La valutazione della prova tra incertezza e probabilità

Di Massimo Nardozza -

Indice-Sommario: 1. Filosofia e scienza della prova civile [1.1 Le illusioni del formalismo: interpretazione e prova nel diritto processuale. 1.2 La scienza della prova: logica dell’incerto. 1.3 Equilibrio probatorio: asimmetrie, onere della prova e obblighi di verità nel processo civile] – 2. Previsione e ragionamento probatorio [2.1 Epistemologia della previsione processuale: tra soggettività interpretativa e standard probatori. 2.2 Modelli probabilistici a confronto: limiti del frequentismo e prospettive alternative. 2.3 Il comportamento processuale delle parti e la formazione del convincimento giudiziale. 2.3.1 Il principio di collaborazione processuale come criterio normativo. 2.3.2 L’onere di contestazione specifica: implicazioni epistemologiche. 2.3.3 Le presunzioni semplici derivanti dal comportamento processuale e la loro interazione con lo standard probatorio] – 3. Soggetto, coerenza e verità processuale [3.1 Opinione e relativismo nel giudizio. 3.2 Il paradosso decisionale nel processo. 3.3 Verità o coerenza? 3.4 Differenze nella valutazione probatoria tra processo civile e processo penale] – Conclusione.

Abstract
Questo articolo indaga la valutazione della prova civile attraverso una critica strutturale ai tre paradigmi esogeni che hanno dominato il dibattito processuale: il formalismo (con la sua rigidità normativa), l’interventismo giudiziario (con la sua enfasi sulla discrezionalità) e il logicismo applicativo (con la sua fiducia nella razionalità formale). Si sostiene che questi modelli, pur offrendo strumenti utili per la ricostruzione dei fatti, presentino limiti intrinseci nel gestire l’incertezza epistemologica. Il formalismo, attraverso la prova legale e il ragionamento sillogistico, rischia di alienare il processo dalla realtà fattuale, trasformandolo in un esercizio autoreferenziale incapace di gestire la complessità della ricostruzione del fatto controverso. L’interventismo giudiziario, nel valorizzare l’attivismo del giudice, esalta una discrezionalità non sempre ancorata a criteri trasparenti, esponendosi al rischio di arbitrio. Il logicismo applicativo, pur promuovendo schemi inferenziali rigorosi (come i modelli bayesiani), rischia di affidare il ragionamento probatorio a meccanismi rigidi di traduzione dei contesti reali in parametri quantitativi astratti, derivanti dalle scelte soggettive dell’interprete nell’assegnazione di probabilità a priori. L’analisi propone un superamento di queste tensioni attraverso un modello probabilistico soggettivo, che integra l’incertezza come risorsa epistemica e fonda la valutazione della prova su criteri di coerenza narrativa, plausibilità logica e motivazione trasparente. Tale approccio non rinuncia alla razionalità, ma la riconfigura come equilibrio tra inferenze empiriche, contestualizzazione dei fatti e controllo intersoggettivo. Il lavoro evidenzia infine come il criterio della “migliore spiegazione possibile” possa conciliare esigenze di certezza giuridica e adattabilità ermeneutica, ridefinendo la prova come strumento dinamico di conoscenza processuale.

 

 

Parole-chiave
Prova civile, standard di prova, comportamento processuale, formalismo, attivismo giudiziario, logicismo applicativo, probabilismo soggettivo, approccio razionale all’incertezza, coerenza motivazionale.

1.Filosofia e scienza della prova civile

La valutazione della prova nel processo civile, tradizionalmente ancorata a principi di logica formale e parametri di certezza processuale, merita una rilettura critica attraverso la lente del probabilismo soggettivo[1]. Questo approccio epistemologico non rappresenta una semplice impostazione teoretica, ma emerge come necessaria risposta all’intrinseca incertezza degli eventi storici che il processo civile deve ricostruire. Il procedimento probatorio, infatti, non ambisce a scoprire una verità ontologica preesistente, ma piuttosto a costruire, mediante un ragionamento dinamico e contestuale, un’interpretazione coerente degli elementi di prova

La soggettività del ragionamento probatorio non costituisce un limite, ma diventa la chiave interpretativa con cui il giudice articola la propria decisione, bilanciando dati empirici e inferenze logiche. Il calcolo probabilistico soggettivo si afferma, così, come strumento epistemologico fondamentale, capace di mediare tra l’apparenza di oggettività e la complessità insita nella valutazione probatoria. Tale prospettiva affonda le radici in una tradizione filosofica che ha messo in discussione l’idea di verità assoluta, da Hume a Peirce, fino alle moderne teorie dell’epistemologia bayesiana applicata al contesto processuale. Il superamento delle certezze metafisiche, che ha alimentato molti approcci formalistici alla prova, cede progressivamente il passo a un modello che riconosce la natura inferenziale e congetturale di ogni giudizio probatorio[2].

L’analisi qui proposta mira, dunque, a delineare un modello interpretativo dinamico, in cui la ricostruzione degli eventi diventa un atto argomentativo e razionale, conferendo alla valutazione probatoria una dimensione tanto umana quanto epistemicamente rigorosa. Questo approccio consente di confrontare in modo critico le due grandi tradizioni metodologiche in materia probatoria: da un lato, il determinismo giuridico, che presuppone la certezza assoluta del diritto e della prova; dall’altro, il probabilismo, che riconosce l’inevitabile margine di incertezza e ne fa il punto di partenza per una decisione razionale e motivata[3].

Osserveremo preliminarmente come, nel contesto processuale, il giudice si trovi a dover colmare il divario tra dati empirici frammentari e ricostruzione complessiva degli eventi, operando in assenza di una verità storica accessibile in modo diretto. In tale ambito, la funzione predittiva assume un ruolo epistemologico fondamentale: il giudice elabora il thema probandum, ovvero l’ipotesi centrale da dimostrare, integrando prove, dati empirici e comportamenti delle parti per costruire una narrazione coerente. Lo standard di prova, inteso come grado di sufficienza necessario per confermare una tesi, diventa il dispositivo portante del ragionamento inferenziale, in cui il libero convincimento si trasforma in uno strumento dinamico di attribuzione di credibilità. In questo percorso, l’integrazione tra elementi probatori, valutazione ponderata e contesto normativo permette di trasformare l’incertezza in una risorsa interpretativa, andando oltre la mera applicazione di metodi quantitativi (come il frequentismo) e privilegiando un approccio ibrido che concilia rigore metodologico e sensibilità qualitativa.

Esamineremo tre paradigmi[4] fondamentali per la elaborazione del diritto processuale civile: “formalismo”, “interventismo” (o attivismo) giudiziario e “logicismo” applicativo. Questi si distinguono nel modo di fronteggiare l’incertezza del fatto, elemento centrale nella dinamica del processo. Nonostante le loro differenze, tali paradigmi condividono un quadro teorico comune: la struttura costitutiva del processo, intesa non solo come insieme di regole procedurali, ma come sistema che disciplina la relazione tra soggetti e norme, sia nella dimensione giuridica interna sia nel contesto sociale in cui il processo si realizza[5].

La metodologia che sostiene l’analisi dei paradigmi processuali indicati si fonda su un approccio dialettico e interdisciplinare, che integra l’analisi del linguaggio normativo, la riflessione storico-evolutiva e l’osservazione empirica della prassi giudiziaria. Tale impostazione consente di superare la mera descrizione delle regole processuali per cogliere le tensioni intrinseche tra norma e prassi, evidenziando come queste dicotomie possano divenire terreno fertile per ridefinire la funzione del processo civile. Questo percorso interpretativo permette di attribuire all’incertezza del fatto non solo la valenza di limite da superare, ma anche quella di elemento dinamico e costitutivo dell’attività giurisdizionale, capace di stimolare un continuo processo di adattamento e trasformazione dell’ordinamento.

Nel diritto processuale civile, l’incertezza – condizione intrinseca di ambiguità che caratterizza il fatto litigioso – non va concepita esclusivamente come lacuna da colmare, ma come dimensione strutturale che permette di modulare l’applicazione delle norme alle circostanze concrete. In quest’ottica, l’incertezza viene riconosciuta come aspetto epistemologico che impone un’interpretazione flessibile e contestualizzata delle regole processuali. Tale approccio richiede di superare la visione formalistica che tenta di eliminare ogni margine di dubbio attraverso la rigidità procedurale adottando, invece, una prospettiva in cui il grado di ambiguità, pur mantenendo un rapporto con la certezza formale, diventa criterio per modulare il procedimento istruttorio e interpretativo.

Il riconoscimento dell’incertezza come elemento costitutivo comporta una rivalutazione del ruolo del giudice, chiamato non solo ad applicare le norme, ma ad esercitare una funzione interpretativa attenta alle specificità del caso concreto. In questo contesto, il giudice deve determinare con equilibrio il livello di rigore probatorio e calibrare le misure istruttorie in relazione alla complessità fattuale e all’esigenza di una decisione equa. Questa impostazione, distante dall’applicazione acritica delle regole, mira a integrare stabilità normativa e flessibilità interpretativa, coniugando certezza del diritto e necessità di una valutazione contestualizzata del fatto litigioso. Inoltre, la funzione costitutiva dell’incertezza si manifesta nell’obbligo di gestire il conflitto tra le parti mediante un’attenta valutazione degli elementi probatori e degli argomenti presentati, evitando che l’interpretazione delle norme si riduca a mera formalità priva di efficacia sostanziale. Tale approccio, fondato sulla dialettica tra norma e prassi, giustifica l’adozione di strumenti interpretativi che, pur preservando la coerenza del sistema giuridico, consentono una risposta adeguata alle esigenze emergenti dalla complessità dei conflitti contemporanei.

La modernità processuale si caratterizza per l’abbandono di presupposti metafisici, teologici e naturalistici, e per il riconoscimento del processo come strumento autonomo di regolazione dei conflitti piuttosto che come semplice applicazione di norme prestabilite[6]. Tuttavia, la progressiva separazione tra diritto processuale e diritto sostanziale ha generato una tensione irrisolta: come garantire l’efficacia della tutela senza sacrificare le esigenze di certezza e prevedibilità? Da questa frattura sono scaturiti i tre modelli analizzati.

Il formalismo[7], esasperando il primato della regola, ha prodotto uno scollamento tra norme e prassi; l’interventismo giudiziario[8], al contrario, ha ridotto questa distanza, ponendo il giudice in una posizione di guida sostanziale del processo; il logicismo applicativo[9] si distingue per un’impostazione che enfatizza la consequenzialità logica nell’applicazione delle norme, mirando a contenere la discrezionalità interpretativa attraverso criteri formali e razionali. In questa prospettiva, l’incertezza non rappresenta un’anomalia da eliminare, ma un elemento strutturale che, se governato entro schemi logicamente coerenti, permette un dialogo costante tra regole e prassi, garantendo un processo che sia adattabile alle esigenze concrete senza sacrificare coerenza e prevedibilità[10].

La relazione tra la struttura processuale e i tre paradigmi analizzati è doppiamente asimmetrica. Il logicismo applicativo non è una semplice terza via tra formalismo e interventismo. Si configura come un modello che evita sia la rigidità normativa del primo, sia l’eccessiva discrezionalità del secondo.

Il presente saggio non si limita a descrivere questi paradigmi in modo esterno. Li analizza con un approccio logico-interpretativo, evidenziandone il potenziale trasformativo.

Il processo è una struttura in continua evoluzione. Per comprenderlo, non basta classificare i modelli esistenti: occorre ridefinirli e adattarli alle nuove esigenze della giurisdizione contemporanea.

I tre modelli, pur nella loro diversità, condividono il presupposto che il processo non sia mera tecnica, ma fenomeno istituzionale, il cui scopo non si esaurisce nella risoluzione della singola controversia, ma si estende alla costruzione della legalità e della certezza del diritto. Tuttavia, proprio l’incertezza[11] segna la linea di demarcazione tra i paradigmi: nel formalismo essa viene esasperata fino a creare una frattura tra norme e realtà; nell’interventismo giudiziario, al contrario, viene eliminata attraverso il predominio del giudice; nel logicismo applicativo, invece, viene ricondotta a schemi rigorosi di razionalità formale, concepiti per garantire un’applicazione coerente e prevedibile delle norme, senza sacrificare la necessaria adattabilità del processo.

L’obiettivo di questo saggio è duplice: analizzare criticamente i tre paradigmi e proporre una prospettiva capace di superare le rigidità tradizionali, introducendo una logica fondata su criteri di razionalità e coerenza sistematica, ma che mantenga anche margini di flessibilità interpretativa. Se formalismo e interventismo giudiziario, pur in modi opposti, tendono a irrigidire o sbilanciare il processo, il logicismo applicativo rappresenta un modello che mira a coniugare stabilità e adattamento, configurando il processo come sistema strutturato ma capace di rispondere alle esigenze della giurisdizione contemporanea.

Il rapporto tra processo e soggetti non è mai stato neutrale: ogni teoria processuale presuppone un certo equilibrio tra regole, giudici e parti, che ne condiziona l’impostazione e gli esiti. Come nel diritto sostanziale si è assistito alla progressiva crisi dei modelli fondazionalisti[12], anche il diritto processuale ha attraversato una fase di ridefinizione, evolvendo dalla rigida separazione tra norme e prassi verso una concezione più fluida della loro interazione[13]. Per lungo tempo, la teoria processuale ha oscillato tra due poli opposti: da un lato il formalismo[14], che ha vincolato il processo a schemi rigidi per garantire certezza e prevedibilità; dall’altro l’interventismo giudiziario[15], che ha enfatizzato il ruolo del giudice quale garante della giustizia sostanziale, attribuendogli un potere determinante nella conduzione del processo. Entrambi questi modelli presentano evidenti limiti: il primo rischia di sacrificare la giustizia alla rigidità delle norme, il secondo può condurre a una deriva eccessivamente discrezionale, alterando l’equilibrio tra le parti.

Solo con il superamento di queste concezioni opposte è emerso un nuovo approccio, che non oscilla tra certezza e discrezionalità, ma concepisce il processo come un sistema dinamico, in cui norme e soggetti interagiscono in modo strutturato per garantire un equilibrio tra stabilità e adattamento. In questo spazio si inserisce il logicismo applicativo, che non considera l’incertezza come un difetto da eliminare, ma come una variabile da governare entro schemi di razionalità formale.

1.1 Le illusioni del formalismo: interpretazione e prova nel diritto processuale

Il formalismo processuale, inteso come modello che riduce il processo a un mero schema procedurale e ne disattiva la dialettica, è spesso ricondotto al pensiero di Oscar von Bülow, sebbene tale associazione non sia immediata né esente da problematiche interpretative[16]. Bülow non concepiva il processo come un meccanismo privo di funzione sostanziale; tuttavia, molti giuristi successivi, ispirandosi alle sue teorie, hanno progressivamente irrigidito la procedura, trasformandola in un fine autonomo anziché in uno strumento funzionale alla tutela dei diritti[17]. In questo senso, la sua impostazione ha costituito un riferimento imprescindibile per le teorie che hanno enfatizzato una netta separazione tra procedura e diritto sostanziale contribuendo, così, alla trasformazione del processo in una sequenza prestabilita di atti, piuttosto che in un luogo di effettivo confronto tra le parti.

Questa tensione ha caratterizzato l’evoluzione del pensiero giuridico: da una parte, esistono correnti che riconoscono nel processo una funzione sostanziale volta alla tutela dei diritti[18]; dall’altra, l’eccessiva formalizzazione ha progressivamente svuotato la procedura del suo contenuto[19], riducendo il giudice a un mero esecutore delle norme e privandolo della capacità di adattare e interpretare i fatti[20]. Nei sistemi in cui il formalismo ha avuto una preponderanza maggiore, la separazione netta tra forma e contenuto ha reso il processo incapace di rispondere adeguatamente alle esigenze di giustizia sostanziale. Così, un modello nato per garantire certezza e imparzialità ha finito per configurarsi come un ostacolo alla tutela effettiva dei diritti, impedendo l’adeguamento del processo alle peculiarità delle singole controversie.

L’analisi delle implicazioni del formalismo evidenzia un dibattito articolato: da un lato, vi sono coloro che lo difendono come garanzia di certezza e imparzialità, poiché fondano il processo su norme predefinite e autonome dal merito della controversia; dall’altro, vi sono critici che lo condannano come modello rigido e autoreferenziale, poiché incapace di rispondere alle complesse esigenze di giustizia sostanziale. In quest’ottica, Bülow rappresenta il principale riferimento per una concezione del processo come sistema chiuso, in cui il rispetto rigoroso della forma – inteso come garanzia di oggettività e imparzialità – prevale sulla ricerca della verità materiale. L’assolutizzazione della forma, però, produce un paradosso: il processo, anziché essere lo strumento attraverso il quale il conflitto viene risolto, si trasforma in un sistema autoreferenziale, in cui la correttezza formale diventa condizione sufficiente per la legittimità della decisione, a scapito di un’effettiva tutela dei diritti[21].

L’ossessione per l’eliminazione dell’incertezza ha condotto a una crisi del modello formalista. Il diritto processuale, nella sua applicazione concreta, non può ridursi a un insieme astratto di regole, ma deve confrontarsi con la realtà sociale e giuridica; infatti, il rigore procedurale, quando adottato in maniera intransigente, ha prodotto esiti iniqui o contraddittori rispetto alla finalità ultima del diritto. In risposta a tale deriva, si sono sviluppate due alternative: l’interventismo giudiziario, che ha ampliato i poteri del giudice nell’accertamento dei fatti e nella determinazione del thema probandum, e il logicismo applicativo, che ambisce a un equilibrio tra stabilità e flessibilità, calibrando la procedura in base all’esperienza giuridica e alle concrete esigenze di tutela[22].

Nel formalismo estremo la procedura si esaurisce nella sua coerenza interna, eliminando la tensione dialettica tra norma e prassi. Bülow, concependo il processo come sistema autonomo, intendeva garantire l’oggettività attraverso il rigoroso rispetto delle formalità, escludendo ogni interferenza soggettiva. Tuttavia, l’accento sulla purezza formale ha trasformato il processo nel fine stesso dell’attività decisionale, allontanandolo dalla realtà concreta della controversia e annullando ogni margine di adattamento. In tale logica, la certezza dell’accertamento dei fatti è perseguita a discapito dell’effettività della decisione, facendo della giustizia un mero esercizio tecnico in cui discrezionalità e flessibilità sono viste come anomalie. Emblematica la riflessione sul ruolo delle norme di diritto sostanziale, le quali non costituirebbero regole immediatamente operative, ma rappresenterebbero, piuttosto, il “progetto” di un futuro ordinamento giuridico destinato a realizzarsi attraverso la pronuncia giudiziaria. Questa impostazione – esposta da Bülow in Gesetz und Richteramt (1885) – suggerisce che il responso giudiziale non è una mera applicazione della norma sostanziale, ma una mediazione interpretativa che attribuisce significato concreto a una fattispecie astratta.

Il problema centrale evidenziato dal giurista riguarda l’inevitabile scollamento tra il diritto sostanziale – concepito come sistema di qualificazioni astratte – e il giudizio concreto, condizionato dalla regola di giudizio. Un esempio chiarificatore è quello dell’adempimento contrattuale. Supponiamo che la norma sostanziale preveda l’obbligo di risarcimento in caso di inadempimento imputabile. Se il convenuto non riesce a provare l’assenza di colpa – magari perché gli è stato impossibile dimostrare circostanze esimenti specifiche – il giudice potrebbe condannare pur in assenza di una prova positiva dell’inadempimento colpevole. In questo caso, la sentenza sembra contraddire la norma sostanziale, che subordina la condanna alla prova dell’inadempimento colpevole. Tuttavia, secondo Bülow, tale contraddizione è solo apparente: la cosa giudicata attribuisce alla sentenza una forza normativa autonoma, che conferisce legittimità alla decisione stessa.

In questa prospettiva, il responso giudiziale si configura non come un atto di mero accertamento della norma sostanziale, ma come un atto costitutivo che integra la norma stessa con effetti innovativi. La sentenza crea, in un certo senso, un “diritto giudiziario” che supera l’apparente scollamento tra norma astratta e giudizio concreto, fondando la sua legittimità sull’efficacia della cosa giudicata. L’idea di Bülow, dunque, svela la dimensione creativa della giurisdizione, evidenziando come la certezza del diritto non possa essere concepita solo in termini di conformità alla norma astratta, ma debba riconoscere il ruolo costitutivo della decisione giudiziaria.

Questa impostazione pone, tuttavia, una questione di legittimità: se la norma sostanziale è un semplice progetto destinato a trovare attuazione nella sentenza, allora il potere del giudice appare potenzialmente illimitato, rischiando di trasformare l’attività decisionale in una fonte normativa autonoma, slegata dal diritto legislativo. Bülow sembra risolvere questo paradosso riconoscendo che la forza normativa della sentenza non risiede nella conformità formale alla norma sostanziale, ma nella capacità della pronuncia di risolvere concretamente il conflitto tra le parti e stabilire un nuovo equilibrio giuridico.

Pur riconoscendo l’esistenza di interpretazioni meno estreme del formalismo – in cui le norme assumono anche una funzione strumentale[23] – l’adozione di una impostazione rigorosamente autoreferenziale porta ad identificare in maniera indistinta la validità della norma con la correttezza procedurale, chiudendo il processo su se stesso. Di conseguenza, la prevedibilità delle decisioni, sebbene possa essere intesa come garanzia di certezza del diritto, in realtà neutralizza il conflitto e riduce l’iter processuale a un mero esercizio formale, privandolo di quella capacità interpretativa che è essenziale per la realizzazione di una giustizia sostanziale.

È fondamentale, pertanto, non ridurre il pensiero di Bülow a una mera apologia del formalismo[24]. Sebbene la sua opera abbia fornito alla scienza processuale una struttura dogmatica solida, essa ha altresì evidenziato i limiti di un modello eccessivamente rigido[25]. Nel Novecento, il formalismo è stato progressivamente superato sia attraverso l’interventismo giudiziario – che ha ampliato il ruolo del magistrato nel governo del processo – sia mediante il logicismo applicativo, volto a conciliare certezza e adattabilità attraverso una razionalizzazione dei criteri decisionali, evitando derive discrezionali e automatismi privi di flessibilità.

A tal proposito, la valutazione della prova civile ha storicamente oscillato tra due estremi concettuali: da un lato, il determinismo logico, esemplificato dal sistema della prova legale che impone regole predeterminate al giudice; dall’altro, il realismo ingenuo, che presume una corrispondenza immediata tra prova e realtà fattuale. Entrambe le posizioni incorrono in limiti strutturali: il formalismo, attraverso la prova legale e il sillogismo rigido, trascura la complessità della realtà fattuale; il realismo ingenuo, presupponendo una corrispondenza automatica tra prova e fatto, ignora la natura inferenziale e contestuale del giudizio.

Il sistema della prova legale, fondato su formule aprioristiche come l’automatica correlazione tra il carattere sfavorevole al confitente del fatto dichiarato e la veridicità della dichiarazione stessa[26], mira a garantire la verità dei fatti mediante meccanismi quasi meccanici, trascurando le variabili epistemologiche che influenzano la percezione e la narrazione degli eventi. Tale approccio richiama esplicitamente le critiche di David Hume, il quale ha evidenziato l’impossibilità di giungere a certezze assolute tramite l’induzione, sottolineando come ogni dato empirico sia intrinsecamente incerto. Al contrario, il realismo ingenuo sostiene che le prove riflettano oggettivamente la realtà, attribuendone il valore esclusivamente alla loro esistenza empirica. Tuttavia, questo approccio trascura il ruolo interpretativo del giudice, per il quale il significato probatorio emerge solo attraverso un’operazione ermeneutica. Le riflessioni di Charles Sanders Peirce e di Hans-Georg Gadamer, i quali hanno rispettivamente evidenziato l’indispensabilità del processo interpretativo e il carattere mediato della comprensione, attestano che nessuna prova sia di per sé autosufficiente: il suo significato si costituisce sempre come risultato di un’attività interpretativa che integra contesto, condizioni di produzione e variabili epistemologiche[27].

Questa critica alle posizioni formalistiche costituisce il punto di partenza per il paradigma del probabilismo soggettivo, il quale intende superare le certezze dogmatiche riconoscendo il carattere intrinsecamente incerto e congetturale del ragionamento probatorio[28].

 

1.2 La scienza della prova: logica dell’incerto

L’accentuazione dei poteri del giudice civile, fortemente ispirata dall’opera di Giuseppe Chiovenda e dallo sviluppo delle teorie di Franz Klein[29], si pone in netto contrasto con il formalismo bülowiano. Pur riconoscendo l’importanza della sistematicità processuale, Chiovenda non concepisce il processo come un meccanismo rigido e autosufficiente, ma come uno strumento dinamico, orientato a risolvere il conflitto tra le parti, nel quale il giudice svolge un ruolo attivo e centrale nell’attuazione della tutela giurisdizionale[30].

Se da un lato il formalismo riduce il processo all’applicazione di regole astratte e predeterminate, dall’altro l’interventismo giudiziario rifiuta una netta separazione tra norma e prassi. In questo modello, il giudice non si limita a verificare il rispetto formale delle regole, ma guida attivamente il procedimento, colmando le lacune lasciate dalle parti e orientando il contraddittorio verso l’accertamento della verità materiale. Tale approccio ha influenzato profondamente i sistemi processuali moderni, ampliando i poteri d’ufficio del giudice, introducendo strumenti istruttori più incisivi e rafforzando la tutela effettiva dei diritti oltre il mero confronto tra argomentazioni[31]. Tuttavia, la figura dell’onere della prova assume qui un ruolo centrale, poiché costituisce una garanzia di univocità nella ricostruzione dei fatti: l’incertezza deve essere risolta attraverso criteri chiari che evitino derive soggettivistiche[32].

Il maggior potere attribuito al giudice, allora, comporta effetti ambivalenti. Da un lato, rende il processo più flessibile e adattabile alle esigenze concrete, favorendo interpretazioni meno rigide e decisioni più aderenti alla realtà sostanziale; dall’altro, limita l’autonomia delle parti nella determinazione del thema probandum, poiché la facoltà giudiziale di integrare prove d’ufficio tende ad attenuare il principio dispositivo e la natura dialettica del processo. Questa tensione ha generato diversi orientamenti all’interno dell’interventismo giudiziario: alcuni studi cercano di contenere il ruolo del magistrato per preservare l’iniziativa privata, mentre altri ne enfatizzano la funzione di garante della giustizia sostanziale, accettando una parziale riduzione del protagonismo delle parti[33].

In questa prospettiva emerge il problema della natura formale e teorica del linguaggio precettivo-sostanziale rispetto alla concretezza del processo: se il linguaggio normativo tende a cristallizzare concetti giuridici in formule astratte, l’esperienza processuale rivela la necessità di interpretazioni dinamiche e aderenti al caso concreto.

