L’art. 373 c.p.c. sul riflesso dell’art. 283 c.p.c.

Di Bruno Capponi -

Sommario: 1.- L’art. 373 c.p.c. col suo riferimento, in apparenza esclusivo, al periculum in mora. 2.- L’art. 283 c.p.c. e la mancanza di un disegno unitario delle inibitorie. 3.- Necessità di razionalizzare l’istituto che conserva un carattere unitario. 4.- La riforma dell’art. 283 c.p.c. portata dal d.lgs. n. 149/2022. 5.- Implicazioni e conseguenze. 6.- Qualche considerazione finale.

1.- L’art. 373 c.p.c. ha una storia particolare.

Nella lezione originaria (1940), la norma prevedeva che «La corte di cassazione, con ordinanza pronunciata in camera di consiglio su istanza di parte, sentito il pubblico ministero, può sospendere l’esecuzione della sentenza soggetta a ricorso, quando dall’esecuzione stessa può derivare grave o irreparabile danno» (comma 1).

La suprema corte, allora giudice di pura legittimità[1], ritenne che la decisione sull’inibitoria comportasse valutazioni di merito incompatibili col suo ruolo istituzionale; in conseguenza, il d.lgs. 5 maggio 1948, n. 483[2] varò un’alternativa versione («Il ricorso per cassazione non sospende l’esecuzione della sentenza. Tuttavia, il giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata può, su istanza di parte e qualora dall’esecuzione possa derivare grave e irreparabile danno, disporre con ordinanza non impugnabile che l’esecuzione sia sospesa o che sia prestata congrua cauzione») che, dopo vari rinvii dell’entrata in vigore, sarebbe alfine stata confermata dalla c.d. controriforma del 1950[3]. Non soltanto la competenza a provvedere, ma lo stesso presupposto dell’inibitoria ne riuscirono modificati: posto che il danno derivante dall’esecuzione provvisoria della sentenza impugnata avrebbe dovuto essere grave e irreparabile, con conseguente inasprimento del giudizio prognostico rimesso alla corte di merito.

Nell’applicazione giurisprudenziale che ne sarebbe seguita, non tanto il presupposto – che pure opera un chiaro (si poteva discutere se anche esclusivo) riferimento al periculum – quanto la competenza stessa a provvedere venne generalmente ritenuta incompatibile con l’esame del fumus; ciò sul riflesso per cui soltanto la corte di cassazione avrebbe potuto giudicare, sia pure in sede sommaria, circa le possibilità di resistenza della sentenza gravata ai vulnera dei motivi di gravame. Ne sia riprova il fatto che, nell’applicazione dell’art. 407 c.p.c. che pure opera un mero rinvio all’art. 373 c.p.c., non si è escluso l’esame delle ragioni di merito dedotte dal terzo opponente[4]: qui, il giudice che conosce dell’inibitoria è quello stesso che sarà poi competente a conoscere il merito dell’impugnazione.

Il medesimo testo di legge ha così dato luogo a letture diverse, perché diverso era il giudice chiamato ad applicarlo.

2.- L’art. 283 c.p.c. ha una storia altrettanto peculiare, specie nel raffronto col sistema del codice abrogato[5]. Del resto, lo stesso art. 373 c.p.c. ha dovuto registrare i passaggi della mutata natura della sentenza d’appello e dello stesso ricorso per cassazione; il sistema si era infatti evoluto nel senso di considerare l’esecuzione di quella come provvisoria (non diversamente dalla sentenza di primo grado) e il ricorso per cassazione quale impugnazione ordinaria.

Che quel sistema – consegnato a poche, reticenti norme – sia sempre sfuggito a un disegno unitario e razionale sembra testimoniato anzitutto dal fatto che l’inibitoria avverso una sentenza provvisoriamente esecutiva sembra rispondere a presupposti diversi a seconda che quella sentenza sia di primo grado (art. 283) o di appello (art. 373), laddove i presupposti dell’inibitoria della sentenza d’appello vengono richiamati, senza alcun adattamento, addirittura nelle impugnazioni straordinarie.

