La Prelazione Societaria: tra natura negoziale ed efficacia legale. Un approfondimento critico, su una questione giuridica che divide da tempo la dottrina e la giurisprudenza

Di Raffaele Ranieri -

1.Definizione e genesi dell’istituto.

Le clausole di prelazione inserite negli statuti sociali delle società di capitali disciplinano ciò che avviene nel caso in cui il socio sia intenzionato a cedere – in tutto o in parte – la propria partecipazione sociale, prevedendo che costui la offra agli altri soci, di solito in misura proporzionale alle partecipazioni detenute, in modo che costoro possano essere preferiti ai terzi a parità di condizioni.

La finalità di siffatta tipologia di clausole è, tipicamente, quella di contemperare gli interessi dei soci e della società al mantenimento di un asset societario già acquisito, con quelli del socio uscente, in modo da assicurare una stabilizzazione della compagine sociale, tramite la possibilità per i soci non uscenti di mantenere una partecipazione proporzionale tramite l’esercizio della prelazione, senza tuttavia pregiudicare il diritto del socio cedente di realizzare il controvalore economico della sua partecipazione.

Si tratta – mutatis mutandis – di un istituto analogo alle c.d. “clausole di conservazione” ed alle “clausole di gradimento” tipiche delle società di persone, le quali disciplinano un regime convenzionale per i soci superstiti in caso di morte di uno dei soci.

Tuttavia, mentre queste ultime si fondano sull’intuitus personae (che sorregge i rapporti tra soci nelle società di persone), le clausole di prelazione, pur disciplinando una fattispecie di conservazione degli assetti societari per certi versi analoga a quella disciplinata dalle clausole di conservazione e di gradimento, tendono comunque al primario fine di non sacrificare il diritto alla circolazione delle partecipazioni sociali.

Occorre, infatti, non dimenticare che le clausole di prelazione disciplinano la cessione delle partecipazioni di società di capitali, le quali, avendo natura commerciale, hanno la necessità che le loro azioni e le loro quote costituiscano “beni circolanti”.

Dunque, se da un lato con tali clausole è consentito assegnare una “preferenza” ai soci non uscenti nell’acquisto della partecipazione, dall’altro è necessario assicurare al contempo che le partecipazioni delle società di capitali siano liberamente trasferibili, in modo da assicurarne la circolazione e, di conseguenza, la libera entrata di nuovi soci all’interno della compagine sociale, il tutto a tutela degli interessi pubblici alla libera impresa ed alla libera concorrenza (art. 2469 cod. civ.).

Esistono, notoriamente, due tipologie di clausole di prelazione:

prelazione propria, che ricorre quando il socio beneficiario sia messo a conoscenza delle condizioni di cessione della partecipazione sociale e possa, perciò, decidere se esercitare (o meno) la prelazione a parità di condizioni;

prelazione impropria, in cui le condizioni sono rimesse alla determinazione di un terzo (arbitratore), che ne determina il valore sulla base criteri obiettivi e predeterminati dai soci nella clausola stessa.

L’oggetto della presente disamina si sofferma sugli effetti delle clausole di prelazione, a seconda che si verta in ipotesi di violazione della prelazione (mancato preavviso agli altri soci), o di “aggiramento” (ad es. conferimento in altra società, donazione od altri istituti simili).

Gli effetti rilevano, per un verso, riguardo all’efficacia del negozio traslativo in violazione della prelazione verso la società e gli altri soci, e per altro verso riguardo ai terzi (solitamente di buona fede). Va da sé che, se il terzo concorre con il socio uscente nell’aggiramento della clausola statutaria in modo volontario e consapevole si può vertere in ipotesi di natura civilistica come la revocatoria ordinaria o l’annullamento del contratto di cessione per dolo.

L’opinione dottrinale prevalente, seppur risalente, capeggiata dal Prof. Campobasso era quella, secondo cui “l’inserimento della clausola nell’atto costitutivo e la conseguente efficacia reale della stessa, non consentono di avere dubbi sul fatto che la violazione del patto di preferenza comporti l’inefficacia del trasferimento, non solo nei confronti della società, ma anche nei confronti dei soci beneficiari del diritto di prelazione[1].

Secondo l’orientamento del Prof. Campobasso nel suo manuale (risalente agli anni ottanta), la “questione” circa l’efficacia reale della clausola di prelazione statutaria non si porrebbe, così come neppure si porrebbe in dubbio il diritto, per i soci pretermessi, di riscattare dal terzo acquirente le relative partecipazioni.