Un ripensamento equilibrato del rapporto tra giudice, norme e parti risulta, pertanto, imprescindibile per preservare la funzione regolatrice del processo, evitando sia l’eccessivo rigore normativo del formalismo sia una giurisdizione priva di confini definiti. Il concetto di prova, in questo contesto, si carica di una duplice funzione: da un lato, costituisce uno strumento di accertamento della verità processuale; dall’altro, un mezzo di legittimazione della decisione giudiziale.

Per Chiovenda il processo rappresenta un sistema dinamico, in cui la domanda giudiziale – concepita non come una dichiarazione statica ma come il motore della trasformazione processuale – permette di adattare l’ordinamento alla concretezza della controversia[34].

La teoria processuale di Chiovenda si articola su tre dimensioni interconnesse: l’azione[35], che attiva la tutela giurisdizionale; l’accertamento, che stabilizza il rapporto giuridico traducendo la pretesa soggettiva in una decisione vincolante; e il procedimento, inteso come una struttura relazionale che integra diritto processuale ed esigenze di tutela concreta. L’onere della prova, quindi, non è solo una regola tecnica, ma il fulcro di un equilibrio delicato tra diritto sostanziale e processo, poiché mira ad evitare che l’incertezza del fatto si traduca in arbitrarietà giudiziale. Inoltre, l’adozione della metodologia probatoria stabilita dal legislatore può portare a una possibile discrepanza tra i fatti così come sono accaduti e la loro ricostruzione nel contesto giudiziario, che è funzionale alla realizzazione del delicato equilibrio tra le esigenze del diritto e quelle del processo.

L’elaborazione teorica di Klein e Chiovenda segna un passaggio decisivo nella trasformazione del processo civile, da una sequenza formalizzata di atti a un meccanismo adattabile alla complessità dei conflitti giuridici. Il logicismo applicativo, infatti, si distingue per il superamento della rigida separazione tra norma e applicazione, armonizzando stabilità e flessibilità senza dissolvere il processo in arbitrio giudiziario. A completare questa visione, il contributo di Carnelutti si caratterizza per aver evidenziato la natura trasformativa del processo. La sua riflessione sottolinea come il confronto dialettico tra le parti non rappresenti un limite, ma la condizione essenziale per l’emersione di una verità processuale, costruita attraverso la verifica dei fatti e l’interpretazione critica delle norme[36]. In questa prospettiva, la visione carneluttiana integra l’approccio chiovendiano, offrendo una prospettiva che bilancia la certezza normativa con la necessità di adattamento alle situazioni contingenti[37].

Carnelutti evidenzia come l’accertamento dei fatti nel processo si realizzi tramite un complesso procedimento che comprende la verificazione del giudizio[38], la fissazione del fatto controverso[39] e l’analisi delle allegazioni delle parti[40]. Questi elementi, pur distinti, colgono diversi aspetti della realtà processuale: il profilo conoscitivo, la rilevanza giuridica e le dinamiche contrastanti tipiche di ogni vicenda giudiziaria. In questo senso, l’accertamento del fatto diventa non solo una questione tecnica, ma un problema epistemologico, legato alla capacità del giudice di valutare criticamente le prove senza cadere nell’astrazione del formalismo.

Satta, dal canto suo, critica l’astrattezza della scienza processuale, evidenziando la necessità di un approccio più concreto e umano al giudizio. La sua riflessione, sviluppata in un contesto di profonda crisi della scienza processuale, si pone in netta antitesi non solo rispetto al formalismo dominante, ma anche ad alcuni aspetti dell’interventismo giudiziario e del logicismo applicativo[41]. Satta percepiva una frattura tra la teoria processuale – irrigidita in una concettualizzazione astratta e autoreferenziale – e la realtà viva del processo.

L’eredità di Satta, come egli stesso ammette autocriticamente, appare ambivalente. Da un lato, la sua critica all’astrazione del formalismo contribuisce a valorizzare l’aspetto concreto del giudizio, dall’altro solleva interrogativi sulla controllabilità del potere giudiziario, rischiando di aprire la strada a derive soggettivistiche. Tuttavia, il contributo di Satta rimane fondamentale per comprendere le tensioni e le contraddizioni che attraversano il diritto processuale civile contemporaneo. La sua riflessione sull’unità inscindibile di norma e fatto e sulla funzione creativa del giudice anticipa, per certi versi, temi centrali del dibattito attuale sulla valutazione della prova e, in particolare, sul probabilismo soggettivo. L’idea che la verità processuale sia una costruzione interpretativa, piuttosto che una realtà oggettiva da accertare, risponde all’esigenza di un processo che, pur rispettando la legalità formale, non rinunci alla concretezza della giustizia sostanziale.

Con l’introduzione della libera valutazione delle prove (art. 116 c.p.c.), il sistema probatorio abbraccia quella che possiamo definire la “logica dell’incerto”. In tale prospettiva, l’accertamento giudiziale non mira a dimostrare la verità in senso assoluto, ma a formulare conclusioni logicamente coerenti con le premesse e con gli elementi probatori disponibili, in un contesto caratterizzato da informazioni incomplete e suscettibili di errore[42]. A differenza del metodo sperimentale delle scienze naturali, dove la ripetibilità degli esperimenti permette una validazione oggettiva dei dati, la prova nel processo civile è un evento unico e irripetibile. La storicità e la specificità del fatto probatorio impongono al giudice di fondare la propria decisione sulla coerenza interna del ragionamento inferenziale, accettando un margine di incertezza che, lungi dall’essere un limite, si traduce in una valutazione ragionevole e plausibile[43].

In definitiva, la logica dell’incertezza valorizza la soggettività del giudice come risorsa fondamentale per orientarsi nell’ambiguità, senza mai rinunciare alla razionalità argomentativa e alla coerenza decisionale. Questo approccio rappresenta una svolta epistemologica nella scienza della prova, capace di combinare la certezza normativa con l’adattabilità necessaria per affrontare la complessità delle controversie reali[44].

 

1.3 Equilibrio probatorio: asimmetrie, onere della prova e obblighi di verità nel processo civile

La regola formale dell’onere della prova, se intesa in senso stretto – l’attore deve dimostrare i fatti costitutivi del proprio diritto (art. 2697 c.c.) – si rivela insensibile alle asimmetrie esistenti tra le parti, non tenendo conto delle diversità in termini di risorse economiche e capacità di accesso privilegiato alle informazioni. Tale rigidità, tipica di un approccio formalistico, viene in parte compensata sul piano del diritto sostanziale, stabilendosi criteri diversificati di riparto degli oneri probatori, al fine di riequilibrare il rischio processuale. In questo contesto, l’apprezzamento dello sforzo sostenuto dalle parti per produrre le prove e l’interazione strategica tra di esse possono costituire elementi determinanti ai fini del convincimento del giudice. In particolare, il principio “nemo tenetur edere contra se” tende a favorire la parte che non ha adempiuto al proprio obbligo probatorio, in quanto il processo si basa su due meccanismi: da un lato, l’acquisizione delle prove[45] tramite la combinazione delle affermazioni contrapposte, e dall’altro, il contegno processuale delle parti, comprensivo anche del silenzio o dell’incapacità di produrre prova.

Nei sistemi di common law, le regole probatorie attribuiscono alle parti un ruolo preminente nella formazione del materiale probatorio. L’imposizione di regole vincolanti, quali la disclosure obbligatoria, riduce l’intervento discrezionale del giudice, ponendo l’enfasi sulla trasparenza e sulla partecipazione attiva delle parti nella raccolta e presentazione delle prove. Tale approccio, fondato su principi procedurali rigorosi, si configura come un modello che limita l’arbitrio giudiziario e rafforza il controllo sulla produzione della prova. Nei sistemi di civil law, invece, la valutazione probatoria presenta due dimensioni distintive. Da un lato, consente al giudice, al termine dell’istruttoria, di esprimere un giudizio complessivo sull’attendibilità e sulla rilevanza delle evidenze per l’accertamento della verità sostanziale; dall’altro, concerne le valutazioni preliminari su questioni interlocutorie, finalizzate ad accertare se sussistano elementi sufficienti a giustificare il prosieguo dell’iter processuale. Questa duplice struttura riflette substrati ideologici e assiologici differenti, nei quali la discrezionalità giudiziaria assume una funzione interpretativa che, pur garantendo la flessibilità necessaria per una valutazione complessiva delle prove richiede, altresì, un attento bilanciamento con i principi dispositivi del processo.

Un esempio emblematico si riscontra nel processo del lavoro, dove l’art. 420 c.p.c. attribuisce un rilievo probatorio maggiore al comportamento delle parti, evidenziando la differenza tra la gestione operativa del procedimento e la valutazione finale della controversia. Il paradigma del probabilismo soggettivo riconosce che le asimmetrie probatorie non rappresentano semplici anomalie procedurali, ma elementi imprescindibili da integrare nel calcolo dei gradi di credenza. Il giudice, infatti, deve esaminare non solo il valore intrinseco delle evidenze, ma anche il contesto della loro produzione e il comportamento processuale delle parti. In tale ottica, il comportamento assume una duplice funzione: da un lato, “ai fini del giudizio” si intende l’analisi dell’andamento complessivo del procedimento – per esempio, il rifiuto ingiustificato di collaborare o l’assenza di adesione a proposte di conciliazione, che indicano un impegno processuale carente; dall’altro, “ai fini della decisione” la condotta diviene parte integrante del substrato probatorio, influenzando direttamente il convincimento sul merito[46].

Parallelamente, permangono elementi di formalismo, attivismo giudiziario e logicismo applicativo. La rigidità originaria dell’impianto codicistico, espressa ad esempio dall’art. 210 c.p.c., mirava a contenere l’impatto del comportamento delle parti, ma successive riforme – come quelle introdotte dalla riforma Cartabia – hanno ampliato i poteri istruttori del giudice, consentendogli di sanzionare inadempienze e di desumere argomenti probatori ai sensi dell’art. 116, comma 2, c.p.c. Il logicismo applicativo ha contribuito a trasformare indizi e argomentazioni in mezzi probatori autonomi, estendendo l’applicazione delle presunzioni ex art. 2729 c.c. e ammettendo fonti non tipizzate – quali documenti informatici, contenuti dei social network, trascrizioni di SMS e registrazioni audiovisive – purché ottenuti lecitamente e valutati con prudenza[47].

Un ulteriore elemento di riflessione è rappresentato dalla necessità di individuare criteri oggettivi per l’allocazione del rischio di incertezza probatoria, in situazioni caratterizzate da uno squilibrio conoscitivo – soprattutto in relazione a fatti negativi, come il mancato adempimento – laddove il mero rispetto delle categorie tradizionali non è sufficiente, e occorre una valutazione attenta delle circostanze fattuali e della condotta processuale[48]. Tale prospettiva si integra con il principio della vicinanza della prova, il quale mira ad assegnare l’onere al soggetto in grado di accedere più facilmente alle informazioni rilevanti. Tuttavia, l’applicazione di questo principio comporta il rischio che un intervento troppo invasivo del giudice possa alterare l’equilibrio del contraddittorio e l’autonomia delle parti, dato che la vicinanza della prova opera come criterio eccezionale e discrezionale[49].

Il diritto processuale civile tedesco offre ulteriori spunti di approfondimento in materia di comportamento processuale e dovere di collaborazione. La dottrina tedesca – con riferimenti classici in K. Hellwig, F. Lent e R. Stürner[50] – ha, infatti, evidenziato come la parte convenuta abbia l’obbligo di esibire i documenti, bilanciando il principio “nemo tenetur edere contra se” con l’esigenza di acquisizione delle prove indispensabili. In particolare, il § 286 ZPO integra il contenuto della trattazione processuale agli esiti dell’istruttoria, elevando l’importanza del comportamento delle parti a un livello paragonabile a quello delle evidenze raccolte. Tale approccio sottolinea la necessità di linee guida oggettive in grado di limitare l’arbitrarietà nella valutazione delle massime d’esperienza, riducendo il rischio di decisioni eccessivamente soggettive e promuovendo un ragionamento probatorio trasparente e uniforme.

Infine, il principio dell’obbligo di verità e completezza – fondato sul divieto di menzogna (Lügenverbot), sull’obbligo di completezza (Vollständigkeitspflicht) e sull’obbligo di chiarificazione (Aufklärungspflicht)[51] – impone ulteriori vincoli per garantire trasparenza e lealtà processuale, prevenendo condotte dilatorie o manipolative e preservando la parità delle armi. Ad esempio, l’ordine di esibizione, disciplinato dall’art. 210 c.p.c., deve essere applicato in conformità ai principi di proporzionalità e vicinanza della prova, evitando di trasformarsi in uno strumento esplorativo che violi diritti fondamentali quali la riservatezza.

In sintesi, il paradigma del probabilismo soggettivo richiede un approccio integrato, in cui il giudice, nel calcolo dei gradi di credenza, consideri non solo il valore intrinseco delle evidenze, ma anche il contesto della loro produzione e il comportamento processuale delle parti. Questa integrazione trasforma l’incertezza derivante dalle asimmetrie probatorie in un elemento costruttivo, bilanciando il rispetto del principio dispositivo con la necessità di un accertamento sostanziale dei fatti, e garantendo una decisione equa e coerente nel processo civile.

2.Previsione e ragionamento probatorio

Il giudice, in quanto interprete dei dati probatori, opera all’interno di un orizzonte storico-culturale che inevitabilmente plasma il suo libero convincimento; l’esperienza consolidata e le intuizioni soggettive si fondono per formare un giudizio che, pur riconoscendo l’impossibilità di accedere a verità assolute, mira a stabilire una “verità processuale” quale grado di approssimazione logicamente sostenibile. La giurisdizione, infatti, non è un potere fine a sé stesso, bensì un’attività interpretativa e fondativa, capace di tradurre la norma astratta in una decisione operativa; il processo non deve essere inteso come una struttura rigida e preordinata, ma come un sistema flessibile in grado di rispondere ai mutamenti sociali e normativi senza perdere rigore logico: la fondatezza della pretesa emerge dal confronto tra le parti e dalla loro interazione con la norma. Tale prospettiva consente di superare l’antitesi tra formalismo e interventismo giudiziario, poiché riconosce che il ragionamento decisionale non si limita a un’applicazione meccanica di norme, ma si configura come un percorso inferenziale complesso e dinamico, in cui il giudice integra elementi empirici, valutazioni interpretative e discrezionalità. Tuttavia, l’adozione di un relativismo epistemologico comporta il rischio di una discrezionalità eccessiva, tanto che il paradosso decisionale si manifesta quando lo stesso insieme probatorio, interpretato isolatamente, appare suscettibile di supportare conclusioni contraddittorie; in tali circostanze, il giudice deve esplicitare il percorso inferenziale adottato, illustrando come le evidenze ambigue siano state contestualizzate e integrate in una narrazione coerente.

Un confronto critico tra le teorie della verità – quella della corrispondenza, quella della coerenza e quella pragmatica – suggerisce che il criterio della coerenza possa fungere da fondamento normativo per una decisione equa e logicamente fondata, pur senza raggiungere certezze assolute. A questo si aggiunge l’evoluzione della teoria della prova nel processo civile, che evidenzia un progressivo affinamento degli strumenti epistemici e l’emergere del criterio di plausibilità come paradigma interpretativo centrale; questo criterio, infatti, sintetizza un percorso epistemologico che abbandona l’illusione della certezza assoluta e supera il modello riduttivo della catena di sillogismi, integrando ragionamenti deduttivi, induttivi e abduttivi per affrontare l’incompletezza del quadro probatorio. La motivazione in fatto della sentenza, pertanto, deve rendere esplicito il percorso inferenziale seguito, illustrando i criteri usati per valutare la plausibilità delle ricostruzioni e giustificare la scelta da preferirsi rispetto alle alternative, garantendo trasparenza e controllabilità della decisione. In questo contesto, l’attività giudiziale si configura come un laboratorio dinamico in cui il giudice, mediatore tra principi astratti ed esigenze concrete, traduce il conflitto in certezza giuridica, bilanciando l’esigenza di stabilità normativa con la necessità di adattamento al contesto e rispondendo alle nuove istanze sociali e giuridiche.

In questa prospettiva, assume particolare rilievo l’analisi critica del modello elaborato da Michele Taruffo fondato sulla “migliore spiegazione possibile” (inference to the best explanation), che propone un’alternativa epistemologica tanto al deduttivismo logico-formale quanto al probabilismo matematico[52].

Secondo Taruffo il giudice opera selezionando, tra le diverse narrazioni dei fatti proposte dalle parti, quella che meglio spiega la totalità degli elementi probatori disponibili. Questo approccio abduttivo si distingue dal probabilismo statistico poiché non si limita a calcolare la frequenza di un evento o la sua probabilità matematica, ma valuta la capacità esplicativa complessiva di un’ipotesi rispetto alle evidenze acquisite. La preferenza accordata a un’ipotesi deriverebbe dalla sua maggiore coerenza interna, completezza e semplicità esplicativa.

Il confronto tra questo modello e il probabilismo soggettivo rivela tanto convergenze quanto tensioni significative. Da un lato, entrambi gli approcci riconoscono la natura interpretativa e contestualizzata della decisione giudiziale, superando l’illusione di una verità processuale oggettiva e indipendente dall’interprete[53]. Dall’altro, emergono differenze metodologiche sostanziali: mentre il probabilismo soggettivo enfatizza la dimensione valutativa e la necessità di bilanciare le probabilità soggettive alla luce dell’esperienza, il modello della migliore spiegazione attribuisce maggior peso alla dimensione esplicativa e alla coerenza narrativa.

La compatibilità tra questi approcci può essere rintracciata nella loro comune critica al formalismo deduttivo e nella condivisa attenzione al contesto interpretativo. Tuttavia, il modello taruffiano rischia di sottovalutare la componente valutativa ineliminabile del giudizio probatorio, presentando talvolta l’individuazione della “migliore spiegazione” come un’operazione quasi automatica, guidata da criteri oggettivi di coerenza e completezza. Il probabilismo soggettivo, riconoscendo esplicitamente la centralità del momento valutativo, offre, invece, una rappresentazione più realistica della complessità del ragionamento probatorio, in cui la selezione delle ipotesi non è mai completamente determinata dai criteri formali di coerenza, ma implica sempre scelte interpretative influenzate dall’orizzonte culturale e valoriale del giudice.

Una possibile sintesi tra questi approcci potrebbe individuarsi nel riconoscimento che la “migliore spiegazione” non è tale in assoluto, ma relativamente a un contesto interpretativo specifico e a un determinato standard probatorio. In questa prospettiva, il criterio della coerenza narrativa si integrerebbe con quello della probabilità soggettiva, offrendo un modello epistemologico che, pur senza pretendere di eliminare l’incertezza, fornisce strumenti concettuali adeguati per gestirla in modo razionale e giuridicamente fondato.

2.1 Epistemologia della previsione processuale: tra soggettività interpretativa e standard probatori

Nel processo civile, l’attività di valutazione probatoria si configura come un esercizio epistemologico complesso, nel quale il giudice, confrontandosi con un quadro inevitabilmente frammentario di elementi, elabora ipotesi che collegano in modo logico-argomentativo le evidenze acquisite alle conclusioni da trarre. Tale operazione trascende la dicotomia tra oggettività e soggettività, collocandosi piuttosto in una dimensione ermeneutica in cui l’incertezza viene riconosciuta come componente epistemologica strutturale e non come mero limite da superare[54]. Il giudice, operando in un contesto probatorio intrinsecamente ambiguo e incompleto, deve necessariamente anticipare scenari, valutare probabilità e inferire conseguenze partendo da evidenze parziali. La soggettività interpretativa del giudicante – pur vincolata a parametri di rigore argomentativo e autocontrollo critico – diviene strumento conoscitivo essenziale, permettendo di affrontare l’incertezza, contestualizzare le prove, integrare dati eterogenei e formulare ipotesi plausibili laddove l’applicazione di modelli quantitativi o regole predeterminate risulterebbe inadeguata. Il libero convincimento si configura, pertanto, non come arbitrio decisionale, ma come metodo di razionalità pratica che consente al giudice di orientare la decisione nella complessità del reale, mediando tra incompletezza informativa ed esigenza di giustizia sostanziale.

Il concetto di standard di prova assume, in questo contesto, un ruolo cardine, configurandosi non soltanto come soglia quantitativa di sufficienza probatoria, ma come dispositivo interpretativo che orienta l’intero percorso inferenziale. Un’analisi approfondita rivela come tale standard non sia monolitico, ma si moduli in relazione alla natura dei diritti in gioco e alle diverse concezioni del rischio di errore accettabile nei vari ambiti del diritto civile.

Nel sistema italiano, tradizionalmente ancorato al principio del “più probabile che non” (preponderance of evidence), si assiste a una progressiva differenziazione degli standard probatori in relazione alla tipologia di controversia. Nei giudizi di responsabilità contrattuale ordinaria, lo standard della probabilità preponderante rappresenta la soglia minima di convincimento richiesta al giudice. Tale criterio, espressione del principio di parità delle parti, riflette una concezione equilibrata del rischio di errore, in cui la possibilità di decisioni erronee è distribuita equamente tra attore e convenuto.

Diversamente, in ambiti caratterizzati da interessi particolarmente sensibili – come il diritto di famiglia o le controversie sui diritti fondamentali – emerge uno standard probatorio rafforzato, assimilabile alla “prova chiara e convincente” (clear and convincing evidence) di derivazione anglosassone. La giurisprudenza di legittimità ha progressivamente riconosciuto questa differenziazione richiedendo, in controversie riguardanti lo status delle persone, un accertamento particolarmente rigoroso e approfondito e un grado di convincimento del giudice più solido e fondato su elementi probatori univoci e convergenti, pur senza utilizzare espressamente la formula di uno standard “particolarmente elevato”. Questo standard intermedio, collocato tra la probabilità preponderante e la prova oltre ogni ragionevole dubbio, riflette una diversa concezione del rischio di errore accettabile, in cui la tutela di interessi fondamentali giustifica un’asimmetria nella distribuzione del rischio decisionale[55].

Un ulteriore innalzamento dello standard si riscontra in specifici settori, come quello delle sanzioni amministrative con carattere punitivo (cd. amministrative-penali secondo la giurisprudenza CEDU[56]), dove la giurisprudenza più recente tende ad applicare, per estensione analogica e in ragione della sostanziale afflittività e gravità di tali sanzioni, un criterio probatorio comparabile con l’“oltre ogni ragionevole dubbio” proprio del processo penale, pur non identificandosi pienamente con esso. La Cassazione Civile, Sez. II, 15 giugno 2020, n. 11481 ha esplicitamente riconosciuto che, in tali contesti – relativi a sanzioni amministrative sostanzialmente penali come quelle irrogate dalla Banca d’Italia in materia finanziaria – il convincimento del giudice deve raggiungere un grado di certezza comparabile con quello richiesto per la condanna penale, esigendo un rigore probatorio e una prova resistente alle contrarie evenienze che superi la soglia della mera probabilità preponderante. Questa modulazione “valoriale” degli standard probatori riflette la consapevolezza che il rischio di errore non è epistemologicamente neutro, ma implica scelte di valore circa la distribuzione delle conseguenze dell’incertezza. La differenziazione degli standard non rappresenta, dunque, una mera tecnica processuale, ma esprime una precisa concezione di giustizia distributiva applicata all’incertezza probatoria: nei contesti in cui la posta in gioco è particolarmente elevata – in termini di diritti fondamentali o conseguenze sanzionatorie sostanzialmente penali – l’ordinamento privilegia la minimizzazione del rischio di falsi positivi (decisioni erronee a sfavore del soggetto sanzionato) accettando, di conseguenza, un maggior rischio di falsi negativi (mancata irrogazione di sanzioni dovute), in ossequio a un principio di tutela rafforzata dei diritti individuali di fronte al potere punitivo dello Stato.

In questa prospettiva, lo standard probatorio si configura come strumento di allocazione del rischio decisionale, che realizza un bilanciamento tra valori potenzialmente confliggenti: da un lato l’esigenza di corretto accertamento dei fatti rilevanti, dall’altro la tutela di interessi giuridici di particolare rilevanza. Tale concezione dinamica e contestualizzata dello standard di prova rispecchia la natura essenzialmente valutativa del giudizio probatorio, confermando che la valutazione della fondatezza della pretesa azionata non è un’operazione neutrale, ma implica sempre scelte valoriali circa il grado di certezza ritenuto sufficiente nei diversi contesti giuridici.

In virtù del principio del libero convincimento, il giudice integra elementi empirici, inferenziali ed esperienziali, configurando il proprio giudizio non come scoperta di una verità preesistente, ma come costruzione di una narrazione coerente che, pur ammettendo incertezze residue, garantisce congruità decisionale. La soggettività interpretativa – lungi dall’essere semplicemente un rischio di arbitrarietà – si trasforma in una risorsa epistemologica essenziale, poiché consente di contestualizzare le prove, valutandone non soltanto il valore intrinseco, ma anche le modalità di produzione, il contesto processuale e le dinamiche interattive fra le parti.

In questa prospettiva, assume particolare rilevanza il concetto di “precomprensione” elaborato dalla filosofia ermeneutica di Hans-Georg Gadamer, che offre strumenti teorici preziosi per comprendere la natura interpretativa della valutazione probatoria. Secondo Gadamer, ogni atto interpretativo – inclusa la valutazione giudiziaria delle prove – si colloca necessariamente all’interno di un “circolo ermeneutico” in cui l’interprete si avvicina al testo (o, nel nostro caso, al materiale probatorio) già munito di un orizzonte preliminare di significato, che inevitabilmente orienta la sua comprensione. Questa precomprensione, lungi dall’essere un pregiudizio eliminabile attraverso un distacco oggettivo, impossibile da realizzare, costituisce la condizione stessa di possibilità dell’interpretazione. Il giudice, confrontandosi con il materiale probatorio, non opera come tabula rasa, ma attinge a un patrimonio di conoscenze, esperienze e categorie concettuali che strutturano preliminarmente il suo approccio ai fatti. Tale strutturazione preliminare non è né arbitraria né soggettiva in senso relativistico, poiché si radica in una tradizione giuridica condivisa e in un orizzonte intersoggettivo di pratiche interpretative.

Nel contesto della valutazione probatoria, la precomprensione gadameriana si manifesta sotto diversi aspetti. In primo luogo, nella selezione delle massime di esperienza utilizzate per interpretare gli indizi: il giudice attinge a un patrimonio di regolarità empiriche che riflettono non solo conoscenze scientifiche validate, ma anche l’esperienza consolidata della comunità giuridica a cui appartiene. Le massime di esperienza non sono mai neutrali o oggettive, ma riflettono una precomprensione strutturata dalla formazione professionale e culturale dell’interprete.

In secondo luogo, la precomprensione opera nella configurazione dello standard probatorio applicabile: il giudice, ancor prima di valutare le singole prove, ha già elaborato una comprensione preliminare della tipologia di controversia e del grado di certezza richiesto. Tale precomprensione, pur non essendo esplicitamente tematizzata, orienta in modo decisivo l’intero percorso valutativo.

