L’art. 1284, comma 4, c.c. e l’esecuzione forzata

Di Bruno Capponi -

Cass. civ. Sez. III, Ord., 3 gennaio 2023, n. 61, ha ritenuto, modificando l’orientamento della Sezione, che la norma dell’art. 1284 c.c., comma 4, individua il tasso legale degli interessi, in linea generale, per tutte le obbligazioni pecuniarie (salvo diverso accordo delle parti e salva diversa espressa previsione di legge), per il periodo successivo all’inizio del processo avente ad oggetto il relativo credito, fino al momento del pagamento. Ha precisato che «depone nel senso indicato, in primo luogo, la sua stessa ratio. L’art. 1284 c.c., comma 4, è stato introdotto al fine di contenere gli effetti negativi della durata dei processi civili, riducendo il vantaggio, per il debitore convenuto in giudizio, derivante dalla lunga durata del processo, attraverso la previsione di un tasso di interesse più elevato di quello ordinario, dal momento della pendenza della lite: si tratta evidentemente di una disposizione (lato sensu “deflattiva” del contenzioso giudiziario), che ha lo scopo di scoraggiare l’inadempimento e rendere svantaggioso il ricorso ad inutile litigiosità, scopo che prescinde dalla natura dell’obbligazione dedotta in giudizio e che si pone in identici termini per le obbligazioni derivanti da rapporti contrattuali come per tutte le altre. Nel medesimo senso depongono, inoltre, sia la circostanza che si tratta di una disposizione inserita nell’art. 1284 c.c., intitolato “saggio degli interessi”, cioè nell’articolo del codice civile che disciplina in linea generale, per tutte le obbligazioni, il tasso legale degli interessi, sia il rilievo che tale articolo non contiene alcuna espressa limitazione di applicabilità delle sue disposizioni a solo alcune categorie di obbligazioni».

Il revirement era atteso, e sollecitato dalla migliore dottrina; restavano invero incomprensibili le ragioni per cui la Cassazione aveva devitalizzato il potenziale applicativo di una norma – il comma 4 dell’art. 1284 c.c. – pensata per limitare l’abuso del processo e indurre il debitore (molto spesso, come diremo, una P.A.) all’adempimento “spontaneo”. Ed è sorprendente che proprio la Cassazione, vale a dire una delle principali vittime dell’accesso indiscriminato alla giustizia come strumento per ritardare l’adempimento delle obbligazioni (è il fenomeno del processo quale “radicamento dell’ingiustizia”, di cui già nella notissima Relazione Lipari-Acone del 1990), abbia per anni difeso un’interpretazione restrittiva della norma che era in conflitto aperto con la sua ratio giustificatrice.

Benvenuta, quindi, l’ord. n. 61; ma i problemi non finiscono certo qui.

Infatti, la stessa Cassazione – sempre perseguendo il suicidario intento di devitalizzare una norma strategicamente e, direi, anche culturalmente importante – afferma che il comma 4 cit. non può trovare applicazione all’interno del processo esecutivo. Cass., Sez. III, Sent., 23 aprile 2020, n. 8128 (stesso relatore della n. 61/2023), dopo aver richiamato l’orientamento per cui «gli interessi stabiliti da norme speciali di legge, con riferimento a determinati crediti, in misura diversa da quella fissata in via generale dal codice civile, sono interessi legali, onde la richiesta di questi, ancorché senza indicazione della norma speciale che ne stabilisce la misura, ne impone la liquidazione ad opera del giudice, che, in base al principio “iura novit curia”, è tenuto a conoscere e ad applicare la disciplina speciale» (per tutte, Cass., Sez. 3, n. 14911/2019), sorprendentemente afferma che «l’indirizzo appena richiamato è infatti riferito, ed è riferibile, esclusivamente al processo di cognizione, nel quale il giudice ha il compito, oltre che di interpretare la domanda, di accertare i fatti al fine di individuare ed applicare alla fattispecie concreta la norma giuridica per essa astrattamente prevista. La situazione che si verifica nel processo di esecuzione è radicalmente diversa. Il giudice dell’esecuzione non ha poteri di cognizione e di accertamento dei fatti, ma deve limitarsi ad attuare il comando contenuto nel titolo esecutivo. Di conseguenza, laddove il giudice della cognizione non abbia egli stesso accertato e statuito che alla fattispecie concreta è applicabile una norma di legge speciale che eventualmente regoli la misura degli interessi legali in maniera difforme da quella generale, non potrà in nessun caso farlo in sua vece il giudice dell’esecuzione. Quest’ultimo dovrà quindi limitarsi a riconoscere in favore del creditore gli interessi dovuti nella misura prevista dalla norma generale codicistica».

