, diretta da C. Delle Donne, Bologna, 2017, 17; per l’attribuzione della qualifica di titolo esecutivo al provvedimento cautelare anticipatorio, cfr. E. Vullo, L’attuazione dei provvedimenti cautelari, cit., 82 ss.; F.P. Luiso, Diritto processuale civile, IV, cit., 243; G. Basilico, L’attuazione delle misure cautelari soggette a strumentalità attenuata, in Il processo esecutivo. Liber amicorum Romano Vaccarella, cit., 1498 ss.

[58] S. Chiarloni, L’esecuzione indiretta ai sensi dell’art. 614-bis c.p.c.: confini e problemi, in Il processo esecutivo, cit., 908.

[59] F. Tommaseo, op. cit., 277; analogamente, J.V. D’Amico, Sull’applicabilità dell’art. 614-bis ai provvedimenti cautelari, cit., 713 ss. In passato, si era sostenuto il potere del giudice della cautela di adottare astreintes quando ancora non era stato introdotto nel codice l’art. 614-bis: cfr. C.E. Balbi, Provvedimenti d’urgenza, in Digesto, sez. civ., XVI, Torino, 1997, 122, secondo cui la tipicità delle forme dell’esecuzione specifica non pregiudica l’orientamento del sistema “verso la maggior possibile eseguibilità specifica dei diritti e di ottenere esecuzioni (anche di provvedimenti urgenti) a facere infungibili” sì da ritenere che il giudice dell’urgenza “abbia anche la possibilità di liberamente stabilire, unitamente alle modalità di attuazione, misure coercitive idonee all’applicazione del criterio normativo, se pur non previste in funzione dell’esecuzione della decisione di merito, in modo da indurre il destinatario passivo all’osservanza del provvedimento”.

[60] Un espresso riferimento alla possibilità che l’inibitoria, cui può essere associata una misura coercitiva indiretta, venga emessa con le modalità del procedimento cautelare è contenuto nell’art. 131 c.p.i.

[61] Secondo la ormai costante giurisprudenza della Corte di legittimità: tra le ultime, Cass., 30 gennaio 2019, n. 2537, in Judicium, 2020, con nota di M.L. Guarnieri, con riferimento a sentenza di scioglimento di una comunione, che estende l’impossibilità di provvisoria esecuzione del capo dipendente a tutti i casi di “corrispettività” lato sensu delle statuizioni.

[62] In senso contrario, ci pare, sia pur ponendo il dubbio, C. Mandrioli, A. Carratta, Diritto processuale civile, IV, cit., 212, secondo cui la puntualizzazione della norma circa la qualità di titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione o inosservanza lascia intendere che questa efficacia esecutiva sussiste “anche quando non sia ancora esecutiva la condanna di base” (corsivo nostro). Questa eventualità è segnalata come una “slabbratura” da A.D. De Santis, Contributo allo studio della funzione deterrente del processo civile, Napoli, 2018, 229.

[63] R. Vaccarella, L’esecuzione forzata dal punto di vista del titolo esecutivo, in Titolo esecutivo, precetto, opposizioni, in Giur. sist. dir. proc. civ., diretta da A. Proto Pisani, Torino, 1983, 118.

[64] S. Satta, Commentario al codice di procedura civile, III, Milano, 1965, 80; V. Andrioli, Commento al codice di procedura civile, III, Napoli, 1957, 14.

[65] Cfr. Cass. 5 settembre 2023, n. 25941, in Riv. dir. proc., 2024, 1361 ss., con nota di U. Corea, Sentenza ex art. 2932 c.c. e condanna implicita.

[66] A.M. Soldi, Manuale dell’esecuzione forzata, cit., 2528, ove si riferisce anche della tesi favorevole a ritenere titolo esecutivo anche l’eventuale previsione del pagamento di una somma di denaro per ogni violazione, inosservanza o ritardo rispetto alle disposizione dell’accordo stipulato in sede di media-conciliazione, ai sensi degli artt. 11 e 12 del d.lgs. n. 28 del 2010.

[67] C. Consolo, F. Godio, La “impasse” del combinato degli artt. 2932-2908-2909 c.c. e l’alternativa dell’art. 614-bis c.p.c. dopo la riforma del 2015 per gli obblighi a contrarre ed anche solo a negoziare, in Corr. giur., 2018, 372.

[68] Si proponeva altresì di inserire nel contratto notarile una espressa pattuizione volta a dare atto della esistenza di una condizione risolutiva del contratto, nonché di far sì che l’eventuale trascrizione dell’atto a norma dell’art. 2659, comma 2, c.c., desse a sua volta atto della circostanza che l’acquisto è sottoposto a condizione, onde evitare l’opponibilità dell’acquisto da parte di terzi.

[69] Si v. in particolare, tra i vari autori che si sono espressi sul tema, G. Balena, La nuova pseudo-riforma della giustizia civile, cit., 798; A. Chizzini, Sub art. 614-bis c.p.c., cit., 167; F. Tommaseo, L’esecuzione indiretta, cit., 274; maggiore apertura alla soluzione in B. Capponi, Manuale, cit., 48, 53.

[70] La tesi è stata peraltro recepita in giurisprudenza: cfr. Trib. Brindisi, ord. 6 maggio 2024, in Ilcaso.it.

