La tutela del consumatore tra esigenze eurounionali e creatività della nostra Corte di cassazione: una proposta alternativa

Il saggio esamina la decisione delle Sezioni Unite del 6 aprile 2023, n. 9479, criticandone le scelte, in quanto contrarie ai principi e alle norme vigenti nell’ordinamento italiano. Quindi, ritenendo ovviamente imprescindibile la necessità di adeguarsi ai principi fissati in materia dalla CGUE, si propone una via di soluzione che appare compatibile col nostro sistema, utilizzando la categoria della nullità-inesistenza del decreto ingiuntivo non opposto.

Di Mauro Bove -

SOMMARIO: 1. La parola della CGUE. – 2. L’attuazione della nostra Corte di cassazione. – 3. Il nostro compito. – 4. Gli equivoci. – 5. Le soluzioni inaccettabili. – 6. Proposta ricostruttiva. – 7. Inconvenienti.  

 

1.La parola della CGUE

Il 17 maggio del 2022 la CGUE, pronunciandosi su due rinvii pregiudiziali del tribunale di Milano[1], ha affermato che gli articoli 6/1 e 7/1 della Direttiva 93/13 CEE del 1993, anche letti alla luce dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, impongono di ritenere che, ove un decreto ingiuntivo in materia consumeristica sia stato pronunciato senza che il giudice si sia previamente occupato della questione inerente alla eventuale sussistenza di una clausola abusiva, detta questione, ove il decreto non sia stato opposto dal consumatore, ben possa essere ancora rilevata successivamente dal giudice dell’esecuzione. In altri termini, anche alla luce del modo in cui i giudici milanesi avevano posto il quesito, la CGUE afferma che la questione della nullità di protezione non può ritenersi preclusa in virtù di un’asserita decisione implicita sulla sua non sussistenza, che sarebbe, in ipotesi, un fondamento logico, e perciò implicito, della pronuncia di accoglimento della domanda ingiuntiva.

Il ragionamento svolto dai giudici del Kirchberg è assai semplice e stringente, tutto fondato su un’esigenza di effettività dei mezzi processuali.

Posta la minorità, non solo economica ma anche di capacità conoscitive, del consumatore, non basta che la legge gli dia la possibilità di opporsi ad un decreto ingiuntivo, ma è necessario che egli abbia contezza della situazione, in particolare della stabilizzazione del provvedimento in caso di mancata opposizione ed anche dell’esistenza della questione attinente alla nullità di una clausola. Ecco perché è necessario che il giudice del monitorio si occupi di quella questione e ne faccia mostra in sede di motivazione del decreto, così che il consumatore ingiunto sappia dell’esistenza del problema e possa scegliere tra l’opporsi e il non opporsi con maggiore consapevolezza. Insomma, la sola previsione normativa che attribuisce al consumatore-ingiunto il mezzo dell’opposizione (art. 645 c.p.c.) non basta, in quanto la possibilità di avvalersi di tale mezzo processuale può risultare del tutto astratta se poi nel caso concreto il consumatore non sa di avere un certo possibile motivo di opposizione.

In questo contesto non è semplicemente riconosciuto al giudice il potere di rilevare la questione, ma gli è piuttosto imposto un dovere, con la conseguenza che, se quel dovere non è assolto, la questione non trattata prima della pronuncia del decreto ingiuntivo può sempre essere conosciuta dopo, nonostante la stabilizzazione del provvedimento per mancata opposizione.

La ragione di una tale puntuale severità è evidente: qui si tratta, non solo di reprimere un illecito consumatosi, insomma di tutelare un singolo consumatore danneggiato in una singola vicenda contrattuale, ma anche di attuare una prevenzione particolarmente efficace, quindi di disincentivare pratiche abusive[2].

È in ciò che emerge il profilo di particolare interesse pubblico!

Per la tutela di questo interesse generale del mercato s’impone un dovere al giudice, la cui importanza è tale che la violazione della norma di attività genera un vizio non sanabile con il passaggio in giudicato dell’atto giurisdizionale. Invero, è solo con l’esercizio effettivo, e non presunto, di tale potere che si colma il dislivello tra parte forte e parte debole.

Come si vede, da questa breve ma credo esaustiva sintesi, la CGUE ha posto semplicemente un’esigenza, dando un’indicazione al modo in cui i giudici devono operare prima di pronunciare un provvedimento inaudita altera parte. Quel dovere di attività va adempiuto prima o poi, perché è solo l’attività del giudice che si vuole e non un certo modo di decidere la questione. E così la CGUE ha semplicemente detto: se la detta attività non è stata compiuta prima di pronunciare il decreto ingiuntivo, essa deve poter essere compiuta dopo.

Stava poi a noi, nel contesto nazionale, attuare l’esigenza, con gli strumenti processuali che abbiamo oppure, nell’eventualità della loro carenza, arricchirli per via legislativa. Da questo spunto metodologico prenderemo le mosse del nostro dire in positivo. Ma prima dobbiamo dar conto del come la nostra Corte di cassazione ha recepito la parola della CGUE, riportando anche con una certa minuzia i vari snodi.

2.L’attuazione della nostra Corte di cassazione

Le esigenze sottolineate dalla CGUE son state “attuate” dalle Sezioni Unite della nostra Corte di cassazione con sentenza 6 aprile 2023, n. 9479[3], in cui si analizza la questione da due punti di vista: quello interno alla fase monitoria e poi quello esterno, a valle della pronuncia di un decreto ingiuntivo non opposto, in particolare nel contesto di un processo esecutivo instaurato sulla base di questo.

Dal primo punto di vista non si ravvisano rilevanti problemi di adeguamento, perché si rileva come già in precedenza vi fosse nella nostra esperienza l’idea che il giudice del monitorio avesse il potere-dovere di rilevare d’ufficio la questione della nullità di protezione, non potendo accogliere la domanda ingiuntiva semplicemente limitandosi a ritenere che una simile questione sia materia di cognizione della sola opposizione, in ipotesi successiva.

A tal proposito la C.S. specifica, per un verso, che nel detto contesto il giudice debba svolgere un’istruttoria compatibile col tipo di percorso in atto, in particolare esercitando il suo potere di invito rivolto al ricorrente di cui all’art. 640 c.p.c. e, per altro verso, che in caso di dubbio sulla sussistenza di una clausola vessatoria il ricorso debba essere rigettato, non potendosi ritenere impedito un tale rigetto per il fatto che in sede monitoria non sia possibile il previo interpello del consumatore. Invero, da quest’ultimo punto di vista, il giudice che rilevi la nullità la deve dichiarare, senza attendere che prima il consumatore si pronunci. Poi, eventualmente, si tornerà sul punto in altri e successivi contesti, ben potendo il creditore riprovarci in via ordinaria o anche in via monitoria, magari maggiormente attrezzato nei suoi strumenti di attacco.

Dal secondo punto di vista si costruisce il sistema rimediale.

Se il decreto ingiuntivo è pronunciato con una motivazione che dà atto del fatto che il giudice si è posto la questione della nullità di protezione, aggiungendosi pure per l’ingiunto l’avvertimento che in mancanza di sua tempestiva attivazione nulla più sarà poi discutibile in sedi future, allora lo scadere del termine per l’opposizione fa cadere la pietra tombale del giudicato formale e sostanziale.