Infine, la precomprensione influenza la stessa percezione dei fatti, selezionando ciò che il giudice considera rilevante o irrilevante nel materiale probatorio. Come osserva Gadamer, “comprendere non significa prima comprendere e poi interpretare, ma comprendere è sempre già interpretare”[57]. Applicata al contesto probatorio, questa intuizione suggerisce che la distinzione netta tra fase percettiva e fase valutativa è artificiale: non è corretto affermare che il giudice prima percepisca i fatti in modo neutrale e poi li interpreti, perché la sua stessa percezione è già indirizzata da categorie interpretative preesistenti.

Riconoscere il ruolo della precomprensione nella valutazione probatoria non significa arrendersi a un relativismo soggettivistico, nel quale ogni interpretazione sarebbe ugualmente valida. Al contrario, la consapevolezza della dimensione ermeneutica del giudizio probatorio può rafforzarne il rigore metodologico, invitando il giudice a un processo costante di revisione riflessiva delle proprie precomprensioni alla luce delle evidenze emergenti. Come sostiene Gadamer, l’interprete deve mantenere un’apertura al testo (o alle prove) che gli consenta di mettere in discussione le proprie anticipazioni di senso, in un processo circolare di progressivo affinamento della comprensione.

In questa prospettiva, la motivazione della sentenza acquista un significato nuovo: non semplice giustificazione ex post di una decisione già presa, ma esplicitazione del percorso circolare attraverso cui il giudice ha progressivamente affinato la propria comprensione dei fatti, confrontando le precomprensioni iniziali con le evidenze emergenti. La trasparenza argomentativa diventa, così, non solo garanzia di controllabilità esterna, ma anche strumento interno di autocontrollo ermeneutico, in grado di favorire la consapevolezza critica delle precomprensioni implicite nel giudizio probatorio[58].

La “verità processuale” emerge, così, come il risultato di un bilanciamento dinamico tra dati probatori, inferenze e principi normativi, in cui il giudizio non si riduce a una mera aggregazione di elementi oggettivi, ma si costruisce in un discorso decisionale che riconosce e valorizza le sfumature qualitative del caso concreto. L’atto interpretativo del giudice – fondato su una valutazione soggettiva ma rigorosamente argomentata – trasforma l’incertezza in uno strumento euristico e procedurale, facendo sì che il processo decisionale assuma la forma di una costruzione contestualizzata della “verità processuale”, che, pur non potendo rivendicare un’oggettività assoluta, si presenta come logicamente coerente e giuridicamente sostenibile[59].

Tale approccio riconosce che l’attività di valutazione probatoria non mira tanto alla ricostruzione esatta di una realtà storica inaccessibile, quanto alla costruzione di un significato giuridico plausibile e coerente. In questa prospettiva, lo standard di prova diventa un criterio di ragionevolezza argomentativa piuttosto che un parametro quantitativo, e la soggettività del giudice, anziché ostacolo alla verità, si configura come lo strumento attraverso cui il materiale probatorio frammentario acquisisce coerenza narrativa e rilevanza giuridica.

2.2 Modelli probabilistici a confronto: limiti del frequentismo e prospettive alternative

Il modello frequentista, pur offrendo strumenti rigorosi per la generalizzazione statistica in ambiti empirici omogenei, risulta inadeguato nell’analisi dei fatti processuali, che per loro natura sono eventi singolari e irripetibili. L’applicazione acritica di metodi quantitativi tende, infatti, a omologare situazioni processuali eterogenee, riducendo la complessità interpretativa a mere frequenze e medie aritmetiche. Tale approccio, limitato dalla sua natura aggregativa, rischia di oscurare le sfumature qualitativamente determinanti, ignorando variabili contestuali e dinamiche relazionali intrinseche al tessuto processuale[60].

La critica al frequentismo si articola su due livelli: quello epistemologico, che ne contesta l’adeguatezza concettuale rispetto alla natura degli eventi processuali, e quello applicativo, che ne rileva l’insufficienza pragmatica. A quest’analisi si aggiunge un’ulteriore aspetto, legato ai limiti cognitivi che caratterizzano l’applicazione di modelli probabilistici al ragionamento giudiziario, tra cui emerge, con particolare evidenza, la cosiddetta “fallacia della probabilità di base”. Questo errore cognitivo, ampiamente documentato nella letteratura psicologica, consiste nella tendenza a trascurare le probabilità a priori (o tassi di base) a favore di informazioni specifiche ma potenzialmente fuorvianti[61]. Nel contesto processuale, la base rate fallacy si manifesta quando il giudizio, confrontato con evidenze statistiche generali e informazioni specifiche sul caso concreto, attribuisce un peso eccessivo a queste ultime, sottovalutando il significato probabilistico delle frequenze di base.

Un esempio paradigmatico, risalente nel tempo ma ancora illuminante per la sua chiarezza concettuale, si rinviene nella giurisprudenza di legittimità in materia di accertamento della filiazione naturale. La sentenza della Cassazione Civile, Sez. I, 11 dicembre 1980 n. 6400, costituisce una pronuncia pioneristica, che anticipa di decenni il dibattito attuale sull’applicazione del teorema di Bayes al ragionamento giudiziario[62]. La Corte, nel riconoscere l’ammissibilità di indagini tecnico-scientifiche (sulla base dei caratteri genetici rilevabili con indagini ematologiche e immunogenetiche) ai fini dell’accertamento del rapporto biologico di paternità o maternità naturale, pur sottolineando la necessità di una valutazione integrata che tenesse conto sia delle probabilità probative derivanti da riscontri tecnico-oggettivi (valutati nel loro insieme secondo metodi offerti dalla scienza, e in particolare attraverso l’applicazione del teorema di Bayes), sia degli elementi extra-scientifici previamente acquisiti attraverso prove testimoniali o documentali, in tale pronuncia evidenziava come le “probabilità probative” derivanti da indagini genetiche, pur raggiungendo un “elevato grado di probabilità”, restino “da sole insufficienti a fornire la certezza, in quanto presentano ancora margini di errore”, e pertanto devono essere utilizzate “per corroborare gli elementi extra-scientifici previamente acquisiti, nel procedimento selettivo del soggetto responsabile per la conseguente formazione del convincimento definitivo del giudice, con la sintesi finale dei dati raccolti”.

Tale pronuncia pioneristica, pur risalendo agli anni Ottanta del secolo scorso, evidenzia una precoce consapevolezza dei limiti di un’applicazione acritica del bayesianesimo al contesto processuale, sottolineando la necessità di integrare i dati quantitativi con una valutazione qualitativa e contestuale del materiale probatorio.

L’applicazione concreta dei principi che governano la prova scientifica nel processo civile può essere efficacemente illustrata attraverso l’analisi di un caso di responsabilità per danni da esposizione all’amianto, che evidenzia come le coordinate epistemologiche precedentemente delineate orientino il giudice nella valutazione della fondatezza della pretesa attorea o della difesa del convenuto.

In una recente sentenza (Cass. civ., sez. lav., 26 gennaio 2023, n. 2393), la Corte di Cassazione ha affrontato il caso degli eredi di un lavoratore deceduto per mesotelioma pleurico, che avevano richiesto il risarcimento dei danni al datore di lavoro per violazione degli obblighi di protezione ex art. 2087 c.c. La vicenda ha messo in luce la complessa interazione tra evidenze scientifiche e valutazioni giuridiche, evidenziando come il ragionamento probatorio debba confrontarsi con l’incertezza propria della causalità medico-epidemiologica.

La Corte ha ribadito la distinzione tra il criterio del “più probabile che non” applicabile nel processo civile e quello della prova “oltre il ragionevole dubbio” richiesto nel processo penale (cfr. Cass. n. 15453/2011; Cass. Sez. Un. n. 576/2008). Nel caso concreto, è stato ritenuto adeguatamente dimostrato il nesso causale tra l’esposizione alle polveri di amianto e l’insorgenza della patologia letale, nonostante un periodo di latenza inferiore a quello statisticamente determinato. Questo approccio sottolinea l’importanza di un ragionamento probabilistico che tenga conto delle peculiarità del caso concreto e delle conoscenze scientifiche disponibili all’epoca dei fatti.

Di particolare rilievo è l’accertamento della conoscenza delle proprietà cancerogene dell’amianto già dagli anni ’50, consolidata negli anni ’80, che ha permesso di configurare la responsabilità omissiva del datore di lavoro sulla base dell’obbligo di protezione. Un aspetto metodologicamente rilevante riguarda il trattamento delle ipotesi causali alternative. La Corte ha ritenuto decisive l’assenza di prove concrete circa i rischi connessi alla pregressa attività lavorativa del lavoratore e l’irrilevanza del breve periodo di esposizione durante il servizio militare. Questo approccio evidenzia come il criterio del “più probabile che non” operi attraverso una valutazione comparativa delle diverse ipotesi causali, laddove il giudice è chiamato a stabilire quale tra esse sia concretamente più probabile in relazione alle altre (Cass. n. 19033/2021).

La sentenza mette in luce anche il ruolo del giudizio controfattuale nella causalità omissiva, verificando se il danno si sarebbe evitato con l’adozione tempestiva delle misure preventive richieste dalle conoscenze scientifiche dell’epoca (cfr. Cass. n. 23197/2018; Cass. n. 24073/2017). In sintesi, la decisione dimostra come l’integrazione della prova scientifica nel ragionamento giuridico richieda al giudice di bilanciare rigore metodologico e sensibilità al caso concreto, evitando sia un acritico affidamento sia un immotivato rifiuto del dato scientifico.

In tale prospettiva, la ricerca di modelli alternativi al frequentismo si configura come un’esigenza epistemologica e metodologica imprescindibile per il diritto processuale civile contemporaneo. Un approccio piú promettente potrebbe consistere nell’integrazione del bayesianesimo con modelli qualitativi che, pur mantenendo il rigore concettuale dell’aggiornamento probabilistico, riducano la necessità di quantificazioni precise e controintuitive. Modelli come il belief update qualitativo o le reti bayesiane qualitative offrono strumenti concettuali che, pur senza eliminare completamente i rischi di distorsione cognitiva, possono mitigarne l’impatto sul ragionamento probatorio, preservando la struttura logica dell’inferenza bayesiana senza pretendere un irrealistico rigore quantitativo.

Tali limiti dei modelli frequentisti e quantitativi emergono con particolare evidenza nella valutazione della prova scientifica in ambito processuale. In contesti come il contenzioso medico-legale, le cause di responsabilità da prodotti difettosi o i danni ambientali, la prova scientifica assume un ruolo cruciale, ma la sua valutazione non può ridursi a una mera applicazione di frequenze statistiche o probabilità aggregative. Ad esempio, in un giudizio di responsabilità medica per omissione diagnostica, affermare che “statisticamente” una determinata patologia si manifesta con certi sintomi in una data percentuale di casi può essere fuorviante se non si considerano le specificità del caso concreto, le condizioni individuali del paziente, e il contesto clinico irripetibile in cui si è verificato l’evento lesivo. Analogamente, in controversie tossicologiche, limitarsi a dati epidemiologici sulla frequenza di una certa patologia in popolazioni esposte a una sostanza nociva può indurre alla “fallacia della probabilità di base”, trascurando il nesso causale specifico tra l’esposizione individuale e il danno singolarmente subito dal soggetto agente in giudizio. In tali ambiti, ciò che rileva non è tanto la frequenza statistica di eventi simili (approccio frequentista), quanto piuttosto la plausibilità logica e la forza persuasiva del ragionamento inferenziale che collega le evidenze scientifiche disponibili al fatto singolare da provare nel processo[63].

Una terza via è rappresentata dall’approccio possibilista, che abbandona la pretesa di quantificazione numerica della probabilità a favore di un ordinamento qualitativo delle possibilità. Tale modello, sviluppato in particolare da Lotfi A. Zadeh e successivamente applicato al ragionamento giuridico da autori come Susan Haack, riconosce che in molti contesti decisionali ciò che conta non è tanto la misura esatta della probabilità, quanto la comparazione relativa tra diverse ipotesi[64]. L’approccio possibilista si rivela particolarmente adatto ai contesti processuali[65] in cui il giudice non è chiamato a quantificare precisamente la probabilità di un fatto, ma a stabilire quale ricostruzione sia più plausibile rispetto alle alternative disponibili.

Proprio a conferma di questa esigenza di superare un approccio puramente quantitativo e statistico, la giurisprudenza più recente continua a ribadire la necessità di un utilizzo prudente di dati statistici e probabilistici nel ragionamento giudiziario. Significativamente, in una recentissima ordinanza[66], la Cassazione ha nuovamente sottolineato come, in materia di responsabilità medica, l’accertamento del nesso causale debba fondarsi su un criterio di probabilità logica (o baconiana) e non su una mera applicazione di probabilità statistiche, richiamando la necessità di considerare le specificità del caso concreto e non solo le frequenze di eventi simili in generale. La Corte ha chiarito che il giudice deve valutare se il comportamento doveroso omesso avrebbe potuto impedire l’evento lesivo, tenuto conto di tutte le risultanze del caso concreto nella loro irripetibile singolarità. Tale giudizio non può fondarsi esclusivamente su criteri quantitativo-statistici (cd. probabilità statistica o pascaliana), ma deve considerare anche elementi di conferma e, parallelamente, escludere quelli alternativi disponibili nel caso concreto (cd. probabilità logica o baconiana). In linea con tale orientamento, la Cassazione, in una precedente pronuncia[67], aveva già sottolineato che l’accertamento del nesso causale in caso di diagnosi tardiva richiede un’indagine sull’eziologia dell’omissione, basata non solo su dati statistici, ma anche su una valutazione logico-qualitativa delle circostanze specifiche. Questi recenti pronunciamenti confermano, dunque, la persistente rilevanza del dibattito sull’adeguatezza dei modelli probabilistici quantitativi nel contesto processuale e sulla necessità di integrare approcci diversi nella valutazione probatoria, al fine di evitare il rischio di un’applicazione acritica della base rate fallacy.

Un modello ibrido – che integri il rigore formale del bayesianesimo con la flessibilità qualitativa dell’approccio possibilista – appare, dunque, indispensabile per una valutazione probatoria realmente aderente alla complessità processuale. Tale integrazione consente di superare la riduzione numerica dei fenomeni, riconoscendo che il valore delle prove non risiede esclusivamente nella loro ripetibilità empirica o nella loro quantificabilità statistica, ma nella loro capacità di rivelare le relazioni di significato all’interno di un contesto giuridico specifico.

2.3 Il comportamento processuale delle parti e la formazione del convincimento giudiziale

La valutazione delle prove non può ignorare come le parti si comportano durante il processo, fattore questo che influenza profondamente il convincimento del giudice. Quando le parti presentano prove in modo tempestivo, completo e trasparente, tali atteggiamenti diventano indicatori fondamentali per valutare l’affidabilità degli elementi presentati. In un sistema che riconosce la natura interpretativa della decisione giudiziaria, il comportamento processuale non è un aspetto secondario, ma un elemento costitutivo del ragionamento probatorio, capace di guidare la verifica della fondatezza della pretesa.

Tale orientamento si realizza attraverso un complesso sistema di deduzioni che valorizzano non solo il contenuto intrinseco delle prove, ma anche le dinamiche relazionali che hanno caratterizzato la loro presentazione. Questo sistema di deduzioni opera su diversi piani, intrecciando l’aspetto conoscitivo con quello pratico del processo. Ad esempio, presentare prove tempestivamente può essere collegato alla loro autenticità e spontaneità, suggerendo l’assenza di manipolazioni successive. Analogamente, un quadro probatorio completo, coerente e ben articolato può rafforzare la credibilità complessiva della versione presentata, dimostrando un impegno verso la piena trasparenza e verso la collaborazione con l’accertamento giudiziario. Infine, la chiarezza nell’esporre le prove e la disponibilità al confronto dialettico possono generare un’impressione di affidabilità, fugando nel giudice il sospetto di reticenze o strategie poco chiare.

È importante sottolineare come queste deduzioni non funzionino in modo automatico o predeterminato. Il comportamento processuale non è una “prova” in senso stretto, né un “indizio” univoco ma, piuttosto, un elemento di contesto che influenza la percezione e la valutazione delle prove tradizionali. Esso funziona come una lente interpretativa, capace di conferire credibilità o di gettare ombra sull’attendibilità del materiale probatorio, influenzando la forza persuasiva complessiva della narrazione di parte. In questo senso, il comportamento processuale diventa un vero e proprio “argomento”, fonte di ragionamenti giustificabili, che contribuiscono alla formazione del convincimento del giudice.

Tuttavia, occorre riconoscere la delicatezza e i potenziali problemi di questo approccio. Il rischio di interpretazioni troppo soggettive e di pregiudizi cognitivi è sempre presente. Il giudice potrebbe essere inconsapevolmente influenzato da simpatie o antipatie personali, da stereotipi o da scorciatoie mentali che lo portino a sovrastimare o sottovalutare il significato probatorio del comportamento processuale. Inoltre, è necessario evitare che la valutazione del comportamento diventi un sostituto improprio della valutazione sostanziale delle prove, portando a decisioni basate più su impressioni generali che su un’analisi rigorosa degli elementi presentati. Il logicismo applicativo, pur nella sua aspirazione alla razionalità, non può ignorare questa dimensione “umana” e relazionale del processo, ma deve sviluppare strumenti concettuali e metodologici che permettano di valorizzare il comportamento processuale in modo controllato, trasparente e giustificabile, evitando arbitrarietà e garantendo la fondatezza razionale della decisione finale.

2.3.1 Il principio di collaborazione processuale come criterio normativo

Il comportamento processuale delle parti si inquadra nel principio di collaborazione processuale, gradualmente affermatosi come criterio normativo nella valutazione probatoria, e che trova ulteriore fondamento e giustificazione nelle prospettive del logicismo applicativo. Questo principio, sebbene non esplicitamente codificato nel nostro ordinamento – diversamente da quanto avviene in altri sistemi, come quello tedesco con la Kooperationsmaxime[68] – ha ottenuto riconoscimento giurisprudenziale, configurandosi come espressione del dovere di lealtà e probità previsto dall’art. 88 c.p.c., e riconoscendosi che il rifiuto ingiustificato di una parte di esibire documenti a sua disposizione può generare deduzioni sfavorevoli alla sua posizione. Nella prospettiva logicista, il principio di collaborazione supera la dimensione meramente etico-deontologica per diventare un requisito epistemico essenziale, funzionale a un processo decisionale razionale fondato su una base informativa più completa e affidabile.

Il principio di collaborazione presenta due aspetti che, in chiave logicista, contribuiscono a ridurre le distorsioni e a potenziare l’accuratezza del ragionamento probatorio: uno negativo, che vieta comportamenti ostruzionistici o dilatori, che ostacolano la corretta applicazione dei modelli inferenziali e probabilistici; uno positivo, che impone di contribuire attivamente all’accertamento dei fatti, soprattutto quando una parte ha accesso privilegiato a certi elementi di prova, assicurando così una base fattuale più solida per le inferenze giudiziali. Quest’ultima dimensione risulta particolarmente rilevante nell’attuale sistema processuale, caratterizzato da crescenti asimmetrie informative tra le parti, specialmente in settori specialistici come il contenzioso bancario, assicurativo o medico-sanitario, dove la prospettiva del logicismo applicativo evidenzia la necessità di bilanciare gli squilibri informativi per garantire un processo decisionale razionalmente fondato.

La valorizzazione del principio di collaborazione riflette un’evoluzione del modello processuale che, da antagonistico-adversarial, si orienta verso una configurazione più cooperativa, dove l’accertamento della fondatezza della pretesa azionata diventa un obiettivo comune, pur nella distinzione dei ruoli. Questa evoluzione, interpretata in ottica logicista, rappresenta un avanzamento verso un modello processuale più razionale ed efficiente, orientato non solo alla risoluzione della controversia, ma anche all’ottimizzazione dell’informazione rilevante per una decisione giudiziale epistemicamente fondata e logicamente coerente. Tale trasformazione risponde all’esigenza di garantire l’effettività della tutela giurisdizionale in contesti caratterizzati da squilibri conoscitivi strutturali, che potrebbero compromettere la parità delle armi nel processo e, conseguentemente, la razionalità e l’equità del giudizio.

In questa prospettiva, il comportamento processuale trascende il ruolo di semplice oggetto di valutazione ai sensi dell’art. 116, comma 2, c.p.c., per diventare un criterio interpretativo nell’analisi del complesso probatorio, guidando la formazione del convincimento giudiziale verso una ricostruzione dei fatti che consideri non solo le prove formalmente acquisite, ma anche il contesto relazionale in cui sono emerse. Nel quadro logicista, il comportamento processuale si configura come un elemento che qualifica e arricchisce il ragionamento inferenziale del giudice, fornendo informazioni aggiuntive per la valutazione probabilistica delle ipotesi fattuali e per la costruzione di una decisione giudiziale intrinsecamente più razionale e giustificabile.

2.3.2 L’onere di contestazione specifica: implicazioni epistemologiche

La riforma dell’art. 115 c.p.c., introdotta dalla legge n. 69/2009, ha codificato il principio di non contestazione, trasformando la mancata contestazione specifica in una tecnica di fissazione formale dei fatti. Questo principio, già sviluppato in giurisprudenza, trova fondamento nella concezione dialettica del processo civile: attraverso il meccanismo della contestazione, le parti delimitano attivamente il thema probandum, indirizzando l’attività istruttoria verso i punti realmente controversi[69].

L’onere di contestazione specifica presenta significative implicazioni epistemologiche che vanno oltre la sua dimensione tecnico-processuale. Innanzitutto, esprime una concezione della verità processuale intesa come costruzione dialogica, frutto non di un’indagine unilaterale del giudice, ma dell’interazione tra le diverse prospettive delle parti. La non contestazione, quindi, non è una semplice finzione giuridica, ma rappresenta il riconoscimento dell’intersoggettività come condizione della conoscenza processuale.

In secondo luogo, questo onere modifica la struttura inferenziale del ragionamento probatorio. La contestazione, per essere efficace, deve essere “specifica e circostanziata” e “pertinente rispetto al fatto contestato”. Ciò significa che chi contesta non può limitarsi a una generica negazione, ma deve offrire una ricostruzione alternativa plausibile, contribuendo alla formazione di un contesto inferenziale articolato, in cui le diverse ipotesi possono essere comparate in termini di coerenza e capacità esplicativa.

Sul piano epistemologico, l’onere di contestazione specifica funziona come meccanismo di ottimizzazione delle risorse cognitive del processo. Attraverso la dinamica contestazione/non contestazione, l’attenzione del giudice si concentra sui punti effettivamente controversi, riducendo la complessità del giudizio e aumentando la probabilità di decisioni accurate. Questo meccanismo risponde alla concezione del processo come sistema a risorse limitate, in cui l’impegno cognitivo deve essere diretto verso gli aspetti decisivi della controversia.

Le implicazioni epistemologiche di questo onere emergono con particolare evidenza nei giudizi caratterizzati da asimmetrie informative. In tali contesti, la specificità della contestazione agisce come strumento di riequilibrio, obbligando la parte con maggiori informazioni a esplicitare la propria posizione, riducendo così lo squilibrio conoscitivo.

 

2.3.3 Le presunzioni semplici derivanti dal comportamento processuale e la loro interazione con lo standard probatorio

Il comportamento processuale delle parti può generare presunzioni semplici che, integrate nel ragionamento probatorio complessivo, contribuiscono alla formazione del convincimento del giudice. L’art. 116, comma 2, c.p.c., permettendo al giudice di “desumere argomenti di prova” dalla condotta delle parti, autorizza un’operazione inferenziale che, pur distinta dalla valutazione delle prove formalmente acquisite, interagisce significativamente con essa. L’elaborazione giurisprudenziale ha progressivamente delineato sia le potenzialità sia i limiti di questo potere valutativo.

Questa evoluzione si inserisce nel quadro delineatosi successivamente alla riforma del 2009 con la quale è stato modificato l’art. 115 c.p.c., codificando il principio dell’onere di contestazione specifica. La Cassazione, con sensibilità crescente verso la dimensione sostanziale del processo, ha progressivamente valorizzato il ruolo della condotta processuale nella formazione del convincimento giudiziale, stabilendo che il giudice può trarre “argomenti di prova” non solo da specifiche violazioni procedurali, ma anche dalla complessiva condotta non collaborativa della parte, quando questa appaia oggettivamente incompatibile con una valida giustificazione della sua posizione. Questo orientamento, superando precedenti approcci formalistici, evidenzia come la valutazione del comportamento processuale implichi un giudizio non solo sulla correttezza formale, ma anche sulla lealtà e sulla collaborazione della parte, valorizzando la dimensione etica del processo come contesto di interazione cooperativa finalizzata all’accertamento della verità.

In linea con questa impostazione, la giurisprudenza ha precisato che il comportamento processuale, pur non costituendo prova piena, può assumere significativa valenza probatoria: in virtù dei principi di non contestazione e di leale collaborazione, esso può fondare una presunzione semplice idonea a supportare il convincimento del giudice (Cass. civ. n. 11115/2021)[70]. Tuttavia, l’estensione di questo potere valutativo solleva questioni di garanzia, nel senso che “la valutazione ex art. 116, comma 2, c.p.c. deve essere specificamente motivata, evidenziando il nesso tra il comportamento rilevato e l’inferenza probatoria che se ne trae” (v. Cass. n. 4373/2003)[71]. Questa esigenza di motivazione rafforzata costituisce un contrappeso essenziale all’ampliamento del potere giudiziale valutativo, garantendo la controllabilità delle inferenze e prevenendo valutazioni arbitrarie.

L’interazione tra queste presunzioni e lo standard probatorio generale solleva questioni teoriche complesse. In un sistema dominato dal libero convincimento, tali presunzioni si integrano nel ragionamento del giudice secondo criteri di coerenza e plausibilità, con un peso specifico che varia in base alla natura della controversia e alla configurazione complessiva degli elementi probatori.

Nel tempo, la giurisprudenza ha ampliato il novero dei comportamenti processuali valutabili. Se inizialmente prevaleva un’interpretazione restrittiva, limitata a comportamenti inequivocabilmente concludenti (come la mancata comparizione all’interrogatorio formale), l’orientamento più recente ha esteso la valutazione al comportamento globale della parte, includendo tempestività, completezza e coerenza delle allegazioni e delle produzioni documentali.