Inoltre, l’art. 283 ha sempre previsto che l’istanza di inibitoria debba essere proposta con l’impugnazione principale o con quella incidentale; dal canto suo, l’art. 373 aveva inizialmente previsto (1940) che «L’istanza di sospensione deve essere proposta nel ricorso contro la sentenza o con apposito ricorso, contenente, in caso di sentenza parziale, la dichiarazione di cui all’articolo 361 se non è stata già fatta» (comma 2) e che «L’apposito ricorso deve essere proposto nelle forme ordinarie entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla comunicazione della sentenza» (comma 3); tuttavia, a partire dal testo varato col d.lgs. n. 483/1948 la previsione del termine perentorio è sfumata, e, secondo la giurisprudenza che si sarebbe consolidata, il ricorrente per cassazione non dovrà neppure annunciare, in ricorso, l’intenzione di chiedere alla corte d’appello l’inibitoria della sentenza impugnata. Invece, la corte d’appello potrà dichiarare inammissibile l’istanza di inibitoria se la parte istante non provi di aver depositato (cioè iscritto a ruolo) il ricorso per cassazione (art. 131 bis disp. att. c.p.c.), ricorso che tuttavia – secondo l’opinione consolidata – non potrà essere esaminato ai fini della pronuncia sull’inibitoria.

Ciò ha determinato, nel tempo, applicazioni differenziate dell’istituto.

Per quanto riguarda la sentenza d’appello, un orientamento consistente (e forse prevalente) ha preteso – parlando l’art. 373 di danno da esecuzione – che gli atti esecutivi fossero quantomeno minacciati allorché si richiede l’inibitoria, con la conseguenza che l’istanza sarebbe da considerare inammissibile se proposta prima della notificazione dell’atto di precetto. Lettura estremistica neppure giustificata dal testo della norma, che parla sì di danno da esecuzione ma non richiede certo che tale danno si sia già manifestato (o sia prossimo a manifestarsi) ai fini della decidibilità dell’istanza di inibitoria. E tuttavia l’orientamento è apparso rafforzato proprio dalla mancanza di un termine perentorio (generalmente collegato agli atti introduttivi), circostanza che portava a far credere che la necessità della cautela fosse ricollegata non alla fondatezza dei motivi di gravame (fumus), bensì soltanto al periculum derivante dall’esecuzione forzata della sentenza.

Addirittura, la lettura restrittiva si era manifestata anche a proposito dell’art. 283, che, nella lezione originaria[6], parlava di «esecuzione iniziata» (ma anche di revoca della concessione della provvisoria esecuzione). In conseguenza, il legislatore del 1990[7] ha chiarito che ciò che si sospende è non soltanto l’esecuzione in atto, ma anche l’efficacia esecutiva della sentenza impugnata. Anzi, è bene precisare che nonostante l’utilizzo della disgiuntiva “o” («l’efficacia esecutiva o l’esecuzione della sentenza impugnata»), il provvedimento di inibitoria pronunciato a esecuzione già iniziata contiene in sé due capi tra loro inscindibili, perché la sospensione dell’esecuzione in atto porta con sé, per implicito, l’impossibilità di azionare ulteriormente il titolo (la cui efficacia esecutiva ha da intendersi comunque sospesa).

Aspetto comune delle varie inibitorie è che esse sono sempre rese con ordinanza non impugnabile, ragion per cui è escluso qualsiasi mezzo di controllo (sebbene spesso si affermi che l’inibitoria sia espressione di tutela cautelare: ma anche dopo l’introduzione del procedimento cautelare uniforme la giurisprudenza compatta ha escluso la garanzia del reclamo).

3.- Nonostante le differenze e le incongruità delle discipline, anche per come modificate nel tempo, ineludibile compito dell’interprete è il tentativo di razionalizzare, per quanto possibile, la costruzione teorica e il funzionamento pratico degli istituti.

La questione fondamentale è quella di stabilire se l’art. 283 c.p.c. possa considerarsi il prototipo delle decisioni sull’inibitoria, del quale l’art. 373 c.p.c. (e le norme che a questo fanno rinvio) costituirebbe mera specificazione; ovvero se ciascuna impugnazione risponda a regole proprie. Il rinvio che all’art. 373 operano gli artt. 401 e 407 c.p.c., rispettivamente in tema di revocazione e opposizione di terzo, sembra subito contraddire la possibilità di un approccio unitario, stante che – fatto indubbiamente vistoso – non si sono differenziati i trattamenti dell’impugnazione ordinaria e di quella straordinaria.