[71] In tal senso, v. anche B. Capponi, Introduzione, cit., 10; per un approfondimento, U. Corea, Condanna civile e misure coercitive, cit., 261 ss.

[72] Tra questi, deve ritenersi incluso anche l’accordo di conciliazione concluso ai sensi dell’art. 11 del d.lgs. n. 28 del 2010, là dove sprovvisto di misure coercitive (conf. A.M. Soldi, Manuale, cit., 2529). Quanto, invece, al lodo arbitrale, la Relazione illustrativa, nel motivare la competenza del giudice dell’esecuzione con la necessità di non discriminare i titoli esecutivi diversi dalla condanna, menziona anche a titolo esemplificativo il lodo arbitrale, omettendo però di specificare se si riferisca a quello rituale o irrituale. Là dove si ritengano gli arbitri rituali dotati del potere di emettere misure coercitive, il lodo (omologato) potrà costituire titolo esecutivo anche per il capo che le prevede, parificandosi così gli arbitri al giudice ordinario, mentre il giudice dell’esecuzione potrebbe essere adìto solo nel caso in cui la misura non sia stata richiesta nell’ambito del procedimento arbitrale. Qualora invece si opinasse diversamente, il lodo, che già costituisca titolo esecutivo, potrebbe essere munito di astreinte dal giudice dell’esecuzione. Quanto al lodo irrituale, non potendo costituire titolo esecutivo, non potrà essere corredato da misura di coercizione neppure da parte del giudice dell’esecuzione (questi potrà essere adito solo eventualmente per munire di astreinte il titolo esecutivo che si sia ottenuto sulla sua base, come un decreto ingiuntivo, a sua volta carente di misura coercitiva).

[73] B. Capponi, L’art. 614-bis c.p.c. (versione 2022) e il giudice dell’esecuzione, cit., 167; C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, I, Torino, 2023, 74. Ma si v. in senso contraria la già citata Cass. 23 maggio 2024, n. 14461, anche sulla scorta del rilievo che l’interpretazione sposata escluderebbe incertezze sulla possibilità di avanzare la medesima domanda al giudice dell’esecuzione e conflitti rispetto alle decisioni di quest’ultimo.

[74] In termini, B. Capponi, L’art. 614-bis c.p.c. (versione 2022) e il giudice dell’esecuzione, cit., 167, il quale osserva come valga anche il contrario, nel senso che proposta l’istanza al giudice dell’esecuzione non sarà possibile proporla nella sede cognitiva in appello.

[75] In tal senso, anche G. Olivieri, Le misure coercitive indirette riformate, cit., §2.

[76] Ancora, in senso opposto si v. G. Olivieri, op. cit., §2, secondo cui quando il provvedimento di condanna sia divenuto “immutabile, l’istanza di revoca dovrà essere presentata al giudice dell’esecuzione”. In realtà, per quanto auspicabile, la soluzione non sembra praticabile alla luce della scelta del legislatore di separare nettamente le due competenze.

[77] Che per contro sarebbe revocabile, secondo le regole ordinarie di volta in volta applicabili, dal giudice della cognizione ove apposto a un provvedimento cautelare o un’ordinanza anticipatoria e fors’anche a un’ordinanza definitoria (in quest’ultimo caso, più che sulla scorta dell’art. 177 mediante l’applicazione analogica dell’art. 669-decies c.p.c.), non anche ovviamente dopo la sentenza, salva la riforma all’esito del gravame.

[78] Nell’ambito dell’impugnazione sarà anche possibile chiedere l’inibitoria della misura coercitiva. In merito alla debenza delle somme maturate in pendenza della concessa inibitoria, la risposta muta a seconda che si sostenga la natura processuale ed esecutiva della misura coercitiva o meno (nel primo senso, escludendo la debenza, in quanto l’inibitoria rende inoperativa la misura, F.P. Luiso, op. cit., 254).

[79] Il reclamo per le misure cautelari, ma anche per le ordinanze definitorie di cui all’art. 183-ter. Il provvedimento non sarà invece impugnabile nel caso delle ordinanze anticipatorie ex artt. 186-bis e 186-ter, i quali prevedono la possibilità di revoca, da ultimo con la sentenza. Fermo restando che anche per i cautelari, là dove sia iniziato il giudizio di merito un ulteriore controllo sulla legittimità del provvedimento è svolto dal giudice del merito al momento della emanazione della sentenza.

[80] Conf. A.M. Soldi, Manuale, cit., 2539; con conseguente stabilizzazione dei suoi effetti, sicché in mancanza di opposizione agli atti il debitore non potrà proporre opposizione all’esecuzione rispetto al procedimento di espropriazione forzata eventualmente iniziato dal creditore per ottenere le somme maturate in forza della misura coercitiva (se non per fatti successivi alla formazione del titolo): così B. Limongi, Misure coercitive indirette (art. 614-bis c.p.c.), in La riforma Cartabia del processo civile, a cura di R. Tiscini, Pisa, 2023, 745.

[81] In questi casi, prima del deposito del ricorso ex art. 612 c.p.c., il debitore opponente che si sia visto notificare titolo e precetto non è ancora a conoscenza dell’intenzione del creditore di agire nelle forme dell’esecuzione diretta del titolo (giudiziale o stragiudiziale) o di proporre l’istanza di determinazione dell’astreinte.

[82] Così la Relazione illustrativa.

