La domanda di misure coercitive soggiace alle preclusioni assertive?

Di Ulisse Corea -

CORTE DI CASSAZIONE; sezione III, ordinanza del 23 marzo 2024, n. 7927; PRES. TRAVAGLINO; REL. IANNELLO; COMUNE DI AGRIGENTO CONTRO SUPERCONDOMINIO.

 

Esecuzione forzata – Obblighi di fare e di non fare – Provvedimento ex art. 614 bis c.p.c. – Natura – Sindacato della Cassazione – Contenuto e limiti.

Il provvedimento con il quale il giudice del merito, ex art. 614-bis c.p.c., concede (o nega) la misura coercitiva indiretta ha natura di provvedimento in rito. Tale inquadramento giustifica e dà fondamento alla cognizione piena della S.C. per inosservanza della norma processuale.

Il giudice, nella concreta determinazione della misura di coercizione indiretta ex art. 614-bis c.p.c., ha un potere discrezionale circoscritto dai parametri indicati dalla citata norma e deve non solo valutare la proporzionalità della violazione dei diritti patrimoniali del debitore alla luce dello scopo legittimo che il creditore persegue, ma anche darne adeguato conto nella motivazione.

(conferma App. Palermo, 25 novembre 2020, n. 1740)

 

 

CORTE DI CASSAZIONE; sezione III, ordinanza del 23 maggio 2024, n. 14461; PRES. TRAVAGLINO; REL. FANTICINI; DA.MA.DA CONTRO COMUNE DI PALOMBARA SABINA E A.

Esecuzione forzata – Obblighi di fare e di non fare – Domanda di misura di coercizione indiretta ex art. 614-bis c.p.c. – Ammissibilità – Limiti – Preclusioni assertive e probatorie.

L’istanza volta ad ottenere la misura di coercizione indiretta ex art. 614-bis c.p.c. (nella formulazione anteriore alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 149 del 2022) costituisce una vera e propria domanda giudiziale e, come tale, va avanzata prima della maturazione delle preclusioni assertive, poiché non consegue necessariamente alla pronuncia di condanna, a differenza delle spese di lite, e dev’essere determinata tenuto conto di circostanze di fatto – quali il valore della controversia, la natura della prestazione, il danno quantificato o prevedibile – che vanno tempestivamente allegate (e, se del caso, provate), così da consentire alla controparte una compiuta difesa, altrimenti impossibile se la richiesta fosse sottratta alle barriere preclusive del rito.

(cassa App. Roma, sentenza 8 marzo 2021, n. 1734).

Due recenti pronunciamenti della Suprema Corte si occupano in maniera diretta delle misure coercitive di cui all’art. 614-bis c.p.c. sebbene con argomentazioni che tradiscono una diversa ricostruzione dell’istituto, la cui sfuggente natura discende dalla laconica disciplina confezionata dal legislatore[1].

La prima decisione abbraccia, senza soffermarsi sulle ragioni, quell’orientamento dottrinale secondo cui le misure in esame hanno natura processuale venendo erogate da un provvedimento “in rito” che non definisce un rapporto sostanziale né un oggetto del giudizio ma fa nascere un nuovo rapporto obbligatorio la cui funzione è quella, strettamente processuale, di dare esecuzione indiretta alla pronuncia giudiziale.

Su questo rilievo, la S.C. afferma che il sindacato in sede di legittimità per l’inosservanza della norma processuale che disciplina tali misure si può articolare sulla verifica tanto dei presupposti di esistenza del potere (come richiesti dalla norma, a iniziare dalla natura condannatoria del provvedimento da eseguire), quanto del corretto esercizio del potere in punto di liquidazione dell’astreinte. Sotto tale secondo profilo (oggetto del ricorso nel caso di specie), ciò che la S.C. può valutare non è chiaramente il merito della valutazione operata dal giudice quanto la motivazione che assiste il provvedimento “in quanto resa con riferimento concreto ai parametri di riferimento” previsti dall’art. 614-bis c.p.c.