Se così non è stato, per rispettare le pronunce della CGUE è necessario dare al giudice dell’esecuzione il potere di rilevare la questione della nullità di protezione, sia che essa incida sull’esistenza o ammontare del credito da realizzare sia che così non sia, come accade ad esempio per la clausola abusiva che deroga al foro del consumatore. Tale potere è esercitabile prima che si sia perfezionata la vendita forzata e, a seguito del suo esercizio, che vale anche come interpello rivolto al consumatore, il giudice svolge un’istruttoria sommaria e quindi, non potendo dichiarare la nullità, indica alle parti il risultato di essa assegnando all’esecutato un termine di 40 giorni per l’eventuale proposizione di un’opposizione ai sensi dell’art. 650 c.p.c., rimedio che il debitore può utilizzare al solo fine di trattare della questione relativa alla nullità di protezione.

Se scadono inutilmente questi 40 giorni, il giudice dell’esecuzione, che intanto rimane fermo di fatto, procede alla vendita e ogni contestazione è ormai preclusa.

Individuato il rimedio nell’art. 650 c.p.c., la C.S applica la soluzione in casi particolari.

Se il debitore propone un’opposizione ai sensi dell’art. 615 c.p.c. (magari anche a precetto) prima che il giudice dell’esecuzione abbia speso il suo potere di rilevare d’ufficio la questione della nullità in parola il rimedio pendente deve convertirsi in quello di cui all’art. 650 c.p.c.

Ed, anzi, per essere precisi bisogna distinguere.

Se l’opposizione proposta è fondata sulla contestazione di una clausola abusiva, il giudice adito deve riqualificare il rimedio in quello di cui all’art. 650 c.p.c., dando un termine di 40 giorni per la riassunzione del giudizio. Se, invece, essa è altrimenti fondata, il giudice dell’opposizione rileverà d’ufficio la questione della nullità di protezione, interpellerà il debitore sulla sua volontà di avvalersene e, in caso di risposta affermativa vi sarà la detta riqualificazione nei termini visti, fermo restando che nell’attesa il giudice dell’esecuzione non procederà alla vendita, emergendo anche qui una sorta difermo” degli atti esecutivi al di fuori di un’ipotesi di sospensione. Infatti, dice la C.S., un vero e proprio provvedimento sospensivo sarà eventualmente concesso dal giudice dell’opposizione di cui all’art. 650 c.p.c., ai sensi dell’art. 649 c.p.c., sospensione che potrà essere totale (ad esempio per la nullità derivante da una clausola di deroga al foro del consumatore) o parziale (ad esempio per l’eccesso di interessi moratori).

Questa operazione esige un’interpretazione adeguatrice dell’art. 650 c.p.c., come è evidente da quanto detto finora. Innanzitutto in riferimento al suo presupposto, dovendosi arricchire il concetto di forza maggiore: se la Corte costituzionale, con sentenza del 20 maggio 1976 n. 120, aveva ammesso all’opposizione tardiva anche l’ingiunto che, pur sapendo del decreto ingiuntivo, tuttavia non abbia potuto spendere il rimedio per caso fortuito o forza maggiore, ben si può ritenere nel nostro caso che l’ignoranza del possibile motivo di opposizione in capo al consumatore sia una situazione non a lui imputabile, situazione che viene a superarsi solo a seguito dell’iniziativa del giudice, con la quale si rimette in corsa in modo effettivo l’ingiunto.

In secondo luogo, riguardo ai termini entro i quali il rimedio va utilizzato, se bisogna necessariamente disapplicare il comma 3 dell’art. 650 c.p.c., il termine di 40 giorni che il giudice dell’esecuzione o dell’opposizione all’esecuzione assegna al consumatore per l’eventuale opposizione tardiva, a seguito del rilievo della questione, è pur sempre tratto dall’art. 641 c.p.c.

Quindi la C.S. spiega i motivi che l’hanno spinta a prediligere questa scelta tecnica, tra quelle emerse nel dibattito dottrinale ed anche nelle conclusioni del Procuratore Generale presso la stessa Corte. In buona sostanza, si ritiene, che la descritta regolamentazione del caso, per un verso, riesca a coniugare la salvezza di nostri principi fondamentali con l’esigenza di attuare una tutela effettiva del consumatore a cui ci ha richiamati la CGUE e, per altro verso, eviti alcuni inconvenienti che altrimenti si potrebbero creare, scegliendo strade diverse.

Dal primo punto di vista, mettere in campo il mezzo di cui all’art. 650 c.p.c. significa, in fondo, restituire alla parte debole il mezzo “naturale” per attaccare il decreto ingiuntivo: la possibilità di instaurare un processo dichiarativo a cognizione piena per l’accertamento delle nullità di protezione, quel processo che si sarebbe celebrato ove l’ingiunto avesse con consapevolezza utilizzato la via “ordinaria” tracciata dall’art. 645 c.p.c.

Con ciò si salvano diversi principi ed istituti nostrani.

Si salva la separazione tra cognizione ed esecuzione ed anche i principi tradizionali che si predicano in riferimento all’istituto del giudicato.

Invero, nella detta restituzione, dando il dovuto mezzo di tutela al consumatore, si salva l’idea che il decreto ingiuntivo non opposto produce la cosa giudicata negli stessi termini oggettivi e cronologici che si avrebbero a fronte di una sentenza definitiva, perché quello che è disciplinato nell’art. 650 c.p.c. è appunto il rimedio straordinario che è dato per superare la cosa giudicata. Né sarebbe stato più coerente battere la strada offerta, in ipotesi, dall’art. 615 c.p.c., con la quale, avendo a che fare con un titolo esecutivo giudiziale, non si può attaccare la cosa giudicata, ma solo far valere questioni che sfuggono ai suoi limiti oggettivi, da perimetrare tenendo conto della preclusione del dedotto e del deducibile, e cronologici, per cui l’accertamento consente successivamente solo di fare questioni fondate su fatti accaduti dopo l’ultimo momento utile nel quale si sarebbero potute e dovute rilevare questioni prima della formazione del titolo giudiziale.

Né per attaccare il giudicato, continua la C.S. si sarebbe potuto utilizzare il rimedio revocatorio (articoli 395 e 656 c.p.c.), le cui maglie sono strette e tipiche, per cui una simile strada sarebbe praticabile solo se vi fosse un intervento legislativo.

Dal secondo punto di vista la soluzione proposta, a detta della C.S, evita diversi inconvenienti.

A parte il fatto che il consumatore potrebbe ricorrervi prima dell’instaurazione di un processo esecutivo, anche prima della notifica del precetto, il primo aspetto praticamente importante attiene alla questione della sospensione degli atti esecutivi, al fine di ovviare al rischio che il debitore corre di subire la perdita di un suo bene pignorato a causa della vendita forzata.

Applicando l’art. 650 c.p.c. l’eventuale sospensione operata dal giudice di tale opposizione riguarda l’efficacia esecutiva del decreto ingiuntivo in generale, per cui essa, per mezzo dell’art. 623 c.p.c., ferma ogni esecuzione in corso sulla base di quel medesimo provvedimento. Se invece la questione della sospensione fosse gestita nel contesto dell’esecuzione forzata, allora, ove vi fossero pendenti più esecuzioni, potrebbe accadere che una venga sospesa ed altra no. Quindi il consumatore potrebbe vedersi vendere qualche bene, che perderebbe, salvi profili risarcitori successivi avverso il creditore procedente.