Se poi il discorso dovesse allargarsi ad abbracciare i provvedimenti sospensivi a vario titolo pronunciabili in fasi speciali o nello stesso processo di esecuzione forzata[8] il rischio sarebbe quello di smarrire qualsiasi riferimento, perché il legislatore sembra quasi essersi divertito a differenziare i presupposti della sospensione/inibitoria in tutti i vari contesti in cui si pone il problema di paralizzare gli effetti di un provvedimento esecutivo anche di tipo sommario (es., artt. 649 e 668 c.p.c.).

Basti considerare questo semplice dato: mentre nel testo dell’art. 283 varato dalla legge n. 353/1990 il riferimento ai “gravi” motivi (assortiti ai “fondati” grazie alla legge n. 51/2006) è stato comunemente inteso come un rinvio al periculum[9]; la stessa espressione, utilizzata nell’art. 624 c.p.c., si intende comunemente come un rinvio al fumus dell’opposizione, essendo, nel particolare contesto dell’esecuzione forzata, il periculum un elemento che sussiste in re ipsa[10] e non può quindi condizionare le valutazioni che il g.e. compie nella fase sommaria delle varie opposizioni.

4.- La recente riforma del processo civile, realizzata contemplando le esigenze del PNRR, è intervenuta anche in argomento[11].

Il d.lgs. n. 149/2022 ha riscritto l’art. 283 c.p.c., prevedendo:

– che l’istanza di inibitoria in appello deve proporsi con l’impugnazione principale o con quella incidentale;

– che oggetto del provvedimento è l’efficacia esecutiva o l’esecuzione della sentenza impugnata;

– che l’inibitoria può essere adottata se l’impugnazione appare manifestamente fondata;

– ovvero se dall’esecuzione della sentenza può derivare un pregiudizio grave e irreparabile;

– che questa seconda ipotesi può darsi anche qualora la condanna sia pecuniaria;

– che il pregiudizio va valutato anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti;

– che l’istanza può essere proposta o riproposta nel corso del giudizio di appello, ove si verifichino mutamenti nelle circostanze;

– che tali mutamenti debbono essere indicati in ricorso, a pena di inammissibilità.

La relazione illustrativa non fa alcun cenno all’art. 373 c.p.c., confermando l’impressione di tendenziale separatezza delle discipline sull’inibitoria.

L’attuale testo dell’art. 283 c.p.c. è quindi, come quasi sempre avviene, una combinazione delle regole vecchie con le regole nuove.

Sulle prime, è forse stata persa l’occasione per chiarire, eliminando la disgiuntiva, che l’inibitoria ha una portata che si estende dall’esecuzione al titolo, non essendo possibile sospendere l’esecuzione in atto senza sospendere, contestualmente e inevitabilmente, l’efficacia esecutiva della sentenza impugnata.

È stata anche confermata la regola sulla collocazione dell’istanza negli atti introduttivi, sebbene si sia aggiunto che l’inibitoria potrà essere richiesta per la prima volta «nel corso del giudizio di appello se si verificano mutamenti nelle circostanze che devono essere specificamente indicati nel ricorso, a pena di inammissibilità»; ne consegue che, ove il provvedimento non sia stato richiesto con l’atto introduttivo (gravame principale o incidentale), l’istante dovrà indicare le ragioni dell’omissione accanto alle ragioni sopravvenute che giustificano la richiesta successiva, per la quale in apparenza non risulta previsto alcun termine (con la conseguenza che l’istanza potrà essere conosciuta anche se nel giudizio di appello sia stata già riservata la decisione, sebbene sarebbe stato ragionevole individuare il limite della precisazione delle conclusioni).

Allo stesso modo, allorché l’istanza proposta in limine sia stata rigettata, si ammette la riproponibilità (anche qui senza la previsione di un termine e così, potremmo intendere, sin tanto che penda il giudizio di appello), sempre condizionatamente a motivi sopravvenuti. Ma, al tempo stesso, non si ammette un controllo sulla pronuncia dell’inibitoria, che di necessità verrebbe da un giudice diverso rispetto a quello competente a definire nel merito l’impugnazione.