Di tenore opposto è la seconda decisione, di poco successiva, nella quale viene affermato che l’istanza prevista da tale disposizione costituisce “una vera e propria domanda” e, come tale, deve “soggiacere alle barriere preclusive del rito” dovendo perciò essere formulata “prima della maturazione delle preclusioni assertive”.

Dopo aver richiamato un “precedente” in senso conforme[2], in questo caso i giudici della III sezione elencano una serie di argomenti “logici e sistematici” che farebbero propendere per la soluzione prescelta.

Per quanto la pronuncia sia stata resa con riferimento alla versione previgente alla riforma Cartabia, la Corte ritiene che detta soluzione possa a fortiori rendersi preferibile nel nuovo quadro normativo, in quanto, individuando un “momento preclusivo certo”, eliminerebbe le incertezze sulla possibilità di avanzare la medesima domanda al giudice dell’esecuzione evitando in tal modo possibili conflitti.

Prima di esaminare in dettaglio detti argomenti, sarà opportuno illustrare brevemente le alternative sul campo, rilanciate oggi dall’attribuzione della competenza a irrogare la misura anche al giudice dell’esecuzione.

Secondo una parte della dottrina, la statuizione con cui viene irrogata dal giudice la misura coercitiva avrebbe un contenuto di rito, non essendo configurabile un diritto sostanziale a ottenere la misura coercitiva. L’aver attribuito al giudice dell’esecuzione il potere di emettere l’astreinte, oltre a correggere quello che si è affermato essere un errore del legislatore del tempo, confermerebbe la natura puramente esecutiva del provvedimento[3]. In senso opposto, altri vi ha visto un provvedimento cui corrisponde un autonomo diritto soggettivo, traendone la conseguenza di sottoporre la relativa istanza alle preclusioni processuali valevoli per le domande[4]. Vi è, poi, chi identifica le astreintes in un istituto della cognizione, assimilato alla condanna in futuro o a quella condizionale[5], la cui natura non cessa di essere “sostanziale” essendo pur sempre accessoria al diritto principale azionato[6]. In questa ulteriore prospettiva, l’istituto rimarrebbe di natura cognitiva anche qualora si volesse riconoscere all’astreinte la natura di “sanzione civile” o nei casi in cui la misura venga erogata nella sede del processo esecutivo, considerate le crescenti situazioni in cui la legge assegna al giudice dell’esecuzione poteri cognitivi veri e propri.

Le diverse tesi contengono ciascuna un pezzo di verità e occorre evitare una disputa meramente terminologica. È mia opinione che la tesi della natura processuale sia preferibile, ove si consideri che l’istanza per l’irrogazione della misura coercitiva non introduce una nuova situazione soggettiva, non allarga il thema decidendum né il thema probandum, sicché nulla osta alla sua proposizione fino alla precisazione delle conclusioni e anche in appello[7]. Il che non toglie che, nella valutazione della ricorrenza dei presupposti per la sua emissione, il giudice eserciti poteri cognitivi anche qualora la richiesta venga formulata al giudice dell’esecuzione.

Del resto, non convincono gli argomenti addotti in contrario dalla seconda decisione in rassegna per le ragioni che di seguito proverò a esporre.

Il primo argomento risiede in ciò, che a differenza di altri capi accessori, la misura coercitiva non sarebbe una conseguenza necessaria della condanna, come la pronuncia sulle spese, cui il giudice è tenuto a prescindere da un’istanza di parte.

L’argomento non persuade anzitutto perché la necessità di un’istanza di parte non incide sulla natura sostanziale o processuale di un provvedimento: vi sono invero provvedimenti di natura processuale come la condanna di cui all’art. 96 c.p.c. che vengono di regola emessi su istanza di parte senza che ciò incida sulla loro indole e, soprattutto, senza che vengano considerati alla stregua di una vera e propria domanda giudiziale, proprio in considerazione della loro natura accessoria[8].