In secondo luogo, se ci si affidasse al solo giudice dell’esecuzione per tutelare il consumatore, la vicenda esecutiva potrebbe anche chiudersi, ma il consumatore resterebbe sottoposto al rischio di altre esecuzioni, perché non vi sarebbe alcun giudicato. E se poi si ipotizzasse un’eventuale opposizione agli atti esecutivi (art. 617 c.p.c.) vi sarebbe una sentenza solo ricorribile in cassazione, ma non vi sarebbe equivalenza con la tutela di altre situazioni giuridiche, perché il consumatore deve poter far valere la nullità di protezione nei normali tre gradi di giudizio. Del resto, continua la C.S., la soluzione proposta non è contraria alla parola della CGUE, la quale ha voluto attribuire al giudice dell’esecuzione il potere di rilevare d’ufficio la questione, ma non anche necessariamente il potere di dichiarare la nullità.

Insomma, è legittimo tenere distinti il giudice che ha il potere-dovere di rilevare la questione della clausola abusiva ed il giudice chiamato ad accertarla e dichiararla

Infine, la soluzione proposta ha anche il vantaggio di individuare un termine certo per la proposizione del rimedio. Questo vantaggio non si avrebbe ove si seguisse la proposta interpretativa suggerita dal Procuratore generale, che gioca sulla categoria della actio nullitatis, a cui correlare un potere sospensivo da esercitare sulla base dell’art. 700 c.p.c., proposta che comunque, a detta della C.S., non è praticabile soprattutto perché manca il presupposto di una nullità-inesistenza del provvedimento giudiziale[4].

3.Il nostro compito

Riprendendo uno spunto metodologico già accennato sopra, se è vero che la normativa europea attribuisce diritti sostanziali, mentre sta agli Stati approntare i mezzi processuali affinché quei diritti, ove subiscano lesioni, siano tutelati con effettività, nonché con equivalenza rispetto ai diritti c.d. di fonte nazionale, compito dell’interprete italiano è, o almeno dovrebbe essere, quello di verificare se il diritto processuale civile nostrano prevede quei mezzi. In caso di risposta affermativa, sta ai giudici appunto applicare istituti e norme esistenti, là dove in caso di risposta negativa, è necessario che lo Stato italiano risponda per mezzo degli organi legislativi. Nella prima eventualità la risposta dell’ordinamento nazionale è, se si vuole, immediata e la cosa è possibile anche conducendo l’interpretazione di norme ed istituti vigenti secondo un canone che tenga conto degli stimoli provenienti dalla CGUE. Ma, se questi spazi interpretativi non bastano, allora il sistema esige la scrittura di nuove norme, compito che non è attribuito alla Corte di cassazione.

Quanto alla disciplina della fase monitoria non sembra che emergano particolari problemi.

Già prima si pensava che in quella fase il giudice potesse rilevare d’ufficio la nullità del contratto: magari qui si è precisato ancora che ciò vale certamente anche per le nullità di protezione e che la domanda è da rigettare (per cui la nullità è dichiarabile), ove se ne ravvisi la sussistenza ovvero resti il dubbio che vi possa essere un profilo di abusività, a prescindere dall’interpello rivolto al consumatore e che, in caso, invece, di accoglimento della domanda ingiuntiva l’avvertimento di cui all’art. 641 c.p.c. debba essere integrato col riferimento al problema in oggetto.

Ma francamente non mi sembrano aspetti problematici. Non il primo, perché se in linea di principio la scelta del consumatore potrebbe impedire la dichiarazione della nullità[5], in una fase in cui essa non è ancora praticabile, ben si può concedere al giudice di affermarla perché nulla con ciò è ancora precluso, potendo il creditore ancora proporre una nuova domanda, anche ingiuntiva. Non il secondo, perché qui si tratta solo di arricchire di contenuti un avvertimento che, nel colmare l’insufficienza conoscitiva del consumatore, rende effettivo il suo potere di opporsi.

Diversamente stanno le cose a fronte del trattamento della situazione successiva alla pronuncia di un decreto ingiuntivo non opposto e non contenete alcun segno comprovante che il giudice si sia occupato della questione relativa alla nullità di protezione. Qui, a mio parere, la C.S. si è attribuita un compito creativo che va ben oltre i confini di un’interpretazione adeguatrice di norme esistenti, scelta che non sembra opportuna e peraltro non era neanche necessaria, perché l’esigenza sollevata con chiarezza dalla CGUE poteva essere soddisfatta, ovviamente sempre e solo a mio parere, alla luce delle norme e degli istituti vigenti.

Per comprendere il senso della critica bisogna scavare fino alle fondamenta, per cercare di capire il motivo che ha spinto le Sezioni Unite a costruire una proposta tecnica tanto articolata e direi tanto al di fuori delle leggi vigenti. Ed a me sembra che tale motivo affondi le sue radici in un equivoco, che nasce prima con i provvedimenti milanesi di rimessione alla CGUE e poi continua, innanzitutto nella dottrina, a fronte della parola dei giudici del Kirchberg, parola che a mio sommesso avviso è stata equivocata, inducendo in errore la C.S.

4.Gli equivoci

L’equivoco principale è stato il ritenere che la vicenda implicasse l’operatività dell’istituto del giudicato sostanziale, precisamente della stabilità dell’attribuzione del bene della vita. Nell’agitarsi in un tale equivoco si sono confusi temi diversi che vengono trattati all’interno della teoria della res iudicata e che attengono all’individuazione dei suoi limiti oggettivi e cronologici.

Il problema nasce, come si è già accennato, dal modo in cui sono stati costruiti i provvedimenti di rimessione alla CGUE, nei quali il quesito ha riguardato appunto la successiva rilevabilità di una questione, quella attinente alla nullità di protezione, che in ipotesi, secondo i principi nazionali, sarebbe implicitamente preclusa per decisione implicita. Insomma i giudici milanesi hanno chiesto all’alta Corte: essendo in gioco una pretesa contrattuale contro un consumatore, può la pronuncia di accoglimento non opposta “fare giudicato” anche sulla questione pregiudiziale della valida esistenza del contratto, impedendo, così, al successivo giudice dell’esecuzione il rilievo della nullità in parola?

Così, sia le conclusioni dell’avvocato generale Tanchev sia la pronuncia della CGUE erano costrette in quel binario, ancorché, a ben vedere non si siano fatte assorbire più di tanto da esso, occupandosi assai poco di definire una teoria della cosa giudicata.

A mio avviso le domande di rimessione contenevano due errori.

Il primo: ipotizzare in capo al giudice dell’esecuzione il potere di rilevare d’ufficio una questione, in ipotesi, attinente al credito da realizzare, al più impedito solo dalla presenza della cosa giudicata, senza chiedersi come fosse e sia possibile che in sede esecutiva ci si occupi del credito. Qui si è dimenticato il principio fondamentale della separazione tra funzione dichiarativa e funzione esecutiva, per cui il giudice dell’esecuzione non può in ogni caso occuparsi della giustizia dell’esecuzione, a prescindere dai limiti che possono derivare dal tipo di atto che costituisce il titolo esecutivo e che semmai rilevano in sede di opposizione all’esecuzione[6].