Si tratta, come si vede, di una disciplina più articolata della precedente: dettando la quale il legislatore (già della delega) ha inteso confermare la regola della non reclamabilità, al tempo stesso prendendo atto che la durata media degli appelli (anni e non mesi) giustifica la riproponibilità dell’istanza ovvero la sua proposizione non contestuale agli atti introduttivi.

L’innovazione forse più vistosa è verosimilmente nella separazione dei presupposti, tale per cui l’inibitoria potrà essere concessa «se l’impugnazione appare manifestamente fondata» o, alternativamente, «se dall’esecuzione della sentenza può derivare un pregiudizio grave e irreparabile, pur quando la condanna ha ad oggetto il pagamento di una somma di danaro, anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti». In questo modo si è abbandonata l’ambigua previsione dei “gravi motivi”, introdotta dalla legge n. 353/1990, ritagliando la formula del periculum sul modello dell’art. 373 c.p.c. (frutto della novella introdotta, abbiamo visto, dal d.lgs. n. 483/1948).

Possiamo quindi affermare che l’inibitoria da periculum è esattamente la stessa in qualsiasi impugnazione, ordinaria o straordinaria, mentre soltanto per l’appello si ammette un’inibitoria da fumus da scrutinare sulla base del criterio della “manifesta fondatezza” dell’impugnazione.

Ma l’aspetto più rilevante è che sembra abbandonata l’idea dell’inibitoria come frutto di una valutazione che combina fumus e periculum: il che non può non avere conseguenze sulla configurabilità dell’inibitoria stessa quale provvedimento a contenuto cautelare.

5.- Quali sono le possibili conseguenze dell’intervento che il d.lgs. n. 149/2022 ha operato sull’art. 283 c.p.c.?

Sotto un primo aspetto, può notarsi che l’inibitoria incide sull’efficacia esecutiva della sentenza di primo grado (anche quando sia l’esecuzione in atto a venire sospesa), e ciò potrà avvenire, in thesi, sulla base di valutazioni del tutto identiche a quelle richiamate nell’art. 373 c.p.c., svincolate dal fumus boni iuris; la conseguenza, ci sembra, è che non potrà più sostenersi, come si è largamente sostenuto in passato, che l’inibitoria della sentenza d’appello (come l’inibitoria coordinata alla revocazione o all’opposizione di terzo) presuppone quantomeno la minaccia degli atti esecutivi se non, addirittura, il compimento del primo atto dell’esecuzione forzata. La precisazione che la legge n. 353/1990 ha compiuto in ordine al possibile contenuto dell’inibitoria in appello – servita a vincere irragionevoli resistenze dell’interpretazione giudiziaria – è quindi riferibile a qualsiasi inibitoria, e non soltanto a quella che investe la sentenza di primo grado.

Sotto altro aspetto, ci chiediamo se sia logico svincolare l’inibitoria da possibili valutazioni sul fumus dell’impugnazione, vale a dire sulla idoneità della sentenza impugnata a resistere ai motivi di censura dedotti col ricorso per cassazione, con la revocazione e con l’opposizione di terzo[12]. Infatti, a ben vedere, ciò che rende “ingiusta” l’esecuzione provvisoria è appunto la possibilità che il titolo, sulla cui base l’esecuzione viene condotta, venga caducato o modificato nei successivi gradi del giudizio. Qualora tale conseguenza non sia ragionevolmente prospettabile – perché, con formula inversa rispetto a quella utilizzata dalla norma, l’impugnazione appare “manifestamente infondata” – dovrebbe venir meno, a nostro avviso, anche qualsiasi “ingiustizia” dell’esecuzione condotta a titolo provvisorio. In fondo, il problema non è diverso rispetto a quanto da sempre si apprezza all’interno del processo esecutivo, in cui i “gravi motivi” dell’art. 624 c.p.c. non riguardano il periculum (insito nell’esecuzione in sé), bensì soltanto il fumus, vale a dire la possibilità che il titolo a base dell’esecuzione possa essere caducato a seguito del vittorioso esperimento di un’opposizione esecutiva. Che senso avrebbe sospendere, ossia rimandare nel tempo il compimento dell’esecuzione, quando non sia ragionevolmente prospettabile la riforma o la cassazione della sentenza costituente titolo esecutivo?

