L’art. 238 bis c.p.p.: la pregiudiziabilità penale sotto mentite spoglie.

Di Barbara Nacar -

Sommario: 1. Premessa. 2. Norma mal scritta. 3. Dubbi di legittimità costituzionale. 4. Disorientamenti giurisprudenziali: la natura pregiudicante della sentenza passata in giudicato. 5. Inidoneità della sentenza passata in giudicato ad assumere valore oltre il processo a quo.

1.Progettato per esigenze di semplificazione, allo scopo – dichiarato[1] – di evitare duplicazioni di giudizi sulla medesima compagine associativa nei processi di criminalità organizzata[2], l’art. 238 bisp.p., nella versione vigente, non contiene alcuna limitazione e, dunque, come noto, consente di acquisire, in ogni procedimento penale, la sentenza passata in giudicato quale prova del fatto ivi accertato, sia pur unitamente ad ulteriori elementi di riscontro[3]. In un Ordinamento giuridico che, per superare le conseguenze negative prodotte dai c.d. maxi-processi[4], è stato improntato alla logica della separazione delle res iudicandae, la riconosciuta facoltà di utilizzare ai fini di prova, in un diverso processo, una sentenza irrevocabile, contribuisce indiscutibilmente alla rapida risoluzione del processo; specialmente, quando il thema è il medesimo ovvero ha ad oggetto un reato che presuppone l’esistenza di un altro, già valutato nella pronuncia acquisita. Tuttavia, in una malcelata convinzione che il processo sia mezzo di lotta per contrastare la criminalità, il legislatore frettoloso, come capita spesso nella legislazione c.d. di emergenza, ha impulsivamente introdotto una norma che, oltre ad essere mal scritta, è incompatibile con l’impianto costituzionale e sistematico[5].

2.Le criticità esegetiche emergenti dalla lettura dell’art. 238 bisp.p. non riguardano la, pur non chiara, espressione “valutate a norma degli artt. 187 e 192, comma 3”. In proposito, difatti, sembra oramai abbastanza pacifico che il legislatore, riferendosi all’art. 187 c.p.p., abbia voluto consentire il solo utilizzo di ciò che sia rilevante per la decisione da assumere all’esito del nuovo processo[6]. Se così inteso quel richiamo codicistico potrebbe apparire superfluo[7] – perché, la disposizione, è punto di orientamento irrinunciabile per l’ingresso di qualsivoglia tipologia di prova – verosimilmente si spiega come refuso, contenuto nella primigenia formulazione che aveva una portata più ampia, erroneamente riportato nella versione normativa definitivamente approvata[8].

Né pone particolari difficoltà interpretative il singolare ed inopportuno rinvio all’art. 192 c.p.p., che palesa il tentativo del legislatore di porre rimedio, inutilmente, alla violazione del principio del contraddittorio e del diritto di difesa subìto dalla parte che, pur essendo rimasta estranea al procedimento in cui è stata pronunciata la sentenza irrevocabile acquisita, ne sopporta passivamente gli effetti. Sicché, seguendo l’orientamento giurisprudenziale consolidato, circa la natura qualitativa e quantitativa dei cosiddetti riscontri esterni, gli elementi di conferma potrebbero essere sia logici che rappresentativi[9], purché esterni al processo del quale la sentenza rappresenta l’epilogo[10].

Il profilo ove si rilevano maggiori problematicità concerne il significato della locuzione ai fini della prova di fatto in esse accertato[11]. Com’è risaputo, sul punto v’è concordia sulla circostanza che essa vada letta ai fini della prova del fatto in esse accertato[12]; mentre si sono formate due differenti correnti di pensiero circa l’area di estensione del concetto di fatto: chi reputa che il legislatore abbia voluto riferirsi alle sole statuizioni contenute nel dispositivo, escludendo, dunque, le argomentazioni in fatto ed in diritto che supportano la conclusione[13] – e chi, pure buona parte della giurisprudenza[14] – include anche i fatti secondari risolti dal giudice in funzione della decisione finale e rinvenibili nella motivazione della sentenza[15]. In favore della prima interpretazione si evidenzia che, se si riconoscesse la medesima autorità dimostrativa alla motivazione, si finirebbe per attribuire capacità probatoria alle valutazioni ed alle risultanze adoperate dal giudice per determinarsi, le quali, al contrario, potrebbero essere acquisite unicamente con le cautele indicate dall’art. 238 c.p.p. Conseguentemente, le prove assunte e apprezzate nel diverso procedimento diverrebbero le premesse storiche per la sentenza da pronunciare nel processo ad quem.

Di diverso avviso è l’orientamento che amplia il significato di fatto a tutte le circostanze fattuali che appaiano riconducibili, direttamente o indirettamente, a quelle enucleate nell’imputazione. Si afferma che la finalità dell’art. 238 bis c.p.p. sarebbe di esaltare la componente motivazionale della sentenza, come veicolo di rappresentazione dei fatti in essa documentati, i quali, in qualche modo, si emancipano dal contesto processuale in cui sono stati collocati e dal loro rapporto funzionale al dispositivo. In tal senso, i giudizi espressi nella motivazione possono venire utilizzati in sé stessi, per nient’altro che per il loro valore di giudizi storici, in un processo diverso[16].

Ebbene, pur rilevando che l’ambiguità del linguaggio codicistico si presta a plurime letture, sembra preferibile riferire la locuzione al fatto principale. La convinzione non nasce solo dalla littera legis – ove il termine fatto è espresso al singolare – o dalla ratio della previsione normativa[17] – di evitare una inutile duplicazione di accertamenti da parte del giudice che ha acquisito la sentenza – quanto dall’istituto del giudicato. Ciò che diventa incontrovertibile e, quindi, passa in cosa giudicata – come si spiegherà meglio nel prosieguo – è l’accertamento della condotta descritta nell’imputazione, non certo la motivazione in cui sono enunciati i c.d. fatti secondari[18]. La differente esegesi non persuade anche perché appare condizionata dalla superata ideologia che vede, nella pronuncia del giudice, una verità assoluta ove, correttamente, sarebbe stato possibile considerare verità incontrastabile ciascuno degli elementi fondanti la decisione, proprio perché espressione dell’infallibilità del rappresentante degli Organi statuali[19].

3. A prescindere dalle difficoltà interpretative, l’art. 238 bis c.p.p. si pone in evidente contrasto con la Carta costituzionale (artt. 111 e 24 Cost.) poiché, come ampiamente sostenuto in dottrina, esso autorizza l’ingresso di una sentenza, rispetto alla cui acquisizione, l’imputato del procedimento ad quem è assolutamente privo di strumenti per inficiarne la capacità dimostrativa : è una decisione alla quale il primo non ha contribuito partecipando alla formazione del compendio probatorio su cui essa si è fondata e che, essendo divenuta irrevocabile e provenendo da una fonte qualificata, è dotata di evidente persuasività[20]. La prova-sentenza, difatti, non è acquisita con la presenza contemporanea e contrapposta delle parti del procedimento; né sono previsti limiti soggettivi di utilizzabilità e, pertanto, le conoscenze da essa veicolate possono essere adoperate nei confronti di chiunque, indipendentemente dalla circostanza che siano state formate in seno ad un processo a cui abbia preso parte – o, almeno, abbia potuto prendere parte – chi ne subisce gli effetti. Il giudice del processo ad quem, inoltre, non plasma il proprio convincimento su un elemento probatorio, quanto su una valutazione delle prove effettuata da altro giudice.

È notorio che i dubbi di incostituzionalità non sono stati condivisi dalla Consulta, neppure dopo la modifica dell’art. 111 Cost.[21], con ragionamenti assolutamente discutibili, sostanzialmente in quanto inconferenti rispetto alle questioni prospettate[22]. Il fil rouge, sul quale si muove la Corte, segue un doppio canale: il contraddittorio troverebbe esplicazione nel momento della valutazione ed utilizzazione della sentenza, come accade per le prove documentali; la difesa sarebbe garantita dalla riconosciuta facoltà dell’imputato di offrire prove che smentiscono il contenuto della pronuncia. Ad abundantiam, si chiarisce, poi, che la previsione codicistica non ha introdotto alcuna pregiudiziale penale perché il giudice, destinatario della sentenza, è libero nell’apprezzamento della prova.

Palese è l’errore in cui cade la Consulta quando salva la legittimità della prova-sentenza, sul piano della sua ammissibilità, argomentando sull’aspetto valutativo; inverte, così, il rapporto fra due autonomi e distinti profili, il primo dei quali deve logicamente e giuridicamente precedere il secondo. Sebbene l’acquisizione e la valutazione delle prove siano momenti consecutivi del procedimento probatorio – e, quindi, fra essi, v’è un legame di implicazione – ognuno conserva la propria struttura e funzione, ed è regolato da differenti norme che non possono essere interscambiate[23]. Eppure, il giudice remittente aveva evidenziato che l’effetto pregiudizievole, per l’esercizio del contraddittorio, si sarebbe verificato già all’atto dell’acquisizione della sentenza, indipendentemente dall’eventuale e postumo contraddittorio nella fase successiva[24]. Difatti, a dispetto del precetto costituzionale del comma IV dell’art. 111, la disposizione consente l’utilizzo di un elemento di prova che non si assume nel contraddittorio né garantisce il principio dell’oralità – immediatezza, non essendovi identità tra giudice e fonte di conoscenza[25]. Inoltre, benché il comma V dell’art. 111 Cost., in qualche modo, abbia costituzionalizzato il principio di non dispersione degli elementi conoscitivi, neppure tale previsione può salvare la legittimità dell’art. 238 bis c.p.p., perché essa si riferisce a differenti e tassative fattispecie e perché ciò che viene acquisito, nel procedimento in corso, è la soluzione di una quaestio facti che nel tradizionale assetto codicistico non dovrebbe produrre efficacia esterna[26]. Peraltro, non può sottacersi la capacità condizionante della sentenza irrevocabile sul libero apprezzamento del giudice, di un accertamento, insomma, divenuto stabile e immutabile, compiuto da chi, con immediatezza, ha assistito alla formazione della prova ed è giunto alla decisione ponderando l’intero fascicolo processuale. Il rischio, si è rilevato, è che si introducano de facto automatismi legali a livello decisorio che frustrano grandemente la presunzione di innocenza dell’imputato[27].

Né appare corretta l’asserzione della Corte per la quale residuerebbe, come per le prove documentali, uno spazio per un contraddittorio differito, se l’apporto valutativo della prova-sentenza è insensibile alle sollecitazioni di contraddittori esterni[28]: la mera interlocuzione sul significato da attribuire alla sentenza non è idonea a fornire un reale contributo alla verifica dei fatti che da essa si vogliono desumere perché, a differenza delle prove documentali, non contiene una rappresentazione documentaria del fatto[29]. Il punto cruciale è che, sul piano strutturale, la sentenza non è un documento, se non per la sua esteriorità, né la rende tale il passaggio in giudicato, perché la definitività serve ad attribuire carattere irrevocabile all’accertamento[30]. Pur essendo consapevoli della ampia latitudine del concetto di documento[31], l’art. 234 c.p.p. delinea la essenza di quello processualmente rilevante, prescrivendo che esso debba formarsi in un contesto extra-processuale e che abbia un’attitudine riproduttiva (di fatti, cose o persone), sebbene peculiarmente correlata alle specifiche e diverse modalità di riproposizione. Rispetto a siffatte caratteristiche, la sentenza passata in giudicato condivide la formazione al di fuori del procedimento, l’ingresso nel processo in forma scritta e la capacità dimostrativa dell’esistenza di una decisione irrevocabile, di un provvedimento del giudice che esprime giudizi di fatto[32]. Epperò, l’art. 238 bis c.p.p. le attribuisce un valore che va oltre la sua naturale funzione documentale, se è vero che l’efficacia probante non sta in ciò che raffigura – l’esistenza di una sentenza – ma nella persuasività dei fatti apprezzati[33]. Ed in questi termini, essa non è in grado di provare che quei fatti siano veri o intrinsecamente attendibili, perché è priva della qualità di elemento oggettivo sul quale poggiare l’inferenza probatoria del giudice[34]. Come magistralmente sintetizza Cordero, il legislatore viola la sintassi, confondendo dato istruttorio, decisione, argomenti addotti dal motivante, cosa giudicata[35]. Altro sono le idee, gli spunti argomentativi che possono trarsi dalla lettura di una sentenza; altro, è riconoscerle una finalità dimostrativa, utilizzandola come premessa per giungere ad una certa decisione sui fatti in contestazione in un diverso processo. Insomma, il discorso giustificativo può pure essere mutuato da un’altra sentenza, però la motivazione deve reggersi sulle prove legittimamente acquisite nel relativo processo[36].