Il secondo errore: evocare la categoria della decisione e quindi del giudicato implicito in un caso in cui la preclusione derivava semmai dal principio per cui il giudicato preclude il dedotto ed il deducibile. Qui è bene chiarire subito la differenza.

Quando viene accolta una domanda in relazione ad un diritto affermato il principio per cui con la cosa giudicata è precluso (anche) il deducibile non deriva dall’idea che il giudice abbia implicitamente deciso tutte le questioni non ostative, bensì dall’idea che la cosa giudicata rappresenti una nuova concretizzazione della legge. Se la relazione tra le parti è presieduta dalla norma sostanziale, concretizzatasi nel verificarsi della sua fattispecie, dopo la pronuncia del giudice che abbia applicato quella norma si rompe il nesso fattispecie-legge-effetto giuridico e la relazione tra le parti è ormai presieduta solo dalla norma concreta posta nell’atto risolutivo della controversia.

Questo fenomeno rende irrilevante ogni fatto che, in ipotesi, sarebbe stato rilevante alla luce della norma di legge: accolta la domanda ogni ipotetico fatto impeditivo, modificativo o estintivo del diritto, alla luce della legge, è bruciato, salvo fatti che sfuggono ai limiti cronologici del giudicato. Respinta la domanda, ogni ipotetico fatto costitutivo che si sarebbe potuto far valere per quel diritto[7] è bruciato, salvo sempre eventuali fatti costitutivi che accadano dopo il referente temporale della cosa giudicata.

Inoltre, se l’istituto della cosa giudicata rinvia ad un’idea di stabilità nell’attribuzione di un bene della vita, ne deve anche conseguire che quella attribuzione preclude per il futuro la possibilità di far valere ogni effetto incompatibile. Non che questi effetti siano implicitamente giudicati, ma è piuttosto che quella attribuzione sarebbe messa in crisi sia consentendo un nuovo giudizio sulla stessa res (qui emerge il principio del ne bis in idem) sia consentendo un successivo giudizio su una res incompatibile.

Ragionando nel contesto della teoria del giudicato sostanziale, nel caso in oggetto non vi era alcun giudicato implicito, ma solo la normale operatività delle preclusioni appena accennate, che sono indispensabili se si crede che l’oggetto del giudicato stia nel diritto fatto valere, così come descritto in una fattispecie di legge, e non solo in una pretesa giuridica processualmente formulata sulla base di una narrata vicenda della vita.

Altro è il problema della profondità del giudicato. Qui sì che emerge l’idea per cui l’accoglimento di una domanda di adempimento contrattuale implica l’accertamento della pregiudiziale logica attinente alla valida esistenza di un rapporto contrattuale. Ma questa idea non serve alla stabilità del bene della vita attribuito dalla pronuncia di accoglimento, bensì alla necessità di precludere, in un successivo processo attinente ad effetti giuridici diversi da quello già giudicato, una contestazione su quella pregiudiziale. Ad esempio: il venditore che ha ottenuto il prezzo a causa di un contratto non può poi, citato dal compratore per la consegna del bene, eccepire l’insussistenza di un valido rapporto contrattuale e sottrarsi, così, a dare il dovuto dopo aver ricevuto ciò a cui aveva diritto.

La CGUE non si è minimamente calata nelle complicazioni di questa teoria, ma, ribadendo «l’importanza che il principio dell’autorità di cosa giudicata riveste sia nell’ordinamento giuridico dell’Unione sia negli ordinamenti giuridici nazionali»[8], essa ha voluto solo respingere la praticabilità di una finzione.

Molto semplicemente la sua logica è stata: se l’intervento del giudice è lo strumento per garantire una tutela effettiva del consumatore, pareggiando lo squilibrio con la controparte, non si può affermare, nell’eventualità che il giudice abbia pronunciato un decreto ingiuntivo senza porsi la questione della clausola abusiva, che è come se quel giudice si fosse implicitamente posto il problema e sempre implicitamente l’abbia risolto in modo non ostativo. Se è d’interesse pubblico che il giudice operi in un certo modo, non si può pretendere che, se quell’opera non vi sia stata, si debba fare finta che invece essa vi sia stata.

Ed allora, se una certa attività è necessaria, o essa è compiuta ritualmente prima di provvedere oppure essa va pur sempre recuperata dopo. Sta poi agli ordinamenti statali dire come può avvenire questo recupero, non occupandosi la CGUE né dei poteri di un giudice dell’esecuzione nazionale né delle diverse teorie che si possono formulare sulla cosa giudicata (sostanziale).

In definitiva, il punto centrale che l’avvocato generale Tanchev prima e la CGUE poi hanno voluto mettere a fuoco è imporre un dovere processuale al giudice, perché, si ripete, solo adempiendo ad esso si può riportare ad equilibrio il rapporto tra professionista e consumatore.

5.Le soluzioni inaccettabili

L’equivoco di fondo ha condizionato la ricerca delle soluzioni applicative. Ritenendosi che fosse in gioco la teoria della cosa giudicata (sostanziale), per adeguarsi alla (fraintesa) parola della CGUE in astratto si potevano percorrere due strade.

Si potevano rivedere i contenuti di quella teoria oppure, mantenendoli fermi, si poteva, nelle pieghe della nostra legge processuale reinterpretata al bisogno, cercare una via per attaccare la cosa giudicata.

Una revisione della teoria del giudicato sostanziale non mi sembrerebbe ragionevole, né, a mio avviso, sarebbe utile neanche se la si volesse praticare nel solo campo del procedimento per ingiunzione.

Certo, si potrebbe arrivare ad affermare che l’oggetto del processo e della cosa giudicata non starebbe nel diritto affermato con la domanda[9], bensì solo in una pretesa processualmente costruita in quanto legata ai fatti narrati. Insomma, si potrebbe ipotizzare che esso rinvii ad una questione giuridica concreta, perimetrata dal dedotto[10]. Così, si potrebbe spiegare la possibilità di far valere successivamente ciò che non sia stato dedotto, come, ad esempio, nel nostro caso la questione relativa alla nullità di protezione. Ma non credo che sarebbe ragionevole una simile operazione interpretativa ed oltretutto anche coloro che immettono nella teoria della cosa giudicata la c.d. “vicenda della vita” mi sembra che cerchino strade per ampliare, piuttosto che restringere, i limiti oggettivi del giudicato[11].

Ecco, allora, che, restando ancorati all’affermazione che la cosa giudicata attiene al diritto prima fatto valore e poi deciso, insomma che essa sia la res litigiosa dopo che è stata giudicata[12], intesa come situazione giuridica soggettiva attributiva di un bene della vita, le possibilità di ragionamento si ridurrebbero a sminuire i limiti oggettivi del giudicato con riferimento al decreto ingiuntivo non opposto.

Invero, se si arrivasse ad affermare che la questione della nullità di protezione non è preclusa dal “giudicato” collegato a quel provvedimento, si potrebbe ritenere che essa sia sollevabile in un successivo processo dichiarativo, quale potrebbe anche essere un’opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c.

