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La terzietà dell’arbitro nella legge di delega n. 206/2021
L’A. riflette su quanto disposto dall’art. 1, comma 15 della legge di delega 21 novembre 2021, n. 206 e chiarisce il percorso di (parziale) e compiuto affrancamento tra il concetto di terzietà del giudice togato e terzietà dell’arbitro, sia pur con norma di delega forse malamente formulata e, dunque, di difficile “elaborazione”.
Di Gian Paolo Califano -
Sommario: 1. Introduzione. – 2. L’arbitro nel codice di procedura civile del Regno d’Italia. – 3. Il codice del 1940. – 4. Le ragioni di un nuovo intervento e conclusioni de iure condendo.
1.Introduzione.
Il lungo art. 1 della legge di delega 21 novembre 2021, n. 206[1] detta, al comma n. 15, i principi di riforma dell’arbitrato. Tra l’altro, la norma, con la lettera a) del primo capoverso, invita il legislatore delegato a «rafforzare le garanzie di imparzialità e indipendenza dell’arbitro[2], reintroducendo la facoltà di ricusazioni per gravi ragioni di convenienza nonché prevedendo l’obbligo di rilasciare, al momento dell’accettazione della nomina, una dichiarazione che contenga tutte le circostanze di fatto rilevanti ai fini delle sopra richiamate garanzie, prevedendo l’invalidità dell’accettazione nel caso di omessa dichiarazione, nonché in particolare la decadenza nel caso in cui, al momento dell’accettazione della nomina, l’arbitro abbia omesso di dichiarare le circostanze che, ai sensi dell’articolo 815 del codice di procedura civile, possono essere fatte valere come motivi di ricusazione».
Delega di riforma, quella sulle norme che disciplinano l’arbitrato, fatta «senza illusione di efficientismo, deflazione ed accelerazione di portata generale, ma sì avendo ragionevolmente di mira una tutela più effettiva e più fair dei diritti soggettivi davanti agli arbitri (e cioè nella pur ristretta clinica privata arbitrale)»[3].
Ma ciò che più interessa, in questa sede, è porre in luce come la nuova norma si discosti da antica tradizione proponendo per la garanzia della terzietà degli arbitri un sistema soltanto (e solo in parte) simile a quello riservato dagli artt. 51 e 52 c.p.c. al giudice togato. Un nuovo sistema, forse malamente ibrido, ma finalmente, cosciente della particolarità del sistema di riferimento.
2.L’arbitro nel codice di procedura civile del Regno d’Italia.
L’art. 10 del primo codice unitario (1865) stabiliva, in due commi, che «Chiunque, cittadino o straniero può essere nominato arbitro. – Non possono essere arbitri le donne, i minori, gl’interdetti e coloro che, esclusi dall’ufficio di giurato per condanna penale, non furono riabilitati». Norma, questa, che colmava una lacuna del codice di procedura civile francese[4] e dei codici previgenti nella penisola, salvo quello estense, per il quale, ai sensi del relativo art. 8, «non possono essere arbitri le donne, chi è soggetto a tutela, il minore quantunque emancipato, il morto civilmente, ed il condannato per delitto infamante».
Ma per gli sviluppi che seguono, interessa maggiormente altra questione.