3.Soggetto, coerenza e verità processuale

Avendo sin qui esplorato la dimensione epistemologica e metodologica della prova civile, con particolare attenzione alla “scienza della prova” e alla “previsione processuale”, è ora necessario volgere lo sguardo alle implicazioni antropologiche e gnoseologiche che caratterizzano la valutazione probatoria. La presente sezione si propone, dunque, di approfondire la natura eminentemente soggettiva della decisione giudiziale, ponendo al centro dell’analisi il ruolo del giudice non come mero applicatore di regole, bensì come soggetto interpretante, inevitabilmente situato in un orizzonte storico-culturale che ne influenza la percezione e la valutazione dei fatti. Esamineremo, pertanto, le tensioni intrinseche al giudizio probatorio: la dialettica tra opinione personale e relativismo epistemologico, il paradosso decisionale insito nella ricostruzione processuale, l’alternativa tra verità oggettiva e coerenza argomentativa, e, infine, le differenze strutturali nella valutazione probatoria tra processo civile e penale, quali espressione di differenti finalità e tutele giuridiche. Attraverso questa disamina, si intende delineare una concezione della “verità processuale” non come dato ontologico preesistente, ma come costruzione dinamica e coerente, frutto di un’attività interpretativa complessa e intrinsecamente umana.

3.1 Opinione e relativismo nel giudizio

Abbiamo visto come il giudice, nell’esercizio della funzione interpretativa, formuli opinioni che si fondano sia sull’esperienza consolidata sia su una valutazione istintiva della plausibilità degli elementi probatori. In tal modo, il suo giudizio si connota di un relativismo epistemologico, riconoscendo che le certezze assolute sono inaccessibili e che soltanto interpretazioni ragionevoli e contestualizzate possono essere poste a fondamento della decisione. Ogni interpretazione è inevitabilmente influenzata dall’orizzonte storico-culturale dell’interprete, il che limita la possibilità di accedere a una verità oggettiva e definitiva.

Tuttavia, è fondamentale interrogarsi sulle fonti che alimentano e strutturano tale “opinione” giudiziale, al fine di evitare derive soggettivistiche e garantire un ancoraggio razionale al processo decisionale. L’opinione del giudice, infatti, non si forma ex nihilo, ma trae origine da un complesso intreccio di fattori tra cui spicca, in primo luogo, il patrimonio di conoscenze giuridiche e dottrinali. L’interpretazione delle norme, la familiarità con la giurisprudenza pregressa, la conoscenza dei principi generali del diritto costituiscono il sostrato imprescindibile del giudizio in quanto il giudice, nella sua veste di giurista, applica un sapere specialistico sedimentato nel tempo e validato dalla comunità scientifica. In secondo luogo, un ruolo essenziale è svolto dalle massime di esperienza, intese in una accezione ampia che non si limita alle “regole di comune esperienza” di cui all’art. 115 c.p.c., ma include anche le massime d’esperienza specifiche in relazione al contesto giuridico, derivanti dalla prassi giudiziaria, dai saperi esperti (medico-legali, tecnici, economici), e dalla conoscenza del “mondo sociale” in cui i conflitti giuridici si manifestano. Queste massime, pur intrinsecamente fallibili e rivedibili, offrono schemi interpretativi consolidati che orientano la valutazione dei fatti. In aggiunta a ciò, non si può trascurare il peso dei valori personali e della “sensibilità giuridica” del giudice. Pur nei limiti imposti dal principio di legalità e dall’obbligo di motivazione, è innegabile che i valori personali del giudice, la sua concezione della giustizia sostanziale e la sua “sensibilità giuridica” (intesa come capacità di cogliere le sfumature del caso concreto e di valutare le implicazioni equitative della decisione) possono influenzare, in parte, l’orientamento interpretativo, richiamando la complessa relazione tra diritto e morale nel processo decisionale. Infine, è necessario considerare gli effetti psicologici e i condizionamenti mentali che possono insidiare il ragionamento umano. La psicologia cognitiva ha evidenziato come il ragionamento umano sia soggetto a distorsioni sistematiche (come il pregiudizio di conferma, di ancoraggio, di disponibilità, etc.) che possono alterare la valutazione delle informazioni e la percezione dei dati. Anche il giudice, in quanto essere umano, non è immune da tali dinamiche. La consapevolezza di queste distorsioni cognitive e l’impegno a rendere la motivazione trasparente e rigorosamente argomentativa costituiscono strumenti essenziali per ridurre il loro impatto sul giudizio. Pertanto, il “relativismo epistemologico” che caratterizza la valutazione probatoria non deve essere interpretato come un abbandono al soggettivismo estremo o all’arbitrio. Si tratta, piuttosto, di un relativismo “moderato”, che riconosce i limiti insiti nella conoscenza processuale e l’importanza del contesto interpretativo, ma rimane vincolato a principi di razionalità e a parametri di controllabilità – come la motivazione analitica e la verifica contraddittoria – che garantiscano coerenza e legittimità alla decisione[72].

In questa prospettiva, la soggettività del giudice non costituisce un “rischio”, ma una risorsa interpretativa indispensabile, capace di trasformare un materiale probatorio frammentario e ambiguo in una narrazione coerente e giuridicamente rilevante. È in questo senso che il richiamo alla precomprensione gadameriana assume piena rilevanza, evidenziando come l’orizzonte interpretativo del giudice, pur influenzando la valutazione, non la determini in modo meccanicistico, ma la orienti verso un dialogo ermeneutico con il materiale probatorio. Si può, dunque, affermare che l’opinione giudiziale, pur intrinsecamente soggettiva, aspira alla razionalità e alla coerenza, attraverso un processo di continua mediazione tra l’esperienza personale del giudice e i vincoli epistemologici e normativi del processo[73].

È stato, altresì, evidenziato come, pur riconoscendo il valore della soggettività, un eccessivo relativismo può compromettere la coerenza e l’uniformità delle decisioni processuali, rischiando di tradursi in una discrezionalità troppo ampia. Pertanto, la soggettività del giudice diventa uno strumento interpretativo fondamentale, capace di trasformare un materiale probatorio frammentario in una narrazione coerente, mediante l’integrazione di precedenti, massime di esperienza e valutazioni specifiche degli indizi.

Intendiamo ora prendere in esame un ulteriore profilo, che attiene alle diverse modalità di valutazione della prova nel processo civile rispetto a quello penale, modalità che variano sensibilmente riflettendo obiettivi e tutele differenti. Nel processo civile, il principio del libero convincimento consente un’ampia discrezionalità interpretativa: il giudice costruisce il suo ragionamento inferenziale sulla base della preponderanza dell’evidenza, accettando un certo margine di incertezza. Al contrario, nel processo penale, dove l’esito incide sulla libertà personale dell’imputato, la necessità di dimostrare la colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio impone standard probatori molto più stringenti. Questa differenza si traduce in una diversa applicazione del paradigma probabilistico: mentre in ambito civile il modello soggettivo consente di integrare dati quantitativi e qualitativi in un discorso decisionale flessibile, in ambito penale il margine di interpretazione è notevolmente ridotto per garantire massime garanzie procedurali. Vi sono casi in cui una medesima prova può condurre a esiti divergenti, a seconda del punto di vista dell’interprete. In sintesi, la differenza tra i due processi non è meramente tecnica, ma rappresenta una scelta epistemologica e normativa fondamentale, che si riflette sul modo in cui il giudice esercita il libero convincimento e, di conseguenza, sul livello di certezza richiesto per la decisione finale.

L’approccio interpretativo del giudice alle prove si inserisce nel più ampio contesto del probabilismo soggettivo esaminato nella sezione 2.2, superando i limiti del modello frequentista. Se il frequentismo appare inadeguato al contesto processuale per l’irripetibilità degli eventi giudiziari, il probabilismo soggettivo valorizza proprio quella dimensione interpretativa che consente al giudice di elaborare inferenze a partire da un materiale probatorio incompleto.

Questo relativismo epistemologico, tuttavia, non sfocia in un soggettivismo incontrollato. Come evidenziato nell’analisi della tradizione probatoria (sezione 1.1), la tensione tra l’aspirazione formalistica di matrice bülowiana e l’attivismo giudiziario teorizzato da Klein e Chiovenda, trova una sintesi equilibrata nella concezione carneluttiana della prova come “dimostrazione della verità di un fatto”. In questa prospettiva, la decisione del giudice diventa uno strumento conoscitivo appropriato proprio perché vincolata a parametri di ragionevolezza e sostenuta da un’argomentazione razionale.

La soggettività interpretativa, quindi, non compromette la coerenza del sistema, ma la rafforza, trasformando il giudice in un mediatore tra l’incertezza intrinseca del reale e l’esigenza di certezza giuridica. Questa mediazione si realizza attraverso un processo ermeneutico che richiama la precomprensione gadameriana discussa nella sezione 2.1: il giudice non affronta mai il materiale probatorio con una mente vergine, ma porta con sé un orizzonte interpretativo che condiziona, senza determinare meccanicamente, la sua valutazione delle prove.

3.2 Il paradosso decisionale nel processo

Il processo civile, essendo fondato su una ricostruzione interpretativa, può portare a situazioni in cui lo stesso insieme probatorio appare suscettibile di interpretazioni divergenti. Ad esempio, in una controversia in tema di inadempimento contrattuale, la stessa documentazione intercorsa tra le parti (nella specie due bonifici bancari con acclusa la dicitura prestito senza interessi) potrebbe astrattamente essere letta sia come un atto di liberalità in favore del ricevente, sia come prova di un contratto di mutuo infruttifero, suscettibile di restituzione in favore del creditore. Emblematica la valutazione probatoria contrastante in una vicenda conclusasi con la sentenza della Cass. civ. n. 3119 del 2 febbraio 2022: il ricorrente, in primo grado aveva citato in giudizio il proprio figlio, lamentando di avergli prestato una somma di denaro tramite due bonifici bancari con causale “prestito infruttifero” e chiedendo la restituzione dell’importo. Il Tribunale aveva rigettato la domanda, ritenendo che non vi fossero prove sufficienti a dimostrare l’esistenza di un contratto di mutuo tra le parti. In appello, la Corte ha ribaltato la decisione di primo grado, riconoscendo che la causale indicata nei bonifici (“prestito infruttifero”) costituiva prova dell’esistenza di un contratto di mutuo, con conseguente obbligo di restituzione da parte del convenuto. Nel valutare gli elementi probatori, il giudice dell’appello ha dovuto integrare il dato contenuto nel bonifico con ulteriori elementi di contesto, come i precedenti rapporti tra le parti, notando che in situazioni analoghe il padre aveva utilizzato la causale “prestito” quando intendeva instaurare un obbligo di restituzione, mentre in altre circostanze aveva elargito somme senza formalità specifiche, indicando, così, un intento di liberalità. Questo comportamento coerente ha rafforzato la conclusione della Corte circa la natura di mutuo delle somme in questione. L’operazione inferenziale, quindi, ha permesso di superare l’apparente contraddittorietà della prova, trasformandola in un fondamento coerente per la decisione.

L’esempio appena illustrato rappresenta una manifestazione tipica del “paradosso decisionale” insito nel processo civile, ma non esaurisce la varietà delle situazioni in cui tale paradosso può manifestarsi. Esistono, infatti, diverse tipologie di paradossi decisionali, che derivano, in ultima analisi, dalla natura intrinsecamente problematica del materiale probatorio. Si pensi, in primo luogo, ai paradossi derivanti da prove contrastanti, come nel caso di testimonianze reciprocamente incompatibili, perizie tecniche che giungono a conclusioni divergenti, o documenti che offrono narrazioni fattuali alternative. In tali casi, il giudice si trova di fronte a una pluralità di ricostruzioni “plausibili” ma escludentisi reciprocamente, dovendo operare una scelta complessa e delicata. Analogamente, si manifestano paradossi derivanti da prove incomplete, laddove lacune probatorie dovute alla mancanza di testimoni chiave, alla distruzione di documenti rilevanti o all’impossibilità di ricostruire integralmente la sequenza degli eventi, pongono il giudice di fronte alla necessità di decidere in assenza di un quadro probatorio completo, basandosi su inferenze e congetture che comportano un inevitabile margine di incertezza. Non vanno, poi, trascurati i paradossi derivanti da prove indirette e indizi. Quando la ricostruzione dei fatti si basa prevalentemente su prove indirette e indizi, il processo inferenziale diviene più complesso e articolato, richiedendo catene di ragionamento induttivo e abduttivo che possono condurre a conclusioni interpretative divergenti, in quanto la “forza probatoria” degli indizi è intrinsecamente ambigua e suscettibile di interpretazioni alternative. Infine, si configurano paradossi derivanti da prove “deboli” ma convergenti. In alcuni casi, nessuna prova singolarmente considerata possiede una forza probatoria decisiva, ma un insieme di indizi “deboli” può convergere verso una determinata ricostruzione dei fatti, rendendola più plausibile rispetto alle alternative, pur permanendo un margine di dubbio e fondandosi la decisione su un giudizio di “preponderanza” piuttosto che di certezza assoluta.

Di fronte a tali paradossi, il giudice non può sottrarsi al compito di decidere, ma deve attivare strategie interpretative che gli consentano di superare l’apparente contraddittorietà del materiale probatorio e di fondare la decisione su una base razionale e coerente. Tra le principali strategie utilizzate si annovera, in primo luogo, l’analisi contestuale approfondita. Come evidenziato nell’esempio precedente, la contestualizzazione dei dati probatori attraverso la ricostruzione del quadro fattuale complessivo, dei precedenti rapporti tra le parti, del comportamento processuale, consente di attribuire un significato più preciso e univoco a elementi probatori altrimenti ambigui. In secondo luogo, un ruolo cruciale è svolto dall’applicazione di principi di inferenza razionale. Il ricorso a principi logici, massime d’esperienza consolidate, schemi di ragionamento probabilistico (anche in forma qualitativa), permette di valutare la plausibilità delle diverse interpretazioni e di selezionare quella che appare più convincente alla luce del complesso probatorio. In aggiunta a ciò, è fondamentale l’utilizzo dello standard probatorio come “guida” decisionale. Lo standard probatorio (“più probabile che non” nel processo civile ordinario) funge da criterio orientativo per la scelta tra interpretazioni alternative in quanto, anche in presenza di incertezza residua, il giudice è chiamato a decidere sulla base di ciò che appare “più probabile” secondo il materiale probatorio disponibile, rispettando la soglia di sufficienza probatoria richiesta dall’ordinamento.

Infine, un presidio imprescindibile è rappresentato dalla motivazione trasparente e rigorosa. L’obbligo di motivare in modo analitico e trasparente il percorso inferenziale seguito, esplicitando le ragioni per cui una interpretazione è stata preferita alle altre, costituisce un presidio fondamentale per garantire la controllabilità della decisione e per rendere ragione delle scelte interpretative operate, anche in situazioni di ambiguità probatoria, configurandosi la motivazione come lo strumento primario per trasformare la soggettività del giudizio in razionalità argomentativa. Si può, dunque, affermare che, di fronte al paradosso decisionale, il giudice deve attivare un complesso di strategie interpretative volte a ricostruire un quadro probatorio coerente e a fondare la decisione su una base razionale e giustificabile, pur nella consapevolezza dell’inevitabile margine di incertezza.

Questo esempio evidenzia come, pur in presenza di elementi ambigui, il giudice possa risolvere il paradosso decisionale attraverso un’analisi integrata e contestuale, che non si limita a leggere il dato in maniera meccanica, ma lo contestualizza all’interno di un percorso inferenziale finalizzato a garantire la coerenza e la legittimità della decisione.

Il paradosso decisionale, intrinseco alla valutazione probatoria nel processo civile, rappresenta una sfida epistemologica che interroga la natura stessa della giurisdizione. Di fronte a un mosaico di indizi contrastanti, come nel caso di responsabilità medica esaminato dalla Cassazione (Sez. III, n. 16199/2024)[74], il giudice è chiamato a compiere un’operazione ermeneutica che trascende la mera sommatoria di elementi empirici, configurandosi come un atto creativo di ricomposizione del reale.

In tale contesto, la Corte ha rigettato il ricorso dei sanitari, confermando la responsabilità per omesso monitoraggio della gravidanza, nonostante la presenza di una malformazione cardiaca congenita del feto. La scelta a favore della tesi della negligenza medica non è derivata da un calcolo matematico (il 70% di sopravvivenza citato in sentenza), ma dalla superiore coerenza narrativa di tale ricostruzione, in grado di collegare l’omissione del monitoraggio all’esito letale, senza negare i fattori concorrenti, ma relativizzandone il peso esplicativo. Questo approccio, radicato nel probabilismo soggettivo, dimostra come il giudice non scelga tra “certezze” contrapposte, ma assegni maggiore attendibilità all’ipotesi che meglio si adatta al puzzle probatorio, pur in presenza di margini residui di dubbio. La motivazione, in questa prospettiva, assume una duplice funzione: garanzia di trasparenza, attraverso l’esplicitazione del percorso logico, e strumento di razionalizzazione dell’incertezza, trasformando l’arbitrio potenziale in un esercizio di ragione pubblica. La sentenza, nel respingere la tesi della causa esclusivamente congenita, ha evidenziato come la spiegazione alternativa – basata sulla negligenza – dialogasse meglio con l’insieme delle prove acquisite, dalle registrazioni cliniche alle testimonianze, rispettando il principio di economia esplicativa. Ciò conferma che la “verità processuale” non è un riflesso passivo della realtà storica, ma il prodotto di un’interpretazione dinamica, in cui il giudice media tra dato oggettivo e significatività giuridica, elevando la coerenza argomentativa a parametro di legittimità.

3.3 Verità o coerenza?

Il dibattito epistemologico in ambito processuale si concentra sulla tensione tra la ricerca di una verità oggettiva e l’esigenza di costruire una decisione coerente. In un contesto intrinsecamente incerto, il giudice non può accedere a una verità assoluta, ma deve pervenire a una “verità processuale” intesa come grado di approssimazione, ottenuto attraverso un ragionamento motivato e logicamente sostenibile.

La questione centrale che si pone, a questo punto, è se l’obiettivo del processo civile debba essere la ricerca di una verità oggettiva, intesa come corrispondenza tra la ricostruzione processuale e la realtà storica degli eventi, o piuttosto la costruzione di una decisione coerente, fondata su un ragionamento argomentativo solido e logicamente sostenibile. Un confronto critico con le principali teorie della verità può illuminare questa complessa alternativa. Si consideri, in primo luogo, la teoria della verità come corrispondenza, di matrice realista, che identifica la verità con la corrispondenza tra un enunciato e un fatto del mondo esterno. Applicata al processo civile, essa ambirebbe a ricostruire i fatti “come realmente sono accaduti”, raggiungendo una “verità materiale” oggettiva e incontrovertibile. Tuttavia, come già evidenziato, tale ideale si rivela irraggiungibile nel contesto processuale, data l’intrinseca incertezza del materiale probatorio, la natura interpretativa del giudizio e la distanza temporale dagli eventi da ricostruire; la pretesa di raggiungere una “verità come corrispondenza” rischia, dunque, di alimentare le “illusioni” criticate nella sezione 1.1, potendo condurre a un formalismo rigido e autoreferenziale o a un realismo ingenuo incapace di gestire l’incertezza.

Si prenda ora in esame la teoria della verità come coerenza interna di un sistema di credenze o enunciati. Applicata al processo civile, essa propone di abbandonare l’ideale irraggiungibile della “verità come corrispondenza” e di concentrarsi sulla costruzione di una decisione che sia coerente con il materiale probatorio disponibile, con le massime d’esperienza, con i principi giuridici e con le argomentazioni delle parti. La “verità processuale”, in questa prospettiva, non si configura come una verità “ontologica” o “materiale”, ma come una verità “argomentativa” o “logica”, che si fonda sulla coerenza interna del ragionamento giudiziale e sulla sua capacità di offrire una ricostruzione plausibile e giustificata dei fatti.

Infine, non si può trascurare la teoria pragmatica della verità, che identifica la verità con l’utilità o l’efficacia pratica di una credenza o enunciato. Applicata al processo civile, essa potrebbe suggerire che la “verità processuale” è tale nella misura in cui la decisione è funzionale a risolvere il conflitto, a garantire la pace sociale, a tutelare i diritti delle parti e a promuovere la giustizia sostanziale[75]. Peraltro, sebbene la dimensione pragmatica non debba essere trascurata, il criterio primario da seguire per la validità della decisione processuale rimane quello della coerenza argomentativa, che garantisce la razionalità e la controllabilità del giudizio.

In definitiva, per il processo civile l’obiettivo epistemologicamente più appropriato e normativamente più auspicabile è la costruzione di una decisione coerente. Data l’incertezza intrinseca e la natura interpretativa del processo, la pretesa di raggiungere una “verità come corrispondenza” si rivela velleitaria e fuorviante. La coerenza argomentativa, al contrario, offre un criterio di guida realistico e rigoroso, capace di garantire la razionalità, la giustificabilità e la controllabilità della decisione, pur senza aspirare a una certezza assoluta: in tale ottica la coerenza si configura non solo come criterio epistemologico, ma anche come valore normativo del processo civile, in quanto un sistema giudiziario coerente è un sistema più prevedibile, più equo e, in ultima analisi, più giusto. Si può dunque affermare che la “verità processuale” nel settore civile si identifica primariamente con la coerenza argomentativa della decisione, rappresentando questo un obiettivo epistemologico e normativo pienamente adeguato alla natura e alle finalità del processo[76].

La validità della sentenza, dunque, non si misura dalla capacità di dimostrare in maniera definitiva i fatti, bensì dalla coerenza interna dell’argomentazione, che rende la decisione giuridicamente legittima e razionalmente accettabile, trasformando l’incertezza in uno strumento per una giustizia dinamica e umanizzata.

3.4 Differenze nella valutazione probatoria tra processo civile e processo penale

I criteri di valutazione della prova differiscono significativamente tra il processo civile e quello penale, riflettendo gli obiettivi e gli interessi specifici di ciascun ambito, pur condividendo il principio del libero convincimento del giudice. Nel processo civile, il giudice valuta le prove secondo il suo prudente apprezzamento, senza essere vincolato a schemi rigidi. Questo approccio consente una ricostruzione dei fatti basata sulla preponderanza dell’evidenza, laddove la decisione si fonda su ciò che appare più probabile alla luce delle prove presentate. L’obiettivo principale è risolvere le controversie tra privati, garantendo una soluzione equilibrata dei conflitti.

Al contrario, nel processo penale, in cui è in gioco la libertà personale dell’imputato, la colpevolezza deve essere dimostrata “oltre ogni ragionevole dubbio”. Questo standard elevato mira a minimizzare il rischio di condanne ingiuste, esprimendo il principio della presunzione di innocenza. Di conseguenza, il giudice penale è tenuto a una valutazione più rigorosa e restrittiva delle prove, richiedendo un’elevata probabilità logica della colpevolezza prima di emettere una condanna.

Tuttavia, è necessario interrogarsi sulle ragioni profonde che giustificano questa marcata differenziazione nei criteri di valutazione probatoria, che non si riduce a una mera questione tecnica, ma riflette scelte valoriali e principi fondanti distinti per i due ambiti processuali[77]. Le principali ragioni di questa differenziazione possono essere così individuate. Si consideri, anzitutto, la diversa natura degli interessi in gioco. Nel processo penale è in gioco la libertà personale dell’imputato, bene primario e inviolabile dell’individuo, e l’errore giudiziario in ambito penale (condanna di un innocente) ha conseguenze irrimediabili e gravissime, che si riverberano non solo sulla vita del singolo, ma sull’intera comunità sociale. Nel processo civile, invece, sono in gioco prevalentemente interessi patrimoniali o privati la cui lesione, pur rilevante, non si compara alla gravità della privazione della libertà personale. Questa diversa gerarchia di valori giustifica una maggiore “avversione al rischio” nel processo penale, che si traduce in uno standard probatorio più elevato.

Del resto, la modulazione delle formule di proscioglimento nel processo penale si fonda su una concezione articolata della prova, che richiede un’analisi attenta del grado di raggiungimento dello standard dell’“oltre ogni ragionevole dubbio”. La responsabilità penale, infatti, si declina in diverse ipotesi (v. art. 530 c.p.p.): l’assoluzione per insussistenza del fatto, in presenza di un quadro probatorio che ne neghi la sussistenza; quella per non aver commesso il fatto, ove il ribaltamento probatorio favorisca la tesi difensiva; quella per la non configurabilità del fatto come reato (anche per l’ipotesi del fatto commesso da persona non imputabile o non punibile per un’altra ragione), oppure quella perché il fatto non è più previsto come reato; e, infine, quella per carenza di prova, che si colloca in una zona grigia di incertezza, evidenziando un insufficiente (o contraddittorio) grado di prova rispetto al rigore richiesto. Tale pluralità di formule dimostra come la responsabilità penale sia il risultato di una complessa dinamica di accertamento in cui il ragionevole dubbio costituisce il parametro imprescindibile per la decisione[78].

Si considerino, poi, i principi fondanti dei due processi. Il processo penale è retto dal principio della presunzione di innocenza[79], cardine dello stato di diritto, che impone di considerare l’imputato non colpevole fino a prova contraria e di tutelarlo contro il rischio di condanne ingiuste. Il processo civile, invece, pur ispirandosi a principi di equità e giustizia, non è vincolato dalla medesima rigidità garantistica, e può operare secondo logiche di bilanciamento degli interessi contrapposti e di allocazione del rischio probatorio. Infine, si consideri la diversa “tolleranza” all’errore giudiziario: nel processo penale si preferisce rischiare l’assoluzione di un colpevole piuttosto che la condanna di un innocente, mentre nel processo civile si ha una maggiore tolleranza per entrambe le tipologie di errore, allo scopo di minimizzare l’errore aggregato.

Queste differenze strutturali si traducono, sul piano pratico, in modalità operative e conseguenze concrete nella valutazione probatoria. Lo standard dell’“oltre ogni ragionevole dubbio” impone al giudice penale un rigore valutativo estremo, richiedendo una elevata probabilità logica che escluda ogni ragionevole dubbio sulla colpevolezza, prima di pronunciare una condanna. La “preponderanza dell’evidenza” nel processo civile, al contrario, consente al giudice di affidarsi a una ricostruzione probabilistica del fatto, basata su ciò che appare “più probabile” alla luce del materiale probatorio disponibile, accettando un margine di incertezza intrinsecamente maggiore e bilanciando gli interessi in gioco. La giurisprudenza ha più volte ribadito l’autonomia del processo civile rispetto al penale anche in materia probatoria, e la conseguente applicazione di standard probatori diversi[80].

Questa distinzione si riflette, ad esempio, nella diversa valutazione di alcune tipologie di prove: la confessione, ad esempio, pur avendo un rilievo probatorio significativo in entrambi i processi, è sottoposta a un vaglio più rigoroso in ambito penale, così come la prova testimoniale, la cui attendibilità è scrutinata con maggiore severità nel processo penale, data la posta in gioco più elevata. Analogamente, la valutazione degli indizi assume connotazioni differenti: mentre nel processo civile un fascio di indizi convergenti può essere sufficiente a fondare il convincimento, nel processo penale è richiesta una forza indiziaria più univoca e stringente, capace di escludere “ogni ragionevole dubbio” sulla colpevolezza dell’imputato. Peraltro, in situazioni “borderline” o in zone grigie (si pensi, ad esempio, alle sanzioni amministrative punitive o ai casi di responsabilità medica con profili penali), la giurisprudenza tende, talvolta, a modulare gli standard probatori, avvicinando la soglia di convincimento richiesta in ambito civile a quella penale, in ragione della gravità delle sanzioni o delle conseguenze pregiudizievoli per i diritti fondamentali. Si può, dunque, affermare che la diversa valutazione probatoria tra processo civile e penale non è frutto di una semplice scelta tecnica o di una diversa “sensibilità” dei giudici, ma espressione di principi giuridici fondamentali e di scelte valoriali profonde che riflettono la diversa funzione e la diversa “economia” dei due sistemi processuali.