Ma, a me sembra, anche questa operazione non andrebbe molto lontano, perché a ben vedere l’esigenza che ha messo a fuoco la CGUE, restando nella prospettiva del giudicato sostanziale, potrebbe essere realizzata solo mettendo in crisi ogni teoria sui limiti oggettivi della cosa giudicata, almeno se, ripeto, si parte dal principio che essa attiene al diritto fatto valere e non alla concludenza giuridica dei fatti narrati dall’attore.

Non ce la potremmo cavare col dire che l’effetto di giudicato del decreto ingiuntivo non opposto è qualcosa di meno, perché, in ipotesi, esso non coprirebbe l’antecedente logico oppure non coprirebbe il deducibile[13]. La prima affermazione non sarebbe utile perché, anche a voler escludere la preclusione in ordine alla questione pregiudiziale in senso logico, qui ciò che non sarebbe precluso è piuttosto un effetto incompatibile che attiene al credito affermato col provvedimento giudiziale. Se, come abbiamo visto sopra, l’idea che il giudicato scenda sul rapporto fondamentale serve ad impedire una sua discutibilità al fine di decidere su altre pretese giuridiche, qui, invece, si vuole propriamente mettere in discussione il già giudicato in modo esplicito: il credito riconosciuto esistente col decreto ingiuntivo non opposto.

Ma neanche sarebbe utile ipotizzare che il decreto ingiuntivo non opposto possa precludere solo il dedotto in ordine al credito fatto valere, perché ammettere la successiva rilevabilità di una nullità del contratto da cui quel credito derivi significa negare proprio il credito. Insomma qui non vi sarebbe alcun giudicato su ciò che in teoria dovrebbe essere il suo oggetto ed allora veramente avremmo un titolo giudiziale che scadrebbe al valore di un titolo stragiudiziale.

In definitiva, voler dare corso all’esigenza sollevata dalla CGUE manipolando la teoria dei limiti oggettivi del giudicato implicherebbe l’annullamento dell’istituto della cosa giudicata, ciò che non era negli obiettivi dei giudici del Kirchberg.

Almeno da questo punto di vista le Sezioni Unite della nostra C.S. hanno salvato la cosa giudicata e gli elementi costitutivi della teoria attinente a suoi limiti oggettivi. Nel fare ciò i nostri giudici supremi, richiamando l’operatività dell’art. 650 c.p.c., hanno utilizzato l’unico strumento che poteva essere utile allo scopo, quello con cui “naturalmente” si attacca la cosa giudicata prodotta da un decreto ingiuntivo non opposto. Ma, incamminandosi su questa strada, essi hanno però costruito un percorso del tutto creato giudiziariamente, un percorso al di fuori della legge vigente.

Ciò è evidente nella forzatura del concetto di “forza maggiore” come nella forzatura della disciplina sul termine assegnato al consumatore per l’utilizzazione del mezzo od anche nella forzatura che emerge quando si ipotizza che un’opposizione esecutiva già proposta vada riqualificata come opposizione tardiva al decreto ingiuntivo. Ed ancora una forzatura si ha anche quando si cerca di disciplinare la questione della sospensione, ipotizzando che il giudice dell’esecuzione si fermi “di fatto”, senza alcun provvedimento di sospensione, in attesa che l’interessato proponga l’opposizione tardiva e che poi il giudice di questa decida, eventualmente, alla luce dell’art. 649 c.p.c.

Ed, inoltre, anche questo sforzo della C.S., che pur vuole salvare il c.d. principio della separazione tra cognizione ed esecuzione, finisce per non spiegare il problema di fondo, quello che direi dovrebbe essere il problema di partenza e che mi sembra poco considerato fin dalle domande di rinvio pregiudiziale. Ossia: come si può spiegare un rilievo da parte del giudice dell’esecuzione della questione di cui qui si tratta?

A me sembra che è da questa domanda che si dovrebbe partire, anche per trovare un via che sia utile al fine di soddisfare l’esigenza sollevata dalla CGUE e, al contempo, sia tecnicamente compatibile col nostro diritto vigente. E non credo che sia sufficiente quanto rileva la C.S., la quale, per salvare il detto principio di separazione, afferma che al giudice dell’esecuzione sta solo il potere-dovere di rilevare la questione attinente alla nullità di protezione, dovendo, invece, altro giudice, quello della cognizione, decidere su di essa. Invero, se, in negativo, è indubbio che un simile accertamento non rientra nei poteri del giudice dell’esecuzione, resta dubbio il come sia possibile, in positivo che quel giudice possa rilevare la questione, per poi, sulla base di quel rilievo, mettere in moto il descritto, e direi arzigogolato, meccanismo rimediale.

6.Proposta ricostruttiva

Se annullare l’istituto della cosa giudicata ovvero, salvandolo, costruire percorsi contra legem poteva far sorgere un solido campanello di allarme, forse si poteva e si potrebbe domandare: è possibile che la parola della CGUE sia osservabile senza mettere in campo la cosa giudicata (sostanziale)? Abbiamo nelle nostre leggi e nei nostri principi di fondo le risorse per soddisfare l’esigenza qui emersa, senza provocare sconquassi?

Che a mio avviso la risposta sia positiva credo che il lettore l’abbia già compreso. Si tratta ora di esplicitare una proposta in positivo, al cui fine, ripeto ancora, lo snodo da cui non si può prescindere sta nel giustificare un potere del giudice dell’esecuzione e nel cogliere le conseguenze del suo esercizio.

Torniamo ancora al ragionamento della CGUE.

Questa ha voluto con estrema chiarezza imporre una norma di attività al giudice chiamato a svolgere funzione dichiarativa, il solo che possa ovviare allo squilibrio tra le parti in gioco. Al giudice dell’esecuzione non è dato il potere di sollevare una questione al fine di mettere (direttamente) in discussione la giustizia del giudicato, bensì gli è dato solo il potere di sanzionare un deficit di attività processuale, che era previamente essenziale nella costruzione del provvedimento dichiarativo.

Se questa è la logica, allora il nostro giudice dell’esecuzione, lungi dal porsi problemi attinenti all’esistenza del credito azionato in via esecutiva, deve piuttosto, presupposta l’esistenza di un rapporto consumeristico, rilevare un vizio di attività, rilevare che il provvedimento giudiziale è stato mal costruito. Qui non conta l’eventuale violazione di una regola di giudizio, bensì la violazione di una regola del processo: non si riscontra un error in iudicando, quanto piuttosto un error in procedendo, che va ad incidere sulla validità del provvedimento giudiziale[14] e nulla c’entra con i limiti oggettivi dell’accertamento in esso contenuto.

Così ragionando si spiega il perché un giudice dell’esecuzione possa attivarsi: egli presuppone un problema attinente ad una nullità di protezione, ma ciò che direttamente rileva, riscontrando la lacuna di attività del giudice che ha pronunciato il provvedimento, è piuttosto, non la nullità del contratto, bensì la nullità del provvedimento giudiziale. Egli non si occupa del credito da realizzare, di cui non può occuparsi, ma del titolo esecutivo, riscontrando una nullità che evidentemente sfugge al principio di conversone di cui all’art. 161, comma 1, c.p.c., rientrando piuttosto fra quelle, rare certamente, per le quali il passaggio in giudicato del provvedimento giudiziale non ha capacità di sanatoria, come fa intendere il comma 2 del medesimo art. 161.