Sotto un ulteriore aspetto, opportuna è la precisazione che riguarda la condanna pecuniaria; ma anche tale precisazione, di per sé, non dovrebbe essere riferita alla sola sentenza di primo grado.

Un ultimo rilievo può apprezzarsi secondo un canone di ragionevolezza: pur avendo il legislatore confermato la necessità che l’istanza di inibitoria avverso la sentenza di primo grado sia contenuta negli atti introduttivi del gravame, è stata introdotta la possibilità della sua presentazione o riproposizione nel corso del giudizio, evidentemente nel tentativo di sanare la scollatura tra realtà sostanziale in evoluzione e durata dell’impugnazione (che spesso è soltanto statica attesa della decisione) senza togliere al giudice competente il “monopolio” del processo. Non ravvisiamo ragioni per non estendere la novità alle varie ipotesi regolate dall’art. 373 c.p.c., perché la ratio della riproposizione non ha punti di contatto col tema della maggiore stabilità della sentenza d’appello rispetto a quella di primo grado, essendo un portato – del quale il legislatore si è meritoriamente fatto carico – della lunga durata dei nostri processi di impugnazione.

6.- Non sono del tutto chiare le ragioni per cui il recente legislatore ha deciso di intervenire sull’art. 283 c.p.c., e soltanto su questa norma. I primi commentatori hanno affacciato ipotesi, ma sempre senza considerare il tema dell’inibitoria come argomento comune alle varie impugnazioni.[13]

Non sembra si sia inteso garantire una maggiore stabilità della sentenza di primo grado, perché l’attuale formulazione della norma, seppure abbia chiaramente affermato che l’inibitoria può giustificarsi sul solo fumus e sul solo periculum, al tempo stesso non impedisce una valutazione combinata dei due presupposti. Anzi, possiamo dire – come attenta dottrina aveva già osservato con riferimento all’art. 373 c.p.c. – che la base delle valutazioni del giudice dell’impugnazione è pur sempre l’idoneità della sentenza gravata a resistere ai motivi di censura. Se difetta del tutto tale presupposto, scema automaticamente anche la rilevanza del periculum.

Se si fosse inteso garantire maggiore stabilità alla sentenza di primo grado si sarebbe dovuto prevedere il reclamo (da assegnare a diversa sezione della corte d’appello), perché l’attuale disciplina lascia in ombra la tutela della parte che l’inibitoria subisce.[14] Sotto questo aspetto è palese una disparità di trattamento tra le parti, perché mentre il soccombente ha più occasioni per discutere dell’ingiustizia dell’esecuzione provvisoria, la parte vittoriosa, a fronte della pronunciata inibitoria, non ha strumenti di reazione.

Se, come crediamo, l’art. 283 c.p.c. deve essere considerato il prototipo dell’inibitoria, le nuove regole, e specie la riproponibilità, debbono poter essere riferite anche all’art. 373 c.p.c. per la fondamentale ragione che tutte le impugnazioni scontano un problema di eccessiva durata. A sua volta l’art. 373 (ma questo problema esisteva già prima della riforma) non può considerarsi del tutto estraneo a valutazioni, per quanto sommarie, circa la fondatezza dell’impugnazione.

Sarebbe quindi opportuno un totale e complessivo ripensamento della materia, che tenga conto anche delle garanzie che attualmente assistono l’inibitoria (art. 615, comma 1, c.p.c.) e la sospensione (art. 624 c.p.c.) nel processo di esecuzione forzata.

[1] L’evoluzione della Cassazione sino all’ibrido dei nostri giorni è ben sintetizzata da G. Monteleone, “Giudizio di fatto” e “giudizio di diritto” nel ricorso alla cassazione civile, in C. Punzi, Giudizio di fatto e giudizio di diritto, Milano, 2022, 239 ss. V. anche, se vuoi, il nostro Legittimità, interpretazione, merito. Saggi sulla Cassazione civile, Napoli, 2023.