Una simile impostazione non tiene conto, per ovvie ragioni temporali collegate al periodo storico della sua genesi, del dibattito dottrinale e giurisprudenziale venutisi a creare sul punto negli anni successivi e che hanno fatto sì che vi siano rilevanti questioni giuridiche sono ancora aperte: a) efficacia reale (o solo negoziale) della clausola di prelazione; b) inefficacia del trasferimento per la società ed i soci beneficiari; c) diritto di riscatto (c.d. retratto) verso il terzo acquirente.

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2.La giurisprudenza di legittimità. Origine ed evoluzione.

In chiusura del capitolo che precede, si è osservato come la dottrina prevalente negli anni ottanta e novanta[2] ritenesse pacifica l’inopponibilità del trasferimento della partecipazione (avvenuto in violazione della clausola di prelazione), sia alla società che ai soci pretermessi.

Tale conclusione muove dalla considerazione che i soci pretermessi e la società possono agire come se il trasferimento non vi fosse stato, negando all’acquirente della partecipazione i diritti partecipativi ed economici, ai quali avrebbe viceversa diritto per la sua nuova qualità di socio.

La stessa dottrina[3] riconosceva, all’epoca, la facoltà del c.d. “retratto” della partecipazione sociale alienata in violazione della clausola di prelazione statutaria, ossia di rivendicare dal terzo la partecipazione stessa, versandogli la somma corrisposta a titolo di prezzo.

Non a caso, come si è visto, nel manuale del Prof. Campobasso si leggeva: “… merita di essere condivisa anche l’opinione che riconosce a questi ultimi [n.d.r.: soci beneficiari del diritto di prelazione] il diritto di riscattare dal terzo acquirente le relative azioni[4].

Non sono ovviamente mancate voci dissonanti[5], secondo cui il retratto non era ammissibile e la clausola di prelazione avrebbe rivestito efficacia meramente negoziale (e non legale).

La dicotomia dottrinale sopra citata trova il proprio fondamento nella diversa qualificazione giuridica dell’istituto: secondo la dottrina prevalente, la clausola di prelazione avrebbe “efficacia reale”, mentre per quella minoritaria “efficacia negoziale”.

Nell’originario dibattito dottrinale, inquadrato come innanzi, si è inserita fin da epoca risalente la giurisprudenza di legittimità[6], pronunciatasi, anch’essa in modo non unitario, tendenzialmente in favore della natura negoziale (e non legale) della clausola di prelazione statutaria[7].

Di contro, la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione è sempre stata univoca, invece, per ciò che attiene alle modalità di soppressione della clausola di prelazione, giacché l’art. 2365 comma I cod. civ. prescrive, per tutte le modifiche statutarie (in cui rientra l’eliminazione della clausola di prelazione societaria) i quorum assembleari previsti per le delibere straordinarie[8].

Tornando alla quaestio iuris riguardante la qualificazione giuridica delle clausole di prelazione statutaria, la Suprema Corte di Cassazione ha progressivamente assestato il proprio orientamento nel senso di riconoscere l’efficacia “reale” di tali clausole, pur riconfermandone la natura esclusivamente contrattuale (e non legale).

In tal senso, sono intervenute di recente due pronunce cardine:

– “… non prevede un diritto di prelazione ma consente il relativo patto, così esprimendo il principio di libera trasferibilità delle quote sociali, per cui l’eventuale … prelazione ha fonte non legale, ma negoziale e solo in tale ambito trova la sua disciplina. Ne deriva che la violazione della clausola statutaria contenente un patto di prelazione comporta l’inopponibilità, nei confronti della società e dei soci titolari del diritto di prelazione, della cessione della partecipazione sociale, nonché l’obbligo di risarcire il danno eventualmente prodotto, alla stregua delle norme generali sull’inadempimento delle obbligazioni, e non anche il diritto potestativo di riscattare la partecipazione nei confronti dell’acquirente[9];

– “La violazione della … prelazione comporta, in ragione della sua efficacia reale, l’inopponibilità ai soci e alla società della cessione , nonché l’obbligo di risarcimento del danno. Essa non determina, invece, l’attribuzione del retratto, in quanto forma di tutela che deve essere espressamente prevista dalla legge, non suscettibile di analogia[10].