Quindi, a mio avviso, l’intuizione giusta era nelle conclusioni del PG presso la C.S., ancorché poi essa sia stata sviluppata in modo non condivisibile, perché dal rilievo in sede esecutiva non possono derivare le conseguenze ivi descritte.

Se la via praticabile sta nel rilievo di una nullità dell’atto giudiziale costituente titolo esecutivo, a me sembra che il giudice dell’esecuzione si occupi della nullità di protezione non per rilevarla e tantomeno dichiararla, ma solo per dire che, se c’era una questione del genere da affrontare, il giudice ha costruito l’atto irritualmente, atto la cui nullità impedisce di avere un titolo esecutivo. Ma allora in sede esecutiva non vi è alcun interpello nei confronti del consumatore né vi è bisogno di indicare a questi un rimedio cognitivo da spendere in un certo termine, perché non si vede ove emerga dalla legge il potere del giudice dell’esecuzione di fare quella indicazione e di assegnare un qualche termine.

Il processo esecutivo che vede nascere al suo interno un problema attinente all’esistenza del titolo esecutivo semplicemente si chiude, se si nega la sussistenza del titolo esecutivo, ovvero continua in caso contrario. Nella prima eventualità il creditore procedente potrà contestare la decisione proponendo un’opposizione agli atti esecutivi ovvero, lasciando perdere la vicenda, cercare di ottenere un nuovo accertamento ed una nuova condanna a favore del suo credito, insomma un nuovo provvedimento giudiziale, questa volta in modo rituale. Nella seconda eventualità potrà il debitore ancora contestare la scelta, anche lui incamminandosi sulla via tracciata dall’art. 617 c.p.c., perché, invero, sarebbe singolare il ritenere che lo stesso problema, quello dell’esistenza di un titolo esecutivo, sia da trattare nella sede di cui all’art. 617 se sollevato dal creditore e nella sede dell’art. 615 se sollevato dal debitore[15].

In questa logica è irrilevante il tipo di clausola abusiva e quindi la conseguenza della nullità nel contratto. Potrebbe trattarsi della clausola attinente all’esistenza e/o modo di essere del credito da realizzare ovvero di una clausola sulla via della tutela, come quella attinente al foro competente. La nullità contrattuale nel primo caso incide sul merito della lite, mentre nel secondo caso incide su un presupposto processuale. Ma dal nostro punto di vista non conta la distinzione, perché il problema è solo e sempre uno: il difetto di consapevolezza del consumatore va colmato con l’attività di controllo del giudice, per cui, se essa non vi è stata, il decreto ingiuntivo è stato pronunciato irritualmente. Si ripete, a prescindere dalle conseguenze di questo error in procedendo, perché la prima cosa che il giudice dell’esecuzione deve fare dopo la formazione del titolo esecutivo è verificare se vi sia stato questo vizio di attività.

Si ripete: il giudice dell’esecuzione è chiamato a verificare, non la nullità del contratto, ma la nullità dell’atto-titolo esecutivo.

Se tutto ciò è ragionevole, io credo che sia necessaria un’ulteriore riflessione sul campo di operatività del principio della permanente rilevabilità della nullità processuale appena evidenziato. Ci si chiede: quanto detto può valere solo in riferimento ad un decreto ingiuntivo non opposto?

Ritorniamo al ragionamento della CGUE, che è il seguente: la tutela effettiva del consumatore implica che non basti dotarlo di mezzi processuali, in quanto è possibile che il consumatore non utilizzi il mezzo dato perché non è consapevole del fatto che potrebbe rilevare una nullità. Insomma qui si tratta di ovviare all’eventuale inerzia inconsapevole, perché il vero dislivello tra le parti sta proprio nella povertà, prima che economica, piuttosto conoscitiva del consumatore. Questa disparità si colma col potere del giudice. Non basta riconoscere che il giudice possa rilevare la nullità: è necessario che lo faccia in concreto. Egli ha un dovere in questo senso.

Ma, allora, l’inerzia inconsapevole potrebbe aversi anche nel processo a cognizione piena, ordinario o semplificato che sia[16]. Se non lo si riconoscesse e si affermasse il principio elaborato solo in riferimento al decreto ingiuntivo non opposto, si dovrebbe ritenere che la qualità del contraddittorio qui sarebbe inferiore. Ma ciò non è vero e se lo fosse la normativa sarebbe incostituzionale! Piuttosto, accade solo che nel procedimento per ingiunzione il contraddittorio è posticipato, ma non che esso abbia meno potenzialità. Non si può dire che la violazione del dovere di rilevare la questione faccia emergere un vizio sanabile col passaggio in giudicato (161, comma 1, c.p.c.), mentre solo a fronte di un decreto ingiuntivo non opposto il passaggio in giudicato non sanerebbe il vizio del provvedimento (art. 161, comma 2, c.p.c.)[17].

Insomma, la CGUE vuole che la questione della nullità sia trattata, su iniziativa del consumatore o del giudice. Se il consumatore non la rileva emerge un’inerzia che potrebbe essere inconsapevole e questo basta a far scattare il dovere di supplenza del giudice. Se il dovere è violato, in nome di cosa si può dire che in un contesto il vizio è sanabile e in altro non lo è? La particolare gravità che fa emergere una nullità veramente assoluta, non sanabile col passaggio in giudicato formale, o c’è sempre o mai. Se la CGUE ritiene che qui il valore da proteggere sia di estrema rilevanza, esso lo è sempre!

Quindi la questione non è preclusa: 1) sia nell’eventualità che si parta con un processo a cognizione piena, 2) sia nell’eventualità che l’ingiunto faccia opposizione, ma della questione non si tratti, perché il giudice non l’ha sollevata, né in fase monitoria né in fase di opposizione, in cui neanche il consumatore ha rilevato l’eccezione[18].

Di conseguenza, a me sembra che sia veramente scarso l’ambito in cui si possa dire di avere di fronte una passività del consumatore tale da giustificare, e sanare, la carenza di attività del giudice, ance se mi rendo conto che questo aspetto sia il più discutibile nella proposta che qui sto avanzando.

7.Inconvenienti

Non ci nascondiamo che la soluzione qui proposta possa presentare qualche inconveniente, anche tra quelli già rilevati dalle Sezioni Unite della nostra C.S.

Certamente nel caso in cui pendano più esecuzioni forzate, è possibile che nell’una vi sia un provvedimento di chiusura ed in un’altra esso difetti. Ma credo che, a parte la dubbia probabilità che si verifichi il caso concreto, correre un simile pericolo sia meno dannoso che sconquassare il sistema normativo.

Come è altrettanto vero che un’eventuale chiusura del processo esecutivo per carenza del titolo esecutivo non sia una soluzione definitiva sulla vicenda delle parti, restando il consumatore soggetto al rischio di subire altre esecuzioni sulla base dello stesso provvedimento giudiziale. Tuttavia, anche questa eventualità mi sembra praticamente poco probabile e comunque resterebbe al consumatore, ormai edotto del problema della nullità contrattuale, la possibilità di agire chiedendo l’accertamento della nullità contrattuale, se lo ritiene utile.