[83] In tema, B. Capponi, Ordinanze decisorie “abnormi” del g.e. tra impugnazioni ordinarie e opposizioni esecutive, in Riv. esec. forz., 2017, 317; in giurisprudenza, sui limiti del concetto di “sentenza in senso sostanziale” che apre la strada all’impugnazione ordinaria, v. Cass. 24 ottobre 2011, n. 22033.

[84] B. Capponi, L’art. 614-bis c.p.c. (versione 2022) e il giudice dell’esecuzione, cit., 168.

[85] Posto che l’art. 479 c.p.c. prevede che l’esecuzione forzata deve essere preceduta dalla notifica del titolo esecutivo e del precesso salvo che la legge non disponga diversamente, è da ritenere che laddove si tratti di munire di astreinte un provvedimento cautelare che non ne sia dotato la notifica del titolo possa essere omessa a mente di quanto dispone l’art. 669-duodecies c.p.c.

[86] Contra: A.M. Soldi, Manuale, cit., 2536.

[87] Il giudice competente dovrà essere individuato secondo le regole ordinarie di cui all’art. 26 c.p.c., in relazione al tipo di obbligo da adempiere, se di consegna di cose mobili o rilascio di immobili, o di fare o non fare.

[88] Nel secondo caso, è da tener presente che il titolo stragiudiziale può rappresentare un idoneo titolo esecutivo solo in rapporto allo specifico tipo di tutela esecutiva ammesso dalla legge (art. 474 c.p.c.).

[89] In mancanza di specifica disposizione, ai sensi dell’art. 35, comma, 2 del d.lgs. n. 149 del 2022, la disposizione si applica ai procedimenti iniziati a far data dal 28 febbraio 2023: deve quindi ritenersi che si applichi a tutti i ricorsi presentati al giudice dell’esecuzione dopo quella data anche se il provvedimento di condanna o il titolo stragiudiziale si siano formati prima (conf. Olivieri, op. cit., §6).

[90] Così F. P. Luiso, Il processo civile. Commentario breve al c.d. “Correttivo Cartabia” (d.lgs. 31 ottobre 2024, n. 164), Torino, 2024, 163.

[91] A.M. Soldi, Manuale dell’esecuzione forzata, cit., 2537 ss. Prima dell’adozione del correttivo, ci si era chiesti quale fosse la sorte dell’astreinte concessa dal giudice dell’esecuzione in caso di mancata instaurazione del processo esecutivo entro i novanta giorni dalla notifica del precetto o di sua rinuncia da parte del creditore ex art. 629 c.p.c. proponendo come soluzione l’alternativa tra la permanenza in vita della misura “finché il credito non venga soddisfatto” o la sua caducazione, ove considerata anch’essa alla stregua di un atto esecutivo destinato alla caducazione se il processo esecutivo non venga instaurato o venga caducato: C. Consolo, Spiegazioni, cit., 76.

[92] E così introducendo una diversità di regime, non attinente solo all’efficacia quanto anche ai presupposti per l’emanazione della misura da parte del g.e., che non emergeva dalla norma come modificata dal d.lgs. n. 149 del 2022; così, invece, A.M. Soldi, Manuale dell’esecuzione forzata, 9 ed., Milano, 2024, 2537 ss.; ma in senso contrario, si v. B. Capponi, Il comma 2 dell’art. 614 bis c.p.c. dopo il correttivo (d.leg. 31 ottobre 2024, n. 164), in Foro it., 2024 (di prossima pubblicazione).

[93] B. Capponi, Il comma 2 dell’art. 614 bis c.p.c. dopo il correttivo (d.leg. 31 ottobre 2024, n. 164), cit.: “La regola affermata è nel senso che l’esaurimento di quel processo (così dev’essere inteso il riferimento alla “estinzione”) coincide con la perdita di efficacia della misura, per raggiungimento dello scopo ovvero per conclamata impossibilità di tale raggiungimento. Il riferimento alla “estinzione” risulta fuorviante, perché se l’estinzione per rinuncia potrebbe far pensare a un raggiungimento dello scopo dell’astreinte, l’estinzione per inattività è al riguardo neutra e non giustifica la perdita di efficacia della misura compulsoria”.

[94] B. Capponi, Il comma 2 dell’art. 614 bis c.p.c. dopo il correttivo (d.leg. 31 ottobre 2024, n. 164), cit.

[95] La Commissione Luiso aveva proposto di intervenire sul punto, ma ha dovuto prendere atto che il tema investiva “profili di politica legislativa”, rimandando al Governo ogni decisione.

[96] C. Consolo, F. Godio, Sub art. 614-bis c.p.c., cit., 180; A. Nascosi, Le misure coercitive indirette, cit., 1217, secondo cui il termine finale evita al creditore di trarre profitto dalla mancata o (volontariamente) ritardata esecuzione del provvedimento giudiziale. Nonostante l’equivoco riferimento alla “estinzione” del processo esecutivo quale causa di efficacia anche della misura coercitiva emessa dal g.e., introdotto dal correttivo (v. retro, §5), non vi è ragione di escludere che anche il g.e. possa fissare il termine di efficacia delle misura.

[97] Su cui, v. R. Donzelli, Sanzioni civili pecuniarie, cit.