Sempre nel vigore del codice del 1865, si agitava il tema se potessero assumere le funzioni di arbitro soggetti in qualche modo non equidistanti. Ed in tema la miglior dottrina così scriveva «Nel diritto francese si è fatto pure la quistione di vedere, se l’interesse personale, la parentela, le relazioni di affari ed i vincoli di affetto fossero stati un ostacolo ad esser nominato arbitro. La legge 51 ff. de receptis diceva: Si de re sua quis arbiter factus sit, sententiam dicere non potest: quia se facere jubeat, aut petere proibeat: neque autem imperare sibi, neque se prohibere quisquam potest. Sul fondamento di questa legge, e sulla ragione che in essa è addotta, gli autori francesi ritengono per nullo l’arbitramento pronunziato nel proprio interesse. Se non che noi osserviamo, che nel sistema del nostro codice di procedura, essendo stato abolito l’arbitramento necessario, nell’arbitramento volontario opiniamo, che l’applicazione di questa legge vada circoscritta soltanto alla propria persona, la quale neque imperare sibi, neque se prohibere potest. Ma trattandosi di parenti, di affini, o di altre persone ligate da relazioni di affari o di affetto, non crediamo potesse la libera scelta delle parti menare a nullità. Nemini volenti fit injuria. Nel primo caso sarebbe vano allegare, che essendo libera la parte avversaria di elegere quell’arbitro, che più gli talenta, e di disporre a suo piacimento del suo diritto, potendo anche rinunziarvi, sarebbe libera egualmente di rimettersene al giudizio dello stesso suo avversario; dapoichè vi sono dei principii di diritto naturale, ai quali non è permesso a chicchessia derogare, quae civilis ratio corrumpere non potest. Tal’è quello di cui si tratta, essendo stato sempre così, che un giudice nella propria causa ha recato ripugnanza. Se ciò potesse avvenire, non vi sarebbe arbitramento ma concessione, rinunzia. Al contrario, quando il consenso di ambedue le parti concorre a nominare arbitro un parente, un affine, l’avvocato, od altra simile persona, anche in relazione strettissima con l’altra parte, cesserebbe la ragione posta in tanto risalto da Voet, neque imperare sibi, neque prohibere quisquam potest, ed estesa dallo stesso Voet irragionevolmente a molti casi. D’altronde, come creare una nullità, che non è fulminata da nessuna legge? Un arbitro in simile condizione, per motivi di delicatezza, non accetterà il mandato, ma se accetta, il suo arbitramento è valido[5].
Simile il “vuoto” normativo” nei codici preunitari quanto ad un sistema di ricusazione degli arbitri[6]. Ed il codice del 1985 soltanto al comma 2 dell’art. 34 accennava all’istituto stabilendo la cessazione del compromesso, tra l’altro, per il caso della morte, ricusazione, desistenza o incapacità di uno degli arbitri. E se ne deduceva che gli arbitri in quel sistema potessero essere ricusati in tutti i casi (di cui all’art. 116) previsti per i giudici[7]. Ma anche qui, “distratto” il legislatore, stava alla dottrina e alla giurisprudenza riempire di contenuto gli scarsi riferimenti normativi.
Davvero poco sviluppato il problema della terzietà dell’arbitro, dunque, nel vigore del primo codice di procedura civile unitario. Quasi che l’imparzialità degli arbitri fosse, per il legislatore, “cosa” esclusiva delle parti in nulla meritevole di attenzione “pubblicistica”.
3. Il codice del 1940.
È col “testacoda” del 1940 (dove la disciplina dell’arbitrato, da sistema di apertura del codice è relegato nel Titolo VIII del Libro IV e, dunque, in chiusura), che la terzietà dell’arbitro trova ben più evidente attenzione. Si comincia col ridefinire i requisiti per l’assunzione delle relative funzioni (art. 812, commi 1 e 2: «Gli arbitri debbono essere cittadini italiani[8]. – Non possono essere arbitri i minori, gli interdetti, gli inabilitati, i falliti e coloro che sono sottoposti a interdizione dai pubblici uffici»), con norma dapprima sostituita dall’art. 1 l. 9 febbraio 1983, n. 28: «Gli arbitri possono essere sia cittadini italiani sia stranieri[9]. – Non possono essere arbitri i minori, gli interdetti, gli inabilitati, i falliti e coloro che sono sottoposti a interdizione dai pubblici uffici»[10]; e, successivamente, nel 2006 (d.ls. 2 febbraio n. 40): nella formula oggi in vigore: «Non può essere arbitro chi è privo, in tutto o in parte, della capacità legale di agire»[11].
