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La revocazione europea e prime applicazioni del rimedio: la Corte definisce l’ambito applicativo dell’art. 391 – quater c.p.c. (Considerazioni a margine di Cass. n. 7128/2025)
Di Margherita Pagnotta -
1.Sommario: 1.La nuova revocazione per contrasto con le sentenze della Corte Edu: alcune premesse – 2. L’ambito della riforma e il nuovo articolo 391-quater c.p.c. – 2.1. Le discrepanze tra i criteri direttivi della legge di delega e le disposizioni introdotte dal d.lgs. 149/2022. – 2.2. Il nuovo articolo 391- quater c.p.c. – 3. La decisione n. 7128/2025 della Corte di cassazione e l’ambito applicativo del rimedio. – 3.1. Brevi note conclusive.
1.La nuova revocazione per contrasto con le sentenze della Corte Edu: alcune premesse
Questa riflessione intorno all’ambito applicativo del nuovo rimedio revocatorio introdotto con l’ultima riforma del processo civile (c.d. riforma Cartabia), prende le mosse dalla recente decisione della Corte di cassazione, n. 7128 del 17 marzo 2025, assunta all’esito di uno dei primissimi procedimenti di revocazione europea celebrati ai sensi del nuovo art. 391-quater c.p.c.; in questa occasione la Corte di cassazione ha cercato di risolvere uno dei principali problemi che il nuovo rimedio ha posto fin dal primo momento, con riguardo all’ambito applicativo dello stesso.
Prima di soffermarsi su quanto statuito dalla Corte di cassazione nella suddetta pronuncia occorre però svolgere alcune considerazioni di carattere generale sulla portata del nuovo rimedio revocatorio.
La norma, come si vedrà diffusamente in seguito, è stata introdotta nel codice di rito dall’art. 3, comma 28, del d. lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 e da ultimo modificata con il correttivo (d. lgs. 31 ottobre 2024, n. 164), al fine di adempiere al dovere dello Stato, assunto con la ratifica della Convenzione Edu[1], di adottare le misure necessarie per rimediare ad una violazione accertata dalla Corte europea, secondo quanto disposto dall’art. 46 della Convenzione sulla “forza vincolante ed esecuzione delle sentenze” della Corte Edu, in relazione al caso in cui tale violazione sia costituita da un giudicato nazionale.
Come è noto, la cosa giudicata (formale, di cui all’art. 324 c.p.c., e sostanziale, ai sensi dell’art. 2909 c.c.) rappresenta un istituto cardine dell’ordinamento processuale e sostanziale, in quanto assicura certezza e stabilità ai rapporti giuridici definiti da una pronuncia divenuta irrevocabile. Il giudicato incarna, infatti, la garanzia dell’affidabilità del giudizio quale strumento di composizione delle controversie, cristallizzando il contenuto decisorio della sentenza e rendendolo insuscettibile di rimesse in discussione, salve le ipotesi eccezionali di impugnazione straordinaria.
In tale prospettiva, il giudicato non solo tutela le parti dall’alea di una perpetua instabilità della res litigiosa, ma assume altresì una funzione di contenimento del potere normativo e amministrativo dello Stato, ponendosi come barriera all’esercizio retroattivo o distorsivo della potestà legislativa o regolamentare che miri a incidere retroattivamente sull’efficacia delle decisioni giudiziarie passate in giudicato.
Tali aspetti sono altresì alla base della identificazione del giudicato come elemento normativo, dotato di un’ efficacia vincolante analoga a quella delle norme generali, nella misura in cui determina in via definitiva la regola del caso deciso. Al contempo, il giudicato soddisfa un interesse generale, insito nella stessa funzione del processo, alla rimozione dell’incertezza giuridica e alla salvaguardia della coerenza del sistema, impedendo che un medesimo oggetto processuale possa essere sottoposto a reiterate decisioni contrastanti. In tale ottica, si giustificano tanto la rilevabilità d’ufficio dell’intervenuta cosa giudicata quanto le regole dirette a prevenire o eliminare il contrasto tra giudicati, come previsto, rispettivamente, dagli artt. 295 c.p.c. — mediante la sospensione del processo pregiudicato — e 395, n. 5, c.p.c., che consente la revocazione della sentenza fondata su un precedente giudicato incompatibile[2].
Queste caratteristiche della res iudicata sono da sempre riconosciute anche nella giurisprudenza della Corte Edu, che in differenti occasioni ha affermato la rilevanza del principio di certezza del diritto al pari di quello di legalità tra i valori tutelati dalla Convenzione, al fine di garantire la stabilità e la fiducia dei cittadini nelle decisioni giudiziarie: esigenze queste che giustificano eventuali deroghe solo in circostante eccezionali, riconducibili in generale ad un errore giudiziario[3].
Il delineato principio di impermeabilità del giudicato rispetto alle sopravvenienze può, tuttavia, rivelarsi problematico laddove, da presidio di sicurezza giuridica, diventi un fattore di rigidità incompatibile con esigenze superiori di tutela, attinenti ai diritti fondamentali.
È in questo contesto che viene in rilievo il problema della decisione interna in contrasto con una decisione della Corte Edu che abbia accertato la verificazione nel giudizio interno della lesione di un diritto riconosciuto dalla Convenzione (si parla di “ingiustizia convenzionale della sentenza interna”). In questo caso, la stabilità si contrappone alla garanzia e fa emergere una particolare ipotesi di conflitto tra sentenze di giurisdizioni differenti, quella del giudice interno e quella del giudice sovranazionale.
La questione, come anticipato, deve ricondursi al più ampio dovere dello Stato, assunto con la ratifica della Convenzione europea dei diritti dell’uomo[4], di adottare le misure generali e specifiche necessarie per rimediare alla violazione accertata dalla Corte europea, secondo quanto previsto dall’art. 46 della Convenzione stessa, con particolare riguardo all’ipotesi in cui la violazione sia costituita proprio dalla pronuncia interna o si sia verificata nel procedimento da questa concluso.
L’art. 46 della Convenzione, rubricato “forza vincolante ed esecuzione delle sentenze”[5], impone, dunque, un obbligo di conformazione dello Stato alle sentenze della CEDU, senza però indicare in che modo tale conformazione debba avvenire. Sul punto si lascia libertà agli Stati aderenti di individuare le modalità più idonee per adempiere a tale obbligo[6]; è la stessa Corte europea ad esprimere questo margine di discrezionalità, anche sulla base dell’attribuzione del controllo sulla esecuzione delle sentenze al Comitato dei ministri, previsto sempre ai sensi del citato art. 46 della Convenzione[7].
Tale discrezionalità non impedisce, tuttavia, alla Corte Edu di individuare negli strumenti di riapertura del processo i rimedi più adatti al fine di garantire al soggetto leso dal giudicato interno un’effettiva riparazione. In particolare, l’interrelazione con l’art. 41 della Convenzione, che consente di accordare al ricorrente vittorioso un’equa indennità (dunque, una riparazione per equivalente) quando il diritto interno «non permette, se non in modo imperfetto, di rimuovere le conseguenze» della violazione, mostra la tendenziale preferenza per la restitutio in integrum[8]. Ciò si evince anche dall’indicazione fornita dalla Raccomandazione n. R (2000) 2 del 19 gennaio 2000 del Comitato dei ministri che, per l’appunto, individua nella riapertura del processo la misura più idonea a riparare la violazione accertata dalla Corte Edu, quantomeno con riferimento a circostanze eccezionali tali da rendere inadeguata la corresponsione dell’equa indennità di cui al citato art. 41 della Convenzione[9].
La Corte europea ha, infatti, ripetutamente affermato che l’obbligo di conformazione alle proprie sentenze comporta, a carico degli Stati membri, anche cumulativamente, oltre al pagamento alla parte lesa dell’equa soddisfazione, ove già attribuita dalla Corte ai sensi del citato art. 41, l’applicazione delle misure individuali necessarie all’eliminazione delle conseguenze della violazione accertata e dei rimedi generali volti a far cessare la violazione e ad evitare violazioni future, al fine di porre, per quanto possibile, il ricorrente in una situazione equivalente a quella in cui si troverebbe se non vi fosse stata una inosservanza della CEDU[10].
2.L’ambito della riforma e il nuovo articolo 391- quaterp.c.
Il descritto dovere degli Stati contraenti di conformarsi alle decisioni della Corte Edu, anche attraverso l’applicazione di misure individuali volte alla eliminazione delle conseguenze della violazione accertata (attraverso, quindi, la riapertura dei procedimenti definiti con decisioni passate in giudicato ritenute dalla Corte europea dei diritti dell’uomo contrastanti con la Convenzione) è stato inizialmente riconosciuto con maggiore intensità nell’ambito del processo penale, in ragione della particolare rilevanza degli interessi coinvolti — in primis, la libertà personale dell’imputato — il cui pregiudizio irreparabile renderebbe intollerabile, sotto il profilo costituzionale e convenzionale, il mantenimento di effetti giuridici derivanti da pronunce lesive dei diritti fondamentali.
Ciò ha indotto numerosi Stati contraenti a introdurre, sia per via legislativa che mediante elaborazione giurisprudenziale, strumenti idonei a consentire la riapertura dei processi penali qualora ciò risulti necessario per conformarsi a decisioni definitive della Corte di Strasburgo.
Nell’ordinamento italiano, la giurisprudenza costituzionale ha svolto un ruolo decisivo nel promuovere questo adeguamento: in particolare, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 113 del 2011, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 c.p.p., nella parte in cui non consentiva la revisione della sentenza o del decreto penale di condanna nei casi in cui ciò fosse richiesto per dare esecuzione a una pronuncia definitiva della Corte Edu[11]. Attraverso tale pronuncia, la Consulta ha sostanzialmente introdotto una nuova ipotesi di revisione (c.d. revisione europea), la quale si innesta sull’impianto codicistico preesistente, fungendo da strumento di riconciliazione tra il giudicato interno e il rispetto degli obblighi internazionali derivanti dalla Convenzione[12].
Con riguardo al processo civile invece, a differenza di quanto accaduto in Germania[13], Spagna[14] e Francia[15], in Italia mancava ancora fino ad oggi la previsione di un rimedio per revocare le decisioni contenenti una violazione della CEDU accertata dalla Corte di Strasburgo.
A questo proposito, nel corso degli anni è stata ripetutamente sollevata dinanzi alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell’art. 395 c.p.c. nella parte in cui non prevede la possibilità di revocare la sentenza dichiarata dalla Corte Edu in contrasto con la Convenzione, tentando di estendere, in maniera analoga a quanto accaduto nel processo penale, le ipotesi di revocazione anche al caso di contrasto tra giudicato interno e decisione della Corte europea.
La Consulta[16], tuttavia, ha costantemente respinto le questioni di legittimità costituzionale sollevate, ritenendo che nell’interpretare l’obbligo di conformazione degli Stati sancito dal citato art. 46 della CEDU, occorre valorizzare una distinzione fondamentale tra il processo penale, da un lato, e i procedimenti civili e amministrativi, dall’altro. Questi ultimi, infatti, a differenza del processo penale, sono caratterizzati dalla la presenza di una pluralità di soggetti — pubblici o privati — diversi dallo Stato, che possono aver preso parte al giudizio in veste di parti resistenti, affidatarie o controinteressate e ciò impone di tenere conto delle esigenze di stabilità giuridica e di tutela dei loro diritti. Tale necessità di garantire la certezza del diritto attraverso l’intangibilità del giudicato, unitamente all’assenza di interessi primari come la libertà personale, giustificherebbe, quindi, un approccio più prudente nei confronti della riapertura dei processi civili e amministrativi.