[98] Se il criterio del valore della controversia può essere di difficile utilizzo qualora esso sia indeterminabile, la natura della prestazione richiama le sue caratteristiche intrinseche, tali da condizionare nelle forme e nei tempi l’adempimento; il riferimento al danno previsto o prevedibile non è tale da far assumere funzione risarcitoria alla misura coercitiva, posto che il risarcimento del danno si cumulerà a essa, ma può essere utile quale parametro per la congruità della misura stessa, legandosi in qualche modo al criterio del valore della controversia; quanto poi al vantaggio conseguito dal creditore, si è già detto come questo nuovo parametro sia perfettamente in linea con la funzione compulsoria delle misure coercitive, come esplicitamente si legge nella Relazione illustrativa, dal momento che tanto più il debitore potrà essere indotto ad adempiere quanto più potrà realizzare che l’inadempimento “non paga”.

[99] In questo senso, F.P. Luiso, Diritto processuale civile, cit., 250.

[100] Cass., 11 ottobre 2018, n. 25176 e 25177, in modo coerente con quanto già previsto dall’abrogato art. 385 c.p.c., antesignano dell’art. 96, terzo comma.

[101] Sul punto, cfr. R. Donzelli, Sanzioni civili pecuniarie, cit., §11, il quale fa riferimento all’art. 11 della legge n. 689 del 1981 e all’art. 5 della legge n. 7 del 2016, stilando i seguenti criteri: la gravità della violazione; la reiterazione della condotta; l’intensità dell’elemento soggettivo; la condizione economica dell’autore dell’illecito; il danno prodotto o prevedibile; il guadagno conseguito; il “complessivo apparato rimediale e la possibilità di cumulo delle diverse sanzioni”. Alcuni di questi criteri non si discostano da quelli presi in considerazione dall’art. 614-bis c.p.c.

[102] Ricorda A.D. De Santis, Contributo allo studio della funzione deterrente, cit., 243, come l’art. 96, comma 3, e l’art. 614-bis siano entrambi “figli” della riforma del processo civile attuata con la l. n. 69 del 2009, e propone, stante la comunanza di ratio, la “intercambiabilità tra i parametri” forniti dagli interpreti con riferimento alla ragionevolezza della sanzione.

[103] L’alternativa in questi termini è posta da R. Donzelli, Sanzioni civili pecuniarie, cit., §12.

[104] L’abrogato art. 140, comma 7, del codice di consumo fissava invece una forbice tra compresa tra 516 e 1032 euro. La cornice edittale non è stata recepita dall’art. 840-sexiesdecies c.p.c. nel quale era confluita, prima di ritornare nel codice del consumo grazie al d.lgs. n. 28 del 2023, l’azione inibitoria consumeristica. Il che vuol dire che anche per questa disposizione valgono gli stessi rilievi del testo. La norma del codice di rito, inoltre, richiama la misura di coercizione indiretta dell’art. 614-bis c.p.c. aggiungendo che il provvedimento comminatorio può essere emanato “anche fuori dei casi ivi previsti”. La dottrina ha sottolineato l’oscurità del richiamo, che potrebbe riferirsi ai divieti espressi (controversie di cui all’art. 409 c.p.c. o condanne al pagamento di somme di denaro, ma non certamente ai casi in cui la stessa tutela di condanna è inammissibile: cfr. retro), così come al giudizio di non manifesta iniquità, che in tal caso potrebbe essere omesso (in tema, A. Tedoldi, G.M Sacchetto, La nuova azione inibitoria collettiva ex art. 840 sexiesdecies c.p.c., in Riv. dir. proc., 2021, 257). Il tema si porrà anche per il nuovo art. 473-bis.39 c.p.c., in tema di attuazione dei provvedimenti in materia di persone, minorile e familiare, dove, con portata innovativa rispetto al vecchio art. 709-ter c.p.c. si è separata la previsione del risarcimento del danno (comma 2°) che dunque si stacca dalle altre “sanzioni”, e, pur mantenendosi la sanzione pecuniaria da versarsi alla cassa delle ammende, si è introdotta la possibilità di “individuare ai sensi dell’art. 614-bis” la somma dovuta per ogni violazione o inosservanza successiva o per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione del provvedimento, anche qui dunque in assenza di una cornice edittale (in tema, cfr. R. Donzelli, L’attuazione delle misure, in La riforma del giudice e del processo per le persone, i minori e le famiglie, a cura di Cecchella, Torino, 2022, 215 ss.).

[105] Esulano dal divieto, pertanto, i rapporti di mezzadria, colonia parziaria, compartecipazione agraria, affitto a coltivatore diretto, altri rapporti agrari, di cui al n. 2 dello stesso articolo. Nonostante la commissione Luiso avesse proposto di eliminare il divieto, esso è rimasto.

[106] E. Vullo, Sub art. 614-bis c.p.c., in Codice dell’esecuzione forzata, a cura di E. Vullo, Milano, 2018, 822; Mandrioli, Carratta, Diritto processuale civile, IV, cit., 213; S. Mazzamuto, Esecuzione forzata, cit., 133, osserva che si tratta di una soluzione estrema “di disfavore o di favore” del datore e del lavoratore, ritenendosi coercibili le violazioni dell’obbligo di fedeltà del lavoratore, al pari dei crediti del lavoratore verso il datore (ma se il primo caso è comprensibile, il secondo non tiene conto a nostro avviso della dimensione di libertà nell’organizzazione dell’impresa).