Ma, soprattutto, il secondo codice unitario detta espressa disciplina per la eventuale ricusazione degli arbitri. E così, la norma, nei suoi due commi, stabilisce che «La parte può ricusare l’arbitro, che essa non ha nominato, per i motivi indicati nell’art. 51[12]. – La ricusazione è proposta mediante ricorso al presidente del tribunale indicato nell’articolo 810 secondo comma entro il termine perentorio di dieci giorni dalla notificazione della nomina. Il presidente pronuncia con ordinanza non impugnabile, sentito l’arbitro ricusato e assunte, quando occorre, sommarie informazioni». Un sistema, dunque, per la ricusazione dell’arbitro, nella sua forma agganciato però, alla norma sull’astensione del giudice togato (art. 51) e non a quella, successiva, relativa alla ricusazione di questi (art. 52)[13]. Ma per tal verso non significativa, posto che, ai sensi della norma da ultimo richiamata, la ricusazione può motivarsi per ogni caso in cui il giudice ha l’obbligo di astenersi (art. 52, comma 1: «nei casi in cui è fatto obbligo al giudice di astenersi, ciascuna delle parti può proporne la ricusazione mediante ricorso contenente i motivi specifici e i mezzi di prova». Trattasi, dunque, solo di elegante (non perciò condivisibile[14]) rinvio, funzionale a superare le differenze tra i due sistemi. E formulata nel solco dell’antica tradizione di assimilazione dei casi di ricusazione degli arbitri con quelli previsti per i giudici.
La norma fu anch’essa dapprima modificata dall’art. 7 della l. 5 gennaio 1994, n. 25: «La parte può ricusare l’arbitro, che essa non ha nominato, per i motivi indicati nell’articolo 51 – La ricusazione è proposta mediante ricorso al presidente del tribunale indicato nell’articolo 810, secondo comma, entro il termine perentorio di dieci giorni dalla notificazione della nomina o dalla sopravvenuta conoscenza della causa di ricusazione. Il presidente pronuncia con ordinanza non impugnabile, sentito l’arbitro ricusato e assunte, quando occorre, sommarie informazioni. E, successivamente, nel 2006, nella formula attualmente in vigore e simile (nella sua logica, ma ovviamente adattato al relativo sistema) a quella di cui all’art. 52 stesso codice: «Un arbitro può essere ricusato: 1) se non ha le qualifiche espressamente convenute dalle parti; 2) se egli stesso, o un ente, associazione o società di cui sia amministratore, ha interesse nella causa; 3) se egli stesso o il coniuge è parente fino al quarto grado o è convivente o commensale abituale di una delle parti, di un rappresentante legale di una delle parti, o di alcuno dei difensori; 4) se egli stesso o il coniuge ha causa pendente o grave inimicizia con una delle parti, con un suo rappresentante legale, o con alcuno dei suoi difensori; 5) se è legato ad una delle parti, a una società da questa controllata, al soggetto che la controlla, o a società sottoposta a comune controllo, da un rapporto di lavoro subordinato o da un rapporto continuativo di consulenza o di prestazione d’opera retribuita, ovvero da altri rapporti di natura patrimoniale o associativa che ne compromettono l’indipendenza; inoltre, se è tutore o curatore di una delle parti; 6) se ha prestato consulenza, assistenza o difesa ad una delle parti in una precedente fase della vicenda o vi ha deposto come testimone. – Una parte non può ricusare l’arbitro che essa ha nominato o contribuito a nominare se non per motivi conosciuti dopo la nomina. – La ricusazione è proposta mediante ricorso al presidente del tribunale indicato nell’articolo 810, secondo comma, entro il termine perentorio di dieci giorni dalla notificazione della nomina o dalla sopravvenuta conoscenza della causa di ricusazione. Il presidente pronuncia con ordinanza non impugnabile, sentito l’arbitro ricusato e le parti e assunte, quando occorre, sommarie informazioni. – Con ordinanza il presidente provvede sulle spese. Nel caso di manifesta inammissibilità o manifesta infondatezza dell’istanza di ricusazione condanna la parte che l’ha proposta al pagamento in favore dell’altra parte, di una somma equitativamente determinata non superiore al triplo del massimo del compenso spettante all’arbitro singolo in base alla tariffa forense. – La proposizione dell’istanza di ricusazione non sospende il procedimento arbitrale, salvo diversa determinazione degli arbitri. Tuttavia, se l’istanza è accolta, l’attività compiuta dall’arbitro ricusato o con il suo concorso è inefficace».
