La riforma Cartabia tra utopia e passato

Di Matteo Tofanelli -

La riforma Cartabia desiderosa di anticipare la definizione del giudizio di primo grado già in prima udienza si catapulta nell’idea di rendere la nostra giustizia civile europea.

Chiaramente ogni riforma proclamata come “epocale” presenta dei pro e dei contro ed anche quella in esame presenta questi aspetti, alla luce della scelta davvero pericolosa di slegarsi dagli ordinamenti europei e con ciò comportando la dissoluzione sempre più evidente del principio dell’oralità vestendo il processo civile italiano con la forma cartolare che assolve a tutto eccetto, a parere dello scrivente alla garanzia del contraddittorio e pertanto all’effettività del diritto alla difesa art. 24 Cost.

Per il raggiungimento dello scopo prefissatosi dalla riforma sarà necessario inevitabilmente, una serie importante d’interventi organizzativi strutturali per rispondere alle esigenze effettive della società quale l’efficienza e la celerità.

SOMMARIO: 1. La riforma del rito civile: una fine apparente / 2. La riforma del Processo civile italiano / 2.1. La fase introduttiva: una clamorosa rottura con la nostra tradizione / 2.2. La fase decisoria / 2.3. Istituti secondari / 3. Criticità della riforma / 3.1. La prima udienza “decisiva” / 3.2. L’incertezza non del diritto ma del legislatore. / 3.3. La difesa scoperta dell’attore. / 3.4. Confusioni sui termini e inefficienza del processo. / 3.5. Riforma Bonafede e Riforma Cartabia: storia immensa senza ratio. / 3.6. Uno spiraglio di importanza residuale del giudice. / 4. Riforma della giustizia civile: un’occasione persa con il PNRR? / 5. Conclusioni

1.La riforma del rito civile: una fine apparente

La riforma della giustizia civile è giunta in Parlamento con la solidità della fiducia dello stesso Governo comportando pertanto una preclusione per qualsiasi tipo di intervento correttivo o migliorativo.

Nella nuova versione della delega, contenuta completamente in un unico articolo, rimangono immobili solo alcune delle proposte del ddl originario, mentre la fase introduttiva del giudizio di primo grado viene riformato in modo tale che ci si allontani vistosamente tanto dalle proposte della Commissione Luiso quanto dal testo Governativo.

Emerge limpidamente come la Riforma, stante il chiaro obiettivo di rispondere alle esigenze di celerità del processo civile italiano per elevarlo nella dimensione sovranazionale sia stata accolta totalmente con enorme timore e stato confusionale che accomuna tutti gli operatori del settore per l’incertezza che ne discende, e che tradisce le aspettative di fondo delle riforme legislative che dovrebbero essere organiche e che non siano solo de proclami di una certezza astratta quanto essere portatrici di una certezza del diritto concreta e non debbano comportare un enorme dispendio di cassa e di salute.

Le riforme, per quanto siano opinabili e possano essere criticate anche le migliori, sono sovente gravide di pro e contro, ma ciò non implica necessariamente che l’approccio alla riforma Cartabia debba essere conservatore e prevenuto, ma tutt’altro.

Ultimamente stando con le stime in mano, la durata del processo civile italiano è migliorata riducendosi in modo tale che, salvo piccole eccezioni, si rientri nei famosi tre anni “richiesti” della Corte CGUE (Corte di giustizia europea).

Una giustizia civile tempestiva ed efficiente rappresenta una condicio sine qua non per i rapporti socioeconomici rispettosi dei principi di correttezza e legalità.

La ragionevole durata del processo civile italiano non ha solo un risvolto socioeconomico bensì incide altresì sulla credibilità delle istituzioni agli occhi del popolo, la quale si innesta nel progetto di diffusione della cultura della legalità.

Nel presente commento alla Riforma Cartabia procederò con l’analisi (sommaria perché non sarebbero esaurienti le pagine che seguono) delle principali novità del giudizio di primo grado e con una riflessione su alcune criticità alla luce delle opportunità discendenti dal PNRR per una giustizia civile ai livelli di quella che richiede l’Unione Europea.