La Corte costituzionale ha svolto tali considerazioni muovendo dalla stessa giurisprudenza convenzionale che, con particolare riguardo ai giudizi civili e amministrativi, ha in diverse occasioni affermato che la scelta circa i rimedi da adottare per conformarsi alla decisioni della Corte Edu deve essere lasciata nella discrezionalità[17] degli Stati, i quali sono chiamati a compiere il bilanciamento tra la necessità di garantire alla parte lesa una tutela piena ed effettiva, ammettendo una nuova decisione che le riconosca il bene della vita ingiustamente negato dal giudicato interno e l’esigenza di non stravolgere i principi della res iudicata e di salvaguardare gli interessi dei soggetti in buona fede, che, pur avendo ricevuto protezione dalla sentenza interna, non hanno preso parte al processo dinanzi alla Corte di Strasburgo.
È, dunque, in risposta alle delineate esigenze di garantire l’esecuzione e la forza vincolante delle sentenze della Corte Edu anche con riguardo al giudizio civile che il legislatore italiano, esercitando la scelta discrezionale e il bilanciamento degli interessi di cui si è detto, ha deciso di introdurre una nuova norma che disciplina la peculiare ipotesi della c.d. “revocazione europea”[18].
In particolare, con l’art. 1, comma 10, della l. 206 del 2021 (recante la «Delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata») è stata demandata al potere esecutivo l’introduzione di varie modifiche al codice di rito, tra cui quella di consentire di esperire la revocazione di cui all’art. 395 c.p.c. quando il contenuto di una sentenza passata in giudicato sia stata dichiarato contrario tutto o in parte alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali ovvero ad uno dei suoi Protocolli e non sia possibile rimuovere la violazione attraverso la tutela per equivalente.
È opportuno ricordare che molto tempo prima dell’adozione della legge delega n. 206 del 2021, il legislatore aveva già tentato di colmare la lacuna normativa relativa alla mancanza di un rimedio idoneo a garantire l’effettività dell’esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo nell’ambito del processo civile. Risalgono infatti al 2005 due proposte legislative, rispettivamente a firma dei senatori Borea e Biscardini, entrambe dirette a introdurre una forma di revocazione straordinaria in presenza di una violazione accertata della Convenzione Edu.
In particolare, il disegno di legge presentato dal senatore Borea[19] proponeva di inserire un’ulteriore ipotesi di revocazione all’interno dell’art. 395 c.p.c., mediante l’aggiunta di un n. 6-bis), che consentisse di esperire il rimedio nei casi in cui una sentenza interna fosse stata riconosciuta dalla Corte di Strasburgo come lesiva di diritti convenzionali in modo irreparabile, vale a dire con effetti pregiudizievoli tali da non poter essere compensati in modo sufficiente dal ristoro economico ex art. 41 CEDU. La proposta Biscardini[20], invece, adottava un approccio più selettivo e restrittivo, prefigurando un meccanismo di impugnazione limitato alle sole decisioni definitive rese in sede di opposizione avverso i provvedimenti dichiarativi dell’adottabilità dei minori, laddove fossero risultate in contrasto con la Convenzione per effetto di una sentenza della Corte Edu. In questa prospettiva, si ipotizzava l’introduzione di un nuovo art. 391- ter c.p.c., da affiancare agli strumenti già esistenti di cui agli artt. 391- bis e 395 c.p.c.
Si segnala, peraltro, che i criteri direttivi di cui all’ art. 1, comma 10, della legge n. 206/2021 non erano originariamente previsti nello schema riformatore elaborato dalla Commissione Luiso: l’inserimento di tale profilo nella legge di delega è stato frutto, infatti, di un’iniziativa successiva da parte delle Commissioni parlamentari. Particolarmente significativo è il fatto che, mentre la legge di delega sembra rifarsi idealmente al progetto Borea, il decreto legislativo attuativo (d.lgs. n. 149/2022) riprende l’impostazione più restrittiva delineata nella proposta Biscardini, determinando un disallineamento tra le intenzioni legislatore delegante e quanto disposto dal legislatore delegato. Come si vedrà diffusamente più avanti, ne è risultata una normativa che limita il nuovo istituto di revocazione ai soli giudicati civili in materia di status, senza che vi fosse nel testo della legge delega un’esplicita autorizzazione a operare un simile restringimento dell’ambito applicativo.
2.1 Le discrepanze tra i criteri direttivi della legge delega e le disposizioni introdotte dal d.lgs. 149/2022
Per comprendere il tenore del disallineamento tra i criteri direttivi della legge di delega e le disposizioni introdotte dal d.lgs. 149/2022 occorre confrontare quanto previsto dall’art. 1, comma 10, della l. 206/2021 e il successivo decreto attuativo.
Il citato art. 1, comma 10, della l. 206/2021 stabilisce quanto segue: «Nell’esercizio della delega di cui al comma 1, il decreto o i decreti legislativi recanti modifiche al codice di procedura civile in materia di revocazione a seguito di sentenze emesse dalla Corte europea dei diritti dell’uomo sono adottati nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi:
a) prevedere che, ferma restando l’esigenza di evitare duplicità di ristori, sia esperibile il rimedio della revocazione previsto dall’articolo 395 del codice di procedura civile nel caso in cui, una volta formatosi il giudicato, il contenuto della sentenza sia successivamente dichiarato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo contrario, in tutto o in parte, alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali ovvero a uno dei suoi Protocolli e non sia possibile rimuovere la violazione tramite tutela per equivalente;
b) prevedere che, nell’ambito del procedimento per revocazione a seguito di sentenza emessa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, siano fatti salvi i diritti acquisiti dai terzi in buona fede che non hanno partecipato al processo svoltosi innanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo;
c) prevedere che, nell’ambito del procedimento per revocazione a seguito di sentenza emessa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, la legittimazione attiva a promuovere l’azione di revocazione spetti alle parti del processo svoltosi innanzi a tale Corte, ai loro eredi o aventi causa e al pubblico ministero;
d) prevedere, nell’ambito del procedimento per revocazione a seguito di sentenza emessa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, un termine per l’impugnazione non superiore a novanta giorni che decorra dalla comunicazione o, in mancanza, dalla pubblicazione della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ai sensi del regolamento della Corte stessa;
e) prevedere l’onere per l’Agente del Governo di comunicare a tutte le parti del processo che ha dato luogo alla sentenza sottoposta all’esame della Corte europea dei diritti dell’uomo e al pubblico ministero la pendenza del procedimento davanti alla Corte stessa, al fine di consentire loro di fornire elementi informativi o, nei limiti consentiti dal regolamento della Corte europea dei diritti dell’uomo, di richiedere di essere autorizzati all’intervento;
f) operare gli adattamenti delle disposizioni del codice di procedura civile, del codice civile e delle altre disposizioni legislative che si rendano necessari in seguito all’adozione delle norme attuative dei principi e criteri direttivi di cui alle lettere a), b), c), d) ed e)».
Con riguardo ai suddetti criteri direttivi, il d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, con cui il Governo ha inteso dare attuazione alla delega, ha operato tre modifiche principali nel codice di procedura civile, cui si sono seguiti altri ritocchi per così dire “collaterali” (uno nel codice di rito, l’altro nel codice civile).
In particolare, le novità riguardano:
– l’art. 362 c.p.c., già rubricato «Altri casi di ricorso» (e recante, al comma 1, la previsione sull’impugnabilità dinanzi alla Suprema Corte delle decisioni dei giudici speciali per i soli motivi attinenti alla giurisdizione e al comma 2 la deducibilità con ricorso per cassazione dei conflitti positivi e negativi di giurisdizione), dove è stato aggiunto un nuovo comma, secondo cui «Le decisioni dei giudici ordinari passate in giudicato possono altresì essere impugnate per revocazione ai sensi dell’articolo 391-quater quando il loro contenuto è stato dichiarato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo contrario alla Convenzione ovvero ad uno dei suoi Protocolli»;
– l’introduzione dell’art. 391-quater c.p.c., rubricato «Revocazione per contrarietà alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo», secondo cui: «Le decisioni passate in giudicato il cui contenuto è stato dichiarato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo contrario alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali ovvero ad uno dei suoi Protocolli, possono essere impugnate per revocazione se concorrono le seguenti condizioni:
1) la violazione accertata dalla Corte europea ha pregiudicato un diritto di stato della persona;
2) l’equa indennità eventualmente accordata dalla Corte europea ai sensi dell’articolo 41 della Convenzione non è idonea a compensare le conseguenze della violazione.
Il ricorso si propone nel termine di sessanta giorni dalla pubblicazione della sentenza definitiva della Corte europea ai sensi del regolamento della Corte stessa[21]. Si applica l’articolo 391-ter, secondo comma.
L’accoglimento della revocazione non pregiudica i diritti acquisiti dai terzi di buona fede che non hanno partecipato al giudizio svoltosi innanzi alla Corte europea»;
– l’art. 397 c.p.c., dedicato alla «Revocazione proponibile dal pubblico ministero», dove è stato aggiunto un nuovo comma con il quale viene specificato che «Nei casi di cui all’articolo 391-quater, la revocazione può essere promossa anche dal procuratore generale presso la Corte di cassazione».
Gli interventi “minori” collegati a tali modifiche riguardano:
– la precisazione contemplata all’interno della nuova formulazione dell’art. 375, comma 1, tale per cui «La Corte, sia a sezioni unite che a sezione semplice, pronuncia in pubblica udienza quando la questione di diritto è di particolare rilevanza, nonché nei casi di cui all’articolo 391-quater»;
– la previsione all’art. 2652 c.c. di un nuovo numero 9-bis, in forza del quale devono trascriversi, qualora si riferiscano ai diritti menzionati dall’art. 2643 c.c., «le domande di revocazione contro le sentenze soggette a trascrizione per le cause previste dall’articolo 391-quater del codice di procedura civile. La sentenza che accoglie la domanda non pregiudica i diritti acquistati dai terzi di buona fede in base a un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione della domanda».
– la previsione all’art. 2690 c.c. di un nuovo numero 6-bis, secondo cui devono trascriversi, qualora si riferiscano ai diritti menzionati dall’art. 2684 c.c., «le domande indicate dal numero 9-bis dell’articolo 2652 per gli effetti ivi disposti. La trascrizione della sentenza che accoglie la domanda prevale sulle trascrizioni o iscrizioni eseguite contro il convenuto dopo la trascrizione della domanda».