È forse sin troppo facile osservare che il giudice dell’esecuzione a cui sembra riferirsi la Cassazione è quello della Relazione al Re premessa al c.p.c. del 1940; ma, da allora, molti passi in avanti sono stati compiuti per consentire al G.E. l’uso di quegli stessi dispositivi tecnici che ispirano l’attività del giudice della cognizione: attualmente, quel giudice risolve con ordinanza le contestazioni in sede di distribuzione (art. 512 c.p.c.) e accerta il credito pignorato nel PPT (art. 549 c.p.c.). Domani liquiderà l’astreinte (art. 614 bis c.p.c. nel testo modificato dal d.lgs. n. 149/2022, di attuazione della delega legislativa contenuta nella L. n. 206/2021). Senza contare gli argomenti che derivano dall’attuale giurisprudenza comunitaria (Corte Giustizia, Grande Sezione, 17 maggio 2022) sulla tutela del consumatore, laddove si prevede che il controllo dell’abusività di una clausola contrattuale, se non compiuto dal giudice del monitorio (che deve espressamente motivare sul punto), sarà proprio del giudice dell’esecuzione sebbene il d.i. sia formalmente passato in giudicato.

Vogliamo forse sostenere che un giudice dotato di simili poteri francamente cognitivi non sia in grado di fare un semplice calcolo aritmetico per liquidare gli interessi commerciali relativamente alla durata dell’esecuzione forzata? Non si tratta forse dello stesso potere “cognitivo” grazie al quale quello stesso giudice liquida da sempre, nell’ordinanza di assegnazione, gli interessi “legali” del comma 1 dell’art. 1284 c.c.?

Il giudice dell’esecuzione non è un giudice che non giudica, come forse presupponeva il legislatore del 1940 (e la Cassazione del 2020); è attualmente un giudice che giudica, magari soltanto con effetti interni al processo di esecuzione forzata, e che può addirittura arrestare l’esecuzione (estinzione atipica) laddove, giudicando, rilevi anche d’ufficio che il titolo esecutivo a giustificazione dell’esecuzione non c’è mai stato o non c’è più.

Quindi, non sono certo gli argomenti, contrari alla storia, fatti valere dalla Cassazione a poter escludere l’applicazione della norma in commento all’interno del processo esecutivo. L’osservazione contraria è addirittura banale: se nel processo dichiarativo la spettanza del diritto non è ancora certa, nel processo esecutivo quella spettanza è resa certa dal titolo. A quale logica comune (prima che giuridica) risponderebbe la soluzione che applica la “sanzione” allorché il diritto deve ancora essere accertato (e quindi la resistenza del presunto debitore potrebbe tutto sommato apparire giustificata), e la disapplica proprio allorché il diritto sia stato accertato da un titolo, specie se giudiziale?

Discorso a parte deve riguardare le pubbliche amministrazioni.

Queste, sistematicamente, ritardano il pagamento dei crediti portati da provvedimenti giudiziari svuotando di contenuto persino la previsione dell’art. 14 D.L. 669/96, essendosi ormai consolidata la “prassi” dei pagamenti che intervengono ben oltre il decorso dei sei mesi dalla notifica del titolo: e cioè intervengono solamente all’esito dell’esperimento di un’azione esecutiva da parte del creditore (in genere, PPT presso il tesoriere). Azione che, tuttavia, ha i suoi tempi e i suoi costi e che, in ogni caso, è proprio ciò che la norma in esame intenderebbe evitare “nel superiore interesse della giustizia”.

Tale prassi ha suscitato numerosi richiami da parte degli organismi comunitari.

In sede giurisprudenziale si registrano numerose pronunce con cui la CEDU ha sanzionato lo Stato italiano riconoscendo il diritto dei ricorrenti a un’“equa soddisfazione” ex art. 41 della Convenzione, ritenendo insufficiente (“non determinante”), quale rimedio a detto ritardo, il riconoscimento degli interessi legali liquidati dal titolo giudiziario (cfr., ex plurimis, le sentenze 10.12.2013, Limata ed altri c. Italia, n. 24, e 31.3.2009, Simaldone c. Italia, n. 63).