 2. La riforma del Processo civile italiano

2.1. La fase introduttiva: una clamorosa rottura della nostra tradizione

La legge delega nell’ottica di anticipazione e celerità del giudizio di primo grado ha stabilito, pena la decadenza che già nella primissima udienza di comparizione delle parti le medesime debbano precisare quanto richiedano comprensivo delle eccezioni ed indicare (prima era una facoltà) i mezzi di prova.

Mantenendo immutata la costituzione di controparte convenuta nel termine antecedente all’udienza di comparizione con altresì la fermezza delle decadenze previste ex art. 167 c.p.c., la riforma ha introdotto che entro un ragionevole termine anteriore all’udienza di comparizione l’attore, sempre sotto la pena della decadenza, gli sia riconosciuta la possibilità di proporre eccezioni ed ulteriori domande correlate all’eventuale domanda riconvenzionale di controparte e possa richiedere l’integrazione del litisconsorzio con la chiamata di terzo se tale necessità sia discesa dalle allegazioni del convenuto nonché precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate e, «a pena di decadenza, indicare i nuovi mezzi di prova e le produzioni documenti non necessariamente ora più debbono essere indicati nell’atto introduttivo il giudizio bensì anche nei suddetti tre termini concessi alle parti.»[1].

Inoltre, a contrario di quanto sembrerebbe richiedere l’esigenza di celerità del processo è stata altresì prevista la possibilità per il convenuto che entro un ulteriore secondo termine, costui possa modificare e riformulare quanto allegato, chiesto, eccepito e sotto pena di decadenza addurre mezzi di prova e produrre prove documentali.

Infine, dopo una lunga navigazione omerica ecco che l’attracco a Itaca non avviene e l’odissea non conosca una fine, giacché la legge delega prevede un ulteriore ed ennesimo un terzo termine prima dell’udienza di comparizione mediante il quale le parti sono messe in grado di replicare ed indicare prova contraria.

Pertanto, si evince come la riforma tenti di portare tutto fuori dal processo, fuori dalla cognizione del giudice visto che i suddetti termini ex lege non prevedono alcuna possibilità di intervento del giudice, bensì configurano un “nuovo” dialogo inter-partes volto a far sì che la causa si presenti non solo formalmente, ma si ritiene secondo il legislatore anche sostanzialmente già matura per l’eventuale assunzione dei mezzi di prova e per la messa in decisione.

Sicuramente i miei maestri sentiranno tutt’altro che vento di novità in quanto tale revirement dell’anticipazione di quanto sopra esposto rappresenta nient’altro che l’anticipazione delle attuali memorie art. 183, VI comma c.p.c.

Sotto l’aspetto procedurale la riforma impone che le parti debbano comparire personalmente alla prima udienza, pena la valutazione di ciò ai sensi dell’art. 116, secondo comma c.p.c.

Il giudice, pertanto, già nella primissima udienza ha il compito di procedere alla calendarizzazione delle udienze per l’assunzione delle prove entro novanta giorni e in assenza della necessità della loro assunzione procederà alla trattazione, sebbene già sarebbe del tutto chiaro a costui dai singoli atti introduttivi delle parti.

Dunque, apparentemente sembrerebbe che l’intento del legislatore ansioso riformatore sia stato raggiunto con una nuova veste del rito ordinario del tutto innovativa e del tutto rispondente ai canoni di efficienza e celerità con la possibilità della decisione in astratto (o in concreto?) alla prima udienza di comparizione.

Allo stato delle cose, pertanto, la riforma ha inciso non tanto sulla prima udienza quanto in realtà sulla propria reale funzione, che nella disciplina previgente era intesa come mezzo strumentale per chiedere rinvii o concessione di termini al giudice, salvo che non sussistesse la necessità di definire ex-ante una questione preliminare.

Dunque, l’udienza di comparizione delle parti ora ha assunto la funzione di fulcro centrale del processo civile italiano in quanto proprio in relazione a tale, il giudice, sinceramente non riesco ad immaginare quanto tutto ciò vada a vantaggio e a garanzia delle parti, possa decidere hic et nunc, ove non vi fosse necessità dell’assunzione di mezzi di prova, alla messa in decisione della causa.