Tra le deviazioni più evidenti rispetto ai criteri direttivi offerti dalla legge di delega, merita particolare attenzione il fatto che il citato d.lgs. 149/2022 ha scelto di non integrare l’elenco dei motivi di revocazione straordinaria di cui all’art. 395 c.p.c. con una nuova fattispecie, optando, invece, per la collocazione della disciplina della revocazione per contrarietà alla sentenza della Corte Edu all’interno del sistema delle impugnazioni in sede di legittimità, inserendola nel contesto normativo del ricorso per cassazione. Tale opzione sistematica si riflette, in particolare, nell’aggiunta del comma finale all’art. 362 c.p.c., la cui formulazione testuale sembra non consentire l’accesso al rimedio per le decisioni emesse da giudici appartenenti alla giurisdizione speciale. A ciò si aggiunge un’ulteriore e rilevante delimitazione dell’ambito applicativo del nuovo istituto, il cui esercizio è ora ristretto ai soli giudicati civili incidenti su situazioni attinenti allo status delle persone.
Queste scelte operate dal legislatore delegato sollevano interrogativi sotto il profilo della loro conformità ai vincoli costituzionali imposti dagli articoli 76 e 77 Cost., in particolare per quanto attiene al rispetto del perimetro tracciato dal legislatore delegante e alla legittimità di restrizioni che non trovano adeguato fondamento né nella lettera né nella ratio della legge di delega[22].
In particolare, come si è visto la delega legislativa conferita con la l. n. 206/2021 prescriveva espressamente che il rimedio della revocazione, di cui all’art. 395 c.p.c., fosse esteso ai giudicati interni dichiarati in contrasto con la CEDU o con i suoi Protocolli addizionali, qualora tale violazione non potesse essere rimossa mediante l’attribuzione dell’equo indennizzo ex art. 41 della Convenzione. Tuttavia, l’attuazione di tale previsione da parte del d.lgs. n. 149/2022 si discosta sensibilmente dalla direttiva parlamentare sotto plurimi aspetti.
In primo luogo, anziché introdurre un’ulteriore ipotesi di revocazione nel catalogo tipizzato dell’art. 395 c.p.c., si è optato per disciplinare la nuova impugnazione nell’ambito della sede di legittimità, collocandola all’interno del capo dedicato al ricorso per cassazione. Tale scelta parrebbe riflettere l’idea che, essendo l’esaurimento dei mezzi interni condizione di procedibilità per il ricorso alla Corte Edu[23], l’accertamento di una violazione convenzionale possa riferirsi soltanto a sentenze della Corte di cassazione. Tuttavia, questa impostazione risulta in parte contraddetta dal tenore letterale dell’ultimo comma dell’art. 362 c.p.c., il quale estende l’ammissibilità del ricorso revocatorio anche alle «decisioni dei giudici ordinari passate in giudicato», senza circoscriverne l’ambito applicativo alle sole pronunce della Suprema Corte.
Analogamente, l’art. 391-quater c.p.c., che disciplina il nuovo rimedio, non esplicita in alcun modo che la revocazione sia limitata ai soli arresti della Corte di legittimità[24].
In realtà, ben potrebbe prospettarsi la possibilità di proporre il nuovo ricorso anche avverso sentenze di merito, laddove il giudicato si sia consolidato in seguito al rigetto del ricorso per cassazione o a una decisione della Corte che, accogliendo una doglianza estranea alla violazione dei diritti fondamentali e determinando così l’assorbimento della censura relativa alla violazione convenzionale, abbia determinato il passaggio in giudicato della decisione di merito. Si pensi, ad esempio, ai casi in cui la Suprema Corte abbia pronunciato una cassazione senza rinvio ex art. 382 c.p.c., con conseguente cristallizzazione della pronuncia di primo grado che si assume lesiva dei diritti tutelati dalla CEDU[25].
Il sistema così configurato appare affetto da una certa disorganicità, poiché, pur in assenza di un’espressa esclusione delle sentenze di merito, l’intera disciplina della revocazione per contrasto con la Convenzione è strutturata come rimedio devoluto alla cognizione esclusiva della Corte di cassazione. Tale impostazione risulta avvalorata sia dalla collocazione topografica delle disposizioni introdotte (in particolare nel contesto dell’art. 362 c.p.c., che contempla “altri” ricorsi straordinari in cassazione), sia dalla previsione contenuta nel comma 2 dell’art. 391-quater c.p.c., che stabilisce modalità e termini per la proposizione del ricorso coerenti con quelli propri del giudizio di legittimità.
L’intenzione del legislatore delegato sembrerebbe, quindi, quella di investire la Corte di cassazione del compito di decidere su tutte le domande di revocazione per contrarietà alla CEDU, anche quando la violazione riguardi sentenze dei giudici di merito. Tala soluzione non appare, tuttavia, congrua rispetto alle indicazioni del Parlamento, la cui richiesta era, invece, quella ampliare il novero dei casi di revocazione di cui all’art. 395 c.p.c., come istanza che nel nostro sistema, ai sensi dell’art. 398 c.p.c., si rivolge allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata (è vero, infatti, che in molte ipotesi la violazione convenzionale sarà “imputabile” ad una pronuncia della Cassazione, ma – come si è visto – non è detto che sia sempre così)[26].
Peraltro, consentire la riapertura del processo ai sensi dell’art. 395 c.p.c. nei casi di giudicato interno contrario alla Convezione avrebbe consentito l’impugnabilità per questo motivo di revocazione anche delle sentenze passate in giudicato dei giudici speciali, in virtù dei rinvii mobili operati all’art. 395 c.p.c. dall’art. 106 c.p.a. e dall’art. 64 d.lgs. 546/1992: la limitazione introdotta dal d.lgs. 149/2022 attraverso il disposto del nuovo ultimo comma dell’art. 362 c.p.c., ove si legge che a poter essere revocate sono solo le sentenze dei «giudici ordinari» sembra invece espressamente escludere tale ipotesi[27].
Ancora, come si vedrà più avanti, in evidente disallineamento rispetto alle intenzioni del legislatore delegante, il decreto attuativo n. 149/2022 ha previsto quale presupposto per consentire di agire ai sensi dell’art. 391-quater c.p.c. che la violazione della CEDU abbia arrecato un pregiudizio ad un “diritto di stato della persona”. Di tale stringente limite operativo non vi è alcuna traccia nella legge di delega 206/2021.
L’articolo 391-quater c.p.c., inoltre, omette di individuare espressamente i soggetti legittimati a proporre il giudizio di revocazione per contrasto con la Convenzione Edu, discostandosi anche in questo caso da quanto previsto nella legge delega, ove si stabiliva che tale legittimazione dovesse spettare alle parti del giudizio dinanzi alla Corte di Strasburgo, ai loro eredi o aventi causa, nonché al pubblico ministero. Solo in parte, e in termini piuttosto circoscritti, la disciplina attuativa ha accolto tale ultima indicazione, inserendo nel secondo comma dell’articolo 397 c.p.c. un inciso secondo cui, nei casi di cui all’art. 391-quater c.p.c. «la revocazione può essere promossa anche dal procuratore generale presso la Corte di cassazione».
Tale previsione, tuttavia, solleva dubbi interpretativi rilevanti. In particolare, si potrebbe ritenere, attraverso una lettura sistematica del primo e del secondo comma dell’art. 397 c.p.c., che l’intervento del pubblico ministero si moduli in modo differenziato a seconda del grado della decisione revocanda: in particolare, il procuratore generale presso la Corte di cassazione potrebbe attivare il rimedio solo quando la sentenza in contrasto con la CEDU provenga dalla Suprema Corte stessa, mentre l’ufficio del p.m. potrebbe agire avverso pronunce di merito, censurate dalla Corte di Strasburgo, qualora non vi abbia partecipato o qualora la decisione sia frutto di una collusione fraudolenta tra le parti[28].
Tale ipotesi ermeneutica porterebbe, quindi, seppure in via implicita, a riaffermare la revocabilità anche delle sentenze di primo e secondo grado, così estendendo la portata del rimedio di cui all’art. 391-quater c.p.c. oltre i limiti dell’attuale formulazione normativa[29].
2.2. Il nuovo articolo 391 – quater c.p.c.
L’art. 391- quater c.p.c. introduce, dunque, una nuova ipotesi di revocazione straordinaria, e dispone che le decisioni passate in giudicato il cui contenuto è stato dichiarato dalla Corte Edu contrario alla Convenzione ovvero ad uno dei suoi Protocolli, possano essere impugnate per revocazione qualora la violazione accertata dalla Corte europea abbia pregiudicato “un diritto di stato della persona” e l’equa indennità eventualmente accordata dalla Corte Edu, ai sensi dell’art. 41 della Convenzione[30], non risulti idonea a compensare le conseguenze della violazione (in ossequio al c.d. divieto di duplicità di ristori).
Il legislatore delegato ha, quindi, compiuto una scelta chiara: il rimedio di portata generale continua ad essere l’equa soddisfazione, mentre la riapertura del processo è una tutela speciale, confinata in una materia sostanziale particolare (diritto di stato della persona) e subordinata alla circostanza che la parte lesa non abbia ricevuto pieno ristoro dalla Corte europea mediante il riconoscimento dell’equo indennizzo.
Tra le due condizioni che devono concorrere per accedere al rimedio, come anticipato, fin da subito ha fatto sorgere non pochi dubbi interpretativi quella relativa all’ambito applicativo, delimitato per oggetto al pregiudizio a un “diritto di stato della persona”, cagionato dalla decisione interna passata in giudicato. L’attinenza del pregiudizio a un “diritto di stato della persona”, che in questo senso ricorda il simile rimedio francese[31], come si è visto restringe indubbiamente il campo rispetto alla più ampia formula della legge delega[32], che si riferiva, invece, a qualsiasi tipo di violazione, indipendentemente dalla materia e dall’oggetto della sentenza. Nella Relazione al d. lgs. n. 149/2022[33], tale scelta restrittiva è giustificata dalla stretta connessione con l’altra condizione che deve concorrere per attivare il rimedio, consistente nell’impossibilità di rimuovere la violazione attraverso la tutela per equivalente: ciò si verifica generalmente con riguardo al campo dei “diritti di stato della persona”, dove solo una tutela in forma specifica può effettivamente garantire una eliminazione del pregiudizio subito. In tali ipotesi, infatti, il riconoscimento alla parte lesa di un risarcimento in termini economici non sarebbe idoneo a rimuovere gli effetti pregiudizievoli della violazione[34].
Con riguardo alla seconda condizione relativa all’inidoneità dell’equa indennità eventualmente accordata dalla Corte europea per compensare le conseguenze della violazione, occorre inoltre evidenziare una significativa criticità interpretativa: la norma appare non tener conto del fatto che, in numerosi casi, è la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo a suggerire l’esigenza che lo Stato soccombente adotti misure ripristinatorie, segnalando espressamente la necessità di una restitutio in integrum[35]. In tali ipotesi, l’organo giurisdizionale interno investito della revocazione non è chiamato a compiere una valutazione discrezionale sull’opportunità del rimedio, bensì è vincolato ad assicurare l’effettività dell’obbligo internazionale gravante sull’Italia in forza della ratifica della Convenzione Edu, attuando la decisione resa dalla Corte di Strasburgo. Un possibile margine di valutazione per il giudice nazionale, cui incombe lo scrutinio circa l’ammissibilità della domanda revocatoria, si aprirebbe, dunque, solo in assenza di una tale esplicita indicazione nella sentenza convenzionale e in presenza, al contempo, del riconoscimento da parte della Corte Edu di un’equa soddisfazione ai sensi dell’art. 41 CEDU. Tale verifica mira a prevenire fenomeni di duplicazione non tanto risarcitoria, quanto rimediale e quindi ad evitare che, a fronte di una già intervenuta riparazione pecuniaria, venga disposto anche un ulteriore rimedio giurisdizionale, potenzialmente ridondante: ciò potrebbe verificarsi nel caso in cui l’equa indennità accordata dalla Corte europea si riveli idonea a compensare il danno per la violazione accertata[36] ovvero nell’ipotesi in cui la restitutio in integrum sia materialmente o giuridicamente impossibile.