Piuttosto credo che la posizione più problematica sia in capo al creditore, che, avendo interesse a ricostituirsi un titolo giudiziale in modo rituale, deve ricominciare da capo un percorso che lo porti ad ottenere l’accertamento del credito e la conseguente condanna a suo favore.

Quanto, infine, all’eventualità che si sia perfezionata una vendita forzata, a parte eventuali azioni risarcitorie esercitabili, non si deve dimenticare il principio sancito nell’art. 2929 c.c., per cui l’acquirente è certamente tutelato a fronte di nullità insanabili degli atti esecutivi, ma ciò fino alla soglia della sua collusione col creditore procedente. Trattandosi qui, in ipotesi, di un’esecuzione forzata condotta senza titolo esecutivo, il caso è riportabile proprio all’operatività del detto principio, ancorché si debba ricordare come in concreto sia assai difficile che si verifichino le condizioni che possano legittimare l’azione di nullità a cui rinvia la citata norma a valle dell’avvenuta espropriazione[19].

 

 

[1]  Per la verità la Corte ha pronunciato quattro sentenze, sulla base anche di altri rinvii. Senza voler appesantire inutilmente il discorso vedi sulla vicenda nella fase successiva ai rinvii, quindi prima delle pronunce della CGUE, quando si avevano solo, oltre ai provvedimenti di rinvio, le conclusioni dell’Avvocato generale Tanchev: CARRATTA, Introduzione. L’ingiuntivo europeo nel crocevia della tutela dei consumatori, in Giur. it., 2022, 485 ss.; FIENGO, Il ruolo del giudice alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia, ivi, 526 ss.; CAPORUSSO, Procedimento monitorio interno e tutela consumeristica, ivi, 533 ss.; D’ALESSANDRO, Una proposta per ricondurre a sistema le conclusioni dell’avv. Gen. Tanchev, ivi, 541 ss. Dopo le pronunce della CGUE, e quindi a comento di esse, vedi: D’ALESSANDRO, Il decreto ingiuntivo non opposto nei confronti del consumatore dopo Corte di giustizia, grande sezione, 17 maggio 2022 (cause riunite C-693/19, causa C-831/19, causa C-600/19 e causa C-869/19), in attesa delle Sezioni Unite, in www.judicium.it, 2022; MARCHETTI, Note a margine di Corte di giustizia UE, 17 maggio 2022, (Cause riunite C-693/19 e C-831/19), ovvero quel che resta del brocardo “res iudicata pro veritate habetur” nel caso di ingiunzioni a consumatore non opposte, ivi; FEBBI, La Corte di giustizia europea crea scompiglio: il superamento del giudicato implicito nel provvedimento monitorio, ivi; ROSSI, Decreto ingiuntivo non opposto e tutela effettiva del consumatore, ivi; CAPORUSSO, Decreto ingiuntivo non opposto e protezione del consumatore: la certezza arretra di fronte all’effettività, in Giur. it., 2022, 2117; STELLA, Il procedimento monitorio nella curvatura delle nullità di protezione consumeristiche, ivi, 2126 ss.; BACCAGLINI, Nullità di protezione, decreto ingiuntivo non opposto e giudicato implicito, in Riv. dir. bancario, 2023, 57 ss.; GIUSSANI, Decreto ingiuntivo e opposizione esecutiva secondo la Corte di giustizia, in Rass. Esec. forz., 2023, 119 ss.; CAPPONI, La Corte di giustizia stimola una riflessione su contenuto e limiti della tutela monitoria, ivi, 126 ss.; RASIA, Giudicato, tutela del consumatore, ruolo del giudice in sede monitoria ed esecutiva, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2023, 63 ss.; MARA, Certezza del diritto ed effettività della tutela giurisdizionale del consumatore, in Il giusto processo civile, 2022, 1129 ss.; DE STEFANO, La Corte di giustizia sceglie tra tutela del consumatore e certezza del diritto. Riflessione sulle sentenze del 17 maggio 2022 della Grande Camera della CGUE, in www.giustiziainsieme.com, 2022; Id., Le sentenze Chicxulub: il decreto ingiuntivo contro il consumatore dopo le sentenze della Corte di giustizia della U.E., ivi, 2023; BERTOLLINI, Procedimento monitorio, decreto ingiuntivo non opposto e tutela del consumatore: considerazioni a margine di due interessanti pronunce della Corte di giustizia dell’Unione europea, in Rid. Dir. contratti, 2023.

[2]  Vedi l’art. 7 della citata Direttiva.

[3]  Vedila pubblicata per esteso in Foro it. 2023, I, 1452, con note di FARINA, Le sezioni unite rispondono alla Corte di giustizia creando un nuovo istituto. L’opposizione ultra-tardiva a decreto ingiuntivo e l’effettività della tutela consumeristica, ivi, 1474; PARDOLESI-SASSANI, Clausole abusive nei contratti B2C, decreto ingiuntivo non opposto, giurisprudenza eurounitaria e sezioni unite: meta-realtà e diritto a metà, ivi, 1486 ss.; PAGLIANTINI, «Ce n’est qu’un début»: spigolature civilistiche sul decalogo europeista di sez. un. 9479/23, ivi, 1491 ss. Vedi per altri commenti: CONSOLO, Istruttoria monitoria «ricarburata» e, residualmente, opposizione tardiva consumeristica «rimaneggiata» (specie) su invito del g.e., in Giur. it., 2023, 1054 ss., D’ALESSANDRO, Dir. 93/13/CEE e decreto ingiuntivo non opposto: le Sez. un. cercano di salvare l’armonia (e l’autonomia) del sistema processuale nazionale attraverso una lettura creativa dell’art. 650 c.p.c., ivi, 1060 ss.; COSTANTINO, Clausole vessatorie e stabilità dei rapporti giuridici, in in-Executivis, 2023.

[4]  Sulle conclusioni del PG torneremo, perché a mio parere in esse vi è l’intuizione giusta. Per il momento si segnala solo come l’inconveniente rilevato dalla C.S. non era nella formulazione di quelle conclusioni, nelle quali si ipotizzava l’assegnazione di un termine al consumatore a valle del rilievo d’ufficio della questione di nullità ad opera del giudice dell’esecuzione. Se una critica si può fare, allora, restando in questo solo ambito problematico, si dovrebbe dire, semmai, che l’invenzione della PG è maggiore di quella della C.S., perché non si vede come si potrebbe ipotizzare l’assegnazione di un termine di decadenza per l’esercizio dell’actio nullitatis.

[5]  Questa è la caratteristica delle c.d. nullità di protezione: sul punto vedi, per tutti, MENCHINI, Nullità contrattuale e processo, in Scritti in memoria di F. Cipriani, I, Napoli, 2020, 543 ss., spec. 553 ed ivi anche citazione di giurisprudenza.