 

2.2. La fase decisoria

La legge delega, sempre tenendo a mente che la trattazione della causa possa essere orale o scritta (guarda caso sempre a favore dello scritto con conseguente sacrificio della giustizia delle aule e del dibattito) stabilisce che, terminata la trattazione della causa il giudice, nell’ipotesi in cui abbia disposto la trattazione orale ex art. 281-sexies c.p.c. si riservi per il deposito della decisione per massimo trenta giorni dall’udienza orale, anziché dare lettura immediata del dispositivo con le motivazioni annesse che potrebbero essere non calibrate giustamente.

Risulta logico e ragionevole come il giudice, anche alla luce del sottorganico dei tribunali italiani, necessiti di maggior tempo a seguito della discussione nel contraddittorio tra le parti per poter rendere sentenza, e pertanto è scontato (non tanto per il codice italiano) che costui si riservi e trattenga in decisione la causa.

Nel caso in cui invece il giudice (a mio parere erroneamente o forse, svogliatamente) rimetta le parti alla trattazione scritta, l’innovazione riformatrice stabilisce che costui fissa i termini cui dies a quo di decorrenza non è più l’udienza di trattenuta in decisione della causa quanto i termini decorreranno a ritroso, e pertanto fino a 60 gg anteriori all’udienza di trattenuta in decisione per le note scritte di trattazione di precisazione delle conclusioni.

Inoltre, l’ulteriore novità è la previsione di termini fino a 30 e 15 gg antecedenti all’udienza per il deposito delle comparse conclusionali e note di replica con il conseguente deposito della sentenza nei 30 giorni successivi all’udienza (60 gg nelle cause cui organo giudicante è collegiale).

 

2.3. Istituti secondari

Infine vengono introdotte ulteriori innovazioni minori, che ritengo che siano di rilevo in un mare magnum quale la riforma Cartabia. Una novità rilevante è quella che riguarda la possibilità riconosciuta al giudice di formulare una proposta di conciliazione sino al momento in cui trattiene in decisione la causa ossia i 30 gg per poi rendere la decisione.

D’altro canto, ciò è quanto previsto dallo stesso art. 185-bis c.p.c. ossia << sino a quando è esaurita l’istruttoria>> e pertanto non può sussistere alcuna preclusione di sorte neppure nel caso in cui il giudice formulasse la proposta conciliativa dopo il deposito della CTU.

Risulta evidente, l’intenzione del legislatore di operare quell’alleggerimento degli uffici giudiziari da tutte quelle situazioni che i penalisti ritengono che debbano porsi fuori dal tribunale e che noi, processualcivilisti diremo debbano trovare una pronta e ragionevole ma altrettanto celere definizione stragiudiziale nei limiti del possibile.

Inoltre, ulteriore novità rilevante è quella riguardante la mediazione obbligatoria nei procedimenti di opposizione a decreto ingiuntivo in relazione ai quali la legge delega statuisce che spetti alla parte a esperire e presentare apposita domanda di mediazione.

Risulta facilmente intuibile che, giacché la riforma non individua nell’opposizione la parte onerata di tale compito, ossia esperire la domanda di mediazione, a fronte della posizione della Corte di Cassazione sicuramente ai fini deflativi, di efficientemente e di celerità la parte più idonea a presentare la domanda di mediazione si rintraccia nella figura dell’opponente.

3. Criticità della Riforma

Rilevate le principali novità del giudizio di primo grado è possibile e consigliato muovere dalle criticità della riforma.

La novità più incisiva della riforma è stata la previsione dell’ipotesi per cui già nella prima udienza di comparizione delle parti debba essere definito integralmente l’oggetto del processo, con la predisposizione dei mezzi di prova pena la decadenza.

Inizialmente, lo schema della riforma stabiliva che, l’indicazione dei mezzi di prova sarebbe dovuto avvenire già nell’atto introduttivo il giudizio pena la decadenza. Nell’ultima versione, tale indicazione deve avvenire, pena decadenza, entro i tre termini (previgenti memorie art. 183, VI comma c.p.c.) previsti fra gli atti introduttivi e l’udienza di comparizione delle parti.