L’impugnazione di cui trattasi va proposta con ricorso entro sessanta giorni dalla pubblicazione della sentenza definitiva della Corte europea, ai sensi del regolamento della Corte stessa[37]. Si tratta, quindi, di un’impugnazione straordinaria che va proposta nel termine unico (non mobile) che decorre dalla data di pubblicazione della sentenza definitiva della Corte di Strasburgo.
Per quanto riguarda le modalità di svolgimento del giudizio, la norma in esame richiama l’art. 391 – ter, comma 2, c.p.c. secondo cui «Quando pronuncia la revocazione o accoglie l’opposizione di terzo, la Corte decide la causa nel merito qualora non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto; altrimenti, pronunciata la revocazione ovvero dichiarata ammissibile l’opposizione di terzo, rinvia la causa al giudice che ha pronunciato la sentenza cassata». Tuttavia, volendo ammettere la possibilità di domandare la revocazione anche delle decisioni di merito come precedentemente ipotizzato, tale richiamo troverebbe applicazione solo quando ad essere revocata sia una sentenza della Suprema Corte, mentre se la decisione contraria alla Convenzione fosse del giudice di merito dovrebbero operare gli artt. 400 – 402 c.p.c.[38]
3. La decisione n. 7128/2025 della Corte di cassazione e l’ambito applicativo del rimedio
La Corte di cassazione, con la recente decisione n. 7128 del 17 marzo 2025 da cui ha preso spunto questa riflessione (si tratta di uno dei primissimi procedimenti svolti ai sensi dell’art. 391- quater c.p.c.) cerca di risolvere la questione interpretativa circa l’ambito applicativo della revocazione europea, andando a definire cosa effettivamente deve intendersi ricompreso nella nozione di “diritto di stato della persona”, il cui pregiudizio è presupposto per l’esperibilità del rimedio stesso.
Nel caso in esame i ricorrenti, sulla base di una decisione della Corte Edu che aveva accolto la domanda relativa ai danni non patrimoniali derivanti dalla perdita del rapporto parentale, domandavano la rimozione ex art. 391-quater c.p.c. del giudicato nazionale che, invece, aveva negato tale risarcimento.
La Corte di cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso e manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale prospettate dai ricorrenti in relazione all’art. 391-quater c.p.c. nella parte in cui, se interpretata restrittivamente, la norma sarebbe applicabile esclusivamente alle sentenze passate in giudicato che integrino una violazione del diritto al riconoscimento di uno status personale, accertata dalla Corte europea.
Queste le considerazioni svolte:
in primo luogo, la Corte sottolinea che lo scopo della nuova disposizione processuale è quello di garantire l’adempimento da parte dello Stato italiano dell’obbligo di conformarsi alle decisioni vincolanti della Corte Edu, come previsto dall’art. 46 della Convenzione, prevendendo la possibilità di riapertura del processo limitatamente ai casi in cui il pregiudizio derivante dalla violazione commessa dallo Stato, concretizzatasi in una sentenza passata in giudicato e dichiarata contraria alla Convenzione, non sia riparabile mediante tutela per equivalente (la c.d. “tutela secondaria” dei diritti fondamentali protetti dalla Convenzione), in quanto non idonea a rimuovere gli effetti pregiudizievoli della violazione. Ed infatti, afferma la Corte che, benché la legge delega consentisse, in teoria, di introdurre la nuova fattispecie di revocazione straordinaria per tutti i casi di violazione di diritti di qualunque natura, allo stesso tempo avrebbe però chiaramente inteso limitare l’operatività del nuovo istituto a quelle ipotesi in cui il giudicato nazionale contrario ai principi della CEDU determini un pregiudizio a diritti di natura tale per cui non sia configurabile una tutela esclusivamente economica, in quanto tale risarcimento non sarebbe in alcun modo idoneo a rimuovere il pregiudizio, essendo, invece, a tal fine necessario rimuovere la decisione passata in giudicato e adottare le statuizioni, differenti dal pagamento di somme di denaro, conseguenti alla rimozioni. Il legislatore delegato avrebbe, quindi, introdotto il nuovo rimedio delineandone i relativi limiti al fine di consentire la rimozione, nell’ordinamento interno, esclusivamente degli effetti delle sentenze riguardanti i “diritti di stato della persona”, ossia quelle relative agli status personali, che figurano come le uniche situazioni soggettive che non possono essere tutelate con il solo ristoro economico, mentre per tutte le altre situazioni soggettive non qualificabili come “diritti di stato della persona” sarebbe sempre possibile ricorrere alla tutela per equivalente.
In secondo luogo, la Corte evidenzia che per “diritti di stato della persona” devono intendersi «le posizioni giuridiche fondamentali che la persona assume nell’ambito della società e del nucleo familiare»; si tratta, in particolare, di un diritto che deve rappresentare, sul piano dell’ordinamento, la diretta implicazione dello stato, esprimendo, dunque, il contenuto normativo dello stato della persona[39](sembrerebbe, quindi, potersi ricomprendere nella nozione di stato le situazioni connesse ai procedimenti in materia di separazione e divorzio, di amministrazione di sostegno, di interdizione, inabilitazione, di dichiarazione di assenza o morte presunta, di adozione, di unioni civili, di filiazione, riconoscimento o dichiarazione di paternità e maternità, di statuizioni in tema di abusi familiari e di rettifica degli atti dello stato civile, e anche i diritti in materia di protezione internazionale attinenti allo status di rifugiato o titolare di protezione sussidiaria, quelli in tema di cittadinanza europea e, per gli ambiti sottratti alla giurisdizione amministrativa, quelli connessi allo status di cittadino).
Dunque, secondo la Corte tale espressione normativa vuole indicare come oggetto della tutela revocatoria esclusivamente quelle violazioni che hanno pregiudicato il diritto al riconoscimento di un determinato status personale, cioè che si siano risolte nella negazione totale o parziale dello stesso, nel tardivo riconoscimento ovvero nelle ipotesi di erronea attribuzione o tardivo disconoscimento[40].
Non può, invece, essere interpretata nel senso che possa ricomprendere il pregiudizio arrecato a qualsiasi diritto fondamentale o non patrimoniale, anche se di natura personalissima e anche se presupposto o derivante da un determinato status soggettivo del titolare, qualora sia stato leso senza che tale status sia stato direttamente negato, limitato o riconosciuto in ritardo. Ed infatti, il pregiudizio arrecato ad uno stato soggettivo personale, inteso genericamente come mera titolarità di un qualsiasi altro diritto, anche se si tratti di diritti fondamentali, inviolabili, di natura personale e non patrimoniale ed anche se eventualmente si tratti di un diritto che presupponga la titolarità di un determinato status personale, non implica di per sé l’insuscettibilità di una tutela per equivalente, che anzi nella maggior parte dei casi è l’unica via per tutelare il soggetto leso. In tali ipotesi la titolarità o non titolarità di uno status non sono l’oggetto diretto della lesione, che si verifica senza che sia posta in dubbio la spettanza dello status o senza che lo stesso sia erroneamente attribuito.
In questi termini deve, quindi, secondo la Corte, escludersi che la restitutio in integrum possa essere ammessa con riferimento a diritti della persona, che non abbiano consistenza di stati della persona in senso proprio; si pensi, ad esempio, alla responsabilità genitoriale o agli obblighi alimentari. Nel caso di sentenze che, invece, abbiano mancato di riconoscere o abbiano illegittimamente attribuito uno status, la tutela per equivalente non può considerarsi idonea ad attribuire lo status ingiustamente negato da una sentenza passata in giudicato o ad eliminare l’attribuzione di uno status erroneamente riconosciuto ed è necessario, quindi, rimuovere tale sentenza per garantire al soggetto leso una effettiva riparazione, non conseguibile mediante l’art. 41 della Convezione, né in generale attraverso misure riparatorie di tipo risarcitorio.
Sulla scorta delle enunciate considerazioni, la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso formulato dai ricorrenti, che domandavano la revocazione ex art. 391- quater c.p.c. della decisione nazionale che non aveva riconosciuto il diritto al risarcimento dei danni non patrimoniali derivanti dalla perdita del rapporto parentale, accertato poi in sede convenzionale, dove la Corte Edu ha provveduto all’equa soddisfazione degli stessi in forma di tutela secondaria, mediante risarcimento. Alla luce della interpretazione svolta della nozione di pregiudizio a “un diritto di stato della persona”, la dichiarazione di inammissibilità consegue alla evidente impossibilità di utilizzare il nuovo istituto per rimuovere decisioni nazionali che abbiano accolto o rigettato una domanda volta a conseguire una condanna al pagamento di un somma di denaro, sia pure a titolo risarcitorio, per la lesione di un diritto fondamentale anche non patrimoniale, in quanto in tal caso viene richiesta proprio e soltanto una tutela per equivalente che, oltre ad essere oggettivamente possibile, è espressamente ritenuta tale dalla parte. Non vi è stata, quindi, alcuna lesione di una posizione soggettiva identificabile nei termini anzidetti quale “diritto di stato della persona” e la tutela per equivalente in forma risarcitoria, oltre ad essere perfettamente possibile, è anche, per l’appunto, espressamente domandata dalla parte. Una siffatta situazione, secondo la Corte, esclude in radice l’operatività del nuovo rimedio revocatorio.
Anche le questioni di legittimità costituzionale sollevate dai ricorrenti relativamente all’interpretazione troppo restrittiva della portata applicativa dell’art. 391-quater c.p.c. (che, secondo questi ultimi, configurerebbe una irragionevole disparità di trattamento tra diverse tipologie di diritti fondamentali), in relazione agli artt. 2, 3 e 24 Cost., nonché con riferimento agli artt. 117, 76 e 77 Cost., (in quanto la legge delega non avrebbe inteso limitare nei suddetti termini la portata del nuovo rimedio), sono state ritenute dalla Corte entrambe manifestamente infondate, sempre sulla base delle medesime argomentazioni già sviluppate per chiarire il concetto di diritto di stato della persona e la portata applicativa generale del rimedio.
L’interpretazione estremamente restrittiva offerta dalla Corte circa l’ambito applicativo dell’art. 391-quater c.p.c. spinge a qualche ulteriore considerazione.
Come si è detto, il presupposto del pregiudizio ad un diritto di stato della persona per l’esperimento della revocazione è un limite operativo di cui non vi è alcuna traccia all’interno della legge delega, dove si chiedeva in termini più generali di introdurre un rimedio che consentisse la rimozione delle conseguenze dannose dovute alla violazione della CEDU da parte di un giudicato interno, ai sensi dell’art. 46 della Convenzione.