[107] Si v. al riguardo, anche per citazioni, A. Nascosi, Le misure coercitive indirette, cit, 153. Di irragionevolezza parlava anche il Consiglio superiore della magistratura nel parere datato 30 novembre 2008 sul disegno di legge n. C/1441-bis.

[108] M. Taruffo, Note sull’esecuzione degli obblighi di fare e di non fare, in Giur. it, 2014, 744 ss.; il riferimento vale, ad esempio, allo stesso art. 18 st. lav., a proposito del licenziamento dei lavoratori dirigenti delle rappresentanze sindacali, ma ancor di più per le condotte antisindacali dell’art. 28 st. lav.

[109] Contra, sul punto, I. Pagni, L’evoluzione del diritto processuale del lavoro tra esigenze di effettività e di rapidità della tutela, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2013, 95, secondo cui “la valenza personalistica dell’obbligo assunto con un contratto, sia esso di lavoro o di edizione, non deve far dimenticare che quell’obbligo è stato assunto in virtù di una libera manifestazione di autonomia negoziale, e che, con riferimento specifico al rapporto di lavoro, ogni squilibrio tra le parti del contratto è già corretto dalla normativa inderogabile che assiste il prestatore di lavoro sia al momento dell’assunzione dell’obbligo che durante lo svolgimento del rapporto”.

[110] A. Proto Pisani, La riforma del processo civile: ancora una legge a costo zero (note a prima lettura), in Foro it., 2009, V, 223.

[111] E. Merlin, Prime note sul sistema delle misure coercitive pecuniarie per l’attuazione degli obblighi infungibili nella L. n. 69/2009, in Riv. dir. proc., 2009, 1556; così anche G. Costantino, Tutela di condanna e misure coercitive, in Il processo esecutivo, cit., 918; S. Chiarloni, L’esecuzione indiretta ai sensi dell’art. 614-bis c.p.c.: confini e problemi, in Il processo esecutivo, cit., 907: è interessante notare come l’A. si esprima fermamente nel senso della incostituzionalità, a differenza dello studioso cui si era altrettanto fermamente opposto nella polemica sull’esecuzione in forma specifica, ovvero S. Mazzamuto, sulla cui opinione vedi nella nota appresso.

[112] E. Merlin, Prime note, cit., 1557, definisce “assurdo” il discrimine, seguita da S. Chiarloni, L’esecuzione indiretta, cit., 907.

[113] M. Taruffo, Note sull’esecuzione, cit., 744, pur dovendosi rilevare che rimarrebbero esclusi anche diritti del lavoratore, diversi da quello al posto di lavoro, che invece avrebbero meritato di essere rafforzati mediante l’esecuzione indiretta.

[114] A. Chizzini, Sub art. 614-bis, cit., 175, il quale peraltro aggiunge che in questi termini il divieto si giustifica per l’appunto in relazione agli obblighi infungibili (gli unici all’epoca a poter essere coartati con l’astreinte). Se, invece, la disposizione (sempre nel testo originario) fosse stata intesa (come pure è accaduto) come estesa anche agli obblighi fungibili, verrebbe a mancare ogni ragione per escludere i rapporti di lavoro. Sicché è questa la situazione in cui oggi ci troviamo, dopo le modifiche apportate alla disposizione. Ancora, nel senso che l’esclusione si giustifica vuoi per evitare al lavoratore nello svolgimento delle sue prestazioni prettamente personali o intellettuali, vuoi per salvaguardare il datore di lavoro dall’eventualità di incorrere in costi eccessivi per l’attività d’impresa: B. Sassani, R. Tiscini, Prime osservazioni sulla legge 18 giugno 2009, n. 69, in www.judicium.it, §22; nello stesso senso, S. Mazzamuto,  La comminatoria, cit., 744 ss., che su questi stessi rilievi ritiene la scelta del legislatore “non irragionevole”, pur osservando che si sarebbe potuto raggiungere lo stesso risultato con la più elastica clausola di iniquità; A. Vallebona, La misura compulsoria per la condanna incoercibile, in MGL, 2009, 569, il quale ricollega la ratio del divieto al fatto che l’effetto dissuasivo dell’inottemperanza alla condanna sia già incorporato nella disciplina speciale; analogamente, G. Miccolis, Sub art. 614-bis c.p.c., cit., 1052.

[115] A. Carratta, Le novità in materia di misure coercitive per le obbligazioni di fare infungibile o di non fare, in Rass. for, 2009, 734; A. Saletti, L’esecuzione processuale indiretta nella riforma del “Codice di procedura civile” italiano, in Revista de derecho, 2009, 511; E. Vullo, Sub art. 614-bis c.p.c., cit., 823; contra, A. Nascosi, Le misure coercitive indirette, cit., 155, il quale ritiene insuperabile il chiaro dato testuale, pur condividendo le perplessità sulla scelta del legislatore.

[116] La Convenzione di Ginevra del 25 settembre 1926, approvata in Italia con r.d. 26 aprile 1928, n. 1723, definisce la schiavitù “lo stato o la condizione di un individuo sul quale si esercitano gli attributi del diritto di proprietà o alcuni di essi”: la coercibilità delle prestazioni del lavoratore potrebbe condurre a situazioni intollerabili di assoggettamento in schiavitù.

[117] M. Zinzani, G. Santarelli, Libertà di impresa e protezione dei consumatori, in I diritti fondamentali nell’Unione Europea, a cura di P. Gianniti, Bologna, 2013, 1200, e ivi riferimenti alla giurisprudenza delle corti.