Il probabilismo soggettivo, in quanto modello interpretativo flessibile e adattabile al contesto, si conferma uno strumento efficace per il processo civile, dove la decisione è sempre il risultato di un bilanciamento tra incertezza e coerenza logica. Tuttavia, è fondamentale ribadire che, pur nella cornice del probabilismo soggettivo, la valutazione probatoria in ambito penale deve essere improntata a un rigore e a una cautela ancora maggiori, in ragione della necessità di massime garanzie procedurali e di uno standard probatorio “oltre ogni ragionevole dubbio”, che costituisce presidio irrinunciabile per la tutela della libertà personale e per la legittimità del sistema penale nel suo complesso. Si tratta, in definitiva, di riconoscere che la “verità processuale”, pur nella sua dimensione di costruzione razionale e coerente, assume connotazioni e implicazioni profondamente diverse a seconda del contesto processuale in cui si manifesta.

Questa distinzione implica che lo stesso fatto possa essere valutato diversamente nei due contesti[81]. Ad esempio, un individuo potrebbe essere assolto in sede penale per insufficienza di prove atte a superare la soglia del “ragionevole dubbio”, ma potrebbe essere ritenuto responsabile in sede civile sulla base di una preponderanza dell’evidenza. Questo accade perché il processo civile tollera un certo grado di incertezza, privilegiando la soluzione che appare più probabile, laddove il processo penale esige un livello di plausibilità dell’accertamento molto più elevato.

In questa prospettiva, la valutazione probatoria si adatta alle finalità del processo: il giudice civile può affidarsi a una costruzione probabilistica del fatto, basata su una coerenza inferenziale accettabile; il giudice penale deve attenersi a un modello più rigoroso, in cui l’errore deve essere ridotto al minimo e gestito con criteri di garanzia più stringenti. La giurisprudenza più recente ci offre conferme preziose di questa impostazione. Ad esempio, la Cassazione ribadisce la necessità di una valutazione probatoria “libera” e contestualizzata nel civile, anche di fronte a prove “tipiche” come i verbali ispettivi[82]. E, ancora più significativamente, afferma la piena autonomia del giudice civile rispetto agli esiti del processo penale, anche in casi come il patteggiamento, dove la “logica probatoria” resta profondamente diversa[83].

L’estensione del paradigma del probabilismo soggettivo al processo penale solleva questioni critiche di non poco conto, legate alla tensione irrisolta tra esigenze epistemiche di flessibilità e garanzie di libertà individuale[84].

Lo standard dell’oltre ogni ragionevole dubbio (art. 533 c.p.p.) non solo riflette una diversa allocazione del rischio di errore (privilegiando i falsi negativi rispetto ai falsi positivi), ma segna una netta discontinuità con la logica della “preponderanza dell’evidenza” tipica della tecnica di valutazione probatoria civile. Mentre il giudice civile può fondarsi su una ricostruzione in termini di “più probabile che non”, il giudice penale deve raggiungere un grado di probabilità logica che si avvicini all’evidenza soggettiva della realtà storica[85].

L’applicazione del probabilismo soggettivo in ambito penale rischia di alterare questo equilibrio. Un esempio emblematico è offerto dai casi di identificazione tramite prove del DNA in contesti probabilisticamente complessi. Si pensi al problema della sindacabilità di decisioni del giudice di merito che abbia trascurato fattori contestuali (contaminazione del campione, margini di errore tecnico) che rendevano “ragionevolmente possibile” l’ipotesi dell’innocenza[86]. Una tale esigenza sottolinea come la mera probabilità matematica, se non integrata da una valutazione qualitativa del contesto, sia insufficiente a superare lo standard penale, confermando che il calcolo probabilistico non può sostituirsi a un giudizio olistico sulla coerenza della ricostruzione accusatoria.

Le critiche al modello probabilistico-soggettivo nel processo penale si concentrano su tre aspetti: a) rischio di falsi positivi: l’accettazione di conclusioni basate su gradi di probabilità “elevati ma non certi” (es. 95%) potrebbe condurre a condanne fondate su indizi statistici, violando il principio in dubio pro reo; b) soggettività del giudizio: la discrezionalità nel valutare la “coerenza” delle ipotesi introdurrebbe un’alea interpretativa incompatibile con il rigore delle garanzie penali; c) incommensurabilità dei valori: la libertà personale non è un interesse ponderabile con criteri probabilistici, richiedendo protezioni assolute che trascendono il calcolo utilitaristico del rischio.

Il contrasto emerge con chiarezza nel trattamento delle presunzioni. Mentre nell’ordinamento civile l’art. 2729 c.c. ammette presunzioni semplici fondate su indizi “gravi, precisi e concordanti”, in quello penale la giurisprudenza ha escluso che un fascio di indizi, per quanto convincente, possa sostituirsi alla prova diretta quando lo standard richiede l’eliminazione di ogni dubbio ragionevole.

In conclusione, il probabilismo soggettivo – pur rappresentando un avanzamento epistemologico nel settore civile – si scontra con l’architettura garantista del processo penale. La sfida per la scienza giuridica consiste nello sviluppare modelli ibridi che, pur valorizzando la logica dell’incerto, rispettino la natura “assiomatica” dello standard penale, evitando contaminazioni metodologiche che possano erodere le fondamenta stesse dello Stato di diritto.

Conclusioni

Il paradigma del probabilismo soggettivo si configura come una vera svolta concettuale nel diritto processuale civile, poiché abbandona l’illusione delle verità assolute per abbracciare un modello interpretativo in cui il giudice opera in un contesto di incertezza e frammentarietà delle informazioni. Il libero convincimento, in questo quadro, non è un atto arbitrario, bensì un metodo strutturato di valutazione che consente di integrare prove eterogenee all’interno di un ragionamento inferenziale coerente. La dottrina ha evidenziato come, in casi di responsabilità civile e accertamento del danno, il giudice debba utilizzare il criterio della massima probabilità logica per superare le lacune probatorie, ricostruendo il fatto controverso in termini di plausibilità. In particolare, si osserva come il libero convincimento, lungi dall’essere una formula astratta, venga applicato in modo da bilanciare la discrezionalità del giudice con la necessità di assicurare una motivazione solida e verificabile.

L’approccio qui delineato si oppone al determinismo statistico e al realismo ingenuo, ponendosi come alternativa epistemologica capace di integrare dimensioni empiriche, soggettive e normative in un dialogo continuo tra evidenza e interpretazione. La critica al determinismo statistico risiede nel fatto che l’affidarsi esclusivamente a dati quantitativi può condurre a una giustizia cieca alle peculiarità del caso concreto, trascurando le variabili contestuali che rendono ogni giudizio un unicum irriducibile a mere frequenze empiriche. Al contrario, il probabilismo soggettivo riconosce che l’incertezza non è un ostacolo, bensì una risorsa epistemologica e procedurale, poiché permette al giudice di adottare un modello di valutazione flessibile e adattabile alle specificità della controversia. Un confronto con i paradigmi interpretativi tradizionali evidenzia come il modello del probabilismo soggettivo risponda in modo più adeguato alla complessità del processo contemporaneo, superando il formalismo rigido della prova legale e il rischio di arbitrarietà insito in una discrezionalità priva di criteri guida. Studi comparati dimostrano, inoltre, come in alcuni ordinamenti di common law la nozione di balance of probabilities si avvicini alla prospettiva qui delineata, evidenziando come il ragionamento probatorio si configuri come un processo di costruzione logica e non come un mero riconoscimento di dati preesistenti.

Il processo civile, quale strumento di risoluzione delle controversie fondato sulla libera valutazione della prova, si configura come un contesto in cui il rigore formale delle norme procedurali entra in tensione con la complessità epistemologica dei fatti da accertare. In tale ambito, il probabilismo soggettivo si propone non solo come una teoria dell’apprezzamento probatorio, ma come un modello di razionalità processuale in grado di superare le derive opposte – eppure complementari – del formalismo, dell’attivismo giudiziario e del logicismo applicativo, rischi che, se non adeguatamente bilanciati, possono compromettere la legittimità della decisione. Il formalismo, inteso come la riduzione del processo a un iter predeterminato, tende a soffocare l’incertezza epistemica e a relegare il giudice alla mera registrazione dei risultati tecnici, soprattutto quando le evidenze da esaminare sono di natura tecnica o statistica. In questi casi, il magistrato potrebbe cadere in una forma di deferenza che implica un’accettazione acritica del linguaggio specialistico come “verità oggettiva”, trascurando le eventuali distorsioni metodologiche – intese come errori sistematici nella selezione dei dati o nelle modalità di elaborazione degli algoritmi – che inevitabilmente condizionano tali risultati. Questa dinamica trasforma la perizia in un giudizio integrale, in contrasto con il principio dispositivo e riducendo la prova a un mero fatto tecnico, così escludendo il fondamentale ruolo mediatorio del giudice tra il sapere scientifico e il diritto.

Al contempo, l’attivismo giudiziario comporta il rischio che il magistrato, aspirando a rivestire il ruolo di esperto, si sostituisca all’esperto stesso e operi una valutazione basata su una ricostruzione fattuale influenzata dalle proprie esperienze e sensibilità. Tale sostituzione comporta una delega in certam personam che priva la decisione di un vaglio critico rigoroso e la rende suscettibile a valutazioni preconcette, soprattutto in contesti di elevata complessità tecnica. Parallelamente, il logicismo applicativo, orientato alla quantificazione delle evidenze mediante modelli bayesiani, rischia di meccanizzare il ragionamento decisionale, introducendo ulteriori errori sistematici – ad esempio, quelli derivanti da un’errata interpretazione dei dati o dall’effetto di ancoraggio – poiché i parametri numerici, per quanto sembrino oggettivi, sono sempre il prodotto di scelte interpretative soggettive.

Questa pluralità di rischi evidenzia la necessità di un approccio ibrido, in cui la logica probabilistica si integri con la coerenza narrativa della ricostruzione fattuale. Il probabilismo soggettivo riconosce che gli eventi processuali sono fatti storici irripetibili e che la loro valutazione non può prescindere da un ragionamento interpretativo che coniughi elementi quantitativi, la contestualizzazione dei fatti e valutazioni qualitative. Ad esempio, in un contesto di responsabilità medica, il vaglio di perizie contrastanti non deve ridursi a una semplice aggregazione numerica, bensì deve comportare l’identificazione delle diverse opzioni metodologiche adottate dagli esperti, una valutazione critica della trasparenza delle fonti e dei protocolli adottati e, infine, l’integrazione delle inferenze statistiche in una ricostruzione narrativa che evidenzi la rilevanza specifica delle evidenze per il caso in esame. In questa prospettiva, il giudice non si limita a fungere da mero “registratore” di esiti tecnici, né si sostituisce all’esperto, ma opera come mediatore epistemico, capace di tradurre i dati tecnici in una narrazione plausibile e coerente, che tenga conto delle possibili imprecisioni derivanti da errori sistematici nelle scelte metodologiche. Tale approccio, evitando il formalismo riduttivo, l’attivismo sostitutivo e il logicismo meccanico, preserva la funzione critica e decisionale del giudice, garantendo al contempo una ricostruzione razionale, trasparente e consapevole della natura intrinsecamente incerta dei fatti processuali.

In conclusione, il probabilismo soggettivo offre una chiave di lettura innovativa per comprendere la complessità del ragionamento probatorio, evidenziando come la soggettività del giudice e la coerenza argomentativa possano costituire il fondamento per una giustizia dinamica e umanizzata. Riconoscere che la prova non è un dato assoluto, ma una costruzione razionale, consente di ripensare gli strumenti processuali alla luce di una maggiore trasparenza e verificabilità delle decisioni[87]. In questa prospettiva, si aprono spazi per possibili riforme processuali orientate a rafforzare il dialogo interpretativo tra le parti e il giudice, attraverso strumenti come il rafforzamento della motivazione probatoria, la promozione di metodi argomentativi strutturati e la valorizzazione di standard probatori adattabili alla specificità dei casi. Una giustizia basata sul probabilismo soggettivo non solo risponde alle esigenze epistemologiche di un processo fondato sull’incertezza, ma rappresenta anche un modello più equo e razionale, capace di garantire decisioni giustificate e coerenti con la complessità del reale.

[1] B. de Finetti, Fondamenti logici del ragionamento probabilistico, in Bollettino della Unione Matematica Italiana, 1930, 258 ss.; Id., La prévision: ses lois logiques, ses sources subjectives, in Annales de l’Institut Henri Poincaré, 7, 1937, 1 ss.; Id., Teoria delle probabilità. Sintesi introduttiva con appendice critica, 2 voll., Torino 1970; Id., La logica dell’incerto, Milano 1989. Sull’opera di questo importante matematico, cfr. il volume collettaneo Riflessioni sull’opera di Bruno de Finetti. Probabilità, economia, società, Atti del convegno di Roma, 6 aprile 2016, in occasione della presentazione del volume Bruno de Finetti. Un matematico tra Utopia e Riformismo, Roma 2015.

[2] Su questo tema si veda Th. Bayes, Essay Towards Solving a Problem in the Doctrine of Chances, in Philosophical Transactions of the Royal Society, LIII, 1763 (pubbl. postumo), 370 ss., dove viene formulato il celebre teorema che costituisce il fondamento dell’approccio probabilistico all’inferenza. La prospettiva epistemologica che ne deriva è stata successivamente sviluppata nell’ambito della semiotica e della logica dell’indagine da Ch.S. Peirce, il quale ha elaborato la distinzione tra deduzione, induzione e abduzione (Collected Papers, a cura di Ch. Hartshorne e P.P. Weiss, Cambridge 1965, 5, 189 ss.). Per un approfondimento sul ruolo dell’abduzione nella costruzione delle ipotesi probatorie, cfr. Ch.S. Peirce, Scritti di filosofia, Bologna 1978, 289 ss., in particolare 296, e Id., Caso amore e logica, Torino 1956, 95 ss. L’applicazione di modelli inferenziali alla logica giuridica è stata poi oggetto di riflessione critica da parte di G. Kalinowski, Introduzione alla logica giuridica, Milano 1971, 206 ss., che definisce “riduttivo” il ragionamento in cui si risale da un effetto alla sua possibile causa, e da parte di T. Govier, A Practical Study of Argument, III ed., California 1992, che introduce il concetto di argomento “conduttivo”, caratterizzato dalla convergenza di più indizi verso una medesima conclusione; per una disamina critica, v. G. Tuzet, La prima inferenza. L’abduzione di C. S. Peirce fra scienza e diritto, Torino 2006; Id., La prova ragionata, Milano 2023.

[3] Su questi aspetti, cfr. M. Taruffo, Funzione della prova: la prova dimostrativa, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1997, 553 ss.; Id., Note sparse su probabilità e logica della prova, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2014, 1507 ss.; Id., Verità e prova nel processo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2018, 1305 ss.; A. Carratta, Funzione dimostrativa della prova (verità del fatto nel processo e sistema probatorio), in Riv. dir. proc., 2001, 73 ss.; G. Carcaterra, La logica e le prove, in Scritti in onore di C. Punzi, Torino 2008, 478 ss.; J. Ferrer Beltrán, La valutazione razionale della prova, tr. it., Milano 2012; P. Garbolino, Probabilità e logica della prova, Milano 2014; R. Poli, Diritto alla prova scientifica, obbligo di motivazione e sindacato in sede di legittimità, in Giust. civ., 2018, 417 ss.; Id., Gli standard di prova in Italia, in Giur. It., 2018, 2517 ss.; Id., Logica e razionalità nella ricostruzione giudiziale dei fatti, in Riv. dir. proc., 2020, 515 ss. (una rielaborazione complessiva è in R. Poli, Prova e convincimento giudiziale del fatto, Torino 2023); D. Canale, G. Tuzet, La giustificazione della decisione giudiziale, Torino 2019.

[4] C. Nitsch, Il giudice e la legge. Consolidamento e crisi di un paradigma nella cultura giuridica italiana del primo Novecento, Milano 2012, 27 ss., trasporta nell’ambito del processo civile i concetti kuhniani di “paradigma” e “scienza normale”, per indagare la struttura delle rivoluzioni scientifiche. Cfr. sul punto, F. Viola, Una teoria deliberativa della giurisdizione?, in Ars interpretandi, 7, 2018, 13 ss.; Id., Autorità e ordine del diritto, Torino 1987; Id., Rule of Law. Il governo della legge ieri ed oggi, Torino 2011; Id., «Il diritto come arte della convivenza civile», in Riv. int. fil. dir., 4, 2015, 57 ss.

[5] I paradigmi qui esaminati – “formalismo”, “interventismo” (o attivismo) giudiziario e “logicismo” applicativo – rappresentano costruzioni teoriche di natura esogena, elaborate per identificare le principali direttrici evolutive del diritto processuale civile. Questi modelli non costituiscono categorie normative codificate nell’ordinamento positivo, ma fungono da chiavi interpretative attraverso cui analizzare le modalità con cui il processo gestisce l’incertezza fattuale e disciplina la complessa interazione tra soggetti processuali e norme giuridiche, integrando prospettive strettamente giuridiche con dimensioni socio-istituzionali. L’approccio “strumentale” ai modelli impone di valutarli non sul piano della coerenza teorica assoluta, ma su quello della performatività contestuale: la loro capacità di mediare tra norme, soggetti e realtà sociale, accettando limiti e ambiguità come inevitabili. Lo studio si concentrerà pertanto sul nesso tra paradigmi e standard di prova, dove l’incompletezza diventa risorsa – anziché difetto – per governare l’incertezza senza rinunciare all’effettività della tutela.

[6] O. von Bülow, Das Geständnisrecht. Ein Beitrag zur Allgemeinen Theorie der Rechtshandlungen, Freiburg-Leipzig-Tübingen 1899, 245; M. Pagenstecher, Zur Lehre von der materielles Rechtskraft, Berlin 1905, 179 ss., 217.

[7] Una lettura ampia del formalismo ne riconosce il ruolo strutturale all’interno dell’ordinamento stesso. Non si tratta qui solo di esigibilità di particolari modalità formali, ma dell’identificazione della “forma” come parametro organizzativo che determina la regolarità dell’intero sistema normativo. In tale prospettiva, gli elementi tecnici – quali la prescrizione, la pubblicità degli atti, o i termini processuali – assumono il ruolo di elementi imprescindibili per la stabilità e la prevedibilità delle relazioni giuridiche. Sul punto, v. R. Orestano, voce Formalismo giuridico, in Enc. it., Appendice, III, Roma 1961, 658 ss., poi in Id., Scritti, III, Napoli 1998, 1531 ss. In particolare, l’analisi del formalismo processuale si configura come una disamina complessa, che non solo intende delineare le specifiche modalità operative attraverso cui si estrinseca l’applicazione delle regole di rito ma si presta, altresì, a riflessioni epistemologiche e ontologiche sul concetto stesso di “forma” nell’esperienza processuale. Tale analisi si articola in più dimensioni, ognuna delle quali contribuisce a definire e a contestualizzare l’uso del formalismo nell’ordinamento processuale (ad es., la corretta redazione degli atti, il rispetto dei termini e l’adozione delle procedure previste rilevano ai fini della garanzia di trasparenza e prevedibilità del procedimento stesso). Nella letteratura recente, v. A. De Oliveira, Il formalismo nel processo civile (Proposta di un formalismo-valutativo), Milano 2013, spec. 93 ss.; G. Leone, L’eterna lotta tra il formalismo esasperato e il principio della prevalenza della sostanza sulla forma, in Il diritto processuale civile italiano e comparato, 4, 2022, 430 ss.

[8] Sull’interventismo dei giudici nell’esperienza processuale tra Otto e Novecento, v. A. Carratta, Funzione sociale e processo civile fra XX e XXI secolo, nel lavoro collettaneo La funzione sociale nel diritto privato tra XX e XXI secolo, a cura di F. Macario, M.N. Miletti, Roma 2017, 87 ss.; sulla persistenza del problema, v. F. Cipriani, Il processo civile tra vecchie ideologie e nuovi slogan, in Riv. dir. proc, 2003, 453 ss.; J. Ferrer Beltrán, Los poderes probatorios del juez y el modelo de proceso, in Cuadernos Electrónicos de Filosofía del Derecho, 2017, 89 ss.

[9] P. Calamandrei, La genesi logica della sentenza civile, in Riv. crit. scienze soc., 1914, 290 ss., poi in Id., Opere giuridiche, a cura di M. Cappelletti, vol. I, Napoli 1965, 11 ss. Sebbene la descrizione del ragionamento giudiziale come catena di sillogismi evidenzi l’articolazione deduttiva del processo decisionale, tale modello non cattura la complessità dell’attività del giudice, che integra elementi empirici, valutazioni interpretative e discrezionalità (v. i rilievi critici di G. Calogero, La logica del giudice e il suo controllo in Cassazione, Padova 1937, 65 ss., 154; C. Vocino, Sulla c.d. «attuazione della legge» nel processo di cognizione, in Studi in onore di Enrico Redenti, Milano 1951, II, 587 ss.; per una disamina delle vicende culturali, legate all’influsso del crocianesimo, v. C. Nitsch, Il giudice e la legge, cit. [supra nt. 4], passim, spec. 76 ss.). Il ragionamento probatorio civile è un processo dinamico di valutazione della coerenza e plausibilità delle ipotesi, che trascende la mera applicazione meccanica di norme e richiede una ponderazione argomentativa capace di bilanciare autonomia valutativa e obbligo di motivazione (sul punto, v. F. Riccobono, Sussunzione e discrezionalità nella individuazione del diritto. Momenti di un percorso antilogicistico nella teoria giuridica novecentesca, in Sociologia, 43, 2009, 31 ss.; L. Passanante, Il precedente impossibile. Contributo allo studio del diritto giurisprudenziale nel processo civile, Torino 2018, 73 ss.). Pertanto, il modello sillogistico va abbandonato in favore di un approccio più articolato, che consideri il ragionamento giudiziale come percorso inferenziale complesso, in cui la logica formale si integra con la valutazione critica e la contestualizzazione delle prove.

[10] Sul pragmatismo, cfr. G. Verde, La prova nel processo civile. Profili di teoria generale, in Riv. dir. proc., 1998, 14 ss. L’A. si definisce, con una cautela che tradisce una profonda consapevolezza epistemologica, un fautore di un “approccio assai empirico” al problema della prova. Questa auto-qualificazione non è affatto marginale, ma rivela una precisa posizione teorica: per Verde, la prova non è una finestra sulla verità ontologica, ma uno strumento operativo per ricostruire eventi passati nel processo. Come egli stesso sottolinea, si tratta di “parlare della prova come del mezzo per la ricostruzione di vicende passate senza neppure sfiorare il problema dell’esistenza di cose, strumenti o uomini in sé significanti” (Ibidem, cit.,14). Interessante è la convergenza tra questo approccio empirico e il probabilismo soggettivo. Entrambi si distaccano da una concezione fondazionalista della verità – intesa come dato preesistente e oggettivamente accertabile – per concentrarsi sul processo di costruzione della conoscenza probatoria. Sebbene il probabilismo soggettivo si avvalga di strumenti concettuali più formalizzati, mutuati dall’epistemologia bayesiana, esso condivide con il pragmatismo l’attenzione alla dimensione pratica e contestuale della verità processuale. Entrambe le prospettive riconoscono, infatti, che la “verità processuale” non è una verità “in sé”, ma una verità costruita, negoziata e relativa al contesto processuale specifico. Tuttavia, emergono anche alcune tensioni significative tra i due approcci. L’empirismo di Verde, pur consapevole della necessità di rigore logico, esprime un atteggiamento critico verso un’eccessiva formalizzazione del ragionamento probatorio, insistendo sull’importanza del “linguaggio comune” e di un approccio ancorato all’esperienza concreta del processo. Il probabilismo soggettivo, per contro, pur evitando il determinismo statistico, rivela un’attenzione significativa alla struttura logica delle inferenze probabilistiche e all’impiego di modelli concettuali flessibili per orientare la valutazione della prova. Questa tensione, del resto, non appare necessariamente conflittuale, ma può essere interpretata come una complementarità produttiva: l’approccio empirico di Verde mette in evidenza i rischi di un tecnicismo sterile, richiamando l’attenzione sulla dimensione umana e contestuale della prova, mentre il probabilismo soggettivo fornisce strumenti concettuali rigorosi per dare ordine e coerenza alla valutazione probatoria. In tal senso, entrambi gli approcci contribuiscono a delineare una teoria della prova capace di combinare rigore metodologico e sensibilità pratica. Sul pragmatismo v. anche P. Biavati, Argomenti di diritto processuale civile, Milano, 2016, III ed., 285 ss.

[11] Sull’incertezza del fatto (e il problema del divieto di non liquet), v. G. Verde, L’onere della prova nel processo civile, Napoli 1974 (rist. Camerino 2018); Id., voce Prova (dir. proc. civ.), in Enc. dir., XXXVII, Milano 1988, 579 ss.; L.P. Comoglio, Le prove civili, Torino 2010, III ed., 177 ss.

[12] Cfr. P. Barcellona, I soggetti e le norme, Milano 1984, 1 ss., 141 ss.

[13] Cfr. A. Proto Pisani, Il codice di procedura civile del 1940 fra pubblico e privato: una continuità nella cultura processualcivilistica rotta con cinquanta anni di ritardo, in Quaderni fiorentini, 28, 1999, 713 ss.; A. Chizzini, Pensiero e azione nella storia del processo civile. Studi, II ed., Torino 2014.

[14] Rilievi critici in S. Satta, Il formalismo nel processo, in Soliloqui e colloqui di un giurista, Padova 1968, 44 ss.

[15] Esemplare l’impostazione di G. Chiovenda, Le riforme processuali e le correnti del pensiero moderno, in Saggi di diritto processuale civile, I, Roma 1930, 379 ss., 389 ss. (rist. Milano 1993, 385 ss.)

[16] O. Bülow, Gesetz und Richteramt, Berlin 1885 (tr. it. a cura di A. Sandri in Il giusto processo civile, 2011, 1269 ss.); v. i rilievi di A. Nikisch, Der Streitgegenstand im Zivilprozess, Tübingen 1935, 1, nt. 2.