Com’era prospettabile, l’eccezionalità della novità del primo schema della riforma Cartabia ossia l’anticipazione, pena decadenza del termine per indicare le prove nell’atto introduttivo aveva ragionevolmente creato tensioni tanto dalla categoria professionale quanto accademica.

La previsione di ben tre termini tra gli atti introduttivi e l’udienza di comparizione delle parti cela lo spettro del timore e dell’incertezza insito in tutti gli operatori del settore di una deriva paragonabile a quella avutasi con il rito societario.

 

3.1. La prima udienza “decisiva”

Chiaramente come tutte le riforme “epocali”, anche quella in commento presenta tanto dei pro quanto dei contro e certamente come è emerso nel recente convegno[2] in merito, non possiamo gettare completamente la riforma nel cassonetto ma tutt’altro dovremmo tentare di, per così dire salvare il salvabile.

A mio parere, la riforma sacrifica eccessivamente il diritto di difesa poiché comporta un eccessiva contrazione della trattazione delle cause in quanto, coscienti tanto della complessità delle cause civili e delle difficoltà organizzative strutturali dei tribunali del nostro paese, non sarebbero trattabili in un unico atto introduttivo bensì richiederebbero un attento esame per poter garantire alle parti la possibilità di esperire le proprie difese e contro difese con le allegazioni probatorie del caso, e pertanto garantendo il diritto costituzionale di difesa attraverso la garanzia di un contraddittorio “pieno”.

Un ipotetico intervento correttivo avrebbe potuto essere solamente limitato all’art.183, VI comma c.p.c. evitando questa enorme contrazione che, inevitabilmente ha ripercussioni anche sulla corretta cognizione della causa da parte del giudice.

Intervento che avrebbe consistito nel riconoscere al giudice istruttore il potere di scegliere il tipo di trattazione in relazione al caso sul sistema del c.d. case management.

Sarebbe stato sufficiente rivedere il codice di rito con una elementare modifica dell’art. 183, sesto comma, c.p.c, con la conseguente previsione del rimpiazzo della locuzione «concede» con «può concedere, ove indispensabile in ragione della complessità delle questioni in fatto o in diritto».

L’intervento afferirebbe essenzialmente in un mero mutamento di locuzioni verbali prevedendo pertanto la possibilità e facoltà del giudice concedere i termini per le memorie ex art. 183, VI comma c.p.c. in relazione alla controversia in concreto e di fatti tale correzione avrebbe comportato un ritmo processuale accelerato.

Il rito italiano si distingue rispetto a quello di altri ordinamenti per la prescrizione imperativa di termini decadenziali che inevitabilmente, non solo rendono il lavoro dei professionisti affannoso ma chiaramente comportano una scissione tra la realtà processuale e sostanziale. Differenze che l’ordinamento italiano presenta a fronte di altri ordinamenti europei, i quali non sono così autoritari nel prescrivere termini decadenziali rigidi quanto in realtà prevedono la concentrazione di maggiori attività in un’unica udienza riconoscendo un importante potere-dovere del giudice di esercitare un ruolo attivo e non meramente passivo nei confronti delle parti, come in Germania dove il giudice deve indicare, anche attraverso «avvisi», «il più presto possibile» le questioni da esaminare e quelle irrilevanti.

Dunque, in virtù della riforma l’udienza di comparizione delle parti, coscienti del revirement fallimentare del rito societario, è stata deputata a luogo per la discussione dei fatti e quaestiones iuris rilevanti e precludendo in essa la precisazione o modificazione delle richiese delle parti medesime.

Dunque, la predisposizione da parte del giudice della trattazione scritta sarebbe stata solamente eventuale, nella misura in cui lo stesse avesse valutato la questione di particolare complessità rimanendo operanti per le parti le ordinarie preclusioni.

Il timore “reverenziale” evidenziato da alcuni rimarrebbe tale, in quanto ciò non avrebbe e non ha trovato alcuna automatizzazione negli altri processi, in quanto la valutazione è rimessa al giudice istruttore in relazione alla complessità della controversia.