[118] S. Mazzamuto, Esecuzione forzata, cit., 134.

[119] Va, peraltro, considerato che, sebbene l’art. 114 c.p.a. non contenga limiti né alla tipologia di condanna né con riferimento a specifiche materie, esso prevede un limite aggiuntivo rispetto all’art. 614-bis c.p.c., ulteriore rispetto alla manifesta iniquità, che è rappresentato dall’assenza di “altre ragioni ostative”. Si tratta di un argine ancor più evanescente della valutazione equitativa, che di fatto concede al giudice una discrezionalità assoluta.

[120] G. Costantino, Tutela di condanna e misure coercitive, in Il processo esecutivo, cit., 919, che tuttavia propende per la irragionevolezza del divieto.

[121] Sono le limpide parole di B. Sassani, Impugnativa dell’atto e disciplina del rapporto, cit., 45.

[122] E. Merlin, Prime note, cit., 1557.

[123] Escluso, al pari di quello subordinato, dal progetto Proto Pisani di riforma del codice di procedura civile (art. 4.174), in Foro it., 2009, V, 1 ss.

[124] È bene ribadirlo a fronte di pronunce come Trib. Verona, 9 marzo 2010, in Giur. mer., 2010, 1857, di cui al successivo §7.3.

[125] Cons. St., Ad. Plen., 29 gennaio 2014, n. 462, aveva già ritenuto giustificato, per vero con scarna motivazione, il diverso regime sulla scorta della peculiare natura del giudizio di ottemperanza e della funzione compulsoria esercitata dalla misura coercitiva verso la pubblica amministrazione.

[126]Van een kale kip valt niet te plukken” è il detto olandese richiamato da F. Auletta, Diritto giudiziario civile, cit., 467: “non si spenna un pollo senza penne”, sicché “nessuna addizione di valore comminatorio porterebbe con sé una sanzione ulteriormente liquidabile in denaro. Scettico, per analoghe ragioni, sulla concreta efficacia delle misure coercitive rispetto al problema della fase patologica dell’inadempimento delle obbligazioni, G. Monteleone, Esecuzione specifica e misure coercitive, cit.

[127] Cfr. B. Sassani, R. Pardolesi, Il decollo del tasso di interesse: processo e castigo, in Foro it., 2015, I, 62 ss., i quali rilevano come la norma non sia destinata ai rapporti tra imprese già regolati dalla legge n. 231 del 2002, in quanto per questi il tasso moratorio scatta già con l’inadempimento e non è condizionato ad alcuna attività giudiziale. Viceversa, per gli altri rapporti, ai quali invece l’art. 1284 c.c. trova applicazione, la sanzione punta a deflettere la resistenza in giudizio, anche quella che è o può apparire al convenuto come fondata. Con un costo che rischia di essere eccessivamente penalizzante anche per il diritto di difesa. Sui limiti del potere del giudice dell’esecuzione di interpretare il titolo, laddove manchi uno specifico riferimento alla natura degli interessi, cfr. Cass., 25 luglio 2022, n. 23125 e ivi altri riferimenti.

[128] Per analoghi rilievi, S. Mazzamuto, Esecuzione forzata, cit., 140.

[129] F.P. Luiso, Diritto processuale civile, III, cit., 253; di norma di “sconcertante vaghezza” parla invece A. Chizzini, Sub art. 614-bis, cit., 169.

[130] S. Mazzamuto, L’esordio della comminatoria, cit., 647; Id., Esecuzione forzata, cit., 131.

[131] G. Balena, La nuova pseudo-riforma della giustizia civile, cit., 796; B. Capponi, Manuale di diritto dell’esecuzione civile, cit. 42; G. Costantino, Tutela di condanna, cit., 925, il quale precisa che il giudice è tenuto a motivare il rigetto della domanda; contra, S. Mazzamuto, La comminatoria, cit., §6, escludendo ogni connessione con la norma di cui all’art. 2058 c.c., operante esclusivamente sul fronte risarcitorio.

[132] A. Saletti, L’esecuzione processuale indiretta nella riforma del “Codice di procedura civile” italiano, in Rivista de derecho, 2009, 511; A. Carratta, Tecniche di attuazione dei diritti e principio di effettività, in Processo e tecniche di attuazione dei diritti. Omaggio a Salvatore Mazzamuto a trent’anni dal convegno palermitano, a cura di G. Grisi, Napoli 2019, 706.

[133] C. Asprella, L’esecuzione processuale indiretta nel processo civile, in Riv. esec. forz., 2012, 29 ss.; G. Miccolis, Sull’effettività delle obbligazioni di facere alla luce dell’art. 614 bis c.p.c.: l’esempio del rilievo del fideiussore, in Scritti in onore di Bruno Sassani, Pisa, 2022, 1165, ove si rileva come il giudice potrà considerare la situazione patrimoniale dell’obbligato.

[134] M. Montanari, Astreinte in sede cautelare ed azione di manutenzione del contratto, in Giur. it, 2017, 841 ss.

[135] A. Chizzini, Sub art. 614-bis c.p.c., cit., 171, secondo cui è manifestamente iniqua l’astreinte quando riguarda una prestazione strettamente personale a fronte di un interesse solo patrimoniale, pur riconoscendo che in tal modo è sì data una discrezionalità eccessiva al giudice “ma sul punto si paga la non scelta del legislatore”.