La sostanziale differenza fra sentenza e prova documentale era ben nota al legislatore dell’88 che, prima dell’introduzione dell’art. 238 bis c.p.p., consentiva l’acquisizione delle sentenze irrevocabili emanate da un giudice italiano o straniero – se riconosciute – unicamente ai fini dell’apprezzamento della personalità dell’imputato e della persona offesa e sempreché, nei confronti di quest’ultima, il fatto per cui si procede deve essere valutato in relazione alla personalità o alle qualità morali della medesima (art. 236 c.p.p.)[37]. E, pure entro questi confini, la norma non attribuisce alle sentenze o ai fatti in esso contenuti alcun predeterminato valore probatorio, limitandosi ad autorizzare il loro ingresso per la specifica indagine.

Si è consci che la sentenza irrevocabile – che è un accertamento giurisdizionale e non un’opinione qualsiasi[38] – non è l’unico mezzo di prova che presenta tali peculiarità, perché anche il perito espone un fatto, secondo regole scientifiche, intrise di valutazioni; epperò, le modalità acquisitive delle dichiarazioni peritali rispettano i principi gnoseologici, prescrivendo che l’ascolto dei propalanti avvenga nel contraddittorio fra le parti. D’altronde, le conclusioni cui giunge il perito possono essere falsificate attraverso l’intervento dei consulenti di parte, i quali possono svelare l’errore in cui è caduto il primo, argomentando, per esempio, intorno alla inesattezza delle leggi scientifiche utilizzate. Lo stesso dicasi per la testimonianza – che, per autorevole dottrina[39], a conti fatti, consiste anch’essa in un’espressione verbale di un giudizio – se è vero che la dichiarazione viene assunta nel contraddittorio e si presta ad una successiva valutazione di attendibilità, alla quale le parti possono contribuire rilevando contraddizioni ed incongruenze. Diversamente, la sentenza irrevocabile può essere contrastata solamente dimostrando la sua fallacia ed appare utopistico pensare che l’imputato possa offrire una prova idonea ad inficiare il fatto verificato in sentenza; né, la facoltà di ricercare gli elementi di riscontro, è sufficiente a compensare il vulnus di garanzie di una illegittima acquisizione[40].

Non rasserena, per di più, che la giurisprudenza offra al giudice la possibilità di scegliere se <<ripetere operazioni di acquisizione probatoria già complete ed esaustive [o]servirsi dell’accertamento di fatto già contenuto in altra sentenza>>[41]. Dunque, la norma de qua non si limita solo (!) ad introdurre una nuova deroga alle fattispecie costituzionalmente ammesse di formazione della prova al di fuori del contraddittorio, ma legittima il giudice a stabilire, insindacabilmente, quale delle due strade seguire, come se, per la Costituzione, il ricorso all’uno o all’altro metodo, sia del tutto indifferente[42].

D’altra parte, è inutile nasconderlo, valorizzare come prova una sentenza pronunciata in un diverso processo, significa valorizzare le risultanze su cui essa fonda[43]. Sicché, l’art. 238 bis c.p.p. diviene un escamotage per ammettere l’ingresso di quelle conoscenze, in assenza delle più ampie garanzie che il legislatore predispone per l’acquisizione dei verbali di prova provenienti da altro processo penale (ex art. 238 c.p.p.)[44]. Se pure parte della giurisprudenza più attenta[45] sottolinei che, l’acquisizione della sentenza, non comporta l’inosservanza delle presidi prescritti dall’art. 238 c.p.p.[46], il risultato poco cambia – se, non peggiora, sul piano delle cautele – ove si rifletta che, con la sentenza irrevocabile, si induce il giudice ad quem a conformarsi all’interpretazione che di quelle prove è stata data da un altro giudice. Quindi, all’assenza del contraddittorio nella formazione della sentenza, si aggiunge la assenza di contraddittorio sulle prove sulle quali essa è stata pronunciata, che vengono di fatto ad esercitare la loro influenza nel processo di destinazione. Si consuma così, a livello costituzionale, una violazione dell’art. 111 comma IV Cost. e, a livello della legge ordinaria, un’elusione dell’art. 238 c.p.p.[47].

Infine, trattandosi di una sentenza passata in giudicato, non rilevano affatto le modalità attraverso le quali il giudice del processo a quo è pervenuto a certe conclusioni: se utilizzando atti di indagine col consenso delle parti, altre sentenze irrevocabili acquisite con le medesime regole, verbali provenienti da altro processo penale o, addirittura, prove formate in spregio del dettato normativo[48].

4.Sebbene la Corte costituzionale e la giurisprudenza di legittimità, in varie occasioni, si siano premurate di ribadire ad alta voce che l’art. 238 bis c.p.p. non ha introdotto alcuna pregiudiziale penale, l’analisi delle pronunce della Cassazione, anche recenti[49], rileva una realtà differente[50]. Dalla loro lettura si comprende che se, probabilmente, non è corretto parlare, in senso tecnico, di capacità pregiudicante della sentenza passata in giudicato[51], certamente, però, si può affermare che essa imponga una dipendenza logico-giuridica o, come da taluno sostenuto, una sorta di presunzione relativa, per la quale il suo contenuto corrisponde a verità, smentibile – irrealisticamente – dall’imputato attraverso l’acquisizione di ulteriori prove[52].

Dopo aver più volte chiarito – in una vetusta logica inquisitoria – che il valore probatorio della sentenza irrevocabile non è circoscritto al dispositivo, ma si estende alle acquisizioni fattuali evidenziate nel corpo della motivazione, la Cassazione spiega che il giudice ad quem non può pervenire a conclusioni inconciliabili con i risultati – intesi come “i fatti posti a fondamento della decisione” – cui si è giunti nella sentenza acquisita[53]. Si esclude, dunque, che il nuovo giudice contraddica la già accertata verifica del medesimo fatto storico[54].

In diverse pronunce, poi, essa sottolinea che la sentenza passata in giudicato è un dato da cui non si può prescindere e la cui influenza può essere ritenuta decisiva. È del tutto evidente – si afferma – che il giudizio storico, una volta passato in giudicato, tende ad obiettivizzarsi sul tema[55]; e, conseguentemente, può considerarsi legittimo lo sviluppo di una ipotesi “antagonista” a tale esito, solo se, ed in quanto, la diversità delle forme di definizione del processo o dei materiali cognitivi (ad esempio rito abbreviato in un caso e giudizio ordinario nell’altro, o acquisizione di elementi conoscitivi ulteriori) la giustifichi. Infine, obbliga il giudice a motivare le ragioni per le quali è addivenuto ad una conclusione differente da quella espressa nella sentenza irrevocabile[56].

In altre decisioni, deve darsi atto, la Cassazione osserva, sia pure apoditticamente, che l’art. 238 bis c.p.p. non obblighi ad alcun automatismo e, pertanto, il giudice sarebbe libero di valutare la sentenza unitamente agli altri elementi di prova assunti nel giudizio. Epperò, non lo autorizza mai a disconoscere i fatti in essa accertati[57]. Quindi, ciò che si ricava da questi provvedimenti è unicamente la “non autosufficienza” del precedente giudicato[58], che da solo non basta a veicolare la pronuncia del giudice verso sentenze conformi a quella acquisita.

Insomma, per quanto si propongano interpretazioni eterogenee del dettato codicistico, dalla lettura della giurisprudenza emerge un principio comune : l’impossibilità del giudice ad quem di ricostruire il fatto diversamente da come è stato delineato nella sentenza divenuta irrevocabile. E ciò si rileva, soprattutto, quando si procede per i reati associativi.

Dunque, per com’è interpretata, la norma finisce per creare un vincolo insuperabile al libero convincimento del giudice destinatario della sentenza. Difatti, a fronte di una pronuncia di assoluzione passata in giudicato, che accerta l’inesistenza del fatto, come potrebbe un nuovo giudice determinarsi differentemente con una soluzione che, come dice la giurisprudenza, non sia inconciliabile con la prima? Se, ad esempio, Tizio, Caio e Sempronio sono stati assolti perché non sussiste il reato associativo, come può il giudice, che recepisce la sentenza irrevocabile, accertare l’esistenza del medesimo consorzio associativo, se non rivalutando le posizioni degli assolti[59] e, quindi, emettendo una decisione incompatibile con quella acquisita? Similarmente, se nella sentenza irrevocabile è stato dichiarato che il reato pregiudicante non sussiste (ad es., il furto), come può il giudice ritenere configurabile il reato pregiudicato (ad es. la ricettazione), se non emettendo una decisione incompatibile con la precedente? Si pensi, ancora, all’ipotesi peculiare in cui, per il reato pregiudicante, sia stata emanata una sentenza di proscioglimento per essere maturati i termini di prescrizione[60] oppure una sentenza di improcedibilità per essere superati i tempi di trattazione del giudizio di impugnazione: il giudice successivo potrebbe verificare la sussistenza del reato pregiudicato, riscrivendo la sentenza di quel giudice?[61]. In queste situazioni la risposta non è così scontata: ragionando come la Cassazione, se il vincolo posto dall’art. 238 bis c.p.p. impedisce una diversa ricostruzione del fatto, nelle decisioni di tipo processuale mancherebbe quell’accertamento per essere intervenuta una causa ostativa[62]. Al più, ai sensi dell’art. 129 c.p.p., il giudice si sarebbe limitato a controllare che non risulti evidente la insussistenza del fatto. Dunque, il giudice ad quem sarebbe libero di valutare autonomamente il reato pregiudicante unicamente in funzione dell’apprezzamento del reato pregiudicato. Epperò, se la natura preclusiva della sentenza passata in giudicato, sempre come sostiene la giurisprudenza, si estende pure alla motivazione, non si può escludere che possa giungersi ad esiti opposti – nel senso della permanenza del vincolo anche per tali pronunce – quando, nella motivazione, il giudice dia conto della sussistenza del fatto, come avviene qualora l’estinzione del reato per prescrizione sia dichiarata all’esito del dibattimento[63], a istruzione oramai conclusa[64]. Diversamente, per l’ipotesi della sentenza di improcedibilità, la soluzione sembrerebbe univoca (id est= l’assenza di vincoli) se, come affermato nella Relazione illustrativa di accompagnamento al d.l. introduttivo della disposizione, «la pronunzia di improcedibilità ha carattere processuale e, come tale, impedisce di proseguire nell’esame del merito e di giungere a una condanna definitiva, caducando la precedente pronuncia. … il superamento dei termini massimi previsti per il giudizio di impugnazione è uno sbarramento processuale che impedisce qualsivoglia prosecuzione del giudizio, anche solo finalizzata all’accertamento della responsabilità da un punto di vista sostanziale e svincolato dalla forma assunta dal provvedimento, come invece consentito, nel caso di sentenza di proscioglimento per prescrizione. Sarebbe impropria, del resto, l’assimilazione di una causa impediente della prosecuzione del giudizio, di natura processuale, a una causa estintiva del reato, che è fenomeno attinente al merito del processo.»[65].

In conclusione, mentre al cospetto di una prova dichiarativa il giudice può reputare che il propalante non è attendibile e, quindi, formare il suo convincimento su altre risultanze processuali, il vincolo, posto dalla sentenza passata in giudicato, alla sua libera determinazione – a dire della Cassazione – è invincibile, se non qualora egli sia in grado di produrre una inimmaginabile decisione che, pur pervenendo a epiloghi diversi dalla prima, al tempo stesso, sia compatibile con i fatti in essa accertati. Non è un caso che questa giurisprudenza individui, il limite all’autonomia valutativa del giudice, nella conciliabilità fra i fatti verificati nella sentenza acquisita e nella propria decisione; confine che, per costante orientamento, se superato, legittima l’istanza di revisione[66]. Seguendo l’impostazione, dunque, si arriverebbe al paradosso che, se il giudice ad quem condannasse[67] l’imputato sulla base di una ricostruzione dei fatti incompatibile con quella emergente dalla sentenza irrevocabile – perché da esso ritenuta fallace – genererebbe una pronuncia viziata che, potendo essere impugnata in sede di revisione, sarebbe espressione di un errore giudiziario[68].

Le evidenziate problematicità spiegano, verosimilmente, la ragione per la quale la Cassazione – nel difficile tentativo di conciliare il carattere pregiudiziante della sentenza irrevocabile, da essa imposto nella lettura dell’art. 238 bis c.p.p., con la fisiologica dipendenza dell’accertamento ivi contenuto alla specificità del procedimento da cui ha avuto origine – è costretta ad ammettere che il vincolo viene meno quando è diverso il compendio probatorio fra i due procedimenti ovvero quando diverse sono le modalità di definizione del processo, perché differenti potrebbero essere le risultanze sulle quali si è formato e si formerà il giudizio di responsabilità. Ma la deroga non tranquillizza, perché induce a concludere che, se il materiale probatorio è identico, ci si attende un identico risultato.