Ambedue le pronunce citate convengono sul fatto che, essendo l’origine della clausola di prelazione statutaria il contratto sociale, essa abbia una fonte negoziale e non legale. Tale impostazione difficilmente può essere sconfessata, dal momento che, come ben noto, le “fonti” delle obbligazioni sono, ex art. 1173 cod. civ., gli atti, i fatti ed i negozi giuridici; pertanto, quando un’obbligazione deriva da un contratto (negozio giuridico), come nella fattispecie, la sua fonte è sempre convenzionale.

Sempre nelle due pronunce in esegesi, la Suprema Corte di Cassazione ha fornito una interpretazione univoca degli effetti, almeno per ciò che attiene alla società ed ai soci pretermessi, ossia: “inopponibilità, nei confronti della società e dei soci titolari del diritto di prelazione” (nella prima) e “inopponibilità ai soci e alla società della cessione” (nella seconda).

Riguardo agli effetti, dunque, possiamo concludere per una sostanziale univocità dell’interpretazione dell’istituto in sede di legittimità.

Un primo distinguo tra le due pronunce – solo apparente per la verità – pare ravvisabile invece laddove la seconda pronuncia utilizza la locuzione “efficacia reale” riferita alle clausole di prelazione statutaria, che parrebbe richiamare quella “efficacia legale”, viceversa negata.

Non deve, tuttavia, ingannare l’utilizzo della terminologia: la “efficacia reale” non deve essere confusa con la “efficacia legale”.

La prima ricorre ogniqualvolta in cui, per effetto di un determinato negozio giuridico, si determina il trasferimento o la costituzione della proprietà o di altro diritto reale su un determinato bene, mentre la seconda è la astratta capacità di un atto (o di un fatto) giuridico di produrre conseguenze giuridiche rilevanti.

Pertanto, l’efficacia reale è l’effetto possibile (alternativo all’efficacia obbligatoria) di un determinato contratto, mentre l’efficacia legale può essere prodotta tanto da un atto, quanto da un fatto giuridico, per cui essa è qualificabile come un evento generico di rilievo giuridico (perché la legge gli attribuisce siffatta efficacia).

In riferimento alle clausole di prelazione, non vi è dubbio che esse abbiano natura negoziale (c.d. contratto obbligatorio, in quanto, si perfezionano con il “consenso”).

Più complesso è definire se abbiano efficacia reale od obbligatoria.

La giurisprudenza citata assegna a tali clausole un’efficacia reale e per il momento ci limitiamo a dare atto di tale orientamento, che tuttavia, come vedremo nel capitolo seguente, ha avuto una sua evoluzione, seppur non omogenea né lineare.

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3. I contrasti sorti nella giurisprudenza di merito riguardo alla qualificazione giuridica. Gli arresti più recenti.

L’interpretazione della giurisprudenza di legittimità era (ed è), dunque, univoca quanto agli effetti della violazione della clausola statutaria di prelazione, ma non riguardo alla qualificazione giuridica della sua natura, visto che, da un lato, ne afferma la “natura negoziale e non legale” (cfr. Cass. Civ., 03/06/2014 n. 12370) e dall’altro la qualifica come avente “efficacia reale” (cfr. Cass. Civ., 02/12/2015 n. 24559).

Si tratta di una distinzione tutt’altro che accademica, solo che si consideri che in un caso (efficacia negoziale e non reale), l’effetto è quello di renderla sì opponibile ai terzi, ma non di riscattare la partecipazione nei confronti del terzo in caso di violazione della prelazione, mentre nell’altro caso (efficacia reale), il retratto della partecipazione sarebbe un effetto “automatico”.

Proprio la dicotomia interpretativa in seno alla Suprema Corte ha dato origine a diverse interpretazioni giurisprudenziali in sede di merito:

– esiste un primo filone, guidato dal Tribunale di Milano, che qualifica la clausola statutaria di prelazione come avente natura negoziale e non legale (cfr. Trib. Milano, 22/01/2025 in www.giurisprudenzadelleimprese.it a cura di J. Lorenzon, che si rifà a Cass. Civ., 03/06/2014 n. 12370);

– esiste un altro filone (maggioritario, per la verità), che attua un c.d. “doppio binario”, ossia da un lato qualifica giuridicamente la clausola in questione come avente efficacia reale, ma non attribuisce ai soci pretermessi alcun diritto di riscatto della partecipazione verso il terzo (cfr. Trib. Catanzaro, 04/10/2022 in www.giurisprudenzadelleimprese.it a cura di D. D’Antonio; Trib. di Roma, 27/10/2015 in www.giurisprudenzadelleimprese.it a cura di Edoardo, che si rifà a Cass. Civ., 02/12/2015 n. 24559).