Una norma, dunque, assai analitica, formata da ben 5 commi. E che sembrava aver assicurato la terzietà degli arbitri[15]. E nessun altro problema si pose, ad esempio, in tema, quando il d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5 dettò la disciplina, rimasta tuttora in vigore, del c.d. arbitrato societario (artt. 34 a 37).
Un sistema, però, che, salvi gli ovvi adattamenti, sostanzialmente parifica il tema della terzietà dell’arbitro con quello della terzietà del giudice, probabilmente anche nell’ottica della progressiva giurisdizionalizzazione dell’arbitrato rituale, ma dimentica la differenza tra le due figure. Sicché è dai lavori della c.d. Commissione Luiso[16] che è finalmente giunto un suggerimento relativo all’intervento in discorso.
4.Le ragioni di un nuovo interventoe conclusioni de iure condendo.
Quali le ragioni del nuovo intervento?
In realtà, il problema sta, probabilmente, proprio nella norma oggi in vigore ed appena ricordata; tanto più se interpretata come riferita ad ipotesi tassative[17]. Norma che, con la sua elencazione dei casi di ricusazione degli arbitri (nel mentre, come detto, sembra riflettere la progressiva “giurisdizionalizzazione” dell’arbitrato rituale) mal si concilia con la specificità dell’istituto in discorso[18]. Specificità che può riassumersi nell’autonomia privata in relazione a diritti disponibili.
E l’esperienza straniera[19], come anche il suggerimento della più recente dottrina[20], rendono certamente opportuno l’inserimento anche nel nostro sistema del c.d. duty of disclosure. Utile a rinforzare la manifesta indipendenza e imparzialità dell’arbitro e a così implementare la fiducia collettiva nell’istituto dell’arbitrato. Ma, al contempo, a fornire alle parti ogni utile elemento per un corretto e consapevole esercizio della propria volontà negoziale.
Il problema, piuttosto, sta nella davvero discutibile formulazione della norma di delega: che sembra pretendere di “reintrodurre” nel testo dell’art. 815 c.p.c. la facoltà di ricusazione per gravi ragioni di convenienza[21], e di contestualmente imporre l’obbligo «di rilasciare, al momento dell’accettazione della nomina, una dichiarazione che contenga tutte le circostanze di fatto rilevanti ai fini delle sopra richiamate garanzie, prevedendo l’invalidità dell’accettazione nel caso di omessa dichiarazione, nonché in particolare la decadenza nel caso in cui, al momento dell’accettazione della nomina, l’arbitro abbia omesso di dichiarare le circostanze che, ai sensi dell’articolo 815 del codice di procedura civile, possono essere fatte valere come motivi di ricusazione». Ove, la sanzione della decadenza dell’arbitro rischia di esser collegata ad un obbligo di dichiarazione relativo, appunto, (anche) alle “gravi ragioni di convenienza”, evidentemente troppo vago. E tale da mettere in stato di eccessiva “incertezza ed ansia” chi quella dichiarazione deve rilasciare.
Da ciò l’arguto interrogativo[22] se il legislatore delegato possa, a questo punto, inserire nell’art. 815 c.p.c. il nuovo motivo di ricusazione senza ad esso collegare ogni conseguenza in caso di omissioni nella dichiarazione dell’arbitro[23]. Interrogativo che mi sembra necessario risolvere in senso positivo.