[2] Il d.lgs. 5 maggio 1948, n. 483, introdusse norme temporanee (art. 1, comma 1) a valere fino alla revisione generale del codice di procedura civile, che era stato approvato con regio decreto 28 ottobre 1940, n. 1443. Il decreto testimonia del fatto che la riforma del comma 1 dell’art. 373 c.p.c. venne considerata tra le correzioni più urgenti da apportare sul codice appena approvato.

[3] La legge 14 luglio 1950, n. 581 venne preceduta da una serie di provvedimenti di mero rinvio dell’entrata in vigore: legge 29 dicembre 1948, n. 1470, legge 31 marzo 1949, n. 92, legge 5 luglio 1949, n. 341.

[4] V., ad es., App. Roma, 7 gennaio 1994, in Foro it., 1994, I, 1186.

[5] G. Impagnatiello, La provvisoria esecuzione e l’inibitoria nel processo civile, Milano, 2008, 23 ss., 79 ss., 353 ss.

[6] Questo il testo: Art. 283. (Concessione o revoca dell’esecuzione provvisoria in appello). Se il giudice di primo grado ha omesso di pronunciare sull’istanza di esecuzione provvisoria o l’ha rigettata, la parte interessata può riproporla al giudice d’appello con l’impugnazione principale o con quella incidentale. / Allo stesso giudice e con le stesse forme si può chiedere che revochi la concessione della provvisoria esecuzione e sospenda l’esecuzione iniziata.

[7] Questo il testo introdotto dalla legge n. 353/1990: Art. 283. (Provvedimenti sull’esecuzione provvisoria in appello). Il giudice d’appello su istanza di parte, proposta con l’impugnazione principale o con quella incidentale, quando ricorrono gravi motivi, sospende in tutto in parte l’efficacia esecutiva o l’esecuzione della sentenza impugnata.

[8] V., se vuoi, il nostro Misure interinali contro l’esecuzione forzata, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2015, 611 ss.

[9] V., per tutti, A. Pappalardo, L’appello, in Il processo civile dopo la riforma, a cura di C. Cecchella, Torino, 2023, 337 ss.

[10] Ci permettiamo di rinviare al nostro Manuale di diritto dell’esecuzione civile, VI ed., Torino, 2020, 489 ss.

[11] L’art. 1, comma 8, lett. f) della legge di delega n. 206 del 26 novembre 2021 ha dato mandato al legislatore delegato di modificare la disciplina dei provvedimenti sull’esecuzione provvisoria in appello, prevedendo:

1) che la sospensione dell’efficacia esecutiva o dell’esecuzione della sentenza impugnata sia disposta sulla base di un giudizio prognostico di manifesta fondatezza dell’impugnazione o, alternativamente, sulla base di un grave e irreparabile pregiudizio derivante dall’esecuzione della sentenza anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti quando la sentenza contiene la condanna al pagamento di una somma di denaro;

2) che l’istanza di cui al numero 1) possa essere proposta o riproposta nel corso del giudizio di appello, anche con ricorso autonomo, a condizione che il ricorrente indichi, a pena di inammissibilità, gli specifici elementi sopravvenuti dopo la proposizione dell’impugnazione;

3)  che, qualora l’istanza sia dichiarata inammissibile o manifestamente infondata, il giudice, con ordinanza non impugnabile, può condannare la parte che l’ha proposta al pagamento in favore della cassa delle ammende di una somma non inferiore ad euro 250 e non superiore ad euro 10.000. L’ordinanza è revocabile con la sentenza che definisce il giudizio.

[12] Cfr. C. Consolo, È sempre grave e irreparabile – ex art. 373 c.p.c. – il danno conseguente al rilascio forzato di un immobile (o di un fondo) adibito ad attività di impresa? in Giur. it., 1986, I, 2, 183 ss.

[13] V., anche per una rassegna delle varie opinioni, V. Violante, L’appello, in La riforma Cartabia del processo civile, a cura di R. Tiscini, Pisa, 2023, 464 ss.

[14] P. Biavati, L’architettura della riforma del processo civile, Bologna, 2021, 37 ss.