Di fatto, pur sussistendo un conflitto interpretativo riguardo alla natura della clausola statutaria di prelazione, entrambi gli orientamenti giurisprudenziali di merito giungono alle medesime conseguenze sul piano pratico, ammettendo l’inopponibilità del trasferimento alla società ed ai soci, oltre che riconoscendo il diritto al risarcimento del danno verso l’alienante, ma negano il diritto di riscatto verso il terzo (c.d. retratto).

Dopo l’acquisto, dunque, il terzo rimane in una sorta di “limbo”, in cui, pur avendo acquisito la partecipazione, potrebbe non godere dei diritti partecipativi ed economici che gli sarebbero dovuti derivare dalla sua nuova qualità di socio.

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4. Conclusioni

La dottrina e la giurisprudenza richiamate ed analizzate convergono, di fatto, sulle conseguenze pratiche dell’istituto delle clausole di prelazione statutaria, seppur muovano da posizioni interpretative completamente diverse del medesimo istituto giuridico.

La convergenza si attua, sul piano degli effetti, riguardo alla inopponibilità della cessione in violazione della prelazione, ma sempre senza alcun diritto di retratto nei confronti del terzo di buona fede.

Definiti, dunque, gli effetti come sopra, rimane aperto il dibattito sulla qualificazione giuridica dell’istituto.

La soluzione della “efficacia reale” suggerita dalla dottrina e non sempre condivisa giurisprudenza maggioritaria fornisce una risposta non soddisfacente: se, infatti, la clausola statutaria avesse efficacia reale, il retratto della partecipazione nei confronti del terzo dovrebbe essere automatico.

Tuttavia, come si è visto, così non è.

La presunta “efficacia reale” delle clausole di prelazione statutaria non pare condivisibile perché in realtà siffatte clausole non trasferiscono né la proprietà, né altro diritto reale (se non la prelazione, che tuttavia non incide direttamente sulla circolazione del bene), ma costituiscono un “obbligo” per i soci riguardo alla procedura da seguire in caso di alienazione della partecipazione ed a chi offrirle primariamente.

Pertanto, la tesi che si tratti di un negozio giuridico “ad effetti reali” non convince, perché la mera stipula di una clausola di prelazione statutaria non comporta l’effetto (reale, appunto) della materiale traditio del bene (la partecipazione) in favore degli altri soci, ma attribuisce loro un semplice diritto di preferenza, a parità di condizioni.

D’altronde, se così non fosse, come detto, anche la questione del retratto della partecipazione sociale in caso di alienazione in violazione della clausola di prelazione dovrebbe essere risolta con il riconoscimento di un diritto automatico sic et sempliciter a rivendicare la partecipazione medesima nei confronti del terzo, anche se di buona fede.

Tuttavia, abbiamo visto che il retratto viene categoricamente escluso dalla giurisprudenza di legittimità, il che conferma l’efficacia obbligatoria (e non reale) delle clausole di prelazione sociale.

Si può, pertanto, affermare che la giurisprudenza di legittimità, pur dibattendo sulla qualificazione giuridica, abbia fornito risposta univoca: la violazione della prelazione comporta l’inopponibilità alla società ed ai soci (incluso il risarcimento del danno), ma non la facoltà di riscattare dal terzo la partecipazione.

Corollario di tale principio risiede nel corretto inquadramento e nella conseguente corretta qualificazione giuridica dell’istituto, alla luce dell’orientamento di legittimità richiamato: si ritiene, pertanto, di poter affermare che le clausole di prelazione statutaria costituiscano obbligazioni di natura negoziale ad effetti obbligatori.

Si ritiene allora maggiormente corretta la tesi della natura obbligatoria del contratto, con il doveroso correttivo del c.d. “effetto riflessodella clausola stessa nella sfera giuridica del terzo acquirente.

Quest’ultimo, infatti, quando acquista una partecipazione sociale in violazione della prelazione statutaria, diviene titolare di una quota che rischia di essere “mutilata”, in quanto i diritti partecipativi ed economici che la stessa assicura al titolare possono essere pregiudicati dalla società o dai soci pretermessi, ove costoro non prestino acquiescenza all’illegittimo trasferimento.