Inficia, poi, ogni tentativo esegetico, fondato sulla necessità di acquisire elementi di riscontro, al fine di attenuare il preteso valore pregiudicante della sentenza passata in giudicato, l’ulteriore orientamento giurisprudenziale, per il quale i riscontri possono consistere anche in elementi di tipo logico (sic)[69]; elementi, che non sono neppure richiesti quando la sentenza viene utilizzata, a sua volta, come riscontro per altre prove già acquisite[70]. Difatti, proprio il rinvio all’art. 192 c.p.p., se correttamente interpretato e adoperato, avrebbe potuto rappresentare il viatico per consentire al giudice di svincolarsi dall’accertamento del fatto contenuto nella sentenza acquisita: l’assenza di riscontri, alla ricostruzione fattuale svolta dal giudice a quo, avrebbe liberato il giudice ad quem da ogni preclusione e lo avrebbe autorizzato a valutare autonomamente il medesimo fatto.

Epperò, se questa è la lettura offerta dalla giurisprudenza, deve prendersi atto che l’art. 238 bis c.p.p. si presta ad ulteriori profili di criticità, non legati più solo all’utilizzo probatorio di una conoscenza formata fuori dal contraddittorio ed in spregio del diritto di difesa, quanto piuttosto dipendenti dalla violazione del principio del libero convincimento del giudice, perché esso introduce, de facto, una sorta di prova legale[71].

Si è perfettamente consapevoli che la previsione normativa contribuisca efficacemente alla rapida definizione del processo quando il thema, od uno ad esso connesso, sia già stato valutato in precedenza da altro giudice. Basti pensare ai tempi necessari per dimostrare l’esistenza di una associazione criminale, al fine di verificare la responsabilità di un coimputato rimasto estraneo al primo giudizio conclusosi con sentenza irrevocabile[72]. Le esigenze di semplificazione processuale sono evidenti, epperò, questi bisogni vanno (id est= devono essere) contemperati con l’indisponibile modello di processo imposto dalla Costituzione (artt. 13, 101, 111, 112, 25 e 27 Cost.). Ed il compromesso, l’unico forse possibile, è delineato dall’art. 238 c.p.p. – non a caso riscritto nel 2001 dopo la modifica all’art. 111 Cost. – che legittima l’acquisizione dei soli verbali di prova provenienti da altro processo penale, a condizione che sia salvaguardato il diritto di difesa ed il principio del contraddittorio, sia pure con le deroghe ivi indicate. E se la disposizione codicistica non consente di accelerare i tempi dei processi ove la figura del coimputato emerge in un momento successivo alla conclusione del processo che accerta la sussistenza della compagine associativa – se, dunque, non sono soddisfatte le condizioni prescritte per l’acquisizione dei verbali – evidentemente le esigenze di semplificazione devono soccombere alle scelte valoriali presidiate dalla Carta fondamentale.

5.Peraltro, il dettato codicistico dell’art. 238 bis c.p.p. appare inaccettabile pure sul piano dogmatico, perché la sentenza passata in giudicato non ha la capacità di produrre effetti oltre il processo da cui ha avuto origine; idoneità, che, al contrario, si è visto, è chiaramente riconosciuta dalla Cassazione.

La tematica attiene al delicatissimo rapporto fra scopo del processo, oggetto del giudicato ed efficacia della sentenza irrevocabile.

Si ricorderà che, ancora vigente il codice del ’30, proprio ragionando su questi profili, a lungo si discusse sulla possibilità di attribuire, alla sentenza passata in giudicato, efficacia vincolante nei confronti dei terzi estranei al processo. Non a caso, Arturo Rocco fu uno dei primi a sostenere che il giudicato penale generasse effetti erga omnes, per la <<natura assoluta>> e <<l’importanza universale della questione decisa>>[73]. Siffatta concezione, dal sapore evidentemente inquisitorio, risentiva del substrato culturale e politico del tempo, perché fondava sulla presunzione di infallibilità del giudice – quale rappresentante degli Organi statuali[74] – e sull’idea che il processo penale conducesse alla verità assoluta[75]. <<È naturale il dire che la cosa giudicata sia la verità>>[76]. Se la sentenza passata in giudicato conteneva la verità, fu naturale riconoscerle la capacità di pregiudicare le future decisioni giudiziarie, a prescindere dalla effettiva partecipazione al processo del destinatario della pronuncia.

La teoria, nel corso del tempo, subì un primo ridimensionamento ad opera di chi[77], pur asserendo che l’ampiezza degli effetti del giudicato fosse <<assoluta, equivalente a quella della legge stessa>>, ammetteva che non avesse <<forza […] proibitiva, preclusiva>> nei confronti dei concorrenti estranei al giudizio, <<tranne per ciò che concerne la sussistenza materiale del fatto e la dichiarazione di estinzione del reato per causa obiettiva>>[78]. Furono, però, gli studi in materia civilistica[79] ad indurre ad una più cauta esegesi dell’istituto, pure nel settore processuale penale, distinguendo fra efficacia diretta e riflessa del giudicato[80]. Nonostante la diversità degli interessi in gioco e della regolamentazione dell’istituto[81], quella differenziazione apparve funzionale a coniugare il carattere assoluto del giudicato con la disciplina dell’art. 90 c.p.p. del 1930 (omologo dell’attuale art. 649 c.p.p.), che limitava la sua efficacia sul piano soggettivo[82]. Per di più, essa avrebbe trovato conferma nel meccanismo sospensivo contemplato dall’art. 18 c.p.p. del 1930, che sembrava aver introdotto un vincolo del giudicato penale nei casi di pregiudiziabilità omogenea[83]. Fu, poi, il progressivo abbandono della utopistica concezione, per la quale il processo penale fosse luogo di acquisizione della verità reale, a determinare una lettura relativistica del giudicato e si giustificò, il cambio di rotta, sostenendo che l’oggetto del giudizio non era l’accertamento dell’esistenza del fatto, quanto la verificazione del dovere di punire[84]. Sicché, l’unica esclusiva conseguenza discendente dal giudicato sarebbe stata di tipo negativo, consistendo nel divieto di procedere nuovamente per lo stesso fatto e contro il medesimo imputato[85]. In questa accezione, la pronuncia passata in giudicato diveniva atto giuridico nel quale si esprimeva la volizione del giudice.

Così ragionando, tuttavia, si finiva con l’escludere, dall’area del giudicato, l’accertamento del fatto e la sua qualificazione giuridica, che divenivano condizioni o presupposti per il prodursi del ne bis in idem[86]. Il risultato fu di degradare tutti gli effetti della decisione, diversi da tale dovere, al rango di effetti esterni al giudizio[87].

Ebbene, pur essendo consapevoli della delicatezza e della complessità del tema, qui accennato nei tratti essenziali, la querelle sull’oggetto del giudicato, su cui fondavano le due principali correnti interpretative, per limitare o espandere la sua autorità, risulta ancora oggi attuale. La dogmatica processual-penalistica, superando la radicale e reciproca esclusione fra le opposte letture, ha tentato di ricomporre il contrasto, distinguendo il giudicato formale dal giudicato sostanziale. E, ha indicato, col primo termine, il momento dell’irrevocabilità della sentenza, da cui deriva l’intangibilità dell’accertamento, oggetto della verifica giurisdizionale, cristallizzato in un dictum immutabile[88] (che trova definizione nell’art. 648 c.p.p.), il quale opera unicamente all’interno del procedimento perché finalizzato a consentire l’actio iudicati. In quest’accezione, esso si manifesta come atto giuridico processuale. Mentre, con la seconda espressione, si è alluso agli effetti extraprocessuali, rispetto ai quali, il giudicato si atteggia a fatto giuridico e si rivolge all’esterno del processo, vietando la celebrazione di nuovi giudizi[89].

Riteniamo che la differenziazione possa accogliersi nella misura in cui consente di esaltare due aspetti di un istituto complesso. Convince meno, quando il giudicato viene inteso atto o fatto giuridico in base agli effetti, interni od esterni, che esso produce; quasi che, l’art. 648 c.p.p. voglia riferirsi ad un concetto diverso da quello che emerge dalla norma successiva. Peraltro, qualificare il giudicato come fatto processuale al solo scopo di spiegare la sussistenza di effetti – sia pure – negativi ma, esterni al processo, facilita la strada a pericolosi riconoscimenti – anche giurisprudenziali – di vincoli per i giudici futuri che devono deliberare sulla medesima res o, in generale, su procedimenti legati al primo da un rapporto di pregiudiziabilità[90]. In dottrina, difatti, v’è chi rileva che l’art. 649 c.p.p., nel precludere un nuovo procedimento de eadem re, non obbliga affatto a negare che la decisione possa avere rilevanza in altro processo penale. È questione di scelta dell’ordinamento positivo[91]. Diversamente, se il fenomeno viene guardato sul piano delle situazioni giuridiche soggettive[92], nell’ottica del giudice, la sentenza passata in giudicato è fatto processuale della giurisdizione, perché contiene un accertamento incontrovertibile sull’accusa contestata nell’imputazione; ma, contemporaneamente, è atto giuridico processuale, in quanto documenta l’esistenza di una pronuncia irrevocabile[93]. Il divieto di iniziare un nuovo processo, tuttavia, non deve essere letto come volontà legislativa di riconoscere al giudicato efficacia al di fuori del procedimento, perché la previsione è funzionale ad impedire che sia vanificata la incontrovertibilità della decisione[94]. Esso è presidio posto a tutela della stabilità conseguita dalla sentenza definitiva e, dunque, è attributo della stessa irrevocabilità, garantendo la certezza del giudicato[95]. L’intangibilità dell’accertamento, in altri termini, viene salvaguardata dalla duplice garanzia dell’irrevocabilità della pronuncia e del limite negativo posto dall’art. 649 c.p.p.[96]. Il giudicato, insomma, è fenomeno unitario che può spiegare i suoi effetti nel e per il processo, perché è servente alla incontrovertibilità della sentenza accertativa del giudice[97]. Così ragionando, allora, l’oggetto del giudizio – e, ovviamente, l’oggetto del giudicato – non può che essere la verifica del fatto espresso nell’imputazione – o come eventualmente modificato nel corso del processo (artt. 516-518 c.p.p.) – e come qualificato dal giudice in sentenza (art. 521 c.p.p.)[98]. L’obiettivo cui mira il processo, invero, non è stabilire se un individuo debba essere condannato o prosciolto ma, piuttosto, se un fatto di reato sia stato commesso; per cui, la condanna o il proscioglimento sono le conseguenze che il giudice trae all’esito processo, dichiarando la volontà della legge sul reato contestato[99]. E, pur volendo assecondare chi reputa che il giudice debba valutare l’esistenza del dovere di punire, il dovere necessariamente deve essere correlato ad una imputazione. Il rapporto indissolubile fra fatto accertato e dovere punitivo non permette di ridurre a mere condizioni o presupposti il giudizio espresso nella sentenza[100].

Il che, però, non contrasta con la asserita idoneità del giudicato a produrre conseguenze solo nel processo dal quale la sentenza ha avuto origine. Il binomio natura fattuale del giudicato-efficacia erga omnes va scisso: l’idea che il processo conduca ad una verità assoluta, ad un risultato oggettivo e inconfutabile, è divenuta anacronistica. È oramai principio acquisito che esso tenda ad una più realistica verità giudiziale[101], una verità conseguita nel giudizio – come luogo processuale in cui si realizza – che deriva dal giudizio – inteso sia, come attività di ricerca degli elementi su cui si fonda la delibazione, sia come formazione di quest’ultima – e manifestata tramite il giudizio – cioè, tramite la decisione giurisdizionale –[102]. È una verità relativa condizionata dalle specificità e dalle peculiarità del procedimento (id est = del compendio probatorio e, eventualmente, delle modalità di definizione[103]) dal quale è scaturita, che perciò rendono unica e irripetibile la operazione mentale che ha orientato il giudice verso una certa conclusione. Per di più, è una verità che non concerne direttamente i fatti – che di per sé non possono essere né veri, né falsi – ma l’affermazione circa la loro esistenza, a cui il giudice perviene attraverso un giudizio di valore che non ha carattere oggettivo: fatto, valore e correlativi giudizi sono inscindibilmente legati fra loro[104]. La sentenza divenuta irrevocabile, insomma, cristallizza la valutazione del giudice circa la sussistenza o meno del fatto contestato. Per queste ragioni, oltre il processo dal quale è stata generata, la sentenza passata in giudicato non è idonea a provare alcunché[105].