[1] Delega al Governo per l’efficacia del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia dei diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata: in G.U: n. 292 del 09. 12. 2021.
[2] In tema v., ampiamente, C. Spaccapelo, L’imparzialità dell’arbitro, Milano, 2009. Ove, tra l’altro, il convincente chiarimento circa la mancata previsione di una norma che regoli l’astensione dell’arbitro, anche per cause sopravvenute all’accettazione dell’incarico. In sintesi: «per l’arbitro non esiste, come invece vige per il giudice ordinario, un incondizionato dovere di astensione, bensì egli, unicamente al sopraggiungere di una situazione che ne legittimerebbe la ricusazione, ne dovrà rendere edotte le parti, le quali sceglieranno se nominare un altro arbitro o accordare piena fiducia a quello già nominato». Ciò, ovviamente, sempre che non sia l’arbitro medesimo a rifiutare l’incarico per una qualche ragione di (in)opportunità a lui evidente.
[3] Così, realisticamente, A. Briguglio, AA.VV., Commento ai principi in materia di arbitrato della legge di delega n. 206 del 21 novembre 2021, art. 1, co. 15, in Judicium, 21 marzo 2022, § 1.
[4] Dalla carenza di una norma siffatta nel codice francese sorse il grave dibattito se il diritto ad essere nominato arbitro fosse un diritto civile o un diritto politico: nel primo caso, per assumerne le funzioni sarebbe bastata la capacità civile e quella di potersi validamente obbligare (esser maschio e di maggiore età); nel secondo caso non ne avrebbero goduto lo straniero, il fallito ecc. Sul punto, in sintesi, G. Pisanelli, A. Scialoja e P. S. Mancini, Commentario del codice di procedura civile, coordinato da D. Galdi, volume I, Napoli, 1985, p. 63. Ove il divieto per le donne è così “giustificato”: «Esse a Roma erano espressamente escluse da tali funzioni, e la ragione è detta nella L. 6, cod. de receptis, ove si legge: Sancimus mulieres suae pudicitiae memores, et operum quae eis natura permisit, et a quibus eas jussit abstinere, licet summae atque optimae opinionis constitutae in se arbitrium susceperint, vel, si fuoerit patronae, etiam si inter libertos suam interposuerint audientiam, ab omni judiciali agmine separari, ut ex earum electione nulla poena, nulla pacti exceptio adversus justos earum comtemptores habeatur. Nel diritto del medio evo le donne potevano esser’arbitratrici, cioè scelte dal giudice, e non mai arbitre, ossia scelte dalle parti. Oggi sono comprese nella eccezione del secondo comma dell’articolo 10. La giustizia è cosa troppo seria, ed a questa serietà sembra che si attenti con affidarne le funzioni alla donna. Vi sarebbe nullità di ordine pubblico quindi se per avventura un giudizio arbitrale fosse pronunziato da una donna, sarebbe radicalmente nullo». D’altra parte, ad attenuare il pietoso sorriso che oggi suscita la lettura di tale “giustificazione”, vale la vergogna di ricordare che soltanto dopo che il 9 febbraio 1963 il Parlamento italiano approvò la legge sulla parità tra i sessi negli uffici pubblici e nelle professioni (ben 15 anni dopo l’entrata in vigore della Carta costituzionale!), due anni più tardi le prime 8 donne entrarono nei ruoli della magistratura.
[5] Pisanelli, Scialoja e Mancini, Commentario del codice di procedura civile, coordinato da Domenicantonio Galdi, volume I, cit., p. 66.