Si tratta di un classico caso – a livello dottrinale – di “effetto riflesso verso i terzidel contratto; l’art. 1372 comma II c.c. stabilisce che esso “non produce effetto rispetto ai terzi”, se non nei casi (tassativi e tipici) previsti dalla legge (ad es. il contratto a favore di terzo ex art. 1411 c.c.).

Fuori da tali ipotesi – come detto tassative e tipiche, non estensibili in via analogica – il contratto non produce effetto nei confronti dei terzi (cfr., ex plurimis: Cass. Civ., sez. I, 10/02/2001 n. 1920).

Esistono, tuttavia, nella pratica ipotesi di effetti c.d. “riflessi” (o “indiretti”) del contratto rispetto ai terzi: si tratta di quei casi in cui il contratto, pur non producendo effetti diretti (inibiti dal principio di “relatività del contratto”), genera comunque effetti riflessi verso i terzi, derivanti dal contratto medesimo: è il caso della vendita di un bene [A] che arrechi danno ad altro bene [B], di proprietà di un terzo; in tal caso, la circolazione del bene [A] genera un effetto “riflesso” sul proprietario del bene danneggiato [B], terzo estraneo rispetto alla compravendita del primo bene. In tal caso, si può affermare che la compravendita ha avuto effetti tra le parti, con effetti “riflessi” nella sfera giuridica di un terzo.

In conclusione, si ritiene corretto affermare che la clausola statutaria di prelazione ha natura negoziale, con efficacia obbligatoria per i soci ed efficacia “riflessa” verso il terzo acquirente in caso di violazione del diritto di prelazione.

Natura negoziale, come si è visto, in quanto la fonte dell’obbligazione è il contratto sociale, di cui la clausola di prelazione è espressione cristallizzata nel relativo statuto sociale.

Efficacia obbligatoria per i soci, giacché nelle società di capitali, tutti i soci sono tenuti ad attenersi alle previsioni dello statuto (artt. 2325 e 2462 cod. civ.), dal momento che delle obbligazioni risponde solo la società con il suo patrimonio. Siccome le clausole di prelazione statutaria sono inserite, come detto, nello statuto sociale, essi costituiscono un precetto per tutti i soci in virtù della partecipazione alla società.

Efficacia riflessa verso il terzo acquirente di buona fede, per tutte le ragioni esposte riguardo alla possibilità che un contratto produca effetti riflessi nei confronti del terzo, seppure esso abbia un’efficacia limitata alle parti del contratto stesso (o loro danti od aventi causa).

La soluzione della natura negoziale con efficacia obbligatoria verso i soci ed efficacia riflessa verso il terzo acquirente pare quella che risponde maggiormente alla natura dell’istituto giuridico, agli effetti ed a tutto ciò che attiene agli elementi caratterizzanti e tipici degli istituti giuridici venuti in rilievo.

 

[1] Cfr.: G.F. Campobasso – Dir. Commerciale – vol. 2 Il diritto delle società – Ed. UTET (XIIa edizione, 2022, pag. 235).

[2] Cfr., ex plurimis: Campobasso, Alessi, Angelici, Revigliono, Libonati e Tucci.

[3] Cfr.: nota n. 2 che precede.

[4] Cfr.: Cfr.: G.F. Campobasso – Dir. Commerciale – vol. 2 Il diritto delle società – Ed. UTET (XIIa edizione, 2022, pag. 235).

[5] Cfr., ex plurimis: Oppo, Corapi, Maccabruni, Gatti e Santorusso.

[6] Cfr.: Cass. Civ., 12/01/1989 n. 93, nel caso di trasferimento a titolo gratuito; Cass. Civ., 02/05/2007 n. 10121, nel caso di trasferimento fiduciario; Cass. Civ., 14/01/2005 n. 691, nel caso di vendita fallimentare

[7] Cfr. ex plurimis: Cassazione Civile, sez. I, 15/07/1993 n. 7859.

[8] Cfr.: Cassazione Civile, sez. I, 19/08/1996 n. 7614 e Cassazione Civile, sez. I, 26/11/1998 n. 12012.

[9] Cfr.: Cass. Civ., sez. I, 03/06/2014 n. 12370.

[10] Cfr.: Cass. Civ., sez. , 02/12/2015 n. 24559.