D’altra parte, deve ammettersi che la tesi fin qui prospettata sembra trovare un ostacolo nel comma 1 dell’art. 649 c.p.p., che estende la garanzia del ne bis in idem alle sentenze di proscioglimento, nelle quali, è notorio, sono ricomprese pure le decisioni di natura processuale. Peraltro, la ricostruzione non consente neppure di comprendere la ragione per la quale solamente alcune sentenze processuali – quelle indicate dagli artt. 345 e 69 comma 2, c.p.p. – non godono del divieto di bis in idem. Invero, se la ratio della deroga si rinviene nella circostanza che l’errore sulla morte del reo[106] o la assenza di una condizione di procedibilità impediscono al giudice di esaminare la fondatezza della notitia criminis, non è chiaro il motivo per il quale la medesima disciplina non valga per le altre pronunce dello stesso genere.

L’indagine sul tema, per la molteplicità dei profili – di diritto sostanziale e processuale – coinvolti, appare assai complessa ed insidiosa e, la diversità di interpretazioni proposte da autorevole dottrina, soprattutto durante la vigenza del codice del ’30[107], testimonia la difficoltà di pervenire a soluzioni idonee a ricomporre organicamente ogni tassello del puzzle-giudicato.

Dunque, è necessario procedere per via semplificata, ponendo attenzione agli aspetti che si ritengono rilevanti ai fini della disamina.

Ebbene, ragionando sulle situazioni che impongono l’emissione delle sentenze di non doversi procedere, Cordero deduce che, in queste pronunce, l’oggetto della decisione – ciò che passa in giudicato – è il fatto impeditivo della trattazione di merito del processo. Per cui, la preclusione che da esse scaturisce pur essendo, per intensità, identica a quella delle sentenze proscioglitive di merito, copre un’area diversa dal fatto contestato[108]. Egli spiega che la pronuncia di estinzione del reato si colloca nelle decisioni in ipotesi, il cui elemento distintivo, rispetto alle decisioni in tesi, è che, nelle prime, il giudice compie un ragionamento ipotetico, per il quale, anche se il reato sussistesse, l’imputato non potrebbe essere punito. L’emergere del fatto estintivo, quindi – afferma l’Autore – vanifica l’utilità della verifica sull’illiceità della condotta che viene solo ipotizzata come tale[109]. A conclusioni similari giunge per il caso dell’assenza di un presupposto di procedibilità perché la condizione ostativa preclude la corretta instaurazione del processo e, di conseguenza, ostacola qualsiasi apprezzamento ulteriore[110]. I rilievi consentirebbero di chiarire la – così definita – pseudo eccezione indicata nel comma 2 dell’art. 649 c.p.p., che non si atteggerebbe a deroga al ne bis in idem in quanto, sopravvenuta la condizione di procedibilità, il fatto contenuto nella nuova domanda sarebbe diverso dall’oggetto della precedente sentenza passata in giudicato che riguarderebbe il solo profilo della improcedibilità[111]. La ricostruzione si coniuga con l’idea che il processo miri ad accertare la mera esistenza del dovere punitivo che, nelle decisioni processuali, non sussisterebbe perché, in un caso, l’imputato non è punibile, nell’altro, il quesito non si pone neppure[112]. L’esegesi avrebbe il duplice pregio di ricondurre, coerentemente, le sentenze di proscioglimento, di merito e processuali, sotto l’alveo del ne bis in idem poiché tutte conterrebbero una valutazione negativa sul dovere di punire, e di individuare la ratio giustificativa del citato comma 2. L’interpretazione, tuttavia, è contestata da chi osserva che, se si collegasse l’effetto estintivo al solo piano sostanziale, del dovere punitivo, la verifica penale diverrebbe ultronea e, soprattutto, dovrebbero considerarsi estinti anche gli effetti penali del reato estinto, ma ciò non è previsto dalla disciplina positiva[113]. Siffatte caratteristiche, invece, ben si armonizzano in un sistema che riconosce natura processuale alle cause di estinzione del reato e alle relative decisioni, restando, in tal modo, impregiudicati tutti i profili penalistici[114]. Per quanto qui interessa, poi, si nega in radice la categoria delle decisioni in ipotesi poiché – si nota – le fattispecie estintive operano unicamente qualora esista il fatto previsto dalla norma penale: non può aversi estinzione del reato, o degli effetti penali, dove non sia stato realizzato il reato e siano sorti gli effetti penali[115]. Invero, anche quando oggetto della valutazione è la mancanza di una condizione di procedibilità, ad esempio, la querela, occorre stabilire se un fatto costituisce una particolare figura di reato e qual è la corretta qualificazione giuridica: la disamina, prioritaria ed irrinunciabile, serve proprio ad apprezzare se, nel caso concreto, quel presupposto è realmente richiesto[116]. In altri termini, la distinzione fra pronunce in rito e di merito non è così netta: sostenere che, in presenza di una condizione di non procedibilità o di una causa di estinzione del reato, il giudice debba emettere una sentenza di non doversi procedere, non esclude che, per giungere a quella decisione, non sia necessaria una indagine di merito. Il dovere di non procedere può dipendere dalla soluzione, allo stato degli atti e senza particolari forme, del problema del merito, e la estensione dello spazio accertativo dipende dalla complessità del singolo caso[117]. La esegesi troverebbe conferma nella circostanza che il legislatore, pure a fronte di una causa di estinzione del reato, obblighi il giudice a prediligere le formule di proscioglimento nel merito, laddove emerga la prova dell’innocenza (art. 152 cpv. c.p.p. del 1930 che corrisponde all’attuale art. 129 cpv. c.p.p.); il che, evidentemente, è possibile solamente qualora un’attività ricostruttiva vi sia stata. Insomma, anche alla luce di quest’ultimo rilievo, si conclude che, la fattispecie da cui deriva l’effetto della non procedibilità non è subordinata al mero intervento della causa estintiva o della assenza di una condizione di procedibilità, perché è una fattispecie complessa, per la cui verificazione, occorre che manchino le prove che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso o che il fatto è previsto dalla legge come reato[118]. Ebbene, la bontà della tesi si apprezza per la capacità di ricondurre ad unità, sul piano del ne bis in idem, le sentenze di merito e quelle di non doversi procedere perché, entrambe le tipologie di pronunce, sia pure con un’ampiezza diversa, presentano un accertamento di rilevanti aspetti della res iudicanda.

Le esegesi, pur essendo ambedue compatibili con la littera legis, manifestano delle criticità[119]. La prima lettura non consente di comprendere la ragione per la quale la sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato goda di un trattamento differente da quello previsto per la mancanza di una condizione di procedibilità (art. 649, comma 2, c.p.p.), tanto che, per correggere il tiro, si afferma che, in caso di concorso di una causa di estinzione del reato e di un motivo di proscioglimento del merito, il giudice dovrebbe preferire la seconda pronuncia[120]. E ciò induce a negare la premessa dalla quale quella dottrina è partita ed a sostenere che, in queste evenienze, una verifica sul fatto vi deve essere. La seconda interpretazione è sicuramente maggiormente in linea con la nostra ricostruzione, oltre ad armonizzarsi col dettato dell’art. 129 c.p.p. che è diretta espressione del principio della presunzione di non colpevolezza. Inoltre, che il thema su cui si formi il giudicato nelle sentenze processuali riguardi, in qualche modo, il fatto contestato, emerge dal rilievo che la garanzia del ne bis in idem continua ad operare quand’anche l’oggetto del nuovo processo sia il medesimo, sebbene qualificato con un nomen iuris diverso che consente la procedibilità d’ufficio[121]. Epperò, la tesi non è in grado di giustificare la disciplina del comma 2 dell’art. 649 c.p.p. perché, seguendo l’impostazione, la sentenza di non doversi procedere, contenendo un apprezzamento sul fatto, sia pure in nuce, dovrebbe inibire un nuovo processo quando la condizione di procedibilità sopravviene[122].

Il tema si arricchisce di spunti di ragionamento qualora lo si analizzi alla luce della querelle sorta, in un recente passato, intorno alla legittimità del provvedimento di confisca disposto dal giudice unitamente alla sentenza che dichiara la prescrizione del reato. È ben noto, difatti, che il legislatore del 2018 – recependo le sentenze della Corte edu[123], sia pure con una prospettiva leggermente differente – ha stabilito che, in ipotesi di prescrizione e di amnistia, la confisca può essere inflitta dal giudice di appello o di cassazione, unicamente a seguito di un accertamento di responsabilità dell’imputato (art. 578 bis c.p.p.)[124]. La nuova previsione sembra confortare la lettura per la quale qualsiasi effetto penale, o ad esso equiparato, può discendere esclusivamente da una verifica del fatto di reato, anche se devesi dichiarare l’estinzione del reato per prescrizione. E in questo senso sembra, altresì, essersi mosso il legislatore del 2022, introducendo l’art. 578 ter c.p.p., quando ha statuito che, in caso di superamento dei termini di trattazione del giudizio di appello, la precedente disposta confisca può essere mantenuta solamente se sia imposta ipso iure a prescindere dall’esistenza di una sentenza di condanna. Tuttavia, i conditores hanno motivato la differente disciplina, rispetto a quella delineata dall’art. 578 bis c.p.p., affermando che la pronuncia di improcedibilità preclude qualsiasi indagine sul merito[125]. Così ragionando, per certi versi, si nega la teoria di chi sostiene che pure nelle pronunce di tipo processuale sia presente un’attività accertativa sul fatto e, certamente, si offre una spiegazione che appare incompatibile con la previsione di cui all’art. 129 c.p.p.[126].

D’altronde, è pur vero che, ai fini del nostro studio, se la distinzione – fra chi ritiene che l’oggetto del giudizio si estenda sempre, sia pure con un’ampiezza diversa, al fatto contestato e chi lo parametra al dovere punitivo – può condizionare la discussione sull’oggetto del giudicato, è indiscutibile che non influisca sull’altro aspetto, della incapacità strutturale dell’istituto di produrre effetti in altri processi penali. Inoltre, poiché la lettera dell’art. 238 bis c.p.p. si riferisce alle sentenze irrevocabili, allo scopo di provare il fatto ivi accertato, essa si rivolge unicamente alle pronunce che decidono sull’imputazione formulata dall’organo dell’accusa. Difatti, se la ratio della previsione codicistica è di evitare una infruttuosa duplicazione di accertamenti da parte del giudice che ha acquisito la sentenza, nessuna utilità potrebbe derivare dalle sentenze che, pur contenendo una indagine sul fatto, si astengono dall’esprimersi sulla contestazione per la presenza di una situazione che paralizza quel giudizio[127].

[1] ..dall’on Luciano Violante. In proposito, si rinvia a La formazione della prova nei processi di criminalità organizzata. Relazione della commissione parlamentare antimafia: relatore on. Luciano Violante, in Cass. pen., 1992, 486.

[2] In verità, pure nella formulazione originaria, contenuta nell’art. 3d.l. 8-6-1992, n. 306, non si rinviene alcuna limitazione nell’operatività della norma ai soli processi di criminalità organizzata. È, invece, tutta la riforma, introdotta dal d.l. citato, ad avere come destinatari i processi che celebravano siffatte tipologie di illeciti. Essa, difatti, così recitava “Fermo quanto previsto dall’articolo 236, le sentenze divenute irrevocabili possono in ogni caso essere acquisite e sono liberamente valutate ai fini stabiliti dall’articolo 187″. La primigenia formulazione era stata valutata positivamente dal Consiglio Nazionale di Magistratura Democratica, rilevando che essa avrebbe consentito una semplificazione dell’accertamento senza ledere il diritto di difesa dell’imputato, in quanto soggetta a libera valutazione. Cfr., Prime osservazioni sul decreto-legge n. 306, in Critica dir., 1992, 29.

[3] La norma è stata poi modificata nei termini attuali dalla legge di conversione del 7.8.1992, n. 356.

[4] ..Quanto più consistente è la molteplicità degli imputati, tanto più vi è il rischio di un appiattimento delle scelte del giudice lungo tutto il percorso processuale, dalla definizione della imputazione da contestare alla raccolta e selezione delle prove, dal trattamento cautelare a quello sanzionatorio. Così commenta, D. Grosso, I c.d. maxiprocessi, in Trasmissione degli atti informazioni e dati nel processo penale, Milano, 1987, 7.