Tale limite operativo non trova riscontro neppure all’interno della giurisprudenza della Corte Edu, che ha sempre chiesto agli Stati contraenti di adempiere agli obblighi di cui al citato art. 46 della Convenzione, riferendosi indistintamente a tutti i diritti tutelati dalla CEDU e senza svolgere alcuna distinzione secondo la necessaria modalità di ristoro in forma equivalente o in forma specifica.
Guardando anche agli altri Paesi che in Europa hanno già da tempo adottato strumenti per consentire la rimozione del giudicato c.d. “anticonvenzionale”, ritroviamo un’identica limitazione operativa del rimedio solo in Francia[41] (da cui, come si è visto, probabilmente ha tratto ispirazione il nostro legislatore delegato); se si volge lo sguardo alla Germania o alla Spagna si può notare come, invece, i rimedi preposti all’attuazione delle sentenze della Corte di Strasburgo mantengano un ambito applicativo molto più ampio, potendo genericamente essere attivati ogni qual volta la decisione interna abbia comportato una violazione della Convezione accertata dalla Corte europea[42].
La stessa Corte costituzionale, nelle già ricordate occasioni in cui è stata chiamata a pronunciarsi sulla questione di costituzionalità dell’art. 395 c.p.c. nella parte in cui non ammette la revocazione del giudicato per contrarietà alla CEDU, ha sempre riconosciuto la necessità di prevedere anche nei giudizi civili e amministrativi un rimedio che consentisse l’attuazione degli obblighi discendenti dall’art. 46 della Convenzione in termini generali e, quindi, con riguardo alla totalità dei diritti tutelati dalla Carta dei diritti fondamentali.
A ciò aggiungasi che il criterio direttivo di cui alla lett. c) dell’art. 1, comma 10, della legge di delega (rimasto anch’esso inattuato), prevendendo la legittimazione ad agire in capo agli eredi e aventi causa della parte danneggiata, mostra indirettamente la volontà del legislatore delegante di consentire la revocabilità dei giudicati relativi a tutte le tipologie di diritti fondamentali e non solo quelli riguardanti status familiari: altrimenti non si capirebbe il senso di prevedere la legittimazione attiva in capo ai suddetti soggetti, dal momento che i diritti di stato non sono disponibili o trasmissibili.
La drastica limitazione imposta dal d. lgs. 149/2022 all’esperibilità del nuovo rimedio andrebbe, quindi, forse compensata mediante un’interpretazione meno stringente dei presupposti dell’art. 391-quater c.p.c. da parte della giurisprudenza, così da ricomprendervi la più ampia categoria dei diritti della persona generalmente intesi e risultare maggiormente in linea agli artt. 41 e 46 della Convenzione e alle intenzioni del legislatore delegante. Le maglie strette entro le quali la Corte di cassazione, con la decisione in commento, circoscrive lo spazio applicativo della nuova revocazione, interpretando letteralmente e restrittivamente il presupposto del pregiudizio ad “un diritto di stato della persona”, per quanto conformi alla regola dettata dall’art. 12 delle preleggi, secondo cui alla norma «non si può attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole», rischiano tuttavia di avvallare una irragionevole disparità di trattamento tra diverse tipologie di diritti fondamentali (si pensi al diritto al nome, alla riservatezza o all’identità personale).
Neppure risulta convincente la relazione illustrativa al decreto attuativo quando giustifica gli stringenti limiti operativi del nuovo rimedio sostenendo che la previsione risponde implicitamente al criterio per cui la revocazione va ammessa nei soli casi in cui non sia possibile rimuovere la violazione tramite la tutela per equivalente e tali casi sarebbero stati individuati solo nelle violazioni di un diritto di stato della persona[43]. Non può, infatti, ignorarsi che vi sono dei casi in cui, pur riguardando la decisione contrastante con la CEDU diritti patrimoniali, per la piena reintegrazione del diritto del ricorrente vincitore a Strasburgo non basta la tutela per equivalente, ma occorre la rimozione del giudicato (si pensi alle vicende Staibano e Mottola[44] o Guadagno[45]).
Una interpretazione dei presupposti dell’art. 391-quater c.p.c. troppo aderente al dato letterale porta, dunque, alla condizione per cui se la violazione della Convenzione dei diritti dell’uomo riguarda, ad esempio, controversie aventi ad oggetto la filiazione, oppure l’adozione, o ancora la cittadinanza, la rettificazione degli atti di stato civile, è possibile ricondurre il contenzioso al diritto di stato della persona e, quindi, chiedere la revocazione della sentenza; ma se il diritto oggetto della violazione è semplicemente un diritto della persona, come, ad esempio, può avvenire nel mondo del lavoro, nel diritto di famiglia, oppure con riferimento al diritto al nome, all’immagine, etc., non trattandosi di diritti di status, la revocazione non può essere esperita e quindi la violazione della Convenzione relativamente a quei diritti rimane priva di tutela[46].
Va segnalato, in chiusura, che l’introduzione del n. 9-bis) nell’art. 2652 c.c. da parte del legislatore delegato sembra rispondere a una sollecitazione proveniente dalla dottrina, la quale aveva auspicato l’introduzione di una tutela rafforzata per i terzi, inclusi successori e aventi causa, che abbiano acquistato diritti successivamente al passaggio in giudicato della decisione interna, ma anteriormente alla proposizione dell’azione di revocazione, al fine di salvaguardare la stabilità dei loro acquisti.
Tale proposta, tuttavia, trovava piena coerenza sistematica nel contesto più ampio delineato dalla legge delega, la quale non contemplava limitazioni circa l’ambito oggettivo della revocazione esperibile per contrasto con la CEDU. Con la successiva scelta del legislatore delegato di circoscrivere l’operatività del nuovo rimedio alle sole sentenze aventi ad oggetto lo status personale, l’inserimento del nuovo n. 9-bis) rischia, invece, di apparire privo di effettiva portata applicativa, trasformandosi in un intervento meramente ornamentale, incapace di assolvere alla funzione protettiva per cui era stato concepito[47].
Lo stesso può dirsi per l’ultimo comma dell’art. 391-quater c.p.c., laddove si prevede che la sentenza rescindente «non pregiudica i diritti acquisiti dai terzi di buona fede che non hanno partecipato al giudizio svoltosi innanzi alla Corte europea». Tale disposizione riproduce in modo pressoché identico l’indicazione contenuta nella lettera b) della legge delega, ma ne traspone il contenuto in un contesto normativo ormai profondamente diverso da quello presupposto dal legislatore delegante. Ed infatti, anche in questo caso, nella prospettiva originaria delineata dalla legge di delega che non poneva alcuna delimitazione all’ambito oggettivo di applicazione del rimedio revocatorio, la clausola di salvaguardia per i terzi estranei al giudizio convenzionale si giustificava come misura necessaria a evitare effetti pregiudizievoli su posizioni soggettive acquisite in buona fede, soprattutto da parte di eredi o aventi causa della parte soccombente in sede sovranazionale. L’estensione potenzialmente ampia della revocazione giustificava, quindi, una simile precauzione, mentre nell’impianto dell’art. 391-quater c.p.c. per lo più questa necessità non sarà avvertita dovendo il giudicato riguardare un diritto di status, se non nelle ipotesi dove l’oggetto del processo sia in realtà complesso e, quindi, cumuli al suo interno anche l’accertamento di un diritto patrimoniale dipendente dal diritto di stato: in questi casi si potrà allora verificare che, dopo la pronuncia rescindente, il giudizio rescissorio si chiuda con una declaratoria che faccia salvi i diritti di tali terzi (il che però toglie ancora più margine di operatività al rimedio)[48].
3.1. Brevi note conclusive
Il legislatore sembrava finalmente orientarsi verso un adeguamento coerente agli standard elaborati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e alle sollecitazioni provenienti dalla giurisprudenza costituzionale. In tale prospettiva, si era delineata la possibile introduzione di una nuova causa di revocazione straordinaria, applicabile nei confronti di decisioni passate in giudicato riconosciute incompatibili con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e i suoi Protocolli aggiuntivi. L’accesso a tale rimedio era stato concepito con due limiti essenziali: da un lato, la necessità che il pregiudizio non fosse stato già adeguatamente riparato mediante il meccanismo dell’equa soddisfazione previsto dall’art. 41 CEDU; dall’altro, la presenza di terzi, in particolare eredi o aventi causa, in buona fede, le cui posizioni giuridiche, fondate sull’affidamento nella definitività del giudicato, esigessero tutela.
Nella formulazione dei criteri direttivi contenuti nella legge di delega, non si ravvisavano restrizioni ulteriori, né sotto il profilo della tipologia di giudicato aggredibile, né rispetto alla giurisdizione da cui esso promanava. Si attendeva, pertanto, un rimedio dotato di portata generale, potenzialmente applicabile tanto ai provvedimenti civili quanto a quelli adottati in sede amministrativa o tributaria, sempreché ormai insuscettibili di impugnazione ordinaria.
Tuttavia, il testo normativo risultante dall’attuazione della delega tramite il d.lgs. 149/2022 ha deluso tali aspettative. Infatti, dall’interpretazione congiunta dell’art. 391-quater e dell’art. 362, secondo comma, c.p.c., emerge che l’ambito applicativo della revocazione per contrasto con la CEDU è stato significativamente ridimensionato, venendo ristretto, in assenza di espliciti fondamenti nella legge delega, ai soli giudicati di natura civile aventi ad oggetto diritti di stato e resi da giudici ordinari, inclusa la Suprema Corte.
Le conseguenze di tale impostazione sono rilevanti: nel contenzioso civile, il nuovo strumento sarà utilizzabile in un numero molto limitato di casi, riguardanti essenzialmente le controversie familiari; si potrebbero prospettare degli scenari di utile operatività del rimedio, come anticipato, solo interpretando estensivamente la condizione di cui al n. 1 e ammettendo cioè che il giudicato censurato possa avere ad oggetto diritti della persona generalmente intesi ovvero possa avere un oggetto cumulativo, dove la violazione, oltre alla lesione del diritto di stato, abbia determinato il pregiudizio di un diritto patrimoniale da esso dipendente (ad es. obblighi alimentari, diritti successori, assegni divorzili).
Per quanto riguarda la giurisdizione amministrativa, come si è detto, il rimedio appare del tutto precluso; nel settore tributario, infine, la sua incidenza concreta appare pressoché nulla, atteso che è difficile ipotizzare che una pronuncia della Cassazione in materia fiscale possa incidere su situazioni giuridiche soggettive riconducibili allo status personale dell’individuo[49].
[5] L’art. 46 della Convenzione implica: il pagamento dell’equa soddisfazione secondo quanto previsto dall’art. 41, quando è stata accordata dalla Corte europea; l’adozione di misure individuali per eliminare le conseguenze della violazione accertata; l’introduzione di misure generali per far cessare la violazione derivante da atti normativi o da prassi giurisprudenziali o amministrative. Sul punto cfr. CEDU, Gc, 17 settembre 2009, Scoppola c/Italia.