[136] A. Carratta, Tecniche di attuazione dei diritti, cit., 706; C. Croci, L’esecuzione forzata per obblighi di fare e di non fare, in Aa.Vv., La nuova esecuzione forzata, diretta da P.G. Demarchi, cit..,1207; B. Gambineri, Attuazione degli obblighi di fare infungibili o di non fare, in Foro it., 2009, V, 323; A. Nascosi, Le misure coercitive indirette, cit., 158; F. Tommaseo, L’esecuzione indiretta, cit., 1004.

[137] A. Carratta, Tecniche di attuazione dei diritti, cit., 706; G. Balena, Istituzioni di diritto processuale civile, III, Bari, 2024, 195.

[138] G. Costantino, Tutela di condanna e misure coercitive, cit., 925, escludendosi che l’autore che ha assunto l’impegno di scrivere un’opera o l’artista che si è impegnato a uno spettacolo possa essere condannato al facere, potendo rispondere solo per equivalente, compreso il lucro cessante; in senso contrario, sul punto, I. Pagni, L’evoluzione del diritto processuale del lavoro tra esigenze di effettività e di rapidità della tutela, cit., 95; dubbioso, sulla categoria delle prestazioni che richiedono “particolare abilità professionale” (il riferimento è al progetto Liebman), G. Verde, La disciplina dell’esecuzione forzata secondo il disegno di legge delega per un nuovo codice di procedura civile, in Riv. dir. proc., 1982, 81.

[139] C. Consolo, F. Godio, Sub art. 614-bis c.p.c., cit., 177.

[140] Cass., 6 marzo 2020, n. 6471, in Nuova giur. civ. comm., 2020, 775, con nota di A. Nascosi; in Fam. e dir., 2020, 332, con nota di B. Ficcarelli e 792, con nota di E. Vullo; in Corr. giur., 2020, 1394, con nota di D. Noviello. Si legge nella sentenza che in quanto espressione del potere di autodeterminazione, il dovere di frequentazione e visita del figlio minore è rimesso alla “libera e consapevole scelta di colui che ne sia onerato”. Una diversa lettura che volesse affermare la sua natura di obbligo coercibile “urterebbe con la qualificazione adottata e con la stessa finalità di quel dovere, strumento di realizzazione dell’interesse supremo del minore”. La Cassazione sottolinea inoltre che il diritto-dovere di visita costituisce “esplicazione della relazione tra il genitore e il figlio che può trovare regolamentazione nei suoi tempi e modi, ma che non può mai costituire l’oggetto di una condanna ad un facere sia pure infungibile”. Tale relazione ha “rilevanza costituzionale” e “trova la sua fonte primaria nell’art. 30 Cost.”.

[141] Diversi sono i riferimenti alla dignità nel testo costituzionale: oltre all’art. 2, che sancisce il principio personalistico, art. 3 (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale”); art. 13, comma 4 (che punisce “ogni violazione fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”); art. 32, comma 2 (ove si impone il rispetto della persona umana nei trattamenti sanitari obbligatori); art. 36, comma 1 (a proposito del diritto del lavoratore a un’esistenza libera e “dignitosa”); art. 41, comma 2 (ove si pone il limite all’iniziativa economica privata che non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale e non può recare danno “alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”). La tutela della dignità è stata affermata in modo netto dall’art. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che la definisce “inviolabile” e stabilisce che la stessa “deve essere tutelata e rispettata”. Sull’utilizzo della clausola di dignità, v. G. Alpa, Dignità. Usi giurisprudenziali e confini concettuali, in Nuova giur. civ. comm., 1997, II, 415 ss. La Corte costituzionale, con la sentenza 11 luglio 2000, n. 293, ha affermato che il principio della dignità umana non può essere sottoposto ad alcuna restrizione e ad alcun bilanciamento con altri valori costituzionali. La Corte di Giustizia ha ritenuto compatibile con il diritto comunitario una legge tedesca che vietava un’attività commerciale consistente nella gestione di un “laserdromo”, ovvero un gioco in cui i partecipanti hanno la possibilità di colpire gli altri con un laser, simulando omicidi, ritenendo che la legge in esame proteggesse la dignità umana e che nel caso di specie poteva dirsi effettivamente sussistente una violazione di tale valore (Corte Giust., 14 ottobre 2004, Omega, in causa C-36/02, in Quad. cost., 2005, 174 ss., con nota di Gennusa). Con altra sentenza, ha fatto riferimento al principio del rispetto della dignità umana interpretando nel senso più ampio possibile la nozione di embrione umano, onde consentirne la più forte tutela (Corte Giust., 18 ottobre 2011).

[142] G. Piepoli, Dignità e autonomia privata, in Pol. Dir., 2003, 45.

[143] M.E. Gennusa, L. Violini, Persona umana e sua dignità, in I diritti fondamentali nell’Unione Europea, a cura di P. Gianniti, cit., 466.

[144] G. Resta, Dignità, persone, mercati, Torino, 2014, 58; F. Macario, La tutela della persona nel contratto, in Giurisprudenza per principi e autonomia privata, a cura di L. Nivarra e A. Plaia, Torino, 2016, 145.