[5] ..e di ciò ne è sempre stato consapevole lo stesso legislatore. Difatti, nel 2009, fu presentato il d.d.l. S/1440, con cui si proponeva di riformare l’art. 238 bis c.p.p. nel senso di limitarne la portata applicativa ai soli reati del c.d. doppio binario. Nella relazione di accompagnamento si legge che la modifica sarebbe stata funzionale a “ridurre l’ambito della deroga al principio del contraddittorio nel momento formativo della prova” (Relazione e testo consultabile su www.giustizia.it). Il disegno, ovviamente, non avrebbe risolto tutti i dubbi di legittimità costituzionale ma, almeno, avrebbe ridotto l’area di incidenza del dettato normativo. Nel 2011, poi, con la proposta di legge AC 668-B, si sollecitò l’introduzione, nella norma in esame, di un comma 1 bis, nel quale si statuiva che, salvo quanto stabilito dall’art. 190 bis e ad esclusione dei reati di cui all’art. 51, commi 3 bis e 3 quater, sarebbe rimasto fermo il diritto delle parti di ottenere, a norma dell’articolo 190, l’esame delle persone le cui dichiarazioni erano state utilizzate per la motivazione della sentenza.

[6] Così, P.P. Dell’Anno, “Contraddittorio limitato” per l’acquisizione delle sentenze passate in giudicato, in Dir. Pen. e Proc., 2009, 1115; L. Marafioti, Trasmigrazione di atti, prova per sentenze e convincimento del giudice, in Gaito A. (a cura di), Studi sul processo penale. In ricordo di Assunta Mazzarra, Verona, 1996, 253. Cfr., però, L. Iafisco (La sentenza come mezzo di prova, Torino, 2002, 155), per il quale, il rinvio all’art. 187 c.p.p., è funzionale all’acquisizione della sentenza non solo per provare il fatto dedotto nell’imputazione, ma anche eventuali fatti secondari che sono contenuti nella motivazione.

[7] Cass., Sez. IV, 29.01.2008, in Cass. Pen., 2008, 4294.

[8]Cfr., la nota n. 3. Si veda, però, L. Kalb (Il documento nel sistema probatorio, Torino, 2000, 174), per il quale l’espressa menzione dell’art. 187 c.p.p. sia volta a sottolineare come l’art. 238-bis c.p.p. legittimi l’estensione dello spettro dei fatti dimostrabili a mezzo di una sentenza, sino a ricomprendervi tutti i temi di prova rilevanti per il giudizio.

[9]Cass., Sez. VI, 30.09.2008, in Ced n. 241860.

[10] Diversamente, se i riscontri potessero consistere nelle prove acquisite, ai sensi dell’art. 238 c.p.p., sulle quali si è fondata la sentenza irrevocabile, questi finirebbero per avere la duplice funzione cognitiva e confermativa.

[11] Invero, già il Parlamento, in sede di modifica della decretazione d’urgenza, parlò, a tal proposito, di un difetto terminologico. Tecnica legislativa sconcertante la definisce L. Marafioti, Trasmigrazione di atti, prova per <<sentenze>> e libero convincimento del giudice, cit., 252; norma assurda ed inapplicabile, per F. Cordero, Procedura penale, Milano, 1995, p. 693.

[12] Così, lucidamente, G. Spangher, Nuovi profili nei rapporti tra processo civile e processo penale, in Aa.Vv., Nuovi profili nei rapporti tra processo civile e processo penale, Atti del Convegno di studio di Trento (18-19 giugno 1993), Milano, 1995; P. F. Bruno, voce Prova documentale, in Dig. Disc. Pen., vol. VII, Torino, 1999, 39; M. Bargis, Le dichiarazioni di persone imputate in un procedimento connesso. Ipotesi tipiche e modi di utilizzabilità, Milano, 1994, 173.

[13] In questo senso H. Belluta, voce Prova (circolazione della), in Enc. Dir., Annali II, Milano, 2008, 963; F. Ruggiero, I limiti dell’art. 238 bis c.p.p. alla luce dell’art. 111 Cost., in Cass. Pen., 2004, 3170; S. Astarita, voce Circolazione della prova e delle sentenze, in Dig. Disc. Pen., Torino, agg., 2014, 14. Problematico F. Peroni, Disorientamenti giurisprudenziali in tema di acquisizione di sentenze non irrevocabili, in Dir. Pen. e Proc., 1996, 1383 (ma, anche, L. Iafisco, La sentenza penale come mezzo di prova, cit., 147; F. Zacché, La prova documentale, Torino, 2012, 169), per il quale, quid iuris nel caso in cui l’accertamento negativo riguardi fatti secondari? La norma sembra non considerare tale aspetto, nella misura in cui non specifica se oggetto di valutazione da parte del giudice ricevente possa essere solo il fatto principale contenuto nell’imputazione sulla quale si pronuncia la sentenza acquisita, ovvero anche i fatti secondari.

[14] In tal senso, Cass., Sez. I, 15.12.2015, Daccò, in Ced n., 26633801; id., Sez. I, 16.03.2010, Bisio, in Arch. n. Proc. Pen., 2011, 367; Cass., Sez. Un., 12.07.2005, Mannino, in Cass. pen., 2005, 3732.

[15]Conformi, S. Lorusso, Acquisizione di sentenze irrevocabili ex art. 238 bis c.p.p. e pregiudiziabilità penale: una norma controversa, cit., 329, per il quale vale come prova i fatti che supportano la decisione filtrati dal percorso valutativo compiuto dal giudice nella formazione del proprio convincimento. E. Amodio, Cognizione incidentale in sede penale della questione pregiudiziale di stato e limiti di efficacia dell’accertamento nel processo civile, in Riv. Matr. Per., 1966, 835; L. Iafisco, Acquisizione della prova-sentenza ex art. 238-bis c.p.p. e contraddittorio nel momento di formazione della prova, cit., 217; A. Bargi (La decisione sul fatto incerto, in Arch. Pen., 2014, 6) sottolinea che “il ‘fatto’, in definitiva, si identifica con il thema probandum, che include temi positivi e negativi e rappresenta il criterio di valutazione della rilevanza delle prove”. L. Marafioti, Trasmigrazione di atti, prova per sentenze e convincimento del giudice, cit., 259; R. Cantone, L’art. 238-bis c.p.p.: strumento probatorio e mezzo per la risoluzione preventiva del contrasto tra giudicati, in Cass. Pen., 1999, 2896; A. Scalfati, L’esame sul merito nel giudizio preliminare di revisione, Padova, 1995, 130.

[16] Le osservazioni sono di L. Iafisco, Acquisizione della prova-sentenza ex art. 238-bis c.p.p. e contraddittorio nel momento di formazione della prova, cit., 217. In proposito si rinvia pure ad S. Astarita, voce Circolazione della prova e delle sentenze, cit. 18.

[17] I. Calamandrei, La prova documentale, Milano, 1995, 127; S. Ruggiero, I limiti dell’art. 238 bis c.p.p. alla luce dell’art. 111 Cost., cit., 3172. A soluzione intermedia giunge chi pone un distinguo all’interno della motivazione, e ritiene che, a tal fine, rilevi solo la parte relativa alla ricostruzione del fatto, che viene trasfusa nel dispositivo. Dunque, non tutta la motivazione, ma unicamente quella che consente di ricollegare il fatto storico alla fattispecie per la quale il giudice nel dispositivo dichiara colpevole od innocente l’imputato. Così, G. Della Monica, voce Giudicato, in Dig. Disc. Pen., IV, Agg., Torino, 2008, 406 e ss.

[18] Per di più, i fatti secondari non soggiacciono alla regola di giudizio prevista dagli artt. 530 e 533 c.p.p., nella misura in cui non devono essere provati o sconfessati, ma servono solo al giudice per argomentare la propria decisione. Sulla distinzione fra fatti principali e secondari, cfr., M. Taruffo (La prova dei fatti giuridici, Milano, 1992, 97), per il quale i fatti principali si pongono come condizione o presupposto degli effetti giuridici connessi alla specifica fattispecie processuale; mentre i fatti secondari sono privi di qualificazione giuridica, ma fungono solo da argomenti intorno alla verità o falsità di un enunciato inerente ad un fatto principale. Per una particolare visione tra fatti principali e secondari, cfr., G. Ubertis, Profili di epistemologia giudiziaria, Milano, 2021.

[19] È assai eloquente che M. Varadi (La sentenza penale come mezzo di prova, in Riv. Dir. Proc., 1943, 258), nel lontano 1943, arrivasse alle medesime conclusioni. L’Autore riteneva che <<l’efficacia documentale della sentenza, cioè, la sua forza di prova legale, si estendesse all’esistenza del provvedimento e alle attività del processo>>. Affermava, inoltre, che <<i fatti che il giudice reputa come veri nella parte motiva della sentenza debba riconoscersi efficacia probatoria, anche se non piena>>. Ma, ancora, che <<..negare ogni valore alle deduzioni significa pregiudicare grandemente l’autorità dei giudicati stessi. Che la parte motiva non passi in giudicato non rileva perché è autorità di un giudizio di persona che oltre ad essere investita di autorità pubblica è dotata di una preparazione generale e speciale di grande rilievo>>.

[20] “Invero, questo meccanismo di interscambio probatorio realizza una duplice ingiustizia: in superficie comporta la grave violazione del principio del contraddittorio, più a fondo un’intollerabile compressione dei diritti di difesa dell’imputato, condannato due volte. Prima, in un giudizio a cui neanche prende parte, poi in un processo che lo vede direttamente coinvolto (quanto agli effetti), ma sostanzialmente escluso (in relazione al contributo da offrire). La disciplina risulta, così, dotata di una forza espansiva tale da rompere gli argini rigorosamente tracciati dalla Corte europea, travolgendo le garanzie di difesa, spostando irragionevolmente il baricentro del processo a favore delle esigenze di difesa sociale, e relegando sullo sfondo l’imputato, declassato da protagonista sulla scena a mero figurante. La norma, invero, invitando alla cautela e alla prudenza nella valutazione della prova-sentenza, cerca di approdare al difficile punto di equilibrio fra giusto processo ed efficientismo, ma è un tentativo destinato a fallire”. Così, lucidamente, si esprime F. Del Vecchio, Circolazione delle sentenze irrevocabili e presunzione d’innocenza nell’interpretazione della Corte europea, in Arch. pen. online, 2014, 17. Sul tema, P. Ferrua (Il contraddittorio tra declino della legge e tirannia del diritto vivente, Negri D. – Orlandi R. (a cura di), Le erosioni silenziose del contraddittorio, Torino, 2017, 5), scrive <<a stretto rigore, anche quando l’imputato sia il medesimo, la strategia difensiva muta a seconda del reato; ed è solo con qualche forzatura che la prova, formata in contraddittorio sul presupposto di una determinata imputazione, può ritenersi valida anche in rapporto ad una diversa accusa>>. Cfr., pure L. Marafioti (Trasmigrazione di atti, prova per sentenze e convincimento del giudice, cit., 247), il quale sostiene che l’art. 238 bis c.p.p. rimette <<in discussione alcuni tradizionali punti fermi della dottrina processualpenalistica>>; S. Lorusso, Acquisizione di sentenze irrevocabili ex art. 238 bis c.p.p. e pregiudiziabilità penale: una norma controversa, in Urb. e appalti, 1999, 329; A. Gaito, La circolazione delle prove e delle sentenze, in www.archiviopenale.it, 2011, 3.

[21] Critico P. Ferrua (Il contraddittorio nel processo penale e il doppio volto della Corte costituzionale, in Riv. Dir. proc., 2009, 1456), per il quale, dopo l’introduzione dell’art. 111 Cost., la sopravvivenza della norma appare ancor più inaccettabile. La circostanza che il legislatore del 2001 (con la novella n. 63), abbia sentito la necessità di intervenire sull’art. 238 c.p.p., inserendo le giuste cautele per l’acquisizione delle prove provenienti da altro processo penale, e abbia lasciato invariata la disciplina dell’art. 238-bis c.p.p., significa che, l’omessa modifica, non è stata una mera dimenticanza, dato che il tema del contraddittorio nel luogo di formazione della prova era ben presente, bensì è il frutto di una precisa volontà di conservare una sorta di “pregiudiziale storica”.

[22]Corte cost., 19.11.2009, n. 29 e, prima, Corte cost., 20.5.1996, n. 159, in Cass. Pen., 1996, 3233. La questione era stata dichiarata manifestamente infondata da Cass., Sez. I, 28.5. 2003, Rosmini, in Dir. Pen. e Proc., 2004, 479 con riferimento anche agli artt. 24 e 25 Cost. e da Cass., Sez. I, 10.7.2000, Malcangi, in Arc. N. Proc. Pen., 2000, 673, anche con riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.