Proprio per l’incertezza e spesso e mal volentieri l’irragionevole durata dei processi ed in particolare quello civile italiano, la possibilità di consegnare al giudice un potere concreto di guida del processo richiede da parte di tutte le forze in gioco a partire dalla medesima categoria di riacquisire la fiducia dei consociati.

 

3.2. L’incertezza non del diritto ma del legislatore.

Il legislatore, probabilmente perché ancorato tanto ad obiettivi politici piuttosto che di giustizia ha cercato di operare una standardizzazione delle controversie del tutto utopistica, giacché non ha previsto nemmeno alcuna possibilità d’intervento del giudice se non quello di predisporre all’udienza di comparizione semmai una trattazione più articolata.

L’esigenza di celerità, con la conseguente anticipazione di una copiosa e “pesante” trattazione scritta delle parti anteriormente alla prima udienza di comparizione evidenzia la miopia e la scarsa conoscenza delle aule da parte del legislatore, sulla base della costatazione per cui la trattazione può essere più o meno articolata in virtù della complessità nel caso concreto. Inevitabilmente come mi è capitato di osservare le controversie più semplici ed in particolari in tutti i tribunali medio-piccoli rischiano di essere dei macigni comportando un rallentamento piuttosto che un’accelerazione e dunque,  un ostacolo per un ruolo europeo della giustizia civile del nostro Paese.

 

3.3. La difesa scoperta dell’attore.

Particolare all’esito della riforma è l’attenzione che necessita l’oggetto del processo in quanto il convenuto è tenuto ad importanti obblighi di Disclosure.  L’attore altresì, proprio perché la garanzia processuale è quella del contradittorio seppur cartolare, potrà quindi svolgere pena di decadenza nel termine seguente domande, eccezioni e avanzare istanza per la chiamata di terzo che siano consequenziali a quanto allegato dalla controparte.

Stando a quanto evidenziato sopra una lacuna della riforma consiste anche nel non aver evidenziato che tutte le allegazioni rientranti nel potere del contenuto debbano essere necessariamente consequenziali a quanto adotto dall’attore né tanto meno la previsione decadenziale.  In merito all’allegazione dei mezzi di prova negli atti introduttivi non è previsto, rispetto alla disciplina previgente, pena decadenza bensì tale previsione viene applicata nei due termini a seguire. Per cui l’obbligo di deduzione di mezzi istruttori nei successivi due termini è previsto pena decadenza ed inoltre tali allegazioni non debbono essere una conseguenza di quanto dedotto da controparte.

La riforma è intervenuta anche nella modifica e coordinamento tra la disciplina della chiamata in causa del terzo e l’intervento volontario sebbene risulti il sogno utopico della miopia del legislatore. Il vero interrogativo che ci si poneva in sede di riforma al riguardava l’ipotesi in cui il convenuto avesse chiesto nella comparsa di risposta l’autorizzazione alla chiamata di terzo e probabilmente il giudice istruttore non fosse riuscito ad emettere il provvedimento prima del deposito della successiva memoria difensiva dell’attore? E cosa sarebbe successo se invece fosse stato l’attore, in virtù della comparsa di costituzione di controparte avrebbe chiesto anch’esso di chiamare in causa un terzo?

Il pericolo concreto, con conseguente allungamento dei tempi processuali, consiste nel fatto per cui il giudice avrebbe emesso il provvedimento di autorizzazione successivamente alle successive memorie per le parti trovarsi a dover leggere nuovamente gli atti di controparte reciproci, dunque, chiaramente una situazione economicamente e processualmente insostenibile.

 

3.4. Confusioni sui termini e inefficienza del processo.

Termini confusi in qualsiasi senso sono quelli che riguardano la fase decisoria,  in quanto risulta del tutto destituito di fondamento la previsione per la quale il giudice nel caso di trattazione scritta, assai candeggiata, si trovi ora a dover assegnare termini non successivi da quell’udienza ma a ritroso (per cui il termine per la precisazione delle conclusioni fino a 60 giorni prima dell’udienza; fino a 30 e 15 giorni prima dell’udienza per le comparse conclusionali e note di replica), con la conseguente indicazione di un termine massimo e non minimo cosicché, il giudice avrebbe ora il potere di ridurre i termini al minimo ( nella disciplina previgente per cui all’art. 190, che al secondo comma cpc indicava 20 giorni per le comparse conclusionali e al primo comma 20 giorni per le memorie di replica).