[6]  Come dire: l’azione esecutiva ha come unico fatto costitutivo il titolo esecutivo e non anche il credito. Questo è tipico degli ordinamenti attuali: vedi a partire da HELLWIG, Klagerecht und Klagmöglichkeit, Lipsiza, 1905, 18 ss. Insomma il credito è situazione intercorrente tra creditore e debitore, essendo quella intercorrente tra creditore e Stato solo l’azione esecutiva. Vedi anche GEIB, Rechtsschutzbegehren und Anspruchsbetätigung, Monaco, 1909, 1, 29 ss., 32 ss. 56, 71 ss., 94 ss.; STEIN, Grundfragen der Zwangsvollstreckung, Tubinga, 1913, 5 ss., 11 ss.; CARNELUTTI, Diritto e processo nella teoria dell’obbligazione, in Studi in onore di G. Chiovenda, Padova, 1927, 221 ss., spec. 233 ss.; LIEBMAN, Le opposizioni di merito, Roma, 1931, 128 ss.; OERTMANN, Die rechtliche Natur der Vollstreckungsgegenklage, in Acp (107), 1911, 199 ss.; HELLWIG-OERTMANN, Die Zwangsvollstreckung, in System des deutschen Zivilprozeßrechts, II, Lipsia, 191, 1, 4-5, 8 ss, 21 ss.; SCHWINGE, Der fehlerhafte Staatsake im Mobliarvollstreckungsrecht, Mannheim, 1930, 5 ss.; BLOMEYER, Rechstkraft und Gestaltungswirkung der Urteile im Prozeß auf Vllstreckungsgegenklage unfd Drittwiderspruchsklage, in Acp (165), 1965, 481 ss., spec. 483-484. Per più ampie delucidazioni sul principio della autonomia vedi, se vuoi, BOVE, L’esecuzione forzata ingiusta, Torino, 1996, 8 ss.

[7]  Se è “quel diritto”: ma qui non possiamo occuparci della distinzione tra diritti autoindividuati e diritti eteroindividuati. Tantomeno occuparci dell’individuazione dell’oggetto dei processi costitutivi.

[8] Così nel § 57, in cui poi si continua: «La Corte ha, infatti, già avuto occasione di precisare che, al fine di garantire sia la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici sia una buona amministrazione della giustizia, è importante che le decisioni giurisdizionali divenute definitive dopo l’esaurimento delle vie di ricorso disponibili o dopo la scadenza dei termini previsti per tali ricorsi non possano più essere rimesse in discussione».

[9]  Ovviamente nell’ipotesi più semplice nell’assenza di complicazioni oggettive.

[10] In più chiari termini, si potrebbe dire che l’oggetto del processo sia dato dal chiedersi se «dal complesso fattuale contenuto nella domanda introduttiva è sorta o meno la conseguenza giuridica affermata dall’attore, cioè se la domanda è o non è concludente in quanto la sussunzione dei fatti allegati nelle norme di diritto ha o meno prodotto il risultato preteso dall’attore» (LUISO, Principio di eventualità e principio della trattazione orale, in Studi in onore di Fazzalari, Milano, 1993, II, 205 ss., spec. 212).

[11] È un dibattito qui non riproducibile: vedi, se vuoi, una sintesi in BOVE, Individuazione dell’oggetto del processo e mutatio libelli, in Giur. it., 2016, 1607 ss. e Rilievo d’ufficio della questione di nullità e oggetto del processo nelle impugnative negoziali: sugli ultimi orientamenti della Corte di cassazione, ivi, 2015, 1387 ss.

[12]  Ciò è nella nostra opinione tradizionale, per la quale vedi, per tutti, MENCHINI, I limiti soggettivi del giudicato civile, Milano, 1987, 45 ss.; PROTO PISANI, Appunti sul giudicato civile e sui suoi limiti oggettivi, in Riv. dir. proc., 1990, 386 ss., spec. 387; CONSOLO, Domanda giudiziale, in Digesto civ., Torino, 1991, VII, 44 ss., spec. 66-67.

[13]  Anche le dottrine più riduttive ritengono che il decreto ingiuntivo non opposto attribuisca un bene che non si può poi sottrarre: REDENTI, Diritto processuale civile, III, Milano, 1954, 26-27. Sull’esclusione qui dell’operatività del concetto di giudicato ad ogni effetto di cui all’art. 2909 c.c. vedi, ad esempio, MONTESANO, Luci ed ombre in leggi e proposte di «tutele differenziate» nei processi civili, in Riv. dir. proc., 1979, 592 ss., spec. 598; BALBI, Ingiunzione (procedimento di), in Enc giur., XVII, Roma, 1997, 2.8 e 4.1; RONCO, Struttura e disciplina del rito monitorio, Torino, 2000, 572 ss.; CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale civile, I, Torino, 2019, 177; BALENA, Istituzioni di diritto processuale civile, III, Bari, 2019, 252. Ma secondo l’opinione più diffusa, anche in giurisprudenza, sono maggiori gli argomenti a favore dell’idea per cui anche il decreto ingiuntivo non opposto fa stato ad ogni effetto. Vedi, per tutti, GARBAGNATI, Preclusione «pro iudicato» e titolo ingiuntivo, in Riv. dir. proc., 1949, I, 302 ss., spec. 308 ss.; Id., Il procedimento d’ingiunzione, Milano, 1991, 10 ss.; LUISO, Diritto processuale civile, IV, Milano, 2021, 157 ss.

[14]  La distinzione, anche se per certi aspetti insufficiente, è salda e risale nella nostra dottrina a CALAMANDREI, Vizi della sentenza e mezzi di gravame, in Studi sul processo civile, I, Padova, 1930, 167 ss. e Sulla distinzione tra error in iudicando ed error in procedendo, ivi, 213 ss., in cui si confuta la tesi, che vorrebbe annullare le differenze, di BELING, Revision wegen «Verletzung einer Rechtsnorm über Verfahren» im Strafprozess. Ein Beitrag zur Systematik der Urteilsmängel, in Festschrift f. Binding, II, Lipsia, 1911, 87 ss., spec. 129 ss., tesi accolta in Italia da FAZZALARI, Il giudizio civile di cassazione, Milano, 1960, 67-68.

[15]  Peraltro, più in generale, su quello che a me sembra un errore nel tracciare la linea di confine tra i due rimedi oppositivi vedi BOVE, Sull’oggetto delle c.d. opposizioni di merito, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2013, 879 ss. Invero, il rimedio di cui all’art. 615 c.p.c. ha a che fare con la contestazione, non dell’azione esecutiva, bensì del credito, ossia del fondamento sostanziale del fenomeno esecutivo. Ma questa idea non è mai stata presa in considerazione dalla nostra giurisprudenza pratica e teorica.

[16]  Così RASIA, op. cit., 82.

[17]  Così BACCAGLINI, op. cit., 69-70.

[18]  Questa è la scelta di recente fatta da Trib. Ivrea, 16 maggio 2023, in www.judicium.it, 2023.

[19]  Su questo rimedio vedi classicamente CERINO CANOVA, Vendita forzata, in Studi di diritto processuale civile, Padova, 1992, 629 ss., spec. 702; BUSNELLI, Della tutela giurisdizionale dei diritti, in Commentario del codice civile, IV, 4, Torino, 1980, 348; BONSIGNORI, Effetti della vendita forzata e dell’assegnazione, in Comm. Schlesinger, Milano, 1988, 299 e, se vuoi, BOVE, Dell’esecuzione forzata. Dell’espropriazione, in Commentario del codice civile diretto da E. Gabrielli, Milano, 2016, sub art. 2929, 382 ss., ove ho respinto l’idea che qui emerga un’azione revocatoria, come classicamente ha affermato MINOLI, Contributo alla teoria del giudizio divisorio, Milano, 1950, 137-138.