[23] C. Miucci, Principio del contraddittorio e acquisizione del documento-sentenza: un rapporto che continua a rimanere in crisi, in Giust. Pen., 2009, 116.

[24] In senso opposto L. Iafisco (La sentenza penale come mezzo di prova, cit., 60), il quale reputa indiscutibile l’ammissibilità di questo mezzo di prova, perché è il legislatore a stabilirlo; piuttosto, afferma, si potrebbe discutere della plausibilità dell’opzione legislativa in un sistema che rispetta determinati valori nel momento della formazione della prova.

[25] N. Rombi, Acquisizione della sentenza come mezzo di prova: presupposti e limiti, in Dir. Pen. e Proc., 2004, 484.

[26] L. Marafioti, Trasmigrazione di atti, prova per sentenze e convincimento del giudice, cit., p 256. Ma del tema specifico se ne parlerà successivamente.

[27] N. Rombi, Acquisizione della sentenza come mezzo di prova: presupposti e limiti, cit., 484.

[28] L. Kalb, Il documento nel sistema probatorio, cit., 172; N. Rombi, La circolazione delle prove penali, Padova, 2003, 186: L. Marafioti, Trasmigrazione di atti, prova per sentenze e convincimento del giudice, cit., 255.

[29] F. Peroni, Disorientamenti giurisprudenziali in tema di acquisizione di sentenze non irrevocabili, cit., 1384.

[30] Ancora, F. Peroni, Disorientamenti giurisprudenziali in tema di acquisizione di sentenze non irrevocabili, cit., 1384.

[31] ..che per G. Ubertis (Documenti e oralità nel nuovo processo penale, in Bassiouni-Tagliata-Stile (a cura di), Studi in onore di G. Vassalli. Evoluzione e riforma del diritto e della procedura penale 1945-1990, II, Milano, 1991, 301), riprendendo F. Carnelutti (voce Documento, in Nov. Dig. It., VI, Torino, 1964, 86), definisce come ogni entità materiale intenzionalmente rappresentativa di un altro – giuridicamente rilevante – rispetto alla propria consistenza sensibile. Cfr., però, G. Conso (I fatti giuridici processuali penali. Perfezione ed efficacia, Milano, 1995, 48), per il quale nel concetto di fatto richiamato dall’art. 234 c.p.p. sarebbe incluso un qualcosa che si verifica nella realtà e che consiste in un fenomeno naturale o in un comportamento umano.

[32] Così, L. Marafioti, Trasmigrazione di atti, prova “per sentenze” e libero convincimento del giudice, cit., 248.

[33] E. Marzaduri, sub art. 479, in Chiavario M. (a cura di), Commento al nuovo codice di procedura penale, V, Torino, 1991, 106; M. A. Zumpano, Rapporti tra processo civile e processo penale, Torino, 2000, 500.

[34] P. Calamandrei, La sentenza civile come mezzo di prova, in Riv. Dir. pric. Civ., 1938, 122; G. F. Ricci, Le prove atipiche, Milano, 1999, 622. Nel senso che la collocazione delle sentenze irrevocabili fra le prove documentali consente di fornire solo la prova dell’esistenza dei giudizi contenuti in motivazione, cfr. G. De Luca, I limiti soggettivi della cosa giudicata penale, Milano, 1963, 65; P. Ferrua, Oralità del giudizio e letture di deposizioni testimoniali, Milano, 1981, 291; L. Kalb, Il documento nel sistema probatorio, cit., 170; R. Orlandi, Atti e informazioni dell’autorità amministrativa nel processo penale. Contributo allo studio delle prove extracostituite, Milano, 1992, 192; F. Peroni, Disorientamenti giurisprudenziali in tema di acquisizione di sentenze non irrevocabili, cit., 1383; P. Tonini, La prova penale, Padova, 1992, 192.

[35] Procedura penale, III ed., Milano, 1995, 693.

[36] L’osservazione è di P. Ferrua, Fraintendimenti e polemiche, sul contraddittorio come metodo di accertamento penale, 7.

[37] La scelta legislativa di ricorrere, in siffatte ipotesi, alla prova documentale si spiega proprio in ragione della specificità della capacità probante, sicuramente maggiore rispetto alla fonte orale, in relazione allo specifico fine in questione. In tal senso, P.P. Dell’Anno, “Contraddittorio limitato” per l’acquisizione delle sentenze passate in giudicato, cit., 1115.

[38] G. Santalucia, Errore, in Pepino (a cura di), Giustizia. La parola ai magistrati, Laterza, 2010, 17.

[39] F. Cordero, Il procedimento probatorio, in Tre studi sulle prove penali, Milano, 1963, 57.

[40] P. Ferrua, Il contraddittorio nel processo penale e il doppio volto della Corte costituzionale, cit., 1461.

[41] Cass., Sez. I, 28.05.2003, R., in Dir. Pen. e Proc., 2004, 479.

[42] N. Rombi, Acquisizione della sentenza come mezzo di prova: presupposti e limiti, cit., p. 483.

[43]P. Ferrua, Il giusto processo tra governo della legge ed egemonia del potere giudiziario, in Dir. Pen. e Proc.,2020, 1, 5.

[44] in senso contrario, L. Iafisco (La sentenza penale come mezzo di prova, cit., 74), il quale spiega che ovviamente con la sentenza non si consente l’ingresso delle prove su cui la decisione si è fondata, perché le prove sarebbero trasfigurate nel fatto che il giudice ritiene provato.

[45] Cass., Sez. II, 13.01.2021, n. 12320, ined; Cass., Sez. V, 27.03.2015, Knox e altri, in Ced n. 264862; Cass., Sez. IV, 3.11.2016, n. 12175; Cass., Sez. V, 14.04.2016, n. 27050, in Arch. n. proc. pen., 2016, 6, 612.

[46] …e, dunque, si afferma che le sentenze costituiscono prova dei fatti considerati come eventi storici, mentre le dichiarazioni in esse riportate restano soggette al regime di utilizzabilità previsto dall’art. 238 comma 2 bis c.p.p.

[47] P. Ferrua, Fraintendimenti e polemiche, sul contraddittorio come metodo di accertamento penale, cit., 9.

[48] Cfr., in proposito, Cass., Sez. V, 14.4.2000, in Ced n. 216306, ove si spiega che nessuna eccezione di ordine processuale attinente alla prova – non solo quelle già dedotte ma anche quelle “deducibili” nel processo la cui sentenza è divenuta giudicato – può essere proposta al fine di porre in discussione la “semiplena probatio” conferita dall’art. 238 bis c.p.p.

Emblematico è il caso delle maxi-indagini per criminalità organizzata, nell’ambito delle quali alcuni imputati vengano giudicati con rito abbreviato, ed altri con rito ordinario. I secondi, non avendo rinunciato alla formazione della prova in dibattimento nel contraddittorio delle parti, non hanno beneficiato dello sconto di pena del giudizio abbreviato. Tuttavia, consentendo l’acquisizione delle sentenze pronunciate all’esito dei riti speciali nei paralleli giudizi, di fatto si veicolano nel procedimento ordinario quegli atti di indagine contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, sulla base dei quali il giudice a quo aveva fondato la propria decisione. Così facendo, infatti, il giudice del processo ricevente fonda il proprio convincimento anche sulla base di una sentenza che aveva a sua volta valutato conoscenze unilateralmente formatesi in sede di indagini preliminari, e che erano state acquisite in considerazione della particolarità del rito (e della riduzione di pena che esso comporta). Così ragiona, A. Pisconti, La sentenza come prova (pre)valutata tra efficientismo giudiziario e giusto processo, in Dir. Pen. e Proc., 2023, 1390.

[49] Cass., Sez. III, 16.05.2023, n. 20673, R.R.

[50] Invero, che pure il legislatore fosse ben consapevole che la norma abbia creato una sorta di pregiudiziabilità, si rileva ove si rifletta che, con la stessa novella del ’92, è stato introdotto pure l’art. 371 bis c.p., che impone la sospensione obbligatoria del procedimento, per false informazioni al pubblico ministero, fino a quando il procedimento, nel corso del quale sono state assunte le informazioni, si è concluso in primo grado con sentenza, è intervenuta archiviazione o sentenza di non luogo a procedere. Ora, benché la norma sia funzionale a ridurre i condizionamenti sul testimone in ragione dell’immediatezza del procedimento per falso, è indubbio che generi una dipendenza logico-giuridica fra la prima decisione – che per di più non deve neppure assumere i caratteri dell’irrevocabilità – e quella del procedimento per falsa testimonianza.

[51]… se è vero, come afferma F. Peroni (Commento all’art. 25 l. 8.8.1995, n. 332, in Leg pen., 1995, 802), che con quell’espressione ci si riferisce alla dipendenza che lega alcuni temi alla decisione finale (art. 3 c.p.p.), ove questi devono essere valutati prima di pervenire alla seconda.

[52] L. Marafioti (Trasmigrazione di atti, prova per sentenze e convincimento del giudice, cit., 257), il quale, in proposito, aggiunge che <<è difficile sottrarsi all’impressione che, una volta resa possibile l’acquisizione della sentenza penale irrevocabile si finisca per introdurre di fatto un’anomala forma di giudicato parziale sui fatti anziché, come di regola, sugli effetti giuridici>>.

[53] Oltre alla sentenza innanzi citata, cfr., Cass., Sez. III, 10.10.2020, n. 36907; Cass., Sez. V, 12.2.2018, Iandolo, in Ced n. 273207; Cass., Sez. II, 21.04.2017, n. 26525, in Guida dir., 2017, 26, 99.

[54] Cass., Sez. III, 16.05.2023, cit. Ed è sintomatico che, nell’accogliere il ricorso, la Cassazione lo annulli senza rinvio, adducendo che il fatto non sussiste. In ispecie, nella sentenza, poi annullata dalla Corte, il giudice aveva proceduto ad una rivalutazione della posizione della persona assolta nella sentenza acquisita ai sensi dell’art. 238 bis c.p.p. Si rinvia pure a, Cass., Sez. III, n. 36907 del 15.10.2020, Cerbini, in Ced n. 280278 – 01; Cass., Sez. V, n. 5618 del 14.4.2000, Vera, in Ced n. 216306; Cass. Sez. I, 21.12.2016, Biallo, n. 18343, in Ced n. 270658.

[55] I corsivi sono nostri.

[56] Cass., Sez. I, 21.12.2016, Biallo, n. 18343, in Ced n. 270658.

[57] Cass., Sez. VI, 23.02.2022, n. 6599; IV, 1.02.2023, in Ced n. 284130; Cass., Sez. I, n. 11140 del 15.12.2015, in Ced n. 266338.

[58] Tra le molte, Cass., Sez. I, n. 4704 del 8.01.2014, in Ced n.259414.

[59] Cass., Sez. II, n. 9693 del 17.02.2016, cit.; Cass., Sez. IV, n. 19267 del 02.04.2014, Festante e altri, in Ced n. 259371.

[60] …sentenze che, secondo la Cassazione, possono essere acquisite ai sensi dell’art. 238 bis c.p.p. Cfr., Cass., Sez. II, 11.12.2007, Coletta, in Ced n. 239430.

[61] In proposito, giova ricordare che, secondo parte della dottrina, l’’inconciliabilità logica può riguardare pure le sentenze estintive e le decisioni d’improcedibilità, almeno quanto ai profili fattuali che hanno determinato il proscioglimento”. Si rinvia a, A. Scalfati, L’esame sul merito nel giudizio preliminare di revisione, Padova 1995, 105.

[62] Sul contenuto delle sentenze di tipo processuale si rinvia alle osservazioni svolte nel paragrafo successivo.

[63] In questa circostanza, difatti, la dichiarazione di prescrizione del reato si impone solamente qualora il giudice abbia ritenuto sussistenti tutti gli elementi, oggettivi e soggettivi, della fattispecie criminosa. Diversamente, dovrebbe prosciogliere nel merito, non avendo più ragione di esistere il requisito dell’evidenza, richiesto dall’art. 129 c.p.p., che si spiega unicamente quando la valutazione giurisdizionale avviene nelle fasi anteriori all’istruzione dibattimentale. Sul tema, cfr., L. Scomparin, Il proscioglimento immediato nel sistema processuale penale, Torino, 2008.

[64] Si ricordi, peraltro, che la Consulta, nella sentenza n. 49 del 26.03.2015, ha chiarito che la colpevolezza dell’imputato può risultare dal dispositivo di una condanna ma, anche, dalla motivazione della sentenza di proscioglimento per estinzione del reato. In proposito, per ulteriori considerazioni, si rinvia alla parte finale del paragrafo successivo.