[17] O. Bülow, Die Lehre von den Prozeßeinreden und die Prozeßvoraussetzungen, Giessen 1868. Importanti i rilievi di M. Marinelli nell’introduzione alla traduzione italiana di J. Goldschmidt, Il processo come situazione giuridica. Una critica del pensiero processuale, Torino 2019, IX ss., ove si coglie l’impatto del pensiero del Bülow e la contrapposizione di uno studioso della generazione successiva, come Goldschmidt; v. pure C. Do Couto e Silva, Contribution à une histoire des concepts dans le droit civil et dans la procédure civile (L’actualité de la pensée d’Otto Karlowa et d’Oskar Bülow), in Quaderni fiorentini, 14, 1985, 243 ss.

[18] D. Brüggemann, Judex statutor und judex investigator, Bielefeld 1968, 125 ss., 159 ss., 179 ss.; M. Cappelletti, Processo e ideologie, Bologna 1969, 18 ss., 163 ss., 207 ss.; V. Denti, Processo civile e giustizia sociale, Milano 1971, 69 ss.; J.J. Hagen, Die soziale Funktion des Prozesses, in Zeitschrift für Zivilprozess, 84, 1971, 385 ss.; Id., Elemente einer allgemeinen Prozesslehre, Freiburg 1972, 43 ss.; R. Wassermann, Der soziale Zivilprozess: Zur Theorie und Praxis des Zivilprozesses im sozialen Rechtsstaat, Neuwied 1978, 68 ss.; E. Schmidt, Von der Privat- zur Sozialautonomie, in Juristen-Zeitung, 1980, 153 ss.

[19] F. Baur, Potere giudiziale e formalismo processuale civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1965, 1698 ss.

[20] E. Fazzalari, Diffusione del processo e compiti della dottrina, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1958, 861 ss.; Id., L’esperienza del processo nella cultura contemporanea, in Riv. dir. proc., 1965, 107 ss.

[21] O. Von Bülow, Die neue Prozessrechtswissenschaft und das System des Zivilprozessrechts, in Zeischrift für Zivilprozess, 1900, 201 ss.; diversa la posizione di J. Goldschmidt, Der Prozess als Rechtslage, Berlin 1925, 146 ss.; v. supra nt. 17.

[22] Nella letteratura italiana, v. A. Diana, Dei rapporti processuali, Milano 1901; G. Chiovenda, Rapporto giuridico processuale e litispendenza, in Saggi di diritto processuale civile (1894-1937), II, rist., Milano 1993, 375 ss.; P. Calamandrei, Il processo come situazione giuridica, in Riv. dir. proc. civ., 1927, 219 ss. [in questo scritto si recensiva criticamente l’opera di J. Goldschmidt, Der Prozess als Rechtslage. Eine Kritik des prozessualen Denkens, cit. (supra nt. 17 e 21) sulla scorta dell’adesione formalistica e incondizionata (da parte di Calamandrei) alla teoria del rapporto giuridico processuale; in seguito il maestro fiorentino muterà atteggiamento: v. P. Calamandrei, Un maestro di liberalismo processuale, in Riv. dir. proc., 1951, 1 ss.].

[23] F. Carnelutti, Lezioni di diritto processuale civile, II, Padova 1920, 142: «non il processo serve ai litiganti, ma i litiganti servono al processo».

[24] O. von Bülow, Gesetz und Richteramt, cit. [supra, nt. 16].

[25] O. von Bülow, Civilprocessualische Fiktionen und Wahrheiten, in Archiv für civilistische Praxis, 62, 1879, 1 ss., 59 ss.

[26] Cfr. da ultimo, D. Noviello, Le ammissioni delle parti nella logica del giudizio di fatto, Torino 2023, 3.

[27] Sul carattere interpretativo della prova e sulla sua evoluzione nei modelli processuali, si veda L. Lombardo, La prova giudiziale. Contributo alla teoria del giudizio di fatto nel processo, Milano 1999, 39 ss. Per una disamina critica del realismo ingenuo, v. E. Marchese, Nient’altro che la verità? Finzioni giuridiche del discorso aletico, Milano 2024, 55 ss.

[28] Già agli inizi del XX secolo, movimenti di pensiero come la Freirechtsbewegung in Europa e il realismo giuridico americano (v. M. Cappelletti, Processo e ideologie, cit. [supra nt. 18]; R. Wassermann, Der soziale Zivilprozess, cit. [supra nt. 18]; G. Tarello, Il realismo giuridico americano, Milano 1962; L. Lombardi Vallauri, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano 1967, 201 ss.; S. Castignone, Diritto, linguaggio, realtà. Saggi sul realismo giuridico, Torino 1995, spec. 273 ss.) avevano messo in discussione il formalismo giuridico e l’idea di un’applicazione meccanica e predeterminata della norma al caso concreto. Entrambi questi movimenti – pur con differenze significative di contesto e di prospettiva – convergevano nel sottolineare il ruolo creativo e discrezionale del giudice, e nel riconoscere che la decisione giudiziale non è mai una mera “scoperta” di una verità giuridica preesistente, bensì una costruzione interpretativa calata nel contesto fattuale e sociale della controversia. Tuttavia, come evidenzia la storia di questi movimenti, il superamento del formalismo e la valorizzazione della discrezionalità giudiziale possono assumere significati e implicazioni profondamente diversi a seconda del contesto politico e culturale richiedendo, pertanto, un’attenta valutazione critica delle loro potenzialità e dei loro rischi. Mentre il realismo giuridico americano, sviluppatosi in un contesto democratico e pluralista, mirava a un diritto più aderente alle realtà sociali e a una giustizia sostanziale e orientata al cambiamento sociale, alcune correnti della Freirechtsbewegung, pur condividendo una critica al formalismo, potevano essere utilizzate – e di fatto furono strumentalizzate in regimi autoritari – per giustificare un ampliamento del potere giudiziario in funzione di un maggiore controllo statale sulla giustizia, e non necessariamente a garanzia di una maggiore tutela dei diritti individuali e della giustizia sostanziale. Mentre il realismo americano, con figure come Roscoe Pound, Benjamin Cardozo e Karl Llewellyn, si sviluppava in un contesto di pluralismo democratico e di forte attenzione alle dinamiche sociali, enfatizzando il ruolo del diritto come strumento di ingegneria sociale e di adattamento al cambiamento, la Freirechtsbewegung, pur comprendendo figure di orientamento liberale e progressista (come Hermann Kantorowicz o Ernst Fuchs), annoverava anche esponenti che – in contesti politici diversi e in un clima culturale segnato da un forte statalismo e da una tradizione burocratica più radicata – potevano essere (e furono di fatto) strumentalizzati per giustificare un ampliamento del potere discrezionale del giudice in funzione di interessi autoritari e di controllo sociale. Figure come Carl Schmitt o Santi Romano, pur con differenze notevoli tra loro, rappresentano esempi di come la critica al formalismo e l’enfasi sulla “decisione” giudiziale potessero essere piegate a logiche illiberali e antidemocratiche. Questa ambivalenza intrinseca al superamento del formalismo e alla valorizzazione della discrezionalità giudiziale suggerisce che la “logica dell’incerto”, pur rappresentando un avanzamento epistemologico necessario, deve essere affrontata con consapevolezza critica e attenzione alle implicazioni politiche e ideologiche che inevitabilmente si connettono a ogni modello di ragionamento giuridico.

[29] Su quest’autore e sull’influenza nel pensiero di Chiovenda, cfr. A. Carratta, Funzione sociale e processo civile fra XX e XXI secolo, cit. [supra nt. 8], 87 ss., spec. 121 s. In questo lavoro si affrontano aspetti che nell’economia del nostro saggio potremmo solo accennare, a cominciare dal problema delle origini della Sozialfunktion del processo civile in Franz Klein (ivi, 91 ss.), alle teorie pubblicistiche dell’azione e del rapporto giuridico processuale (ivi, 110 ss.), all’inclinazione ‘pragmatica’ di autori come Mortara, Lessona e Redenti (ivi, 113 ss.).

[30] G. Chiovenda, Lo stato attuale del processo civile in Italia e il progetto Orlando di riforme processuali, Id., Saggi di diritto processuale civile (1900-1930), I, cit. [supra nt. 15], 395 ss.; Id., Sul rapporto tra le forme del procedimento e la funzione della prova, in Saggi di diritto processuale civile (l’oralità e la prova), II, Roma 1931, 197 ss. Sul punto cfr. M. Taruffo, Sistema e funzione del processo civile nel pensiero di Giuseppe Chiovenda, in Riv. trim. dir. proc. civ., 40, 1986, 1133 ss.; M. Meccarelli, Giuseppe Chiovenda, in Enciclopedia Italiana di Scienze, Il contributo italiano alla storia del pensiero, VIII appendice, Roma 2012, 463 ss.; V. Ansuanelli, Alle radici del progetto Chiovenda – fra modernismo processuale e… adversary system, in Il giusto processo civile, 2, 2019, 387 ss.

[31] Cfr. i rilievi critici di B. Cavallone, Forme del procedimento e funzione della prova (ottant’anni dopo Chiovenda), in Riv. dir. proc., 2006, 425 ss. Nelle esperienze di common law, a partire dalla fine del XIX secolo e nel corso del XX, si assisteva a un’evoluzione analoga, caratterizzata da una progressiva erosione del modello processuale tradizionale – fortemente incentrato sull’iniziativa esclusiva delle parti – e dall’emergere di un ruolo giudiziale più attivo nella gestione del processo e nella direzione dell’istruttoria. Tuttavia, è importante sottolineare come le ragioni e le modalità di questa evoluzione divergevano sensibilmente nei due contesti. Mentre in area germanica e in Italia l’accentuazione dei poteri giudiziali si legava a un’istanza di pubblicizzazione del processo, connessa a ideologie stataliste e a una maggiore diffidenza verso l’autonomia delle parti, nelle esperienze di common law – e segnatamente negli Stati Uniti e in Inghilterra – la spinta verso un ruolo giudiziale più attivo si radicava piuttosto in esigenze di maggiore efficienza del processo, di contenimento dei costi e di miglioramento della qualità complessiva della decisione giudiziaria. In quest’ultimo caso, l’evoluzione non mirava primariamente a rafforzare il controllo statale sulla giustizia civile, bensì a ottimizzare il funzionamento del sistema processuale in risposta alle sfide poste dalla complessità del contenzioso contemporaneo e dalla crescente domanda di tutela effettiva dei diritti. Le diverse tradizioni culturali e politiche, nonché la differente concezione del ruolo del giudice nei due mondi giuridici conferivano, dunque, a questa tendenza evolutiva significati e implicazioni profondamente distinti.

[32] G. Chiovenda, Principi di diritto processuale civile, IV ed., Napoli 1928, 796.

[33] A. Wach, Handbuch des deutschen Civilprozessrechts, Leipzig 1885, I; rilevante per la preminente attenzione alle questioni casistiche e assai preziosa sul piano metodologico, la lettura di A. Stoelzel, Schulung für die civil Praxis, I, IX ed. 1913; II, V ed. 1914; v. pure K. Korsch, Die Anwendung der Beweislastregeln im Zivilprozess und das qualifizierte Geständnis, Bonn 1911; K. Hellwig, System des deutschen Zivilprozessrechts, I, Leipzig 1912; F. Carnelutti, Lezioni di diritto processuale civile, II, Padova 1922; L. Rosenberg, Die Beweislast auf der Grundlage des Bürgerlichen Gesetzbuchs und der Zivilprozessordnung, München-Berlin, II ed. 1923.

[34] Cfr. G. Chiovenda, Principi, cit. [supra nt. 32], 786: “la teoria dell’onere della prova è strettamente connessa alla conservazione del principio dispositivo nel processo, per ciò che riguarda l’accertamento dei fatti. In un sistema che ammettesse la ricerca d’uffizio della verità dei fatti, la ripartizione dell’onere della prova non avrebbe significato” (v. G.A. Micheli, L’onere della prova, Padova 1942 (rist. 1962), 107 ss., 251 ss.; G. Verde, L’onere della prova nel processo civile, cit. [supra, nt. 11], 14, nt. 7).

[35] G. Chiovenda, L’azione nel sistema dei diritti, Bologna 1903, poi in Id., Saggi di diritto processuale civile, cit. [supra nt. 15], 3 ss. Cfr. A. Proto Pisani, Ricordando Giuseppe Chiovenda: le note alla «Azione nel sistema dei diritti» del 1903, in Foro it., 126, 2003, 61 ss. Sul pensiero di Chiovenda, v. almeno, G. Capograssi, Intorno al processo (Ricordando Giuseppe Chiovenda) [1938], in Id., Opere, vol. 4, Milano 1959, 131 ss.; G. Tarello, Dottrine del processo civile. Studi storici sulla formazione del diritto processuale in Italia, a cura di R. Guastini, G. Rebuffa, Bologna 1989, spec. 74 ss., 109 ss., 243 ss.; F. Cipriani, Scritti in onore dei patres, Milano 2006, spec. 221 ss., 249 ss., 281 ss., 287 ss., 297 ss., 473 ss.

[36] F. Carnelutti, La prova civile. Parte generale. Il concetto giuridico della prova, Roma 1915.

[37] Rilievi critici in M. Taruffo, Carnelutti e la teoria della prova, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2016, 399 ss., poi in Id., Verso la decisione giusta, Torino 2020, 315 ss.; per una rilettura delle riflessioni di Carnelutti sulla valutazione della prova, cfr. S. Patti, Prova legale e «apprezzamento dei mezzi di prova» nel pensiero di Francesco Carnelutti, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2016, 426 s.; sul metodo di Carnelutti, da ultimo, v. A. Panzarola, Carnelutti e i principi tra metodo dogmatico e teoria generale del diritto, in Per Francesco Carnelutti a cinquant’anni dalla scomparsa, a cura di G. Tracuzzi, Padova, 2015, 55 ss., ora in Id., Principi e regole in epoca di utilitarismo processuale, Bari, 2022, 187 ss.

[38] F. Carnelutti, Teoria generale del diritto, III ed., Roma 1951, 372.

[39] F. Carnelutti, La prova civile, cit. [supra nt. 36], 39 ss., 54 ss.

[40] F. Carnelutti, Diritto e processo, Napoli 1957, 128.

[41] La sua critica si rivolgeva, in particolare, a quella che egli definisce una “fossilizzazione” della scienza giuridica in un formalismo che, pur garantendo apparentemente rigore e coerenza, perde di vista la dimensione umana e concreta del giudizio. In questo senso, il pensiero di Satta presenta alcuni punti di contatto con quello di Chiovenda, nella misura in cui entrambi rivendicano un ruolo attivo per il giudice e una maggiore attenzione alla realtà sostanziale. Tuttavia, Satta si spingeva oltre, mettendo in discussione la stessa struttura dualistica del processo (norma/fatto, diritto sostanziale/diritto processuale) e affermando l’unità inscindibile di norma e giudizio. Cfr. S. Satta, Dalla procedura civile al diritto processuale civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 18, 1964, 28 ss., poi in Id., Soliloqui e colloqui di un giurista, Padova 1968; rist. 1986, 100 ss.; Id., Un giudizio di conciliazione ovvero la giustizia di Evaristo, ivi, 284 ss.; Id., Il giudice e la legge, in Quaderni del diritto e del processo civile, IV, Padova 1970, 8 ss.

[42] Nel contesto di common law, Kevin M. Clermont (A Theory of Factfinding: The Logic for Processing Evidence, in Marq. L. Rev., 104, 2020, 351 ss.) sviluppa un modello di accertamento dei fatti basato non su un calcolo meramente probabilistico, ma sulla formazione di gradi di credenza. Secondo questa impostazione, il giudice non quantifica la probabilità di un fatto in termini numerici, bensì costruisce un livello di convinzione che riflette il pieno accertamento degli elementi probatori. Clermont critica il probabilismo per la sua incapacità di considerare l’incertezza epistemica, sostenendo che il processo decisionale giudiziario richieda una maggiore flessibilità interpretativa. A tal fine, egli propone una “teoria della credenza multivalente”, secondo cui i gradi di credenza non sono additivi e possono coesistere con gradi di discredito e con una “credenza non impegnata”, che rappresenta l’incertezza residua. Questo approccio si discosta dall’idea che la valutazione della prova possa ridursi a un calcolo probabilistico, suggerendo invece un processo inferenziale più articolato. Gli standard di prova, in questa prospettiva, operano proprio su questi gradi di credenza, richiedendo un certo livello di convinzione interna da parte del giudice di fatto. Sulle implicazioni epistemologiche dell’induzione e della probabilità nel processo inferenziale, cfr. L.J. Cohen, Introduzione alla filosofia dell’induzione e della probabilità, Milano 1998, 31 ss.; vedi pure M. Capecchi, Il nesso di causalità. Dalla condicio sine qua non alla responsabilità proporzionale, Padova 2012; N. Rizzo, La causalità civile, Torino, 2022.

[43] Il termine “plausibile”, nel contesto della valutazione probatoria civile, non va inteso come sinonimo di mera “verosimiglianza” o “possibilità astratta”, bensì come “ragionevolezza”, “credibilità” e “sostenibilità logico-argomentativa” di una ricostruzione fattuale alla luce del complesso probatorio disponibile. Una ricostruzione “plausibile” è quella che, pur ammettendo un margine di incertezza residua, appare comparativamente più convincente rispetto alle alternative, in quanto meglio supportata dalle evidenze, più coerente con le massime di esperienza, più compatibile con il contesto normativo e meno vulnerabile a obiezioni critiche. In questo senso, la “plausibilità” si configura come un criterio di “sufficienza probatoria” qualitativo, che trascende la mera probabilità statistica e valorizza la coerenza complessiva del ragionamento inferenziale e la giustificabilità razionale della decisione. La nostra definizione della “plausibilità” come criterio di “sufficienza probatoria” non è in contrasto con l’analisi bayesiana di autori come G. Tuzet, La prova ragionata, cit. (supra nt. 2), 187 ss., 217 ss. Secondo quest’ultimo, argomentando in tema di prova scientifica – e distinguendo tra valutazioni di verosimiglianza (p(E/H)) dei consulenti tecnici, rispetto a valutazioni sulla probabilità a posteriori (p(H/E)), tipiche del giudice –la ‘plausibilità’ richiederebbe una ricostruzione fattuale che risulti coerente con le prove e con le “massime di esperienza” e la “sensibilità giuridica” del magistrato. Tuzet accetta i modelli bayesiani solo se sono trasparenti e comprensibili, integrati con una ricostruzione narrativa dei fatti e se evitano di ridurre la prova a statistiche astratte prive di contesto causale. La trasparenza, infatti, non è solo una formalità, ma un requisito epistemologico: gli esperti devono fornire non solo calcoli numerici, ma anche spiegazioni contestuali e documenti specialistici che permettano al giudice di valutare criticamente l’argomentazione, evitando decisioni basate su “prove statistiche nude” o su algoritmi opachi che trasformino il processo in un’operazione logicista. Per una critica alle “naked statistical evidence” v. M. Smith, Civil liability and the 50%+ standard of proof, in The International Journal of Evidence & Proof, 25, 2021, 183 ss.

[44] La “scienza della prova” (M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici. Nozioni generali, Milano 1992) si configura, nella prospettiva del probabilismo soggettivo, come un paradigma epistemologico volto a gestire l’incertezza intrinseca al giudizio probatorio, anziché negarla o eliminarla illusoriamente. Questo approccio riconosce la natura inferenziale e congetturale di ogni valutazione probatoria, superando la rigida dicotomia tra certezza e incertezza, e valorizzando la razionalità propria della “logica dell’incerto” (B. de Finetti, La logica dell’incerto, cit. [supra nt. 1]). In tale prospettiva, la funzione del giudice non si riduce a una mera applicazione automatica di regole predeterminate, ma assume la forma di un’attività interpretativa complessa e dinamica, capace di mediare tra l’esigenza di certezza normativa e le peculiarità del caso concreto, in un contesto processuale inevitabilmente caratterizzato da ambiguità e incompletezza informativa. La spinta ossessiva a eliminare ogni traccia di incertezza ha determinato una crisi del modello formalista, evidenziando come il diritto processuale, nella sua applicazione concreta, non possa ridursi a un sistema di norme astratte. Esso deve invece confrontarsi con la complessità della realtà sociale e giuridica, nella quale un eccessivo rigore procedurale rischia di produrre esiti iniqui o addirittura contraddittori rispetto agli obiettivi fondamentali del diritto. Tale rischio di una formalizzazione eccessiva e la conseguente riduzione del processo a mera tecnica procedurale si accentua ulteriormente nella crescente dipendenza dalla consulenza tecnica. Nel processo la tensione tra formalismo, interventismo giudiziale e logicismo applicativo mette in luce il pericolo insito in una progressiva delega decisionale agli esperti (cfr. V. Ansanelli, Il consulente tecnico d’ufficio. Un piccolo giudice alla ricerca della verità, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2022, 1207; nonché G. Tuzet, Prova esperta, verosimiglianza, probabilità, in Aa.Vv., La consulenza tecnica d’ufficio. Funzione, oggetto, sindacabilità, Torino 2024, 125 ss.); essa rischia di indebolire il contraddittorio, riducendo la valutazione della prova a un semplice fatto tecnico e confondendo il necessario riconoscimento della competenza dell’esperto (deferenza epistemica) con una subordinazione passiva al linguaggio specialistico (deferenza semantica) [sul punto v. M. Ubertone, Il giudice e l’esperto. Deferenza epistemica e deferenza semantica nel processo, Torino 2022 e gli acuti rilievi di F. Auletta, Lo stato presente del procedimento di istruzione probatoria mediante consulente tecnico, in Aa.Vv., La consulenza tecnica d’ufficio. Funzione, oggetto, sindacabilità, cit., 8 ss.]. In tale contesto, il contraddittorio va inteso non come un mero adempimento formale, ma come un metodo scientifico di falsificazione delle ipotesi, fondamentale per evitare che il giudizio, pur mantenendo la propria autonomia, cada nell’eccessivo interventismo o in un riduzionismo logicista. Per questo motivo, la designazione del consulente tecnico deve derivare da un iter partecipativo, che garantisca il rispetto del principio dispositivo e consenta al giudice di integrare in maniera coerente le evidenze tecniche con il contesto processuale e le dinamiche intersoggettive; sul punto, rilievi critici in B. Cavallone, Discutibili esercizi di nomofilachia. La consulenza tecnica d’ufficio in Cassazione, in Riv. dir. proc., 2022, 984 ss.; F. Auletta, op. cit., 19 ss.; v. anche R. Poli, La consulenza tecnica d’ufficio e il suo controllo in Cassazione, in Aa.Vv., La consulenza tecnica d’ufficio. Funzione, oggetto, sindacabilità, cit., 443 ss., che mette in discussione la tradizionale distinzione tra CTU “deducente” e “percipiente”, evidenziando come ogni consulenza incorpori, in realtà, sia una dimensione percettiva sia una valutazione interpretativa, così proponendo di superare tale dicotomia distinguendo tra CTU che si fonda sulle prove già acquisite nel processo e quella che, invece, introduce nuovi elementi probatori. In quest’ultimo caso, Poli definisce la consulenza quale “fonte oggettiva di prova”, in virtù della capacità dell’esperto di immettere nel procedimento elementi fattuali da lui autonomamente accertati (ibidem, op. cit, 456).

[45] Non possiamo, nell’economia del nostro discorso, soffermarci sulla distinzione tra acquisizione e integrazione della prova. Tradizionalmente, l’acquisizione si configura come l’insieme delle attività mediante le quali le parti raccolgono e presentano il materiale probatorio, in ossequio al principio dispositivo che attribuisce loro il compito di definire l’oggetto dell’istruttoria (cfr. B. Cavallone, Principio dispositivo, fatti secondari e fatti «rilevabili ex officio», in Il giudice e la prova nel processo civile, Padova 1991, 99 ss., 123 ss.; S. Menchini, Il processo litisconsortile, Milano 1993, 422; M. Montanari, Il principio di prova per iscritto, Torino 2005, 499; G. Ruffini, Esibizione e produzione dei documenti, in Riv. dir. proc., 2006, 442; F.P. Luiso, Diritto processuale civile, I, Milano 2009, 234 e II, 122; M.C. Vanz, Onere della prova e vicinanza della prova nelle liti IP, in Il processo industriale, a cura di A. Giussani, Torino 2012, 175, nt. 5.; A. Maniaci, Onere della prova e strategie difensive, Milano, 2020, 57 ss. Cfr., in giurisprudenza, Cass. 9 giugno 2008, n. 15162; Cass. 2 febbraio 2006, n. 2285; Cass. 25 settembre 1998, n. 9592.). L’integrazione, inizialmente concepita come un intervento straordinario volto a colmare evidenti lacune istruttorie, ha progressivamente assunto una funzione più articolata, fondendosi con l’attività interpretativa del giudice e ampliando il proprio ruolo ben oltre il mero completamento del quadro probatorio. Il “prudente apprezzamento” delle prove consente al giudice di interpretare il materiale esposto, anche attribuendogli significati differenti da quelli argomentati dalle parti in sede difensiva, comportando però il rischio concreto di una discrezionalità eccessiva che, in ultima analisi, potrebbe minare il contraddittorio e il principio dispositivo. Tale problematica si acuisce nei casi in cui il giudice, oltre a colmare lacune evidenti – per esempio mediante l’ammissione di prove d’ufficio o l’adozione di presunzioni – deve altresì valutare elementi tecnici, come perizie o consulenze, la cui interpretazione richiede una specifica competenza e può condurre a una “creazione probatoria” che rischia di alterare l’equilibrio processuale (cfr., per alcuni rilievi, T. Carnacini, Tutela giurisdizionale e tecnica del processo, in Studi in onore di Redenti, II, Milano 1951, 655 ss.; E.T. Liebman, Fondamento del principio dispositivo, cit.). Il compito del giudice si articola nel delicato bilanciamento tra la necessità di garantire una decisione equa, fondata su un quadro probatorio completo e coerente, e il rispetto dell’iniziativa probatoria delle parti. Tale equilibrio si realizza mediante un’interpretazione e un’integrazione della prova che, pur ammettendo una discrezionalità indispensabile per colmare carenze istruttorie, devono rimanere circoscritte nei limiti imposti dal sistema processuale, evitando così di compromettere il contraddittorio e la legittimità della decisione finale (v. E. Grasso, Dei poteri del giudice, in Commentario al codice di procedura civile, diretto da E. Allorio, Torino 1970, 1300 ss.; M. Taruffo, Legalità e giustificazione della creazione giudiziaria del diritto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2001, 11 ss.). Questa distinzione evidenzia la tensione tra autonomia delle parti e potere integrativo del giudice, sollevando il problema dell’arbitrarietà nell’uso delle massime d’esperienza (cfr. B. Cavallone, Crisi delle Maximen e disciplina dell’istruzione probatoria, in Riv. dir. proc., 1976, 678 ss.; R. Marengo, La discrezionalità del giudice, Torino 1996, 133 ss.; L.P. Comoglio, Riforma processuale e poteri del giudice, Torino 1996, 58 ss.).