[145] Così Trib. Verona, 9 marzo 2010, cit., che non ha concesso il provvedimento cautelare solo per mancanza del periculum. La parte virgolettata, non disponendo del provvedimento integrale, è tratta da M. Montanari, Astreinte in sede cautelare ed azione di manutenzione del contratto, cit., 845, che commenta il caso.

[146] G. Balena, Istituzioni, III, cit., 198; M. Bove, Diritto e processo, cit., 1533; A. Chizzini, Sub. Art. 614-bis c.p.c., cit., 170; G. Costantino, op. cit., 742; C.V. Giabardo, Effettività della tutela, cit. 191; A. Nascosi, Le misure coercitive, cit., 157.

[147] I. Pagni, L’evoluzione del diritto processuale del lavoro, cit., 95.

[148] Similmente, M. Bove, Diritto e processo, cit., 1531, là dove si tratti di un lavoro meramente “tecnico” o “artigianale”. Si consideri che una remota giurisprudenza di legittimità aveva escluso la surrogabilità in executivis della prestazione derivante da contratto di edizione, per la sua natura strettamente personale: Cass., 20 settembre 1952, n. 2925, in Foro it., 1953, I, 809.

[149] La disciplina speciale prevede in questi casi una rigorosa procedimentalizzazione del consenso, il quale non è sufficiente che venga prestato ab initio dovendo permanere fino alla fine della procedura onde salvaguardare l’intangibilità della sfera personale; esclusa per definizione una qualsiasi coercibilità della prestazione, ci si chiede se a seguito del recesso la controparte possa avanzare quantomeno delle pretese risarcitorie per l’affidamento riposto nel consenso prestato: A. Gambaro, I beni, in Trattato dir. civ. e comm., diretto da Cicu, Messineo, Mengoni, Milano, 2012, 201; G. Resta, Dignità, persone, mercati, cit., 110.

[150] Per ogni approfondimento, rimando ancora al mio Condanna civile e misure coercitive, cit., 230 ss.

[151] “Con il provvedimento di condanna all’adempimento… il giudice, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta..”, dal che si desume che ciò che risulta iniquo dev’essere proprio il provvedimento di irrogazione della comminatoria.

[152] M. Bove, Diritto e processo, cit., 1537, il quale ricollega tale valutazione al principio del “minimo mezzo” e sul presupposto che finalità della misura non sia punitiva rispetto alla mancata ottemperanza all’ordine giurisdizionale (come avviene per il contempt anglosassone), bensì esclusivamente volta alla realizzazione del credito.

[153] S. Mazzamuto, Esecuzione forzata, cit., 131. Riteniamo che questa impostazione non debba implicare che solo perché sia accessibile l’esecuzione diretta diventi iniquo il ricorso a quella indiretta. Vero è il contrario, essendo il cumulo perfettamente ammissibile. La valutazione va allora fatta in concreto alla luce degli argomenti che le parti, e in particolare il debitore, sapranno portare al giudice per evidenziare la superfluità della misura, che la può rendere iniqua in quanto ingiustamente pregiudizievole. In mancanza di validi argomenti, il cumulo non solo è consentito ma è finanche doveroso, considerato che la finalità della comminatoria è pur sempre l’induzione all’adempimento e che, se tale obiettivo è raggiunto, sarà l’intero sistema a beneficiarne, grazie alla riduzione dei processi esecutivi.

[154] Anche qui da valutarsi non certo in astratto ma alla luce della concreta situazione; così anche S. Vincre, Le misure coercitive ex art. 614-bis c.p.c. dopo la riforma del 2015, in Riv. dir. proc., 2017, 380. Il problema del cumulo si è posto nell’ambito delle controversie familiari tra le misure adottabili in base all’art. 709-ter c.p.c. e quelle di cui al sopravvenuto art. 614-bis c.p.c. A un’originaria propensione per il cumulo, motivato anche dalla non perfetta sovrapposizione delle due misure (tenuto conto che la prima disposizione si limitava a sanzionare, con formule diverse, inadempienze già avvenute mentre la seconda di regola punta a prevenirle), ha fatto seguito una sentenza della Corte di legittimità di contrario avviso, sul rilievo che il diritto-dovere di visita del minore da parte del genitore non affidatario (rilevante nel caso di specie), riqualificato come potere-funzione, non fosse coercibile alla stregua di una civile obbligazione e non comportasse alcun provvedimento di “condanna” in senso tecnico, esulando quindi dall’applicazione non solo della norma di cui all’art. 614-bis ma anche dello stesso art. 709-ter (Cass., 6 marzo 2020, n. 6471, in Nuova giur. civ. comm., 2020, 775, con nota di A. Nascosi; in Fam. dir., 2020, 792, con nota di E. Vullo). Il problema del cumulo – ma non anche quello della incoercibilità delle diverse situazioni, da verificare in concreto – deve però intendersi per ora risolto a seguito dell’avvenuta abrogazione dell’art. 709-ter e della sua sostituzione con l’art. 473-bis.39, che esplicitamente oggi consente l’emanazione anche in materia di famiglia di comminatorie ai sensi dell’art. 614-bis. La possibilità di cumulo rimane dunque sottoposta al vaglio del giudice, che potrà escluderla (laddove astrattamente ammissibile e cumulabile) se la ritenesse “manifestamente iniqua” (conf. A. Nascosi, Le misure coercitive indirette, cit., 1228). Per un approfondimento sul punto si rinvia all’analisi di R. Donzelli, L’attuazione delle misure, cit., 220 ss.