[65] Cfr., la Relazione illustrativa allo schema di decreto legislativo recante attuazione della l. 134/2021, p. 161, consultabile su www.sistemapenale.it, del 10.8.2022.

[66] Cfr., Cass., Sez. VI, 28.04.2022, n. 16477, in Ced n. 283317-01; id., Sez. II, 15.06.2020, n. 18209, in Ced n.279446-01; id., Sez. VI, 23.07.2018, n. 34927, in Ced n. 273749, ove testualmente si afferma <<In tema di revisione, non sussiste contrasto fra giudicati agli effetti dell’art. 630, comma 1, lett. a), cod. proc. pen. se i fatti posti a base delle due decisioni, attribuiti a più concorrenti nel medesimo reato, siano stati identicamente ricostruiti dal punto di vista del loro accadimento oggettivo ed il diverso epilogo giudiziale sia il prodotto di difformi valutazioni di quei fatti – specie se dipese dalla diversità del rito prescelto nei separati giudizi e dal correlato, diverso regime di utilizzabilità delle prove – dovendosi intendere il concetto di inconciliabilità fra sentenze irrevocabili non in termini di mero contrasto di principio tra le decisioni, bensì con riferimento ad un’oggettiva incompatibilità tra i fatti storici su cui esse si fondano>>.

[67] In verità, dopo l’intervento delle Sezioni unite del 2018, la revisione è ammessa pure contro le sentenze che, nel prosciogliere l’imputato per intervenuta prescrizione del reato, condannino il prevenuto al risarcimento dei danni in favore della parte civile. Cfr., Cass., Sez. Un., 15.10.2018, n. 6141.

[68] Così, Cass. Sez. II, 04.12.2013, n. 292, in Ced n. 257993; Cass., Sez. I, 14.10.2010, n. 40815, in Ced n. 248464; Cass., Sez. II, 15 ottobre 2009, in Ced n. 246043. Sul tema dell’errore giudiziario e, specificatamente, per l’ipotesi del conflitto teorico di giudicati, si rinvia a M. Gialuz, Il giudizio di revisione, in Luparia Donati L. (a cura di), L’errore giudiziario, Milano, 2021, 567 e 585.

[69] Cfr., in particolare, oltre alla citata sentenza Biallo, Cass., Sez. I, 8.1.2014, Adamo, in Ced n. 259414; id., Sez. VI, 30.9.2008, Campesan, in Ced n. 241860.

[70] Cass. Sez. III, 16.06.2023, n.33972; Cass., Sez. IV, n. 12349 del 20.03.2008, in Ced n. 239299.

[71] Sebbene non via sia una norma costituzionale a chiaro presidio del libero convincimento, autorevole dottrina rileva che la Costituzione contiene disposizioni fondamentali destinate a connotare significativamente, sia pure in via diretta, il principio. E a tal uopo richiama gli artt. 111 comma VI, 27 comma II e 24 comma II. Cfr., M. Nobili, voce Libero convincimento del giudice, in Enc. Giur. Treccani, vol. XVIII, Roma, 1990, 3.

[72] Le parole dell’on.le Violante, nella Relazione della Commissione parlamentare antimafia del ’92, bastano da sole a far comprendere la complessità e la lungaggine degli accertamenti quando oggetto di contestazione sono i reati associativi: <<Noi stiamo per iniziare quattro dibattimenti in processi di mafia e in uno di questi processi abbiamo già 150 testimoni; abbiamo calcolato circa 35, 40 udienze solo per dimostrare che cosa è Cosa Nostra, dopo di che comincia l’altro tema di prova; dobbiamo dimostrare che XY appartiene a Cosa Nostra». Questa è solo la premessa; poi bisognerà avviare il terzo tema di prova, quello che costituisce oggetto della contestazione specifica. I primi due temi…vanno poi riproposti in ciascun altro processo, con logoramento degli stessi testi sottoposti ad interrogatorio incrociato per mesi, se non per anni (tra primo grado ed appello). Cfr., La formazione della prova nei processi di criminalità organizzata. Relazione della commissione parlamentare antimafia: relatore on. Luciano Violante, cit., 484.

[73] Così, in Trattato della cosa giudicata come causa di estinzione dell’azione penale, Modena, 1900, 207 e ss.

[74] Come afferma G. De Luca (voce Giudicato, II), diritto processuale penale, in Enc. Giur. Treccani, vol. XV, Roma, 1989, 7), l’idea che il compito di giudicare costituiva una prerogativa dello Stato e che all’autorità dello Stato le sentenze erano improntate alla repressione del crimine, si è affermata come una delle più importanti manifestazioni dell’autorità dello Stato. Parla di una esigenza di supremazia della giustizia penale che affondava le sue radici in preoccupazioni di ordine politico e sociale, G. Gionfrida, L’efficacia del giudicato penale nel processo civile, in Riv. Dir. Proc., 1957, 48, 49 e 50.

[75] La volontà del legislatore, spiega M.A. Zumpano (Rapporti tra processo civile e processo penale, cit., 436) era di evitare divergenze nella ricostruzione dei fatti comuni alla fattispecie di reato per il timore di veder compromessa la coerenza dei giudicati; e l’estensione del giudicato all’accertamento dei fatti materiali <<garantiva la consonanza di accertamenti nelle ipotesi in cui la coscienza comune era in grado di percepire un conflitto>>.

[76] A. Rocco, Trattato della cosa giudicata come causa di estinzione dell’azione penale, cit., 266.

[77] V. Manzini, Trattato di diritto processuale penale italiano, Torino, IV ed., 1972, 584.

[78] In verità, sul tema, l’orientamento dottrinale fu assai eterogeneo: chi ritenne che il giudicato producesse effetti erga omnes solamente nei casi di proscioglimento perché il fatto non costituisce reato e per insufficienza di prove circa l’esistenza del fatto (Così, Sabatini Gius., Principi di diritto processuale, II, Catania, 1949, 372), e chi, fondando sul valore obiettivo dell’accertamento penale, parlò di un’efficacia ultra partes tanto nei casi di assoluzione, quanto di condanna (A. Santoro, Manuale di diritto processuale penale, Torino, 1954, 396).

[79] ..soprattutto grazie a F. Carnelutti, Efficacia diretta e efficacia riflessa della cosa giudicata, in id., Studi di diritto processuale, Padova, 1925, 431.

[80] Si parlava di efficacia riflessa per riferirsi agli effetti del giudicato verso terzi e di efficacia diretta per intendere gli effetti del giudicato nei confronti delle parti che avevano partecipato al processo.

[81] Gli approdi cui si giunse, difatti, appaiono difficilmente esportabili nel processo penale, se in sede civile il thema della controversia ha ad oggetto diritti disponibili e se esiste una norma ad hoc che espressamente riconosce l’efficacia extra processuale della sentenza (cfr. art. 2909 c.c.).

[82] Il fenomeno della efficacia riflessa del giudicato, più precisamente, si sarebbe realizzato quando fosse esistito un nesso di pregiudizialità tra più illeciti, nel senso che la sussistenza di un reato sarebbe stata condizionata all’esistenza o alla inesistenza di un altro. Sicché, il giudice competente sul secondo reato non avrebbe potuto ridiscutere quello presupposto qualora fosse già stato accertato con sentenza passata in giudicato. Il medesimo effetto si sarebbe prodotto pure allorché fosse sussistita una connessione inscindibile tra la posizione del soggetto nei cui confronti fosse stata emessa la sentenza passata in giudicato e quella del terzo. In proposito si rinvia all’interessante lavoro, da cui si è tratto spunto, di S. Ruggeri, voce Giudicato penale, in Enc. Dir., vol. III, Annali, Milano, 2010, 433.

[83] G. Leone, Trattato di diritto processuale penale, III, Napoli, 1961, 315.

[84] F. Cordero, Le situazioni soggettive nel processo penale, Torino, 1957, 144, in particolare la nota 110, a cui si rinvia anche per richiamare le differenti elaborazioni dogmatiche sull’oggetto del processo fra chi lo individuava nel diritto punitivo dello Stato e chi nel potere punitivo.

[85] G. De Luca, voce Giudicato, cit., 6; L. Lozzi, voce Giudicato, in Enc. Dir., vol. XVIII, Milano, 1969, 913.

[86] G. De Luca, I limiti soggettivi della cosa giudicata penale, cit., 198.

[87]Ancora, S. Ruggeri, voce Giudicato penale, cit., 448; ma, anche, G. De Luca, I limiti soggettivi della cosa giudicata penale, cit., 198; E. Fazzalari, Il cammino della sentenza e della “cosa giudicata”, in Riv. Dir. Proc., 1988, 589.

[88] F. Callari, La revisione. La giustizia penale tra forma e sostanza, Torino, 2012, 19.

[89] E. M. Mancuso, Il giudicato nel processo penale, Milano, 2012, 54; F. Callari, La firmitas del giudicato penale: essenza e limiti, Milano, 2009, 16; N. Normando, Il valore, gli effetti e l’efficacia del giudicato penale, in G. Spangher (a cura di), Trattato di procedura penale, vol. VI, Milano, 2009, 7.

[90] F. Callari, La firmitas del giudicato penale: essenza e limiti, cit., 18.

[91] Il pensiero è di M. A. Zumpano, Rapporti tra processo civile e processo penale, cit., 292.

[92] F. Cordero, Le situazioni soggettive nel processo penale, cit., 152.

[93] Così ragiona F. Falato, La relatività del giudicato processuale. Tra certezza del diritto e cultura delle garanzie nell’Europa dei diritti, Napoli, 2016, 129.

[94] In tal senso, A. Cristiani, La revisione del giudicato nel sistema del processo penale italiano, Milano, 1970, 71.

[95] T. Rafaraci, voce Ne bis in idem, in Enc. Dir., Annali III, 2010, 860.

[96] La conclusione non sembra smentita dagli artt. 651-654 c.p.p. perché, la idoneità della sentenza passata in giudicato a vincolare la decisione di altro giudice, è dovuta all’identità del fatto, oggetto dei due giudizi, che produce conseguenze pure di natura civilistica, oltre che strettamente sostanziali. Né la tesi sembra smentita dalla disciplina dell’effetto estensivo della sentenza o della revisione, dalla quale si potrebbe dimostrare l’esistenza di un principio di non contraddizione che giustificherebbe l’esistenza di un rapporto di pregiudiziabilità fra fatto accertato con sentenza irrevocabile e fatto sub iudicio. Se la prima mira ad evitare il formarsi di un potenziale contrasto di giudicati, essa opera solamente fra chi ha preso parte al primo grado in un unico processo, proprio perché i beneficiari hanno esercitato i rispettivi diritti difensivi nel giudizio di primo grado e, comunque, produce effetti unicamente in bonam partem. Del pari, la revisione non è strumento volto a superare ogni conflitto teorico di giudicati a fronte di sentenze logicamente inconciliabili, ma ad applicare quella più favorevole, in base ad un favor che interviene in situazioni limite nelle quali appare compromesso il principio della presunzione di non colpevolezza. Peraltro, se pure si ritenesse che i tre istituti dimostrino la sussistenza di un principio generale di coerenza dei giudicati a cui si ispirerebbe l’ordinamento processual penalistico, è altrettanto vero che quell’esigenza si scontrerebbe con la autonomia giurisdizionale e con la regola del contraddittorio, con il principio di difesa e con il rifiuto ideologico della sentenza come momento di acquisizione della verità assoluta.

[97] Ancora, condivisibilmente, F. Falato, La relatività del giudicato processuale. Tra certezza del diritto e cultura delle garanzie nell’Europa dei diritti, cit., 128; T. Rafaraci, voce Ne bis in idem, cit., 861.