Chiaramente la questione temporale comporterà che il giudice diventerà un mago del sudoku nel fissare chiaramente la data dell’udienza in cui sarà in grado di rendere la sentenza. Vi sono ulteriori oneri che gravano inevitabilmente, non solo sotto l’aspetto dell’efficienza ma anche della celerità e soprattutto della qualità, giacché non si concepisce altresì il motivo per cui è stata prevista un’udienza a conclusione del processo, visto che nell’udienza di precisazione delle conclusioni il giudice vuoi per sovraccarico di lavoro, vuoi per sottorganico, vuoi per vizio, ci arrivi per trattenere la decisione senza avere una cognizione consapevole e completa delle memorie conclusionali delle parti.

Sicuramente una soluzione, non risolutoria ma quanto meno satisfattoria dal punto di vista dell’efficienza e della tempistica come in altri ordinamenti europei, sarebbe la previsione di uno schema decisorio unico con contraddittorio inter-partes seguito dall’eventuale concessione dei termini per le memorie e repliche e dunque il termine alternativo di 30 o 60 gg per il deposito della sentenza.

 

3.5. Riforma Bonafede e Riforma Cartabia: storia immensa senza ratio.

Risulta difficile comprendere la ragione per cui la riforma iniziando con la prima udienza “decisoria” sia giunta all’abrogazione del rito sommario previsto dalla precedente riforma Bonafede. L’abrogazione del rito sommario ha visto una sua nuova denominazione con << procedimento semplificato di cognizione>>, inserito nel II libro del codice con la previsione che si concluderà con una sentenza per evidenziare la sua “rinnovata” importanza.

La Cartabia ha previsto che, non solo l’attore può ricorrervi bensì sarà rilevabile ex officio dal giudice istruttore «in ogni procedimento anche nelle cause in cui il tribunale giudica in composizione collegiale, quando i fatti di causa siano tutti non controversi, quando l’istruzione della causa si basi su prova documentale o di pronta soluzione o richieda un’attività istruttoria costituenda non complessa» con l’aggiunta che i termini previsti sono ridotti rispetto a quelli del rito ordinario per le difese,  con l’osservanza del rispetto del contraddittorio.

Il vero problema consiste nel rintracciare la motivazione in forza della quale, non si comprende la necessità della sopravvivenza di due riti che avrebbero la medesima funzione ovverosia permettere al giudice di decidere sin dalla prima udienza senza una sostanziale differenza processuale sotto l’aspetto di termini od economia processuale.

Risulta chiaro che se nel caso della prima udienza il giudice valutasse che i fatti siano del tutto fondati od anche che l’istruzione della causa non rivesta un carattere eccessivamente complesso, anche con il rito ordinario procederà a decisione senza alcun vantaggio per il mutamento di rito. A prima lettura, sembrerebbe, in buona sostanza, che non vi sia più alcuna effettiva differenza fra i due riti, sicché sfugge la ratio della sua stessa previsione.

3.6. Uno spiraglio di importanza residuale del giudice.

Una novità di particolare rilievo è quella che, in relazione al giudizio di primo grado, nelle controversie di esiguo valore e aventi ad oggetto diritti disponibili viene riconosciuta in capo al giudice la facoltà di emettere provvisoriamente un’ordinanza di accoglimento totale o parziale,  nel caso in cui costui abbia il riscontro probatorio dei fatti costitutivi della domanda attorea e i fatti di controparte risultino del tutto manifestamente infondati, nonché un’ordinanza provvisoria di rigetto nel caso contrario ai sensi dell’art. 163, terzo comma, n.2 c.p.c.