[6] Quanto al codice francese, ai sensi dell’art. 1014, secondo periodo, «Non si ammette ricusa di arbitri che per fatti posteriori al compromesso». E, nel silenzio della legge, la dottrina del tempo sosteneva che i relativi motivi fossero quelli spendibili «per la ricusa de’ giudici ordinari»: Commentario sulle leggi della procedura civile di C. L. T. Carré, 3a ed., Nuova edizione italiana dell’avvocato Luigi Lo Gatto, IV, Napoli, 1856, p. 437. Anche il codice di Napoleone del 1806 si limitava a prevedere, all’art. 1014, secondo periodo, che «Non si ammette ricusa di arbitri che per fatti posteriori al compromesso». Così come Le leggi di procedura nei giudizi civili – Parte terza del codice per lo Regno delle due Sicilie: art. 1090. A commento di tale ultima norma, agitati molti problemi irrisolti, e, primo tra tutti, quello dei motivi di ricusazione (ma tendenzialmente assimilati a quelli dettati per i giudici) così scrisse G. Mosca, Commentario su le Leggi di procedura ne’ giudizii civili e commerciali, IX, Napoli, 1847, p. 507: «è da risguardare cagion di ricusazione posteriore al compromesso non solo quella sorta dopo, ma eziandio quella preesistente che abbiasi potuto conoscere unicamente dopo». Per A. Lanzellotti, Analisi delle leggi di procedura ne’ giudizi civili per le due Sicilie, V, Napoli, 1820, p. 239, la ricusazione dell’arbitro era ammessa per i motivi di ricusazione del giudice o del perito. Motivi però, sopraggiunti alla sua nomina.
[7] L. Borsari, Il codice italiano di procedura civile annotato, 3a ed., parte prima., Torino, 1872, p. 72. In termini F. S. Gargiulo, Il codice di procedura civile del regno d’Italia, I, Napoli, 1876, p. 116: «La ricusazione fa pure cessare il compromesso. Se in fatti l’arbitro è un giudice, e se contro i giudici è ammessa la ricusazione, ragion voleva che si fosse ammessa anche contro gli arbitri. … Non sono però determinati i motivi di ricusazione, nè le formule; ma se gli arbitri costituiscono un corpo giudicante, tornava inutile il dire tassativamente che possono essere ricusati per motivi e con le forme che si riferiscono ai giudici ordinari, cosicchè l’articolo 116 è in questo caso interamente applicabile».
[8] Limitazione definita da Carnacini, voce Arbitrato rituale, in Noviss. Dig. It., I, 2, Torino, 1958, p. 916, «stupida quanto incongrua».
[9] Soltanto nell’occasione, dunque, si prese atto, nel codice di rito, della gravità della limitazione relativa ad arbitri stranieri (peraltro proposta come “un passo in dietro” rispetto alla omologa previsione del codice pregresso: art. 2 cod. 1865) ma già sulla falsariga dell’adesione alla Convenzione di Ginevra dell’11 aprile 1965, aderendo alla quale l’Italia «aveva accettato il principio che arbitri potessero essere anche stranieri (così l’art. III della Convenzione); principio, del resto, accolto anche dall’art. II della Convenzione di New York del 10 giugno 1958 resa esecutiva con l. 19 gennaio 1968, n. 62»: G. Verde, in AA.VV., Diritto dell’arbitrato, 3a ed., Torino, 2005, p. 133.
[10] Ai casi di incapacità si aggiungono poi, per previsioni speciali, casi di incompatibilità tra le funzioni di arbitro e altra funzione stabilmente coperta da alcuni soggetti, quali magistrati, professori universitari a tempo pieno impiegati pubblici. Con la specificazione che, in quel sistema, la violazione dell’art. 812 determinava la nullità del lodo ai sensi dell’art. 829. N. 3, quella sulle incompatibilità era invece ascrivibile all’art. 829, n. 2, c.p.c.: G. Verde, op. cit., p. 134, in giurisprudenza v. App. Napoli, 9 settembre 1999, in Riv. arb., 2001, p. 229 con nota di R. Nazzini.