[98] In quest’ottica, allora, appare più discutibile l’orientamento della Cassazione per il quale possono essere acquisite, ai sensi dell’art. 238 bis c.p.p., le sentenze di patteggiamento se, per interpretazione costante della giurisprudenza, esse non contengono un accertamento pieno, dovendo, il giudice, unicamente verificare l’insussistenza dei presupposti per prosciogliere (ex plurimis, Cass., Sez. II, 7.5. 2022, Aiello e altri, ined.; Cass., Sez. I, 5.6.2014, P.G. e altri in proc. Di Silvio, in Ced n., 26395501; Cass., Sez. VI, 25.02.2011, Pisicchio, in Ced n.24964201). Se ciò che passa in giudicato è il fatto accertato, non si comprende la ragione per la quale si continui ad affermare che nella sentenza di patteggiamento non vi sarebbe una indagine piena sulla responsabilità dell’imputato; né si comprende come quella sentenza possa provare il fatto in essa contenuta nel procedimento ove viene acquisita la pronuncia passata in giudicato. Situazione che diviene ancora più paradossale alla luce della recente riforma Cartabia la quale, pur ampliando l’area di inefficacia della sentenza emessa all’esito di quel rito, si è tenuta ben lontana dal precludere ogni utilizzo di essa in altra sede processuale penale. Anzi, il silenzio, sullo specifico profilo, rafforza l’interpretazione giurisprudenziale. Evidentemente, l’obiettivo del legislatore del 2022 non è stato di limitare l’autorità della sentenza patteggiata, in ragione dell’assenza di un’indagine piena sul fatto di reato, quanto di incentivare ulteriormente la scelta di accedere al procedimento semplificato.

[99]M. A. Zumpano, Rapporti tra processo civile e processo penale, cit., 293. Peraltro, è al fatto contenuto nella sentenza irrevocabile che si riferisce l’istituto della revisione per ammettere la sussistenza del contrasto di giudicati.

[100] E. Marzaduri, voce Questioni pregiudiziali, in Enc. Dir., VI Agg., Milano, 2002, 916.

[101] Invero, sebbene il sistema attribuisca al giudice il potere di integrare la piattaforma probatoria (ai sensi degli artt. 507 e 603 c.p.p.), la legittimazione ad intervenire non è – o non dovrebbe essere – in funzione di un’ossessiva ricerca della verità materiale, se questi può attivarsi unicamente in via residuale e rispetto ad un quadro probatorio già delineato dalle parti del processo.

[102] G. Ubertis, Fatto e valore nel sistema probatorio penale, Milano, 1979, 129. Cfr., pure, O. Mazza, voce Verità reale e verità processuale, in Dig. Disc. Pen., agg., Torino, 2014, 713. Per la prospettiva processuale civile v., ad es., M. Taruffo, Fatto, prova e verità, in Criminalia, 2009, 314.

[103] Ci si riferisce, in via eventuale, alle modalità di definizione del processo, avendo come punto di riferimento l’orientamento giurisprudenziale, e in parte dottrinario, per il quale, nei riti alternativi del patteggiamento e del decreto penale di condanna, l’accertamento si atteggerebbe diversamente rispetto ai giudizi che sono definiti all’esito del dibattimento.

[104] Tematica chiaramente e condivisibilmente affrontata da L. Marafioti, Trasmigrazione di atti, prova per sentenze e convincimento del giudice, cit., 263.

[105] Le sentenze sono proprio <<atti che valutano le prove nella funzione decisoria di un singolo caso, di una specifica controversia, oltre la quale non provano nulla>>. In questi termini, P. Ferrua, La prova nel processo penale, Torino, 2015, 211 e ss.; Id., Il contraddittorio nel processo penale e il doppio volto della Corte costituzionale, in Riv. dir. proc., 2009, 1455.

[106] La sentenza emanata nei confronti dell’imputato defunto, per costante orientamento giurisprudenziale, viene addirittura considerata inesistente. Cfr., Cass., Sez. I, 14.04.2017, p.g. in Caffiero, in Ced n. 269865; Cass., Sez. V, 10.02.2006, Pezzino, in Ced n. 233636.

[107] ..ma ciò non influisce sulla attualità delle teorie poiché l’art. 649 c.p.p. ripete il contenuto dell’art. 90 c.p.p.

[108] Invero, chiarisce F. Cordero (La decisione sul reato estinto, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1962, 679), tutto è intendersi sul concetto di merito: se esso si riferisce solo al fatto addotto a fondamento della domanda oppure alla situazione giuridica sostanziale.

[109] F. Cordero, La decisione sul reato estinto, cit., 672.

[110] Sia chiaro però che, per l’Autore, mentre la causa estintiva si colloca nei fatti giuridici sostanziali e vieta al giudice di punire, la causa di non procedibilità è ricondotta nei fatti giuridici processuali che impongono al giudice di non procedere. La differenza, si spiega, si riflette unicamente sulla misura dell’efficacia vincolante oggetto dell’accertamento giurisdizionale. F. Cordero, Contributo allo studio dell’amnistia nel processo, Milano, 1959, 12, a cui si rinvia anche per l’ipotesi della amnistia.

[111] Pure per O. Dominioni (artt. 66-68, in E. Amodio- O. Dominioni (a cura di), Commentario del nuovo codice di procedura penale, Milano, 1989, I, 417), sarebbe errato parlare di deroghe, poiché la situazione processuale non si riferisce ad un processo che si è concluso con un giudizio, è una pseudo-sentenza.

[112]<<se il fatto sussista, se l’imputato lo abbia commesso, se quel fatto sia illecito, sono questioni alle quali non è stata data una risposta con effetto di giudicato…. Si dica piuttosto che, acquisito un dato accertamento in diritto, il legislatore reputa superflua l’indagine sulla fondatezza dell’accusa: il processo mira ad un accertamento, positivo o negativo, del dovere di punire; per venire a capo dell’una simile questione non occorre nulla più di un giudizio ipotetico, quando il fatto di cui si afferma l’esistenza, appare tale che la possibilità di infliggere una pena dovrebbe comunque ritenersi esclusa>>. Così, F. Cordero, La decisione sul reato estinto, cit., 673.

[113] A. Pagliaro, Profili dogmatici delle c.d. cause di estinzione del reato, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1967, 495 e 496; ma, anche, S. Ruggieri (Pluralismo cognitivo e dinamiche processuali: tutela sommaria, decisioni in ipotesi e giudizi incompleti. Ragionando su procedibilità, merito e garanzia della persona, p., 4), il quale, a tal proposito, richiama l’art. 170 c.p. che dimostra la permanenza di effetti punitivi nonostante la estinzione del reato.

[114] In altri termini, le cause di estinzione del reato avrebbero natura processuale perché esse non incidono sulla illiceità della condotta, escludendola, ma paralizzano soltanto quegli effetti del reato che presuppongono lo svolgimento del processo penale. Così, l’Autore finisce per collocare le cause di estinzione del reato nelle cause di non procedibilità. Cfr., in particolare, A. Pagliaro, Profili dogmatici delle c.d. cause di estinzione del reato, cit., 490.

[115] A. Pagliaro, Profili dogmatici delle c.d. cause di estinzione del reato, cit., 482 e 485, il quale giunge a questa conclusione ragionando sull’art. 152 c.p.p. 1930 (che corrisponde all’attuale art. 129 c.p.p.) e sul rilievo che un accertamento positivo del reato può comunque svolgersi in sede civile ai fini della pretesa risarcitoria relativa al danno ex art. 185 c.p.

[116] In questo senso, pure O. Dominioni (Improcedibilità e proscioglimento, Milano, 1974, 128), per il quale la valutazione sulla condizione di procedibilità dipende non solo dal nomen iuris attribuito al fatto di cui all’imputazione, ma anche dalla sussistenza o meno di determinati elementi obbiettivi o soggettivi, quali possono essere certe qualità personali del soggetto attivo o passivo, rapporti intercorrenti tra gli stessi, il luogo di commissione del reato, l’entità delle conseguenze lesive. Più recentemente, E. M. Mancuso, Il giudicato nel processo penale, cit., 60.

[117] A. Pagliaro, Profili dogmatici delle c.d. cause di estinzione del reato, cit., 495.

[118]A. Pagliaro, Profili dogmatici delle c.d. cause di estinzione del reato, cit., 497.

[119]Le evidenziate criticità hanno indotto la dottrina più recente a individuare soluzioni intermedie. Esaltando la maggiore ampiezza della garanzia processuale del ne bis in idem – che sarebbe indifferente rispetto al contenuto, di ordine storico-fattuale o processuale della sentenza irrevocabile e – rispetto a quella sostanziale (art. 15 c.p.), si è affermato che, sebbene il giudicato avrebbe ad oggetto l’accertamento del fatto, il gap normativo sarebbe ricomposto osservando che la norma pretende una comparazione fra il fatto materiale indicato nell’imputazione sul quale il giudice non si è potuto esprimere e il fatto contestato nel nuovo giudizio. T. Rafaraci, voce Ne bis in idem, cit., 866; F. Callari, La firmitas del giudicato penale: essenza e limiti, cit., 21.

[120] F. Cordero differenzia il divieto di punire a seconda che esso dipenda dal difetto di un requisito costitutivo oppure dall’essere intervenuto un fatto estintivo, perché, mentre nel primo caso il procedimento non è legittimamente instaurato, nel secondo, si. Sicché, non nell’uno, ma nell’altro, v’è spazio per un giudizio di merito; per cui, per prosciogliere per estinzione del reato, dagli atti deve emergere che sia impossibile che il fatto sia diverso da come contestato e che, se venisse conclusa l’istruttoria dibattimentale, l’imputato non sarebbe considerato innocente. Cfr., La decisione sul reato estinto, cit., 674, 680 e 682; ma anche, dello stesso Autore, Le situazioni soggettive nel processo penale, cit., 149.

[121]Così, S. Ruggieri, Pluralismo cognitivo e dinamiche processuali: tutela sommaria, decisioni in ipotesi e giudizi incompleti. Ragionando su procedibilità, merito e garanzia della persona, cit., 6.

[122] …tanto da indurre parte della dottrina a costruire l’efficacia del giudicato, sulla mancanza di procedibilità, in termini di preclusione attenuata. In proposito, si rinvia a O. Dominioni, Improcedibilità e proscioglimento nel sistema processuale penale, cit., 350. Cfr., però, l’interessante ricostruzione offerta da S. Ruggieri (Pluralismo cognitivo e dinamiche processuali: tutela sommaria, decisioni in ipotesi e giudizi incompleti. Ragionando su procedibilità, merito e garanzia della persona, cit., 29), per il quale il richiamo all’art. 345 c.p.p., contenuto nel comma 2 dell’art. 649 c.p.p., non può essere funzionale a negare l’efficacia di giudicato alle sentenze di improcedibilità o anche a sostenere il carattere derogatorio delle fattispecie contemplate nel comma 2. L’ Autore spiega che la possibilità di istaurare un nuovo processo de eadem re prescinde dall’irrevocabilità della pronuncia proscioglitiva, e che sia lo stesso art. 345 c.p.p. a delimitare il proprio oggetto alle sentenze che abbiano accertato la mancanza della condizione di procedibilità purché queste sopravvengano in un successivo e utile momento. Il che copre solo una parte delle situazioni che conducono alla pronuncia di improcedibilità, restando fuori tutte quelle situazioni in cui la condizione non potrà più avverarsi.

[123]È ben nota la pronuncia della Grande Camera della Corte edu, la quale, nel ritenere conforme al principio di legalità la confisca urbanistica disposta in presenza della prescrizione del reato, ha chiarito che, pur non essendo necessaria una pronuncia di condanna formale, è indiscutibile che per disporre la confisca, che ha natura penale, vi debba essere un accertamento sulla sussistenza di tutti gli elementi del reato contestato. Corte edu, 28.06.2018, G.I.E.M. srl c. Italia; ma, prima, Corte edu, 20 gennaio 2009, Sud Fondi srl c. Italia; Corte edu, 23 ottobre 2013, Varvara c. Italia.

[124] ..norma introdotta dall’art. 6, comma 4, del d.lgs. n. 21 del 1 marzo 2018, modificata dall’art. 1, comma 4, della l. del 9 gennaio 2019, n. 3, che, in qualche modo, recepisce i principi giurisprudenziali della Corte costituzionale n. 49 del 2015 (ribaditi, poi nella pronuncia del 24 gennaio 2023, n. 5) e delle Sezioni unite del 21 luglio 2015, Lucci, in Ced n. 264434.

[125] Cfr., la Relazione illustrativa allo schema di decreto legislativo recante attuazione della l. 134/2021, cit., p. 162.

[126] In proposito, per una diversità di opinioni, G. Spangher, L’improcedibilità dei giudizi di impugnazione, in Marandola A. (a cura di), “Riforma Cartabia” e rito penale. La Legge Delega tra impegni europei e scelte valoriali, Milano, 2022, 390; A. Nappi, Appunti sulla disciplina dell’improcedibilità per irragionevole durata dei giudizi di impugnazione, in Ques. Gius., 9.12.2021.

[127] L. Marafioti, Trasmigrazione di atti, prova per sentenze e convincimento del giudice, cit., 257, e prima, D. Siracusano, in Siracusano D.- Galati A.-Tranchina G.- Zappalà E. (a cura di), Diritto processuale penale I, Milano, 1994, 365.