[46] Un comportamento non collaborativo o ambiguo può, infatti, orientare sfavorevolmente il convincimento del giudice, influenzando la valutazione delle prove e l’esito della controversia. La giurisprudenza consolidata riconosce al contegno delle parti non solo un valore integrativo degli elementi probatori acquisiti, ma anche la natura di fonte di prova autonoma e sufficiente, in linea con il principio del libero convincimento e con l’ammissibilità di prove atipiche (sulla cui discussione in dottrina, v. M. Taruffo, Prove atipiche e convincimento del giudice, in Riv. dir. proc., 1973, 389 ss.; B. Cavallone, Critica della teoria delle prove atipiche, in Riv. dir. proc., 1978, 679 ss., poi in Id., Il giudice e la prova nel processo civile, cit. [supra, nt. 45], 335 ss.; P. Viazzi, La riforma del processo civile e alcune prassi giurisprudenziali in materia di prove: un nodo irrisolto, in Foro it., 1994, V, 106 ss.; G.F. Ricci, Le prove atipiche, Milano 1999; L. Ariola, Le prove atipiche nel processo civile, Torino 2009). Il libero convincimento consente, infatti, di attribuire pieno valore probatorio a fonti non codificate, trasformando indizi e argomenti di prova in mezzi probatori autonomi (cfr. L. Montesano, Le prove atipiche nelle presunzioni e negli argomenti del giudice civile, in Riv. dir. proc., 1980, 233 ss., sull’applicazione di criteri di probabilità qualificata ex art. 2729 c.c.). Tale orientamento si riflette nell’ammissibilità di fonti probatorie non tipizzate, quali documenti informatici, contenuti di social network, SMS e registrazioni, purché lecitamente ottenuti (cfr. Cass. n. 7518/2001; Cass. n. 18131/2004; Cass. n. 5440/2010; Cass. 24 marzo 2011, n. 18908, sulle relazioni di investigazioni private), consolidando il ruolo autonomo degli indizi e degli argomenti di prova nella decisione della controversia. Ciò significa che, anche di fronte a elementi probatori apparentemente equivalenti, la capacità di presentare un’interpretazione coerente e persuasiva dei fatti può risultare determinante per l’esito del giudizio (cfr. sul punto, R. Caponi, Oralità e scrittura del diritto, intelligenza artificiale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2024, 367 ss.).

[47] La giurisprudenza di legittimità ha progressivamente riconosciuto valore probatorio alle comunicazioni digitali istantanee. Tuttavia, anche di recente, con l’ordinanza 18 gennaio 2025, n. 1254, la Suprema Corte ha qualificato i messaggi WhatsApp e gli SMS memorizzati nei dispositivi mobili come documentazione acquisibile mediante semplice riproduzione fotografica (c.d. screenshot). La giurisprudenza, anche penale, tende ad ammettere queste prove, senza preoccuparsi di verificarne la provenienza e l’integrità. Cfr. anche Cass. Sezioni Unite, 27 aprile 2023, n. 11197 (in Giur. it., 2023, 2623, con nota di G. Gioia, Il valore probatorio dello screenshot tra processo civile e processo penale). L’impostazione giurisprudenziale è quella di acquisire lo screenshot e di valutarlo liberamente o come indizio per avvalorare l’attendibilità della testimonianza. La Cassazione nella sentenza 21 febbraio 2019, n. 5141, ha ritenuto che ove la rispondenza delle riproduzioni all’originale sia contestata, il giudice possa accertarne l’originalità anche attraverso altri mezzi di prova, comprese le presunzioni.

[48] Cfr. A. Giussani, Le eccezioni contrattuali dilatorie nel procedimento civile: che tempo fa, in Riv. dir. proc., 2, 2024, 319 ss. L’A. sottolinea che l’onere della prova può subire una “dilatazione” a carico del creditore, nel caso di contestazione della domanda da parte del convenuto, imponendogli un impegno maggiore nella dimostrazione della propria pretesa (op. cit., 320 s.).

[49] Cfr. C. Besso, La vicinanza della prova, in Riv. dir. proc., 2015, 1383 ss. e ivi ampia bibliografia; R. Mazzariol, Fatti costitutivi e vicinanza della prova, in Actualidad Jurídica Iberoamericana, 2023, 578 ss.; v. in tema, Cassazione civile, Sez. III, 22 aprile 2022, n. 12910, sulla quale G.M. Sacchetto, L’onere della “vicinanza” della prova, in Giur. It., 2023, 1853 ss.

[50] K. Hellwig, System des deutschen Zivilprozessrechts, I, cit. [supra nt. 33], 704 ss; F. Lent, Zur Unterscheidung von Lasten und Pflichten der Parteien im Zivilprozeß, in Zeitschrift für Zivilprozess, 67, 1954, 344 ss.; R. Stürner, Die Aufklärungspflicht der Parteien des Zivilprozesses, Tübingen 1976, 77 ss.

[51] Sul punto v. M. Gradi, L’obbligo di verità delle parti, Torino 2018, 311 ss.

[52] È uno degli aspetti più originali della riflessione di Taruffo, che continua a suscitare un ampio dibattito dottrinario, come evidenziato nel volume collettaneo Debatiendo con Taruffo, coeditores J. Ferrer Beltrán, C. Vásquez, Madrid 2016, in particolare nella sezione III, El proceso judicial y la prueba, 255 ss.; cfr. anche Aa.Vv., Standards of Proof in Europe, L. Tichý (ed.), Tübingen 2019 (in particolare, R. Poli, The Italian Concept of the Standard of Proof, 197 ss.; ora in versione ampliata in Id., Prova e convincimento giudiziale del fatto, cit. [supra nt. 3], 243 ss.); J. Ferrer Beltrán, Prueba sin convicción. Estándares de prueba y debido proceso, Madrid 2021; R. Peixoto, Standards probatórios no direito processual brasileiro, Salvador 2021. La ricerca di Taruffo, dopo la pubblicazione degli Studi sulla rilevanza della prova (Padova 1970; rist. Roma 2023), ha trovato un’importante fonte d’ispirazione nell’opera di L. Jonathan Cohen, in particolare nel libro The Probable and the Provable (Oxford 1977). Cohen distingueva tra due nozioni di probabilità: una “matematica” – di tipo quantificabile e oggettivo – e una “persuasiva” – legata al convincimento soggettivo di chi valuta le prove. Questa distinzione si rivela cruciale per comprendere in che modo il “peso” complessivo delle prove possa influire sull’interpretazione dei fatti. Taruffo ha sviluppato ulteriormente questa impostazione, cercando di integrare la dimensione probabilistica con quella persuasiva nell’ambito della valutazione probatoria. Questa prospettiva è approfondita in diverse sue opere, tra cui La prova dei fatti giuridici (cit. [supra nt. 44], 143 ss.) e La prova scientifica nel processo civile (in Riv. trim. dir. proc. civ., 2005, 1079 ss.). In queste analisi Taruffo esamina come il ragionamento giudiziale possa fondarsi su un equilibrio tra la certezza quantitativa delle probabilità matematiche e la ragionevolezza qualitativa della probabilità persuasiva, proponendo un modello di valutazione delle prove che cerca di evitare sia il rischio di un formalismo eccessivo sia quello di una discrezionalità incontrollata. Cfr. G. Tuzet, Le prove dell’abduzione, in Diritto & questioni pubbliche, 2004, 275 ss.; Id., L’abduzione dei principi, in Ragion pratica, 2009, 517 ss.; Id., Filosofia della prova giuridica, Torino 2013.

[53] Sulla “relatività del concetto di prova”, v. G. Verde, La prova nel processo civile. Profili di teoria generale, cit. [supra nt. 10], 15. Questa relatività non va intesa come un cedimento al relativismo scettico, ma come una presa d’atto di una condizione epistemologica ineludibile, mutuata dalla riflessione filosofica di Quine. In questa prospettiva, la verità processuale non è un’entità assoluta e trascendente, ma una costruzione contestuale e funzionale che prende forma all’interno di un sistema di regole, procedure e valori condivisi. La relatività della verità processuale si articola su tre piani distinti ma interconnessi. In primo luogo, essa riguarda le regole processuali che disciplinano l’ammissibilità e la valutazione delle prove. Come evidenzia Verde, il diritto probatorio è un “insieme di norme regolamentari” il cui valore garantistico può essere anche “pressoché nullo” (Ibidem, cit., 18). Queste regole, lungi dall’essere neutrali, riflettono “opzioni di valore, scelte ideologiche” e interessi precisi (ivi, 17). La verità processuale, quindi, non è “naturale” o “spontanea”, ma risulta filtrata e costruita attraverso il linguaggio normativo. In secondo luogo, la verità processuale è relativa al contesto probatorio specifico. Verde sottolinea che “qualsiasi discorso è condizionato dal contesto nel cui ambito viene esplicitato” e che “qualsiasi proposizione fattuale è influenzata dal rapporto di causa ad effetto” (ivi, 14). La valutazione delle prove deve quindi tener conto delle circostanze fattuali concrete, delle dinamiche relazionali tra le parti e delle massime d’esperienza applicabili. Questa prospettiva mette in crisi l’idea di una verità oggettiva e atemporale, sostituendola con una verità dinamica e contestualizzata, che si costruisce nell’interazione tra prove, contesto e interpretazione giudiziale. In terzo luogo, la relatività della verità processuale implica una relatività valoriale. Verde osserva che “la descrizione del fatto è quasi sempre assiologicamente orientata” (ivi, 15). La selezione dei fatti rilevanti, l’ammissione delle prove e la preferenza per determinate interpretazioni riflettono inevitabilmente scelte di valore e orientamenti ideologici. La verità processuale, in questo senso, non è mai neutrale, ma incorpora le priorità e i valori di un determinato ordinamento giuridico. Questa consapevolezza della relatività non mina la razionalità del processo civile; al contrario, la rafforza, rendendola più aderente alla complessità del reale. Accettare che la verità processuale sia relativa non significa rinunciare alla ricerca della verità, ma piuttosto riconoscere che tale ricerca deve svolgersi entro i limiti connaturali alla fallibilità umana e imposti dalla struttura procedurale. In questo senso, il probabilismo soggettivo appare come un modello di razionalità particolarmente coerente con la prospettiva di Verde: entrambi gli approcci condividono l’idea che la verità processuale sia una verità operativa, costruita attraverso un processo argomentativo razionalmente giustificato.

[54] Sulla complessità epistemologica della valutazione probatoria e sulla centralità del tema dell’“incertezza” nel ragionamento giuridico, v. R. Pucella, La causalità «incerta», Torino 2007, passim, e in particolare il cap. I («I problemi dell’incerta causalità»), ove vengono analizzate le difficoltà concettuali e pratiche legate all’accertamento del nesso causale in contesti caratterizzati da incertezza scientifica e da limiti intrinseci della conoscenza umana.

[55] Cfr., ad es., Cass. 24 marzo 2022, n. 9691, secondo la quale “in tema di affidamento di figli minori, qualora un genitore denunci comportamenti dell’altro, affidatario o collocatario, di allontanamento morale e materiale del figlio da sé, indicati come significativi di una sindrome di alienazione parentale (PAS), ai fini della modifica delle modalità di affidamento, il giudice di merito è tenuto ad accertare la veridicità del fatto dei suddetti comportamenti, utilizzando i comuni mezzi di prova, tipici e specifici della materia, incluse le presunzioni, ed a motivare adeguatamente, a prescindere dal giudizio astratto sulla validità o invalidità scientifica della suddetta patologia, tenuto conto che tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva anche la capacità di preservare la continuità delle relazioni parentali con l’altro genitore, a tutela del diritto del figlio alla bigenitorialità e alla crescita equilibrata e serena”. […] “Ciò che occorre provare è […] se la condotta sia stata tale da aver leso in modo grave il rapporto tra il figlio e l’altro genitore, sino al peggior risultato ipotizzabile, quello di renderlo difficilmente recuperabile o del tutto irrecuperabile. Tutto ciò tenendo sempre al centro il principio secondo il quale ogni decisione sull’affidamento del minore dev’essere prioritariamente orientata a garantire il massimo benessere per quel determinato minore, protagonista di quella determinata vicenda”. Per una prospettiva comparata sugli standard probatori, cfr. la dottrina tedesca sul Beweismaß. In Germania, il Beweismaß (standard di prova) non si riduce a una mera soglia quantitativa, ma struttura la freie Beweiswürdigung (libera valutazione delle prove) attraverso criteri qualitativi come la coerenza e la plausibilità (cfr. E. Schilken, Zivilprozessrecht, 7ª Auflage, München 2014, 186 s., 231 ss., 256 s.; M. Schweizer, Beweiswürdigung und Beweismaß im Zivilprozess, Tübingen 2015, 172 ss.). Esso orienta la decisione giudiziale, implicando una valutazione complessa della forza persuasiva delle prove (ibidem, 180 ss.) e distribuendo normativamente il rischio di errore tra le parti (ivi, 185). Pur adottando come regola generale lo standard del “überwiegende Wahrscheinlichkeit” (più probabile che non), la dottrina tedesca ammette modulazioni contestuali del Beweismaß (ivi, spec. 190 ss.), in linea con la tendenza italiana verso una differenziazione degli standard in materie sensibili. Tuttavia, il modello tedesco privilegia un approccio più unitario e coerente, volto a bilanciare certezza ed equità senza moltiplicare eccessivamente gli standard probatori. Cfr. pure Ch.A. Kern, Probability as an Element of Standard of Proof, in L. Tichý (ed.), Standard of Proof in Europe, cit. [supra nt. 52], 51 ss.

[56] Si veda, in particolare, la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) a partire dalla decisione Plenaria, 8 giugno 1976, Engel and Others v. the Netherlands, ric. n. 5100/71, Serie A n. 22, che ha elaborato i criteri per identificare le “sanzioni amministrative punitive” o “sostanzialmente penali”, attratte nell’area di tutela delle garanzie convenzionali del processo penale.

[57] H.G. Gadamer, Verità e metodo (1960), tr. it., Milano 1983, 442; v. anche M. Heidegger, Essere e tempo (1927), trad. it., Milano 1976, 184. Cfr. D. Canale, La precomprensione dell’interprete è arbitraria?, in Etica & Politica/ Ethics & Politics, 2006, 1 ss.

[58] M. Taruffo, La motivazione della sentenza civile, Padova 1975, spec. 319 ss.; S. Evangelista, voce Motivazione della sentenza civile, in Enc. dir., vol. XXVII, Milano 1977, 154 ss.; G. Raiti, La motivazione della sentenza civile: tradizionali profili sistematici e incerte prospettive di rinnovamento, in Ann. Sem. Giur. Univ. di Catania, 9, 2009, 441 ss. Il dibattito sul problema della motivazione e della sua sindacabilità si è notevolmente acuito in quest’ultimo decennio: v. M. Taruffo, Addio alla motivazione?, in Riv. trim dir. proc. civ., 2014, 375 ss.; F. Porcelli, Le novità in materia di motivazione della sentenza, in Il processo civile. Sistema e problematiche. Le riforme del quinquennio 2010-2014, a cura di C. Punzi, Torino 2015, 101 ss.; G. Monteleone, Riflessioni sull’obbligo di motivare le sentenze (motivazione e certezza del diritto), in Giusto processo civ., 2013, 1 ss.; M. Acierno, La motivazione della sentenza tra esigenze di celerità e giusto processo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2012, 437 ss.; C. Rasia, La crisi della motivazione nel processo civile, Bologna 2016, 85 ss.; E. Vullo, sub art. 132 cod. proc. civ., in Commentario al codice di procedura civile, 6a ed., a cura di C. Consolo, Milano 2018, 1470 ss.

[59] Il processo di valutazione probatoria, nella sua essenza interpretativa, evidenzia l’inevitabile influenza dell’orizzonte di “precomprensione” del giudice (cfr. H.G. Gadamer, Verità e metodo, cit. [supra nt. 57]). Questo orizzonte, costituito dal bagaglio personale di conoscenze, valori ed esperienze del giudicante, non solo orienta ma rischia di condizionare in modo significativo la comprensione e l’interpretazione del materiale probatorio, incidendo sulla stessa percezione dei fatti di causa. In questa prospettiva, la soggettività del giudizio probatorio appare più come un fattore di rischio che come una risorsa ineludibile dell’attività ermeneutica. Il modello della “migliore spiegazione possibile” (cfr. M. Taruffo, La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, Roma-Bari 2009), proposto come punto di equilibrio, risulta problematico nella misura in cui, pur valorizzando la coerenza narrativa e la capacità esplicativa dell’ipotesi ricostruttiva, non riesce a neutralizzare adeguatamente il peso delle precomprensioni soggettive. In definitiva, l’affidamento alla razionalità argomentativa del giudice, senza una rigorosa disciplina dei criteri di valutazione, rischia di trasformare la gestione dell’incertezza in un esercizio di arbitrio mascherato da razionalità formale.

[60] La prospettiva del probabilismo soggettivo, qui adottata, si pone in contrasto con approcci frequentisti o quantitativi nella valutazione della prova, spesso inadeguati a cogliere la singolarità e l’irripetibilità degli eventi processuali (cfr. sul punto M. Schweizer, Beweiswürdigung und Beweismaß im Zivilprozess, cit. [supra nt. 55], passim, spec. 155 ss.). In particolare, Schweizer critica l’applicazione del frequentismo per diverse ragioni: (1) la singolarità dei fatti processuali: i fatti oggetto di prova nel processo civile sono eventi storici unici e non ripetibili, a differenza degli eventi studiati dalla statistica frequentista che presuppongono una ripetibilità o una frequenza osservabile (ivi, 157: “Die Wahrscheinlichkeit im Zivilprozess bezieht sich jedoch auf singuläre, vergangene Ereignisse, die sich nicht wiederholen lassen, anders als die Ereignisse, auf die sich die Frequentistische Wahrscheinlichkeit bezieht”); (2) la natura qualitativa della valutazione probatoria: la Beweiswürdigung è un processo intrinsecamente qualitativo e interpretativo, che non può essere ridotto a mere quantificazioni numeriche o calcoli statistici, poiché richiede una valutazione complessa e contestualizzata degli elementi probatori (ivi, 95: “Die richterliche Beweiswürdigung ist ein qualitativer, interpretativer Prozess, der sich nicht auf numerische Berechnungen reduzieren lässt”); (3) l’importanza del contesto specifico: il significato probatorio di un elemento di prova è sempre dipendente dal contesto specifico del caso concreto e dalle circostanze particolari, mentre l’approccio frequentista tende a generalizzare e a prescindere dalle specificità contestuali (ivi, 112: “Die Relevanz eines Beweismittels hängt stark vom spezifischen Kontext des Einzelfalls ab, während der Frequentismus dazu neigt, zu generalisieren und kontextuelle Besonderheiten zu vernachlässigen”); (4) il ruolo ineliminabile della soggettività del giudice: la freie Beweiswürdigung implica un giudizio soggettivo e razionale del giudice, che è chiamato a formare il proprio convincimento sulla base di un apprezzamento complessivo e non meramente quantitativo delle prove (ivi, 78: “Die freie Beweiswürdigung beinhaltet ein subjektives, aber rationales Urteil des Richters, das auf einer umfassenden und nicht nur quantitativen Bewertung der Beweismittel beruht”). Mentre il frequentismo definisce la probabilità in termini di frequenza relativa, il probabilismo soggettivo, come teorizzato da de Finetti (v. supra, nt. 1) e sviluppato in ambito giuridico, concepisce la probabilità come grado di credenza razionale, basato su un ragionamento inferenziale che integra elementi qualitativi e contestuali.

[61] L’allusione a informazioni “fuorvianti” da noi adottata non è casuale: essa cattura la radice del problema evidenziato dalla psicologia del giudizio, ovvero la nostra vulnerabilità di fronte a informazioni specifiche che, per quanto possano sembrare concrete e immediate, rischiano di offuscare la più sobria ma fondamentale rilevanza delle probabilità di base. Come illustrato da D. Kahneman, P. Slovic, A. Tversky, Judgment under Uncertainty: Heuristics and Biases, Cambridge 1982, la mente umana, pur efficiente, si affida spesso a scorciatoie cognitive che, sebbene utili in molti contesti, possono condurre a errori sistematici di valutazione probabilistica. Tra questi spicca, con particolare rilevanza nel ragionamento giudiziario, la fallacia della probabilità di base, ma anche la fallacia della congiunzione, esemplificata nello studio di A. Tversky, D. Kahneman, Extensional versus Intuitive Reasoning: The Conjunction Fallacy in Probability Judgment, in Psychological Review, 90, 1983, 293 ss. Questi errori non nascono dal nulla (cfr. R. Rumiati, N. Bonini, Psicologia della decisione, Bologna 2001), ma sono spesso alimentati da stereotipi e preconcetti che distorcono la nostra percezione delle probabilità a priori, rendendoci paradossalmente più sensibili a dettagli aneddotici e meno recettivi di fronte a dati statistici robusti. Questo cortocircuito cognitivo, con le sue implicazioni concrete nel contesto processuale civile, è analizzato in modo puntuale da F. Bona, Sentenze imperfette. Gli errori cognitivi nei giudizi civili, Bologna 2010.

[62] Cass. Civ., Sez. I, 11 dicembre 1980, n. 6400, Pres. Marchetti, Est. Santosuosso, Pettinari c. Trovaioli, in Foro It., 1981, I, 719 s., con nota di M. Comporti, P. Martini, Il nuovo orientamento della Cassazione sulle prove del sangue e genetiche, ivi, 719 ss. La sentenza, che cassa la decisione della Corte d’Appello di Roma del 15 maggio 1978, segna una svolta nella giurisprudenza italiana in tema di ammissibilità delle prove ematologiche e genetiche nei giudizi di filiazione. Come evidenziato nell’ampia nota di commento citata, la Cassazione, pur aprendo la strada all’utilizzo di tali prove scientifiche, ne riconosce i limiti intrinseci e sottolinea l’importanza di una valutazione integrata che combini i dati probabilistici derivanti dalle indagini genetiche con gli elementi extra-scientifici acquisiti nel processo. Secondo Comporti e Martini, la pronuncia in questione, già all’inizio degli anni ’80 del secolo scorso, coglieva la necessità di superare un’applicazione acritica delle prove scientifiche, anticipando di fatto il dibattito contemporaneo sull’integrazione tra approcci quantitativi e qualitativi nel ragionamento probatorio giudiziario.

[63] Questa esigenza di superare un approccio probabilistico puramente quantitativo e statistico si riflette, ad esempio, nell’evoluzione della giurisprudenza sull’ammissibilità della prova scientifica nei sistemi di common law, come attesta il dibattito intorno al Daubert Test, derivante dal caso Daubert v. Merrell Dow Pharmaceuticals, Inc. (1993) della Corte Suprema statunitense, e successivamente ampliato dalla Daubert Trilogy (con i casi General Electric Co. v. Joiner, 1997 e Kumho Tire Co. v. Carmichael, 1999), che rappresenta un tentativo di superare la rigidità del precedente Frye Test (basato sulla “generale accettazione” della comunità scientifica) e di introdurre criteri più flessibili e scientificamente fondati per l’ammissibilità della prova scientifica. Il Daubert Test affida al giudice il ruolo di gatekeeper, chiamato a valutare l’affidabilità e la rilevanza della prova scientifica sulla base di criteri quali la testabilità (verificabilità empirica della teoria o tecnica scientifica), la sottoposizione a peer review e pubblicazione, il tasso di errore conosciuto o potenziale, l’esistenza di standard di controllo e protocolli operativi, e la “generale accettazione” non più come criterio unico e vincolante, ma come uno tra i molti fattori rilevanti. Tuttavia, il Daubert Test, pur rappresentando un avanzamento rispetto al formalismo del Frye Test, non è esente da critiche. Si è rilevato, ad esempio, il rischio di attribuire ai giudici il ruolo di “esperti scientifici” per il quale potrebbero non essere adeguatamente preparati, nonché il potenziale per una applicazione discrezionale e non uniforme dei criteri di Daubert da parte dei diversi tribunali (cfr. A. Dondi, Paradigmi processuali ed “expert witness testimony” nel diritto statunitense, in Riv. dir. proc., 1996, 261 ss.; A.R. Di Landro, La colpa medica negli Stati Uniti e in Italia. Il ruolo del diritto penale e il confronto col sistema civile, Torino 2009, spec. 102 ss.; M.A. Berger, The Admissibility of Expert Testimony, in Reference Manual on Scientific Evidence, 3th ed., Washington 2011, 11 ss.; A. Farano, Il giudice e la buona scienza. L’istituzione del fatto scientifico in giudizio, Roma 2024, 49 ss.).

[64] L’approccio possibilista qui richiamato si basa sulle teorie di Lotfi A. Zadeh, un pioniere nello studio di come gestire l’incertezza e la vaghezza nel ragionamento. In particolare, in scritti fondamentali come L.A. Zadeh, Fuzzy Sets as a Basis for a Theory of Possibility, in Fuzzy Sets and Systems, 1, 1978, 3 ss. (cfr. P.P. Wang (ed.), Advances in Fuzzy Sets, Possibility Theory, and Applications, New Jork and London, 1983, 105 ss.), l’A. ha evidenziato i limiti dell’uso esclusivo della probabilità, suggerendo che in molti contesti, soprattutto quando si valuta la plausibilità di diverse ricostruzioni di un fatto, è più utile considerare la possibilità, intesa non come frequenza statistica, ma come grado di coerenza o compatibilità di un’ipotesi con le informazioni disponibili. La sua teoria delle possibilità offre un modo per formalizzare questo tipo di ragionamento, privilegiando la comparazione qualitativa tra diverse ipotesi possibili piuttosto che la quantificazione numerica della probabilità. Questo approccio si rivela particolarmente adatto al contesto processuale, dove il giudice spesso non deve calcolare probabilità precise, ma valutare quale versione dei fatti sia la più plausibile, la più coerente con le prove e gli elementi acquisiti, anche quando questi sono incerti, incompleti o vaghi. Invece di cercare una precisione matematica, l’approccio possibilista permette di concentrarsi sulla valutazione comparativa della credibilità e sostenibilità delle diverse ricostruzioni in gioco, offrendo un modello più vicino al modo in cui i giuristi, e in particolare i giudici, effettivamente ragionano e decidono in situazioni di incertezza probatoria.

[65] Sull’applicazione di modelli probabilistici e sulla gestione dell’incertezza causale, v. anche R. Pucella, La causalità «incerta», cit. [supra nt. 54], spec. cap. II («La probabilità diviene danno: le chances perdute») e cap. III («Incertezze causali e conseguenze dannose»), ove vengono discussi i limiti di un approccio probabilistico puramente quantitativo e frequentista alla prova della causalità, e vengono esplorate prospettive alternative e modelli interpretativi più flessibili e aderenti alla complessità del ragionamento giuridico in contesti di incertezza scientifica.