[11]Alla luce della nuova formulazione dell’art. 812 sembra a G. Verde, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, con appendice di Valeria Verde, 6a ed., Torino, p. 103 s., che «le eventuali incompatibilità rilevano sul piano disciplinare, ma non influiscono sulla regolarità del procedimento arbitrale; mentre la violazione dell’art. 812 continua a rientrare nel n. 3 dell’art. 829». Nello stesso senso, quanto alle incompatibilità e assenza di autorizzazione, C. Punzi, Disegno sistematico dell’arbitrato, 2a ed., I, Padova, 2012, p. 539 ss., e L. Salvaneschi, Arbitrato, in Commentario del codice di procedura civile, a cura di S. Chiarloni, Torino, 2014, p. 263 ss.
[12] Si è sopra ricordato che l’omologazione dei motivi di ricusazione di arbitri e giudici togati risponde ad antica tradizione.
[13] In tema v. A. Tedoldi, Astensione, ricusazione e responsabilità dei giudici, in Commentario del codice di procedura civile, a cura di S. Chiarloni, Torino, 2015 e già L. Dittrich, Incompatibilità, astensione e ricusazione del giudice civile, Padova, 1991.
[14] Scriveva G. Verde, op. cit., p. 155, nel vigore di tale norma, che «nel disciplinare tale istituto il legislatore ha con pigrizia intellettuale … ripetuto le disposizioni che riguardano i giudici togati, sia richiamando i motivi di cui all’art. 51 sia delineando un procedimento analogo a quello previsto dall’art. 53. La situazione è, tuttavia, assai diversa e avrebbe meritato maggiore attenzione. Infatti, per il giudice ordinario il dovere di imparzialità discende dalla natura pubblica della funzione esercitata; per gli arbitri è collegato alla violazione di un obbligo privatistico fondato sulla fiducia, di cui garanti sono in primo luogo le stesse parti che hanno proceduto alla nomina». Nell’occasione, l’illustre A., sulle orme di L. Dittrich, L’imparzialità dell’arbitro nell’arbitrato interno e internazionale, in Riv. dir. proc., 1995, p. 157, anticipa (p. 157), che «la via più equilibrata è quella percorsa altrove, quando si impone agli arbitri di dichiarare prima dell’accettazione dell’incarico eventuali situazioni di incompatibilità, lasciando alle parti la possibilità di decidere se avvalersi o non delle prestazioni di questo arbitro».
[15] Tanto che, nelle Proposte e note illustrative presentate il 18 gennaio 2017 all’esito dei lavori della “Commissione di studio per l’elaborazione di ipotesi di organica disciplina e riforma degli strumenti di degiurisdizionalizzazione, con particolare riguardo alla mediazione, alla negoziazione assistita e all’arbitrato”; Commissione istituita con d.m. 7 marzo 2016 presso l’Ufficio del Ministero della Giustizia e presieduta dal prof. Avv. Guido Alpa, e che ampi interventi proponeva in tema di arbitrato, non v’era traccia di suggerimenti circa la terzietà dell’arbitro.
[16] Commissione Luiso – Commissione per l’elaborazione di proposte di interventi in materia di processo civile e di strumenti alternativi, costituita con D.M. 12 marzo 2021 con relazione conclusiva resa il 22 aprile 2021. Che, in argomento, suggeriva di «rafforzare le garanzie di imparzialità e indipendenza dell’arbitro, prevedendo l’obbligo di rilasciare, alo momento dell’accettazione della nomina, una dichiarazione che contenga tutte le circostanze di fatto rilevanti ai fini delle sopra richiamate garanzie, prevedendo l’invalidità dell’accettazione nel caso di omessa dichiarazione, nonché in particolare la decadenza nel caso in cui, al momento di accettazione della nomina, l’arbitro abbia omesso di dichiarare le circostanze che, ai sensi dell’articolo 815 del codice di procedura civile, possono essere fatte valere come motivi di ricusazione» (art. 11, lettera a).