[6] Le sentenze della Corte Edu hanno, infatti, efficacia dichiarativa, accertano se vi è stata una violazione della convenzione o dei suoi Protocolli, mentre è obbligo degli Stati, nei cui confronti sono state emesse, conformarsi ad esse.
[7] Cfr. CEDU, Gc, 11 luglio 2017, Moreira Ferreira c/Portogallo; CEDU, Gc, 3 febbraio 2015, Bochan c/ Ucraina.
[8] FIORI, L’esecuzione delle sentenze nel sistema convenzionale: profili teorici e pratici, in questionegiustizia.it.
[9] Sul punto cfr. CEDU, 20 agosto 2021, Beg c/Italia che, con riguardo alle violazioni delle norme del giusto processo (art. 6 della Convenzione), individua appunto nella riapertura del processo il mezzo più adatto a ripristinare il diritto leso. Si v. anche CEDU, 20 settembre 2016, Karelin c/ Russia, paragrafo 97; CEDU, Gc, 5 febbraio 2015, Bochan c/Ucraina, paragrafo 58; CEDU, 20 agosto 2021, caso Beg s.p.a. c/ Italia.
[10] La Corte EDU e gli organi del Consiglio d’Europa hanno progressivamente individuato la riapertura del processo quale soluzione maggiormente idonea a garantire la restitutio in integrum in favore delle vittime delle violazioni non altrimenti rimediabili: in questi casi, infatti, la rimozione del giudicato formatosi sarebbe indispensabile per rimuovere la violazione dei diritti commessa dallo Stato-giudice nel corso del processo. Sul punto cfr. CEDU, Gc, 5 febbraio 2015, Bochan c/Ucraina, cit.
[11] Corte cost. 7 aprile 2011, n. 113, in Giur. cost., 2011, 2, 1523; in Foro it., 2013, I, pg. 802, con nota di CALÒ; in Riv. it. dir. e proc. pen., 2011, pg. 1155, con nota di RIVELLO.
[12] Il percorso aperto dalla Consulta approda oggi all’introduzione, con l’art. 36 del d. lgs. del 10 ottobre 2022, n. 150, in attuazione della legge delega, 4 ottobre 2021, n. 137, art. 1, comma 13, lett. o), dell’art. 628 bis c.p.p. che disciplina specificatamente la revisione europea.
[13] L’ordinamento tedesco prevede sia per il processo penale che per gli altri tipi di processo ipotesi in cui è possibile superare una sentenza divenuta definitiva e quindi riaprire un processo concluso (c.d. Wiederaufnahme). Tuttavia, alla luce del rilievo che l’ordinamento riconosce al principio della certezza del diritto, da bilanciare con la c.d. “giustizia materiale” nel caso singolo, i mezzi e le condizioni con cui si può cercare di “riformare” una sentenza passata in giudicato sono limitati e circoscritti. L’ordinamento tedesco ha introdotto ormai in tutti i campi di diritto anche un apposito motivo di revocazione di fronte all’accertamento da parte della Corte europea di una violazione della CEDU o dei protocolli addizionali che deriva da una sentenza interna passata in giudicato, in conformità all’invito del Comitato dei Ministri, formulato con la citata Raccomandazione R(2000). In particolare, con riguardo al giudizio civile, l’art. 580, n. 8, ZPO, introdotto dallo 2. Justizmodernisierungsgesetz, dal 31 dicembre 2006 ammette la revocazione del giudicato civile (Restitutionsklage) quando la Corte europea dei diritti dell’uomo abbia constatato una violazione degli obblighi sanciti dalla Convenzione ovvero da uno dei protocolli e la sentenza impugnata si fondi su tale violazione, imponendo al richiedente l’onere di dimostrare la sussistenza del nesso di causalità tra la violazione e il contenuto pregiudizievole della pronuncia nazionale. La competenza spetta, in linea di principio, al giudice di prime cure. La domanda deve essere proposta entro un mese dal giorno in cui si è avuta conoscenza del motivo che legittima la proposizione della Restitutionsklage e, eccezionalmente, non si applica alla fattispecie de qua il termine finale per la proposizione dell’azione fissato in cinque anni dal passaggio in giudicato della sentenza impugnata. Sul punto cfr. BRAUN, HEIß, Münchener Kommentar zur ZPO, 6. Auflage, München 2020, sub § 580, n. 8; con riguardo al processo penale, con la riforma entrata in vigore il 15 luglio 1998, è stata introdotto all’art. 359 StPO il n. 6 che consente la revocazione della sentenza passata in giudicato contraria alla CEDU. Per approfondimenti si v. BRAUN, Restitutionsklage wegen Verletzung der Europäischen Menschenrechtskonvention, in NJW, 2007, pg. 1620; DI MARTINO, La Convenzione Europea dei diritti dell’uomo nella giurisprudenza costituzionale tedesca. Per una prospettiva comparata sull’esperienza italiana, in federalismi.it, n. 11/2012; HENKE, Le violazioni del giudicato esterno tra ricorso per cassazione e revocazione, in Riv. Di dir. Proc., 2005, pg. 506; HÖPFNER – N. RICHTER, Wiedeaufnahme des Verfahrens und Wiedereinstellungsanspruch nach Verstoss gegen die EMRK?, in RdA, 2016, pg. 149 ss.; PARLATO, La revisione del giudicato penale a seguito di pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo. II) L’esperienza della Repubblica federale tedesca e di altri Paesi dell’Europa continentale, in Riv. it. dir. e. proc. pen., 2006, pg. 1010 ss.; SCIARABBA, Il giudicato e la Cedu, profili di diritto costituzionale, internazionale e comparato, Padova, 2012, pg. 114 ss.
[14] In Spagna, l’art. 510, comma 2, ley de enjuiciamiento civil (modificato per effetto della ley orgànica n. 7 del 21 luglio 2015) prevede che colui che è risultato vittorioso a Strasburgo (art. 511, comma 2) possa domandare la revisione (revisión) alla sala de lo civil del Tribunal supremo di una sentenza civile quando la Corte europea dei diritti dell’uomo abbia constatato che essa ha violato un diritto garantito dalla Convenzione, a condizione che non vi sia altro metodo per rimuovere in toto le conseguenze della violazione (requisito della residualità). La revisione è proponibile entro il termine di un anno dalla data della pronuncia della Corte europea (art. 512) ed è ammessa solo quando non pregiudichi i diritti acquisiti in buona fede dai terzi. Nello specifico la norma dispone che «si potrà presentare un recurso de revisión nei confronti di una decisione giudiziaria definitiva quando la Corte EDU abbia dichiarato che tale decisione sia stata emessa in violazione di alcuno dei diritti sanciti nella CEDU e nei suoi protocolli, purché la violazione, per la sua natura e gravità, comporti effetti ancora persistenti e che non possano cessare in altro modo che con la revisión, senza che questa possa pregiudicare i diritti acquisiti in buona fede da terze persone»; allo stesso modo, sul fronte del processo penale, la l. 41/2015 ha novellato l’art. 954, comma 3, della legge processuale penale prevedendo una nuova causa di revisión similare a quella prevista per il processo civile. Si v. MÉNDEZ TOJO, La ejecución en España de las sentencias del Tribunal Europeo de Derechos Humanos ¿Una reforma legal necesaria?, in Diario La Ley, n. 8639, 5 novembre 2015; CARMONA CUENCA, La ejecución de sentencias del Tribunal Europeo de Derechos Humanos en España, relazione presentata al Seminario “Impacto y desafíos de la supervisión de cumplimiento de sentencias de los tribunales regionales de derechos humanos”, organizzato dall’Istituto Max Planck (Hidelberg), 18-19 luglio 2016, e pubblicata dalla Comissione di Venezia (doc. n. CDL- LA(2016)007, del 23 novembre 2013); MONTESINOS PADILLA, El recurso de revisión como cauce de ejecución de las sentencias del Tribunal de Estrasburgo: pasado, presente y futuro, in Eunomía. Revista en Cultura de la Legalidad, n. 10, aprile-settembre 2016, pg. 98 ss.
[15] In Francia, la l. 18 novembre 2016, n. 1547 ha modificato il code de l’organization judiciaire in modo da consentire il riesame (istituto diverso dalla revocazione) delle sentenze civili (réexamen en matière civile). Il legislatore francese ha optato per un approccio minimale, che non solo presuppone che sia integrato il requisito della residualità, ma distingue anche a seconda della materia oggetto dal giudicato civile. Si prevede, in particolare che possano essere oggetto di riesame solo sentenze rese in materia di stato delle persone, nei casi in cui la violazione di una delle garanzie fondamentali della convenzione abbia creato un danno non risarcibile con l’equa riparazione. L’impugnazione va proposta entro un anno dalla pronuncia della Corte europea («dans un délai d’un an à compter de la décision de la Cour européenne des droits de l’homme»: art. L 452-1 del code de l’organisation judiciaire) dinanzi alla Cour de cassation (art. 1031-8 code de procédure civile), la quale decide in una particolare composizione rappresentativa di tutte le sue camere e formata da tredici giudici (c.d. cour de réexamen). Il presidente della corte può accogliere o rigettare la domanda, quando risulti essere manifestamente irricevibile. Quando accoglie la richiesta, la Corte cassa e rinvia ad un giudice di pari grado rispetto a quello che emise la decisione dichiarata contrastante con la convenzione dal giudice di Strasburgo. Sul punto si v. CADIET, La loi «J21» et la Cour de cassation:la réforme avant la réforme ?, in Procedures, febbraio 2017, pg. 9 ss.; LE BARS, Justice du XXIe siècle – Convention européenne des droits de l’homme et état des personnes: instauration d’une procédure de réexamen des décisions de justice en matière civile, in Droit de la famille, n° 1, gennaio 2017, dossier 12, pg. 1 ss. Nel diritto penale, la l. n. 2000-516 del 15 giugno 20009 sul rafforzamento della presunzione di innocenza e dei diritti delle vittime, ha inserito nel Codice di procedura penale un capitolo appositamente dedicato al «riesame di una decisione penale in seguito ad una sentenza della Corte EDU», qualora la violazione accertata dalla Corte europea, in ragione della sua natura e gravità, «danneggi il condannato in modo tale da rendere irrisoria l’equa soddisfazione erogata in applicazione dell’art. 41 della Convenzione». Cfr. sul punto PETTITI, Le réexamen d’une décision pénale française après un arrêt de la Cour européenne des droits de l’homme : la loi française du 15 juin 2000, in RTDH, 2000, pg. 3; MASSIAS, Le réexamen des décisions définitives intervenues en violation de la Convention européenne des droits de l’homme, in Rev. Science crim. et Dr. Pén. Comp., 2001, pg. 123; e J.-F., RENUCCI, Le réexamen d’une décision de justice définitive dans l’intérêt des droits de l’homme, D., 2000, Chron., pg. 655.
[16] Corte cost. 26 maggio 2017, n. 123, in Riv. dir. internaz., 2017, pg. 1283; in Foro it., 2017, I, pg. 2180, con nota di D’ALESSANDRO; Corte cost. 27 aprile 2018, n. 93, in Giur. cost., 2018, pg. 1489, con nota di BRANCA.