Sul solco apertosi in sede comunitaria, il nostro ordinamento ha reagito riconoscendo che «l’erogazione tardiva, dopo un procedimento di esecuzione forzata, delle somme dovute al ricorrente, non rimedia al rifiuto prolungato da parte delle autorità nazionali di rispettare la sentenza e non offre un’adeguata riparazione» (Cass. S.U. n. 6312/2014). Con tale pronuncia, le Sezioni Unite hanno anche affermato che dal giorno della mora debendi dell’Amministrazione, che è individuato nella scadenza del termine prescritto dalla legge per adempiere (ovvero risultante anche dalla notifica del precetto), gli interessi “corrispettivi” si convertono automaticamente in interessi “moratori” («interessi che, dal giorno della mora debendi della stessa Amministrazione, successivo alla scadenza di sei mesi e cinque giorni, si convertono in interessi moratori, dovuti appunto sino alla data dell’effettivo pagamento»: così, ancora, Cass. S.U., n. 6312/2014 cit.).

Del resto, la Suprema Corte, già in precedenza, aveva avuto modo di chiarire che «nessuna preclusione alla attribuzione del maggior danno ex art. 1224 c.c. può derivare dall’avere la sentenza di condanna assegnato su domanda anche gli interessi legali dalla decisione al saldo» (Cass. n. 24584 del 20.11.2006).

Anche in sede normativa il nostro ordinamento si è adeguato alle numerose Direttive emanate in sede comunitaria e alla giurisprudenza nazionale appena richiamata, disciplinando in modo rigoroso i casi di ritardo nei pagamenti delle transazioni commerciali (d.lgs. n. 231/2002 e s.m.i.). Disciplina implementata appunto con l’introduzione dell’art. 7 del d.lgs. n. 192/2012 e, poi, finalmente, con l’art. 17, comma 1, del D.L. 12 settembre 2014, n. 132, convertito dalla L. 10 novembre 2014, n. 162, che ha aggiunto i commi 4 e 5 all’art. 1284 c.c.

Quindi, in disparte il dato formale che anche il processo esecutivo origina da una domanda giudiziale (e non potrebbe essere altrimenti!), dal punto di vista sostanziale è certo che anche in tale processo si pone l’importante questione delle conseguenze derivanti dal ritardo accumulato dal debitore nell’adempimento di quanto liquidato in favore del creditore nel titolo giudiziale; soprattutto in tutti i casi in cui la scarsa consistenza del saggio legale d’interesse (praticamente prossimo allo zero) finisce per premiare il debitore che non adempie, così incoraggiando disinvolte pratiche giudiziarie dilatorie (inflazionando le aule di giustizia nella certezza di non pagarne le conseguenze). Per converso, il creditore che non riceve tempestivamente quanto liquidatogli, pur risultando giudiziariamente vittorioso, finisce per pagare di tasca propria le conseguenze del ritardo vedendosi costretto a lasciare nelle casse del debitore, praticamente a costo zero, le somme già riconosciutegli giudiziariamente.

Quanto sopra dimostra chiaramente che la “questione del ritardo” si pone nel processo esecutivo negli stessi identici termini rispetto a tutti gli altri casi e che, pertanto, i ripetuti interventi degli Organi di giustizia e del Legislatore (comunitari e nazionali) non possono ritenersi estranei al processo esecutivo; in relazione a tale processo, pertanto, militano plurime e decisive ragioni a sostegno della sua necessaria inclusione nell’ambito di operatività dell’art. 1284, comma 4, c.c.

Secondo taluni, costituirebbe un limite all’applicazione generalizzata della norma la circostanza che, se il titolo da eseguire già contiene la condanna agli interessi maggiorati, l’ulteriore maggiorazione liquidabile dal G.E. porterebbe a una duplicazione.

Non vediamo il problema: infatti, se il titolo giudiziale già contiene la condanna al pagamento degli interessi commerciali “fino all’effettivo soddisfo”, il G.E. non dovrà nulla aggiungere; ma, nei casi in cui il titolo esecutivo tale condanna non contenga (titolo stragiudiziale, sentenza emanata allorché non era ancora entrata in vigore la disciplina del 2014), sarà il G.E. a provvedere, quantomeno con riferimento alla durata del processo esecutivo. Il meccanismo, insomma, risulterà simile a quello introdotto dal nuovo testo dell’art. 614 bis c.p.c. (d.lgs. n. 149/2022), per il quale la competenza del G.E. scatta se l’astreinte «non è stata richiesta nel processo di cognizione, ovvero il titolo esecutivo è diverso da un provvedimento di condanna» (comma 2).

Insomma: la strada per un’applicazione generalizzata del comma 4 dell’art. 1284 c.c. è ancora lunga, e tuttavia l’ord. qui commentata è certamente un passo in avanti verso la soluzione definitiva del problema.