[17] Difficile alla luce della norma oggi in vigore non ritenere tassativa la relativa elencazione dei motivi di ricusazione, quando essa ha taciuto su casi di “gravi ragioni di convenienza” (cfr. l’art. 51, comma 2, c.p.c.). Ciò non togli che, come di recente ribadito C. Spaccapelo, La ricusazione dell’arbitro: motivi e procedimento, in Trattato di diritto dell’arbitrato, III, Il tribunale arbitrale, Napoli, 2021, p. 199, «La presenza, oggi, di un elenco indurrebbe prima facie a ritenere che si tratti di motivi tassativi. Tuttavia proprio la lettura dei medesimi, dalla quale si evincono concetti generali e formule aperte (si pensi all’”interesse in causa” di cui all’art. 815, comma 1, n. 2, c.p.c., ovvero ancóra ai “rapporti … che ne compromettano l’indipendenza” richiamati dall’art. 815, comma 1, n. 5, c.p.c.) conduce ad una opposta conclusione. Infatti chi applica la norma deve far ricorso all’interpretazione (e sovente a quella estensiva), modalità necessaria, ma che mal si concilia con il canone della tipicità ed esaustività».
[18] Cfr. C. Punzi, op. cit., 556 ss. per il quale, in sintesi, la norma «se da un lato assicura un maggior grado di certezza nei rapporti tra parti e arbitri (garantendo questi ultimi da “iniziative ricusatorie” meramente strumentali e volte a “turbarne” l’imparzialità), dall’altro rischia di porre le parti nell’impossibilità materiale di far valere le proprie ragioni in tutte quelle ipotesi in cui esse ragionevolmente dubitino dell’imparzialità dell’arbitro per motivi diversi da quelli elencati nell’art. 815 c.p.c. Circostanza, quest’ultima, aggravata dal fatto che l’elenco tassativo predisposto dal legislatore presenta lacune non colmabili in via interpretativa. Ad esempio, correttamente l’a. nota che «il dato letterale induce a non ritenere ricusabile l’arbitro che abbia prestato consulenza, assistenza, difesa a favore di una delle parti (o, comunque, abbia avuto con essa rapporti di natura patrimoniale) nell’ambito di una vicenda diversa da quella oggetto del giudizio arbitrale»: la norma, a contrario, esclude, infatti la ricusabilità per rapporti patrimoniali ormai esauriti.
[19] In tema v. L. Dittrich, L’imparzialità dell’arbitro nell’arbitrato interno ed internazionale, cit., p. 159 ss. E v. anche A. Panzarola, in AA.VV., Commento ai principi in materia di arbitrato della legge di delega n. 206 del 21 novembre 2021, art. 1, co. 15, cit., § II.
[20] L. Salvaneschi, Arbitrato, cit., p. 339, (con riferimento ad altro suo precedente studio, così scrive: «Ritenevo infatti, e ritengo ancora, che quello di disclosure dovrebbe essere non un mero onere volto ad evitare successive istanze di ricusazione, ma un vero e proprio obbligo funzionale al buon andamento dell’arbitrato, fondato sulle regole generali della buona fede». Cfr. L. Dittrich, L’imparzialità dell’arbitro nell’arbitrato interno ed internazionale, cit., p. 151 ss. Nega invece l’esistenza di tale dovere, nell’attuale sistema, C. Spaccapelo, op. cit., p. 200 ss.
[21] “Pretesa” assente nella proposta della c.d. Commissione Luiso, di cui alla precedente nota n. 16.
[22] Cfr. A. Panzarola, in AA.VV., Commento ai principi in materia di arbitrato della legge di delega n. 206 del 21 novembre 2021, art. 1, co. 15, cit., § II.
[23] Cfr. A. Panzarola, in AA.VV., Commento ai principi in materia di arbitrato della legge di delega n. 206 del 21 novembre 2021, art. 1, co. 15, cit., § II.