[66] Cass. Civ., Sez. III, n. 16199/2024, Pres. Travaglino, Est. Vincenti: la sentenza riguarda un giudizio di responsabilità medica promosso dai genitori di un neonato deceduto a seguito di protrarsi della gravidanza oltre il termine. La Corte ha rigettato il ricorso dei sanitari, confermando la decisione della Corte d’Appello che aveva riconosciuto la loro responsabilità per condotta omissiva (omesso monitoraggio adeguato della gravidanza). La sentenza censura la motivazione della decisione del giudice dell’appello solo per un “errore di sovrapposizione” concettuale, ma conferma nel merito la decisione, ribadendo che l’accertamento del nesso causale deve avvenire secondo la probabilità logica, valutando se la condotta omessa, laddove posta in essere, avrebbe potuto impedire l’evento lesivo alla luce delle specificità del caso concreto (stato di salute della paziente, storia clinica, risultanze ecografiche), e non solo sulla base di statistiche generali.

[67] Cass. Civ., Sez. III, n. 21530/2021, Pres. Travaglino, Est. Vincenti: la sentenza concerne un giudizio di responsabilità medica relativo al decesso di una paziente affetta da sindrome di Lyell, a causa di una diagnosi tardiva della patologia. La Corte ha rigettato il ricorso della struttura sanitaria, confermando la decisione della Corte d’Appello che aveva riconosciuto la responsabilità dei medici per colpa professionale (superficialità dell’anamnesi, errata diagnosi, dimissioni premature, somministrazione di farmaco controindicato), affermando che, in caso di omessa diagnosi, l’accertamento del nesso causale deve fondarsi sulla probabilità logica, considerando il dato statistico delle percentuali di sopravvivenza per la patologia specifica, ma integrandolo con gli elementi concreti del caso (risultanze delle CTU, superficialità dell’anamnesi, etc.) e non limitandosi a una mera probabilità quantitativa.

[68] Nell’esperienza tedesca, il processo civile è tradizionalmente imperniato sul Beibringungsgrundsatz, che attribuisce alle parti l’onere di allegare i fatti e fornire le prove (cfr. A. Morell, Der Beibringungsgrundsatz. Eine Rechtfertigung unter besonderer Berücksichtigung der Passivität der nicht beweisbelasteten Partei, Tübingen, 2022). Tuttavia, l’efficacia di questo principio dispositivo viene messa in discussione nei contesti di asimmetria informativa, ove la parte convenuta – e non onerata della prova – detiene informazioni cruciali per l’accertamento dei fatti ma non è obbligata a produrle (A. Morell, op cit., 42 ss.). Per ovviare a tali criticità, la giurisprudenza tedesca ha sviluppato, anche grazie all’impulso della dottrina (specie di Rolf Stürner [supra nt. 50]), il principio di collaborazione processuale e strumenti volti a incentivare la trasparenza informativa tra le parti. Morell ha prefigurato uno “scetticismo strategico” del giudice, che lo abilita a trarre presunzioni critiche dal comportamento della parte informata e non collaborativa, senza imporre obblighi di disclosure diretti e indiscriminati. Tale modello si distingue per due caratteristiche principali: a) l’inversione soggettiva e non oggettiva dell’onere della prova, che si limita a “incentivare” la parte informata a produrre almeno una prova contraria per superare la presunzione sfavorevole, senza stravolgere il riparto formale dell’onere; b) l’economicità e la proporzionalità rispetto a modelli più invasivi come la pre-trial discovery americana, evitando i rischi di abuso e di eccessivo appesantimento del processo (A. Morell, op. cit., 154 ss.). Rispetto ad altri ordinamenti di civil law come quello italiano, che pure riconoscono un ruolo al comportamento processuale delle parti (art. 116, comma 2, c.p.c.) e che in alcuni settori prevedono strumenti di disclosure giudiziale (artt. 840-quinquies c.p.c., 121 c.p.i.), la proposta di Morell offre una soluzione originale e intermedia, che merita attenzione per la sua capacità di bilanciare principio dispositivo, collaborazione probatoria, efficienza e garanzie processuali.

[69] Cfr. B. Sassani, L’onere della contestazione (The burden of presenting a defense), in Civil Procedure Review, 1, 2010, 20 ss.: è una disamina particolarmente illuminante nel chiarire la natura giuridica ed epistemologica della non contestazione, ancorandola saldamente al concetto di relevatio ab onere probandi. La sua prospettiva demistifica efficacemente ogni tentazione di assimilare la non contestazione a una forma surrettizia di prova, sottolineando con forza che essa non costituisce fonte di accertamento fattuale, bensì un meccanismo processuale che incide sulla dinamica probatoria (ivi, 31 ss.). La relevatio ab onere probandi si configura non come un atto di fede verso il fatto non contestato, bensì come una razionalizzazione del procedimento istruttorio che, in ossequio al principio di economia processuale e di lealtà collaborativa, permette al giudice di concentrare le proprie risorse cognitive e probatorie sui punti effettivamente controversi. L’art. 115 c.p.c. non è letto dall’A. come una scorciatoia verso la verità oggettiva, ma come regola di giudizio che autorizza il magistrato a fondare la decisione su ciò che non è stato validamente oppugnato, pur nel rispetto dei limiti imposti dal quadro probatorio complessivo (“iuxta non oppugnata ma se e in quanto alia non obstant”). La precisazione circa l’ambito dell’onere di contestazione – ristretto ai soli “fatti della cui prova è gravato l’avversario” (ivi, 33) – aggiunge un ulteriore elemento di rigore concettuale, circoscrivendo la portata del principio e prevenendo interpretazioni eccessivamente estensive che potrebbero snaturarne la funzione di semplificazione e razionalizzazione del processo. Sul punto v. pure L.P. Comoglio, Fatti non contestati e poteri del giudice, in Riv. dir. proc., 2014, 1043 ss.

[70] Cass. Civ, Sez. Lav., sent. del 27/04/2021, n. 11115, Pres. Raimondi, Rel. Blasutto.

[71] Cass. civ., Sez. III, Sent. del 25/03/2003 n. 4373, Pres. Giuliano, Est Amatucci.

[72] In tale quadro, assume particolare rilievo la crescente importanza della “prova scientifica” e della “testimonianza di esperti” nel processo contemporaneo. Il giudice si trova sempre più spesso di fronte alla necessità di valutare dichiarazioni di esperti in materie specialistiche che esulano dalla sua competenza ordinaria, e di operare scelte decisionali in contesti caratterizzati da una crescente “divisione del lavoro cognitivo” (v. M. Ubertone, Il giudice e l’esperto, cit. [supra nt. 44], 51 ss., 253 ss.). In questi ambiti, il giudice deve inevitabilmente ricorrere a una forma di “deferenza epistemica” verso gli esperti, riconoscendo la loro autorità nel campo specifico del sapere scientifico-tecnico, e facendo affidamento sulla loro competenza per orientarsi in un contesto probatorio particolarmente complesso e specialistico. È stato opportunamente sottolineato, infatti, come questa dinamica non debba tradursi in un controllo indiretto passivo (basato solo sulla credibilità dell’esperto o su indicatori esterni), ma richieda un controllo diretto che consenta al giudice di valutare criticamente le inferenze e le ragioni epistemiche alla base della consulenza tecnica (D. Canale, Il conclave degli esperti: forme di soluzione dei disaccordi epistemici nel processo, in Aa.Vv., La consulenza tecnica d’ufficio. Funzione, oggetto, sindacabilità, cit. [supra nt. 44], 143 ss.).

[73] Sulla deferenza epistemica verso gli esperti, e sulle diverse concezioni del ruolo del giudice (modello “deferenziale” vs. modello “educativo”), cfr. R.J. Allen, J.S. Miller, The Common Law Theory of Experts: Deference or Education?, in Northwestern University Law Review, 87, 1993, 1131 ss.; S. Haack, El probabilismo jurídico, una disensión epistemológica, in C. Vázquez Rojas (ed.), Estándares de prueba y prueba científica, Madrid 2013, 65 ss.; sulla nozione di “divisione del lavoro cognitivo” e sulle sue implicazioni epistemologiche, cfr. D.R. Lutz, F.C. Keil, Early understanding of the division of cognitive labor, in Child Development, 73, 2002, 1073 ss.; A. Clark, D. Chalmers, The Extended Mind, in Analysis, 58, 1998, 7 ss.; S. Sloman, Ph. Fernbach, The Knowledge Illusion. Why We Never Think Alone, New York 2017.

[74] Supra nt. 66.

[75] Il dibattito contemporaneo sul libero convincimento del giudice evidenzia tensioni profonde tra l’esigenza di garantire autonomia interpretativa e la necessità di vincolarla a criteri razionali e controllabili. Una prospettiva equilibrata su questo tema cerca di superare la dicotomia tra discrezionalità assoluta e formalismo rigido, concependo il libero convincimento non come arbitrio, ma come un processo regolato da principi giuridici e logici. Tuttavia, l’idea di un “libero” convincimento “vincolato” solleva interrogativi sulla fattibilità pratica di un simile equilibrio, rischiando di trasformarsi in una tensione teorica irrisolvibile nella prassi giudiziaria. M. Taruffo (La prova dei fatti giuridici, cit. [supra nt. 44]) mette in guardia contro l’eccessivo affidamento all’intuizione del giudice, sottolineando il rischio che una valutazione delle prove priva di limiti si traduca in un esercizio soggettivo e poco controllabile. Pur riconoscendo l’importanza della dimensione umana e non formalizzabile della valutazione probatoria, Taruffo insiste sulla necessità di ancorare la decisione a criteri oggettivi di razionalità per evitare derive arbitrarie. Tuttavia, questa prospettiva solleva la questione di come conciliare l’esigenza di oggettività con la natura intrinsecamente interpretativa e contestuale della prova. Un tentativo di mediazione proviene da P. Gottwald (Das flexible Beweismaß im englischen und deutschen Zivilprozess, in Festschrift für Dieter Henrich, Bielefeld 2000, 165 ss.), che propone un modello di gestione razionale dell’incertezza probatoria. Gottwald accetta l’inevitabilità dell’incertezza nel processo civile, ma insiste sull’importanza di strumenti processuali e criteri argomentativi che permettano al giudice di motivare in modo trasparente e controllabile le proprie decisioni. Questo approccio cerca di canalizzare la soggettività del giudice attraverso un procedimento decisionale strutturato e giustificabile razionalmente, bilanciando la libertà interpretativa con l’esigenza di trasparenza e verificabilità. Tuttavia, resta aperto il problema di come tradurre concretamente questi principi in pratiche giudiziarie effettive, soprattutto nei casi più complessi e controversi. La tensione tra libertà interpretativa e vincoli razionali sembra dunque destinata a rimanere irrisolta nei suoi termini assoluti, suggerendo che il libero convincimento non possa essere eliminato, ma solo disciplinato attraverso un compromesso dinamico tra autonomia e controllabilità.

[76] La “verità processuale”, intesa come “coerenza argomentativa”, non va confusa con una mera coerenza formale o autoreferenziale. Si tratta, piuttosto, di una coerenza sostanziale orientata alla verità, che impone al giudice un duplice obbligo di deferenza: da un lato, una deferenza epistemica verso le fonti di prova e i saperi esperti, nei limiti della razionalità e della verificabilità del giudizio; dall’altro, una deferenza semantica verso il linguaggio giuridico e i concetti normativi applicabili, evitando derive ambigue o fallacie di tipo ad verecundiam (v. M. Ubertone, Il giudice e l’esperto, cit. [supra nt. 44], 259 ss.). In questa prospettiva, la coerenza argomentativa non si limita a garantire la tenuta logica della decisione, ma diviene un valore normativo intrinseco al processo civile, come evidenziato da N. MacCormick, Legal Deduction, Legal Predicates and Expert Systems, in International Journal for the Semiotics of Law, 4, 1992, 181 ss. La pretesa di una “verità come corrispondenza”, invece, rischia di trasformarsi in una forma di deferenza semantica acritica verso un ideale epistemologico irrealistico e fuorviante, che compromette la razionalità stessa del giudizio (cfr. J. Ferrer Beltrán, Verdad y coherencia en la prueba, in Doxa, n. 2, 2008, p. 3 ss.; C. Vázquez, De la prueba científica a la prueba pericial, Madrid 2015).

[77] G. De Luca, La cultura della prova e il nuovo processo penale, in Studi in onore di Giuliano Vassalli. Evoluzione e riforma del diritto e della procedura penale 1945-1990, a cura di M.C. Bassiouni, A.R. Latagliata, A.M. Stile, II, Politica criminale e criminologia. Procedura penale, Milano 1991, 182 ss.; G. Ubertis, La prova penale. Profili giuridici ed epistemologici, Torino 1995; P.P. Rivello, La prova scientifica, in Trattato di procedura penale, diretto da G. Ubertis, G.P. Voena, XVIII, Milano 2014, 241 ss.

[78] Gli orientamenti recenti della Cassazione (v. ad es., la sentenza n. 51436/2023), hanno tuttavia introdotto una rilevante semplificazione: la Suprema Corte ha dichiarato equivalenti le formule assolutorie previste dai commi 1 e 2 dell’art. 530 c.p.p. ai fini dell’inammissibilità dell’appello. Secondo tale orientamento, la decisione di assoluzione, indipendentemente dalla specifica formulazione adottata – che si tratti di insussistenza del fatto o che il fatto non è stato commesso dall’imputato, anche in presenza di carenza, insufficienza o contraddittorietà delle prove – esprime comunque un giudizio pienamente favorevole all’imputato. Questo orientamento, tuttavia, risulta criticabile in quanto, nell’ipotesi che nel procedimento è costituita la parte civile, l’imputato assolto con la formula dubitativa, pur non essendo soccombente, avrebbe interesse ad ottenere un proscioglimento pieno, a fronte degli effetti riflessi del giudicato penale nel processo civile (v. art. 652 e 654 c.p.p.; cfr., Cass. civ. sez. 6, sent. 13 novembre 2013, n. 25538, Cass. civ., sez. lav., 11.2.2011, n. 3376, Cass. 9 marzo 2010 n. 5676, Cass. 30 ottobre 2007 n. 22883). Sebbene nessuna norma del codice escluda espressamente che il proscioglimento ex art. 530, comma 2, c.p.p. faccia stato nei giudizi civili (ex artt. 652 e 654 c.p.p.), la giurisprudenza civile tende a negare tale effetto. Conseguentemente, l’orientamento attuale della giurisprudenza penale, pur garantendo un’uguaglianza formale delle decisioni assolutorie, di fatto pregiudica l’imputato (quando nel procedimento penale è costituita la parte civile), poiché perde la possibilità di impugnare la sentenza per ottenere una formulazione più favorevole, in grado di neutralizzare eventuali richieste di risarcimento danni sul piano extrapenale.

[79] Cfr., ex multis, G. Illuminati, La presunzione d’innocenza dell’imputato, Bologna 1979, opera fondamentale che ne ricostruisce la genesi storica e ne analizza le implicazioni sistematiche, evidenziandone il ruolo di garanzia contro l’arbitrio punitivo; G. Canzio, L’“oltre il ragionevole dubbio” come regola probatoria e di giudizio nel processo penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2004, 307 ss., che esplora la dimensione epistemologica del dubbio, evidenziandone la funzione di limite alla pretesa di verità assoluta nel processo penale e di garanzia per la libertà dell’imputato; P. Paulesu, La presunzione di non colpevolezza dell’imputato, II ed., Torino 2009, che analizza le sfide contemporanee al principio, dai regimi di “doppio binario” alle distorsioni mediatiche, fino alle tensioni tra esigenze preventive e repressive nei confronti della criminalità organizzata e del terrorismo, evidenziando come tali sfide tendano a comprimere le garanzie individuali in nome dell’efficienza; O. Mazza, Il ragionevole dubbio nella teoria della decisione, in Criminalia, 2012, 363 ss., con approfondimento sulle implicazioni epistemologiche della valutazione probatoria, evidenziando come il ragionevole dubbio imponga un approccio critico e consapevole ai limiti della conoscenza processuale, al fine di evitare decisioni fondate su mere congetture o intuizioni; V. Aiuti, Contributo allo studio dell’appello penale. Tra principio di immediatezza e doppio grado di giurisdizione, Torino 2023, 76 ss., che esamina il rapporto tra presunzione d’innocenza e doppio grado di giurisdizione, evidenziando come il diritto all’appello rappresenti un’ulteriore garanzia per l’imputato, consentendo una revisione del giudizio di primo grado alla luce di eventuali errori o omissioni valutative; J. Della Torre, Taking the Evolution of the Standards of Proof for a Criminal Conviction Seriously, in Quaestio Facti. International Journal on Evidential Legal Reasoning, 8, 2025, 89 ss., che offre una prospettiva evolutiva sugli standard probatori nel contesto del ragionamento giudiziario contemporaneo, sottolineando come l’evoluzione storica di tali standard sia strettamente legata alle trasformazioni del sistema processuale e alle diverse concezioni della giustizia

[80] Nella vicenda relativa alla strage di Ustica, la Suprema Corte ha affermato con chiarezza che, nel processo civile, vige il criterio della “preponderanza dell’evidenza” o del “più probabile che non”, anche in caso di scelta tra ipotesi incompatibili sul fatto, e che il giudice civile deve compiere una autonoma valutazione delle prove, senza essere vincolato dalle conclusioni del giudice penale: v. Cass. Civ., Sez. III, 5 maggio 2009, n. 10285, Pres. Senese, Est. Segreto, Soc. Aerolinee Itavia c. Min. difesa e altri, in Foro Italiano, 2009, 2063 ss., con nota di A. Palmieri. La sentenza citata riguarda il giudizio civile di risarcimento danni promosso dalla compagnia aerea Itavia (vettore aereo del volo DC-9 precipitato a Ustica il 27 giugno 1980) nei confronti dei Ministeri della Difesa, dell’Interno e delle Infrastrutture. La Corte ha cassato con rinvio la decisione del giudice del merito civile che aveva acriticamente recepito le conclusioni del giudice penale circa l’impossibilità di accertare la causa del disastro aereo (esplosione interna, cedimento strutturale, missile esterno). La sentenza afferma che, ai fini dell’accertamento della causa del disastro aereo in sede civile, il giudice deve valutare autonomamente le prove raccolte nel processo penale e applicare il criterio civilistico della ‘probabilità prevalente’, anche in caso di scelta tra ipotesi incompatibili, senza essere vincolato dagli standard probatori e dalle conclusioni del processo penale. Sul caso Ustica si segnala una recente analisi di N. Biral, dedicata alle dinamiche e alle condizioni che possono favorire concentrazioni di sapere scientifico a vantaggio di una sola parte nel processo penale (Monopolio del sapere scientifico e processo penale. Riflessioni a partire dal “caso Ustica”, in Revista Ítalo-Española de Derecho Procesal, 2024, 127 ss.).

[81] Cfr. A. Carratta, Accertamento fattuale del giudice penale ed efficacia nel processo civile, in Riv. dir. proc., 2020, 1442 ss.

[82] Per un esempio recente di questa tendenza nella giurisprudenza di legittimità, si veda Cass. Civ., Sez. Lavoro, Ord. n. 23252 del 28 agosto 2024. In questa pronuncia relativa all’efficacia probatoria dei verbali dell’Ispettorato del Lavoro, la Corte di Cassazione ha ribadito con forza il principio del libero apprezzamento del giudice nella valutazione delle prove, precisando che tali verbali godono di “fede privilegiata” fino a querela di falso solo per quanto riguarda la provenienza dal pubblico ufficiale e i fatti da questi “direttamente” attestati come avvenuti in sua presenza o da lui compiuti. Per le altre “circostanze di fatto” che il verbalizzante segnali di aver accertato “de relato” o tramite ispezione documentale, la Corte esclude che la legge attribuisca al verbale “valore probatorio precostituito, neppure di presunzione semplice”, demandando al giudice il compito di “liberamente apprezzare” il materiale raccolto e di “valutarne l’importanza ai fini della prova” nel contesto del giudizio. La pronuncia evidenzia come la giurisprudenza di legittimità promuova una valutazione probatoria non formalistica ma contestualizzata, che rifugge da automatismi e gerarchie probatorie rigide, in piena sintonia con la “logica dell’incerto” che fonda la scienza della prova nel processo civile.

[83] Per un’analisi ancora più approfondita delle differenze nella valutazione probatoria tra processo civile e penale, con particolare riferimento all’efficacia della sentenza penale di patteggiamento, si veda Cass. Civ., Sez. 3, Ord. n. 31010 del 7 novembre 2023 (Pres. Travaglino, Rel. Gorgoni). In questa articolata pronuncia, la Cassazione chiarisce che la sentenza di patteggiamento, pur non avendo “efficacia di vincolo, né di giudicato, e neppure invertendo l’onere della prova” nel giudizio civile risarcitorio, costituisce comunque un “elemento di prova di cui il giudice civile può tener conto”. La Corte esclude interpretazioni formalistiche che attribuirebbero al patteggiamento una sorta di efficacia quasi vincolante nel civile, e sottolinea, invece, la necessità di una “valutazione autonoma, nel contraddittorio tra le parti” da parte del giudice civile, in linea con il principio del “libero convincimento” e con l’“assenza di tipicità della prova” nel processo civile. La sentenza evidenzia come il patteggiamento debba essere considerato un “fatto storico” e un “indizio” valutabile ex art. 2729 c.c., ma non implica un pieno animus confitendi da parte dell’imputato, configurandosi piuttosto come una scelta processuale “negoziale” e “allo stato degli atti”. Attraverso un’analisi approfondita, la Cassazione conferma la netta distinzione nella “economia probatoria” tra processo civile e penale, e ribadisce l’autonomia del giudice civile nella valutazione delle prove, anche in presenza di esiti processuali penali, secondo i criteri e le finalità proprie del giudizio civile.

[84] E.M. Catalano, Ragionevole dubbio e logica della decisione, Milano 2016;​ P. Ferrua, Il giudizio penale: fatto e valore giuridico, in P. Ferrua, F.M. Grifantini, G. Illuminati, R. Orlandi, La prova nel dibattimento penale, IV ed., Torino 2010, 317 s.​; Id., La prova nel processo penale, vol. I, Struttura e procedimento, II ed., Torino 2017, 107 ss.; Id., Onere della prova, regola di giudizio e standard probatorio: alla ricerca della perduta proposizione da provare, in Cass. pen., 2020, 2639 ss.

[85] Cfr. G. Ubertis, Perizia, prova scientifica e intelligenza artificiale nel processo penale, in Aa.Vv., La consulenza tecnica d’ufficio. Funzione, oggetto, sindacabilità, cit. [supra nt. 44], 181 ss., allorché avverte come la verosimiglianza della prova opera come filtro scientifico, escludendo ipotesi che violano leggi non probabilistiche (es. la testimonianza su fenomeni “magici”, ivi 185), mentre la rilevanza della prova richiede che sia praticamente utile e eticamente giustificabile. L’esigenza di trasparenza metodologica (ivi, 190) è particolarmente evidente nel contesto dell’intelligenza artificiale, dove l’“opacità” del software (come nel caso Loomis, ivi 193 s.) può introdurre valutazioni non collaudabili. Se nel contesto del processo civile l’approccio probabilistico soggettivo si rivela uno strumento euristico prezioso, capace di orientarsi nell’incertezza e di costruire una verità processuale volta ad accertare la fondatezza della pretesa, coerente e funzionale alla composizione del conflitto, la sua trasposizione nel processo penale innesca un cortocircuito epistemologico e valoriale dirompente. Il processo penale, ben lontano dall’essere immune da logiche di “strumentalizzazione della verità” (v. H.H. Kühne, La strumentalizzazione della verità e della sua ricerca nel processo penale, in Criminalia, 2008, 475 ss., spec. 479 ss. e 485 ss.), rischia di piegare la ricerca probatoria agli imperativi di buon funzionamento della giustizia, erodendo insidiosamente le garanzie individuali. La presunzione di correttezza dell’operato giudiziario, la svalutazione delle norme a tutela della difesa, la tendenza a privilegiare una verità soggettiva al di là del verbale – ossia una verità fondata sul convincimento personale del giudice, svincolata dal rigore del verbale d’udienza e potenzialmente influenzata da esigenze di speditezza o pregiudizi impliciti – sono tutti elementi che, come efficacemente analizzato da Kühne nel contesto giudiziario tedesco, assumono toni inquietanti se applicati alla fragile architettura del processo penale. In tale scenario, l’accettazione acritica di un probabilismo soggettivo, per quanto raffinato sul piano teorico, rischia paradossalmente di allontanare il giudizio dalla ricerca della verità materiale, rendendolo più vulnerabile alle logiche di efficienza e funzionalità del sistema, criticamente denunciate da Kühne. Il pericolo concreto è che, in nome di una malintesa coerenza processuale, si finisca per sacrificare quella coerenza con la realtà fattuale che dovrebbe costituire il presupposto imprescindibile di ogni legittima condanna penale, vanificando la ratio garantista dello standard probatorio dell’“oltre ogni ragionevole dubbio”.

[86] Cfr. Cass. pen., Sez. V, n. 36080, 7 settembre 2015, Knox e altri: nel contesto delle analisi genetiche, si è ritenuto che il confronto dei profili di DNA, qualora condotto in violazione delle procedure relative alla raccolta, conservazione e ripetizione delle analisi, non possa essere considerato dotato del grado di certezza necessario per attribuirgli valore indiziante. In tal caso, il risultato della comparazione si configura unicamente come un dato processuale, privo di autonomia probatoria e valutabile solo in rapporto ad altri elementi di prova. Sul punto, v. S. Recchione, Il processo a statuto probatorio variabile: la rinnovazione in appello della prova scientifica, in Sistema penale, 6, 2020, 253.

[87] L’approccio proposto si inserisce nel più ampio dibattito dottrinario sulla natura della “verità processuale” nel processo civile, caratterizzato dalla contrapposizione tra una concezione “realista” e una “coerentista” della prova. La prima (cfr. M. Taruffo, La semplice verità, cit. [supra nt. 59]), pur perseguendo l’ideale ambizioso di ricostruire i fatti “come realmente sono accaduti”, ha il merito di sottolineare l’esigenza di criteri rigorosi per evitare derive soggettivistiche nella valutazione probatoria. Tuttavia, questa aspirazione a una verità oggettiva appare spesso irrealistica, considerando le limitazioni conoscitive proprie del contesto processuale. La seconda (cfr. J. Ferrer Beltrán, Prueba sin convicción, cit. [supra nt. 52]), privilegiando la coerenza narrativa e argomentativa della decisione, offre un modello più consapevole della natura interpretativa del giudizio probatorio. Va però riconosciuto che l’enfasi esclusiva sulla “verità argomentativa” o “logica”, fondata sulla sola coerenza interna del ragionamento giudiziale, rischia di ridurre la ricerca della verità a un esercizio formale, privo di effettiva capacità euristica. In definitiva, sebbene entrambe le prospettive abbiano il merito di affrontare aspetti cruciali della prova – il realismo evidenziando il problema della verifica empirica e il coerentismo quello della giustificazione razionale –, nessuna delle due sembra del tutto sufficiente, da sola, a risolvere in modo soddisfacente la complessa questione della verità processuale.