[17] Si v. la raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa del 19 gennaio 2000, R. (2000) 2.
[18] Si v. sotto vari profili, anche prima della riforma: AULETTA, Uno stress test per la revocazione, in Il giust. proc. civ., n.1/2020, pg. 83; CONTI, La giurisprudenza civile sull’esecuzione delle decisioni della Corte EDU, in questionegiustizia.it, 2019; CARRATTA, Le riforme del processo civile, Torino 2023, pg. 127 ss.; D’ALESSANDRO, Revocazione della sentenza civile e Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Riv. dir. proc., n. 1/2022, pg. 217 ss.; Id., Revocazione per contrarietà alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Riforma Cartabia: il nuovo processo civile (I parte),Giur. It. n. 2/2023, pg. 479 ss.; DE STEFANO, La riforma del processo civile in cassazione. Note a prima lettura, in giustiziainsieme.it., 2023; GIUSTI, La revocazione, in La riforma della giustizia civile. Prospettive di attuazione della legge 26 novembre 2021, n. 206, a cura di COSTANTINO, Bari, 2022, pg. 261 ss.; GRAZIOSI, Le nuove norme sul giudizio di cassazione e sulla revocazione, in Riv. dir. proc., 2/2023, pg. 667 ss.; LUISO, Il nuovo processo civile, Milano, 2023, pg. 229 ss.; MENGALI, La revocazione per contrarietà alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Il processo civile dopo la riforma, a cura di CECCHELLA, Bologna, 2023, pg. 403 ss.; MERONE, Revocazione a seguito di sentenze emesse dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, in La riforma Cartabia del processo civile, a cura di TISCINI, Pisa, 2023, pg. 608 ss.; MONDINI, La nuova, limitata, ipotesi di revocazione straordinaria di decisioni contrarie alla CEDU, in Judicium.it, 2023; TERRUSI, La nuova fattispecie di revocazione per contrarietà alla Cedu, in Il processo civile dopo la riforma Cartabia, a cura di DIDONE-DE SANTIS, Padova, 2023, pg. 336 ss. Con riferimento alla giurisdizione amministrativa, ROMANI, Il processo amministrativo e l’esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo: l’istituto della revocazione “convenzionale” prefigurato dalla l. 26 novembre 2021, n. 206, in federalismi.it, 2022.
[19] Disegno di legge n. 3354, comunicato alla presidenza del Senato il 22 marzo 2005.
[20] Disegno di legge n. 3362, presentato il 23 marzo 2005.
[21] Comma così modificato dal d. lgs. “correttivo” del 31 ottobre 2024, n. 164 (nella precedente versione introdotta dal d. lgs. 149/2022 il termine di sessanta giorni decorreva dalla comunicazione o in mancanza dalla pubblicazione della sentenza della Corte europea).
[22] Occorre, tuttavia, evidenziare che l’attuazione solo parziale o la mancata attuazione della delega possono comportare una responsabilità politica del Governo verso il Parlamento ma non integrano una violazione di legge costituzionalmente apprezzabile (si v. Corte cost. 11 novembre 2011 n. 304, 8 giugno 1987, n. 218, 12 gennaio 1977 n. 8 e 6 marzo 1975, n. 41), salvo che ciò non determini uno stravolgimento della legge delega (sul punto cfr. Corte cost. n. 12 aprile 2005, n. 149; Corte cost. 29 novembre 2013, n. 283 e 1 luglio 2005 n. 257).
[23] L’art. 35 della Convenzione dispone, infatti, che il ricorso alla Corte EDU possa essere presentato solo dopo che siano state esaurite le forme di ricorso nazionali e, comunque, entro e non oltre sei mesi dal giorno della decisione definitiva assunta dall’autorità nazionale, a meno che non si tratti di denuncia per eccessiva durata della processo.
[24] Si v. sul punto D’ALESSANDRO, Revocazione della sentenza civile e Convenzione europea dei diritti dell’uomo, cit. pg. 216 ss., la quale osserva che il testo della legge delega non sembra prevedere che ad essere revocato sia il giudicato civile, ma soltanto che si siano esaurite le vie di ricorso interne. Dalla lettura dall’inciso «una volta formatosi il giudicato» di cui all’ art. 1, comma 10, lett. a) della citata legge di delega, e «giovandosi dell’argomento sistematico per cui occorre rimuovere proprio e soltanto il provvedimento che integra la violazione convenzionale», l’A. deduce che possano essere revocate anche le pronunce di rigetto della Suprema Corte, qualora abbiano violato la Convenzione: «[…]sembra possibile giungere alla conclusione per cui a poter essere revocate, in questo caso, saranno anche le pronunce della Corte di cassazione che abbiano rigettato un ricorso, quante volte con ciò abbiano violato la Convenzione facendo, per l’effetto, passare in giudicato la decisione della Corte d’appello».
[25] Sul punto si v. ZUFFI, CEDU e giudizio di legittimità: il nuovo rimedio revocatorio esperibile ai sensi dell’art. 391- quater c.p.c., in Il giust. proc. civ., 2023, pg. 115 ss., che a questo proposito, per evitare tale assorbimento, afferma che «[…] dovrebbe sostenersi che il motivo relativo alla violazione della CEDU debba avere una corsia preferenziale ed essere deciso per primo dalla Cassazione in spregio al consueto ordine logico di decisione delle questioni».
[26] Questo trova conferma anche nella stessa relazione illustrativa al d.lgs. 149/2022, dove si legge che i provvedimenti destinati ad essere interessati dal rimedio saranno «tendenzialmente» decisioni della Corte di cassazione. Si v. ZUFFI, CEDU e giudizio di legittimità: il nuovo rimedio revocatorio esperibile ai sensi dell’art. 391- quater c.p.c., cit., pg. 134 ss. che evidenzia come una lettura costituzionalmente orientata delle descritte modifiche «imponga di opinare che la domanda di revocazione per le decisioni emesse nei gradi di merito recanti un vulnus alla CEDU e ai suoi protocolli debba essere presentata allo stesso ufficio giudiziario che emise quei provvedimenti: in questa maniera la disciplina della revocazione non ne uscirebbe stravolta, bensì si profilerebbe per il particolare motivo revocatorio in parola “solo” una deviazione dalle regole ordinarie con riguardo alla forma dell’istanza e alla durata del termine di impugnazione».
[27] Diversamente, in Germania l’art. 580 ZPO trova applicazione anche sul regime del giudicato in ambito amministrativo, in virtù dell’art. 153 Verwaltungsgerichtsordnung (ordinamento del processo amministrativo – VwGO), secondo il cui comma 1 «i procedimenti chiusi e passati in giudicato possono essere riaperti secondo le previsioni contenute nel Libro Quarto della ZPO». Un identico richiamo è previsto nell’art. 134 della Finanzgerichtsordnung (Ordinamento del processo tributario – FGO), e richiami analoghi si trovano nell’art. 79, in combinazione con l’art. 2 I-IV, ArbGG (Ordinamento del processo di lavoro), nell’art. 170 SGG (Ordinamento del processo in materia sociale) e nell’art. 118 FamFG (Ordinamento dei procedimenti in materia di famiglia e giurisdizione volontaria); in Spagna, l’art. 102, comma 2, della legge n. 29/1998, del 13 luglio, che disciplina la giurisdizione amministrativa, prevede che «si potrà presentare un recurso de revisión nei confronti di una decisione giudiziaria definitiva quando la Corte EDU abbia dichiarato che tale decisione sia stata emessa in violazione di alcuno dei diritti sanciti nella CEDU e nei suoi protocolli, purché la violazione, per la sua natura e gravità, comporti effetti ancora persistenti e che non possano cessare in altro modo che con la revisión, senza che questa possa pregiudicare i diritti acquisiti in buona fede da terze persone».
[28] Così ZUFFI, CEDU e giudizio di legittimità: il nuovo rimedio revocatorio esperibile ai sensi dell’art. 391- quater c.p.c., cit., pg. 135 ss.
[29] Secondo D’ALESSANDRO, Revocazione della sentenza civile e Convenzione europea dei diritti dell’uomo, cit., pg. 232, invece, nell’inciso «anche dal procuratore generale presso la Corte di cassazione» la parola “anche” servirebbe a stabilire che, oltre alle parti private (ossia ai ricorrenti vittoriosi a Strasburgo), può esperire il rimedio dell’art. 391-quater pure il procuratore generale, cui verrebbe in questo modo assegnato – come sembra evincersi nella relazione illustrativa al d.lgs. 149/202249 – un ruolo simile a quello che già riveste ex art. 363 c.p.c.
Un ulteriore nodo interpretativo riguarda la portata applicativa del secondo comma dell’art. 397 c.p.c., e segnatamente la questione se l’iniziativa del procuratore generale presso la Corte di cassazione debba ritenersi subordinata al ricorrere delle condizioni previste dal primo comma del medesimo articolo. In altri termini, ci si chiede se il p.g. possa promuovere la revocazione nei soli casi in cui, ai sensi del primo comma, il suo intervento nel giudizio originario fosse obbligatorio e tuttavia non sia stato coinvolto, oppure quando si accerti che la decisione impugnata sia esito di una frode processuale ad opera delle parti. Tale opzione interpretativa, tuttavia, non appare condivisibile dal momento che, in primo luogo, nel nuovo secondo comma non si rinviene alcun richiamo esplicito ai due presupposti elencati al comma precedente; in secondo luogo, essa si rivelerebbe sistematicamente incoerente. Le fattispecie contemplate dal primo comma attengono, infatti, a cause di revocazione già previste dall’art. 395 c.p.c. e, dunque, risultano logicamente estranee al paradigma speciale delineato dall’art. 391-quater c.p.c., che introduce una causa autonoma e peculiare di impugnazione straordinaria fondata sulla violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Occorre considerare, peraltro, che la prima delle due ipotesi previste dal primo comma dell’art. 397 presuppone che lo stesso pubblico ministero obbligato ad intervenire promuova la revocazione per non essere stato sentito: condizione, questa, che non riguarda la figura del procuratore generale presso la Cassazione, soggetto che normalmente non è parte necessaria nei giudizi di merito. Da ciò consegue che subordinare l’operatività del secondo comma a tale presupposto renderebbe la norma di fatto inoperosa.
[30] L’ art. 41 è rubricato «equa soddisfazione» e dispone che «Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa». In seguito ad una sentenza di condanna della Corte EDU sorge, quindi, in capo allo Stato che ha commesso la violazione, in primo luogo, l’obbligo di rimuovere le cause dell’accertata lesione, attraverso misure generali o individuali; in secondo luogo e solo qualora l’accertamento della violazione non costituisca di per sé soddisfazione sufficiente delle ragioni del ricorrente, scatta l’obbligo di corrispondere all’interessato un risarcimento equo, comprensivo del pregiudizio strettamente economico e di quello morale. Nella raccomandazione CM/Rec (2008) è, infatti, ribadito che le sentenze con le quali la Corte ravvisa una violazione di norme della CEDU o dei Protocolli aggiuntivi obbligano gli Stati non solo a pagare la somma liquidata a titolo di equa soddisfazione, ma anche ad adottare, se necessario, misure di carattere individuale volte a porre fine alla violazione accertata dalla Corte e a realizzare, ove possibile, gli standard di tutela richiesti dalla pronuncia e le misure di carattere generale necessarie a porre fine a violazioni simili o a prevenirle. Sul punto cfr. DE SANTIS, DI NICOLA, L’obbligo di conformarsi alle sentenze della Corte EDU tra problematico ampliamento dei motivi di revocazione e (sostanziale) neutralizzazione del giudicato nazionale non-penale, in Il Gius. Proc. civ., 2018, pg. 833 ss.; LIPARI, L’esecuzione delle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo nella giurisdizione amministrativa tra margine di apprezzamento nazionale ed effettività del diritto di difesa: restitutio in integrum, ottemperanza, revocazione e autotutela doverosa, in Il Processo, 2019, pg. 265 ss.