Come tutte le ordinanze, anche tali sono reclamabili e non acquisiscono efficacia di giudicato e nell’ipotesi in cui ci sia l’accoglimento del reclamo il giudizio di merito procederà dinanzi ad un magistrato diverso dello stesso ufficio (sebbene già inizino a vedersi le prime contestazioni in particolar modo sull’esclusione del giudice ha emesso l’ordinanza interlocutoria in Cassazione). La loro reclamabilità al Collegio e, addirittura, la sottrazione del processo al suo giudice naturale sono gravide di perdita di tempo e, probabilmente, anche di profili di sospetta illegittimità costituzionale.

  1. Riforma della giustizia civile: un’occasione persa con il PNRR?

A fronte dei molteplici proclami di riforme innovative si è persa probabilmente la capacità di riflessione sui principi tradizionali fondanti il processo civile italiano: oralità, concentrazione e immediatezza.

Il diritto di difesa art. 24 Cost che trova l’attuazione nel contraddittorio tra le parti  è incentrato sull’oralità comportando inevitabilmente uno spazio veramente ristretto per gli scritti e favorendo il più ampio dibattito dialettico tra giudice e parti.

Il nostro legislatore, nonostante l’abbia previsto espressamente nel codice di rito all’art.180 c.p.c ha preferito far sì che tale rimanesse un proclamo sordo preferendo una trattazione scritta che, anche alla luce della digitalizzazione delle cancellerie comporta inevitabilmente problematiche di formati e sovraccarico dei server riceventi, con conseguenti blocchi temporanei addirittura giornalieri che inevitabilmente fanno tutto tranne che rendere efficiente e celere la giustizia civile.

A mio modesto parere l’oralità è circoscritta di una sacralità che la renderebbe intangibile in quanto solo attraverso la dialettica si riesce ad arrivare alla verità sostanziale, sempre però facendo in modo che il giudice abbia la possibilità di decidere alla luce della complessità, la trattazione scritta o meno. Le aule hanno visto troppi entra ed esci e questo non è sinonimo di certezza, efficienza e celerità

L’idea di valorizzare la prima udienza, di introdurre anche nel nostro ordinamento un rito che permetta in linea tendenziale la definizione dei processi in unica udienza, è a mio avviso da apprezzare con le cautele del caso.

Se il lettore domani entrasse nel tribunale della propria città si accorgerebbe seduta stante che, l’irragionevole durata dei processi nel nostro paese non è tanto la conseguenza della remissione dei termini da parte del giudice alle parti (ad esempio quelli istruttori art.183, VI comma c.p.c.) quanto il lasso temporale intercorrente, ad esempio, tra la maturazione della decisione e il tempo materiale del giudice per rendere la sentenza ossia il c.d. collo di bottiglia.

In un’epoca con sempre più sovrastrutture anche il mondo giuridico si stratifica sempre di più, con la conseguente necessità di profili sempre più settoriali e specializzati che afferiscano ai molteplici campi della società e dell’economia. Nella realtà giuridica attuale non trova più spazio il giurista, avvocato o giudice che sia, onnisciente di ogni sfaccettatura della vita reale e dei suoi risvolti giuridici.

5. Conclusioni

Un giudicante professionalmente più specializzato, più giusto lo si può avere solo se ripensiamo ad un ritorno alla “lentezza”, propria del dibattito che avviene nel contraddittorio permettendo ai principali protagonisti di avere il giusto e ragionevole tempo per la dialettica processuale.

Una giustizia efficiente e celere la si può ottenere, tenendo a mente la necessità della garanzia della tutela dei diritti fondamentali della persona, solo nella misura in cui  si fornisca l’adeguato specchio temporale al confronto dialettico.

Una giustizia civile efficiente comporta un recupero di tempo e personale permettendo di indirizzarci vero una maggior e miglior tutela effettiva degli individui fragili e vulnerabili ed essere pronti all’emergere di nuovi interessi meritevoli di tutela giuridica con il passare del tempo.

In conclusione, una giustizia civile celere ed efficiente è sinonimo di un sistema democratico.

[1] art. 1, quinto comma lett. f

[2] Convegno “Riflessioni sulla riforma del processo civile”, Roma, Corte di Cassazione, 20 febbraio 2023.