[31] Come anticipato (v. supra nota n. 15) il legislatore francese con la l. 18 novembre 2016, n. 1547, ha introdotto un procedimento ad hoc che consente alle parti, del solo processo convenzionale, di domandare il riesame della sentenza resa in materia di stato delle persone, quando la violazione della convenzione abbia causato un pregiudizio non compensabile con un risarcimento del danno per equivalente.
[32] Art. 1, comma 10, lettera a della l. 26 novembre 2021, n. 206, secondo qui : «Nell’esercizio della delega di cui al comma 1, il decreto o i decreti legislativi recanti modifiche al codice di procedura civile in materia di revocazione a seguito di sentenze emesse dalla Corte europea dei diritti dell’uomo sono adottati nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi: a) prevedere che, ferma restando l’esigenza di evitare duplicità di ristori, sia esperibile il rimedio della revoca- zione previsto dall’articolo 395 del codice di procedura civile nel caso in cui, una volta formatosi il giudicato, il contenuto della sentenza sia successivamente dichiarato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo contrario, in tutto o in parte, alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali ovvero a uno dei suoi Protocolli e non sia possibile rimuovere la violazione tramite tutela per equivalente».
[33] In particolare, nella Relazione illustrativa al d. lgs. n. 149/2022 si afferma che «I casi in cui il rimedio risarcitorio è tendenzialmente inidoneo a rimuovere le conseguenze della violazione convenzionale sono stati individuati attraverso il riferimento alle violazioni di un diritto di stato della persona. Per questi diritti, infatti, il rimedio risarcitorio, in quanto finalizzato ad attribuire un’ utilità economica alternativa, spesso si rivela non del tutto satisfattivo».
[34] Sul punto in senso critico v. ZUFFI, CEDU e giudizio di legittimità: il nuovo rimedio revocatorio esperibile ai sensi dell’art. 391- quater c.p.c., cit., pg. 136, la quale afferma che non può sostenersi «che tale previsione risponda implicitamente al criterio per cui la revocazione va ammessa quando “non sia possibile rimuovere la violazione tramite tutela per equivalente”, perché dalla CEDU e dai Protocolli si evince che la restitutio in integrum dovrebbe essere la via principale, da preferire rispetto a quella della tutela risarcitoria».
[35] D’ALESSANDRO, Revocazione della sentenza civile e Convenzione europea dei diritti dell’uomo, cit., pg. 223 ss.
[36] Circostanza che difficilmente però si verifica dal momento che giudici della Corte Edu non sono in grado di valutare quale sarebbe stato l’esito dell’impugnazione nazionale se la violazione non fosse stata commessa.
[37] L’art. 77 del vigente regolamento, rubricato di «Firma, pronuncia e comunicazione della sentenza», stabilisce che : «1. La sentenza è firmata dal presidente della camera o del comitato e dal cancelliere. 2. La sentenza pronunciata da una camera può essere letta in pubblica udienza dal presidente della camera o da un altro giudice da lui delegato. Gli agenti e i rappresentanti delle parti sono debitamente informati della data dell’udienza. Se la sentenza suddetta non viene letta in pubblica udienza e nel caso delle sentenze emesse da un comitato, la comunicazione prevista al paragrafo 3 del presente articolo ha valore di pronuncia. 3. La sentenza è trasmessa al Comitato dei Ministri. Il cancelliere ne comunica copia alle parti, al Segretario generale del Consiglio d’Europa, ai terzi intervenienti, ivi compreso il Commissario per i diritti dell’uomo del Consiglio d’Europa, e alle altre persone direttamente interessate. L’originale, debitamente firmato, è depositato negli archivi della Corte».
[38] Così ZUFFI, CEDU e giudizio di legittimità: il nuovo rimedio revocatorio esperibile ai sensi dell’art. 391- quater c.p.c., cit., pg. 136; diversamente D’ALESSANDRO, Revocazione della sentenza civile e Convenzione europea dei diritti dell’uomo, cit., pg. 233 ss., la quale, pur affermando che la domanda di revocazione dovrà essere proposta davanti al giudice che ha emesso la decisione dichiarata dalla Corte di Strasburgo contrastante con le garanzie della Convenzione o dei suoi Protocolli, considera poi solo l’ipotesi che il giudizio di revocazione si svolga davanti alla Cassazione, precisando che nel caso, a suo avviso ammissibile, di revocazione delle decisioni di rigetto del ricorso ex art. 360 c.p.c., per potersi ritenere caducata la sentenza di appello (che passa in giudicato), dovrà essere invocato l’art. 336, comma 2, c.p.c.
[39] Sul punto si v. SGROI, La revocazione della pronuncia di Cassazione, in CURZIO (a cura di) La Cassazione civile riformata, pg. 268, che ricomprende nella nozione di stato oltre che le situazioni connesse ai procedimenti in materia di separazione e divorzio, di amministrazione di sostegno, di interdizione, inabilitazione, di dichiarazione di assenza o morte presunta, di adozione, di unioni civili, di filiazione, riconoscimento o dichiarazione di paternità e maternità, di statuizioni in tema di abusi familiari e di rettifica degli atti dello stato civile, anche i diritti in materia di protezione internazionale attinenti allo status di rifugiato o titolare di protezione sussidiaria, quelli in tema di cittadinanza europea e, per gli ambiti sottratti alla giurisdizione amministrativa, quelli connessi allo status di cittadino.
[40] Sul punto si v. SCARSELLI, Note sulla nuova revocazione di cui all’art. 391 quater c.p.c. per contrarietà del giudicato alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in questa rivista, 2024, il quale evidenzia che «se la violazione della Convenzione dei diritti dell’uomo sia caduta, ad esempio, su controversie aventi ad oggetto la filiazione, oppure l’adozione, o ancora la cittadinanza, la rettificazione degli atti di stato civile, ecc….lì è possibile ricondurre il contenzioso al diritto di stato della persona, e quindi chiedere la revocazione della sentenza; ma se il diritto è semplicemente della persona, come, ad esempio, può avvenire nel mondo del lavoro, nel diritto di famiglia, oppure con riferimento al diritto al nome, all’immagine, ecc….., lì non siamo nel campo dei diritti di status, e quindi la violazione della Convenzione relativamente a quei diritti non ammette, e non rende esperibile, la nuova revocazione di cui all’art. 391 quater c.p.c.».
[43] Si v. AULETTA, Uno stress test per la revocazione, cit., pg. 83 ss., spec. 86.
[44] Corte Edu 4 febbraio 2014, Staibano c. Italia, in Gazz. forense 2014, fasc. 4, 194, con nota di CORLETO, così massimata: «La Corte europea dei diritti dell’uomo, nel constatare come il regime transitorio delle controversie sul pubblico impiego in materia di ripartizione della giurisdizione si presti a diverse interpretazioni, ha dichiarato sussistente la violazione dell’art. 6, § 1, della convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali relativo al diritto ad un processo equo, sotto il profilo del diritto di accesso ad un tribunale, avendo riconosciuto che i ricorrenti erano stati privati della possibilità di presentare ricorso all’autorità giudiziaria competente; la corte ha altresì constatato la violazione dell’art. 1 prot. n. 1 alla Cedu avendo qualificato la legittima aspettativa al trattamento previdenziale dei ricorrenti quale bene patrimoniale da tutelare, ritenendo che lo stato italiano non avesse realizzato il giusto equilibrio tra gli interessi pubblici e privati in gioco». Corte Edu 4 febbraio 2014, Mottola c. Italia, così massimata: «Il 7° comma dell’art. 69 d. lgs. 30 marzo 2001 n. 165, pur perseguendo la legittima e condivisibile finalità di effettuare una ripartizione di competenze tra il giudice civile e il giudice amministrativo, nonché di porre dei limiti temporali certi per incardinare le controversie in materia di pubblico impiego, viola il diritto di accesso a una corte di cui all’art. 6 della convenzione europea dei diritti dell’uomo ove, in ragione della pluralità di interpretazioni contrastanti tra loro di cui è stato oggetto, nella sostanza limiti la tutela giurisdizionale dei soggetti che in buonafede abbiano adito un tribunale incompetente e non possano poi trasporre il giudizio presso l’autorità competente»; «Costituisce una violazione dell’art. 1, prot. n. 1 alla convenzione europea dei diritti dell’uomo l’interpretazione autentica dell’art. 69 t.u. sul pubblico impiego, nella parte in cui, disponendo che l’inottemperanza al termine del 15 settembre 2000 per adire il giudice amministrativo per le controversie in materia di pubblico impiego anteriori al 30 giugno 1998 comporti la definitiva perdita del diritto dei soggetti a far valere i propri diritti in materia pensionistica, non garantisce la possibilità di trasporre il giudizio a coloro che lo abbiano già incardinato presso l’ufficio giudiziario ritenuto incompetente».
[45] Corte Edu, 1 luglio 2014, n. 61820/08, Guadagno e a. c. Italia.
[46] Cfr. SCARSELLI, Note sulla nuova revocazione di cui all’art. 391 quater c.p.c. per contrarietà del giudicato alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, cit.
[47] Soltanto un’eventuale declaratoria d’illegittimità costituzionale della restrizione contenuta nell’art. 391-quater, n. 1, c.p.c. per contrasto con gli artt. 76 e 77 Cost. potrebbe restituire coerenza e utilità alla modifica introdotta all’art. 2652 c.c. dal d.lgs. n. 149/2022, ricollegandola alla ratio originaria della sollecitazione dottrinale recepita.
[48] V. infatti le notazioni critiche espresse sul suddetto criterio di delega da D’ALESSANDRO, Revocazione della sentenza civile e Convenzione europea dei diritti dell’uomo, cit., pg. 230; ZUFFI, CEDU e giudizio di legittimità: il nuovo rimedio revocatorio esperibile ai sensi dell’art. 391- quater c.p.c., cit., pg. 143.
[49] Un’occasione mancata in quanto da tempo si sperava il superamento dell’orientamento con cui la Cassazione (Cass. 9 ottobre 2018, n. 24899) – sulla scia dell’arrêt della Grande Chambre di Strasburgo nel caso Ferrazzini c. Italia – professa l’impossibilità di invocare i principi dell’equo processo nel contenzioso tributario. Sul punto cfr. MERONE, Civiltà fiscale, Cedu e diritti del contribuente, in Dir. e proc. tributario, 2021, pg. 47 ss.