Neppure pare concludente il rilievo per cui i presupposti della misura si basano su circostanze che devono essere tempestivamente allegate (e, se del caso, provate), consentendo così alla parte avversaria una compiuta difesa che non sarebbe possibile se la domanda potesse essere avanzata oltre la barriera preclusiva stabilita per la proposizione delle domande e delle eccezioni o dopo la delimitazione del thema probandum.

All’argomento addotto dalla Corte si può replicare che gli elementi fattuali che il giudice deve considerare per la concessione della misura sono pur sempre quelli tempestivamente allegati oltre a quelli emersi successivamente al maturare delle preclusioni e come tali allegabili anche dopo la scadenza dei relativi termini. Ciò dunque non toglie che il giudice possa pronunciarsi su una istanza proposta al momento della precisazione delle conclusioni o finanche in appello, magari proprio a seguito del mancato adempimento alla condanna da parte del soccombente.

Né si vede per quale ragione si “limiterebbe ulteriormente il diritto di difesa della parte avversaria” qualora si ammettesse la proponibilità dell’istanza in appello anche al momento della precisazione delle conclusioni. Rimane fermo infatti che gli elementi che dovrebbero sostanziare l’istanza sarebbero pur sempre i medesimi già acquisiti agli atti di causa.

Inoltre, a voler equiparare l’istanza in esame a una vera domanda, se ne dovrebbe trarre la conseguenza che l’attore potrebbe proporla non già al momento della maturazione delle preclusioni assertive ma, ancor prima, solo con l’atto introduttivo del giudizio (e il convenuto, solo con la comparsa di risposta), il che sembra eccessivamente restrittivo e finirebbe per relegare l’utilizzo di questo istituto a un numero marginale di casi, contrariamente alla volontà manifestata dal legislatore attraverso le due riforme di promuoverne una maggiore diffusione.

Infine, come già rilevato, l’ultimo argomento cui la Corte lega la soluzione prescelta è quello sistematico di fissare un momento preclusivo certo onde evitare, nel regime post-Cartabia, ogni possibilità di conflitto con la nuova competenza del giudice dell’esecuzione. Il punto merita maggiore riflessione.

Come noto, con locuzione quantomeno anodina, il secondo comma dell’art. 614-bis c.p.c. prevede che l’istanza al giudice dell’esecuzione possa essere formulata solo quando la misura non sia stata “richiesta” al giudice della cognizione: il che pone, in effetti, un problema di possibili conflitti di competenza tra le due autorità.

Sotto un primo aspetto, si potrebbe ritenere che, posto che l’istanza non incorre nelle preclusioni del giudizio di merito ed è proponibile anche per la prima volta in appello[9], il giudice dell’esecuzione possa intervenire solo quando non sia stata richiesta nell’intero corso del processo e non vi sia più ormai alcuna possibilità di proporla al giudice della cognizione per l’esaurimento dei rimedi impugnatori, diversamente la parte sarebbe tenuta a proporla in appello. A ben vedere, però, questa lettura risulterebbe eccessivamente rigorosa e neppure conforme alla ratio “espansiva” della riforma, dovendosi piuttosto ritenere che la parte sia solo facoltizzata a proporre l’istanza anche nel giudizio di appello, in alternativa alla possibilità di adire direttamente il g.e., scelta questa senz’altro più lineare ed efficace, non fosse altro che per il risparmio di tempo[10].

Se questa soluzione è corretta, dovrebbe ritenersi che analoga facoltà risieda in capo alla parte che abbia ottenuto un provvedimento cautelare non munito di astreinte ma che intenda proporre istanza in tal senso. Posto che il giudice che ha emesso il provvedimento cautelare può essere adìto in ogni tempo per l’attuazione del medesimo, pare corretto concludere che in una siffatta situazione la parte possa scegliere se ricorrere al giudice della cautela ai sensi dell’art. 669-duodecies c.p.c., quale giudice della “cognizione” o al giudice dell’esecuzione ex art. 614-bis, secondo comma, c.p.c., competente per il fatto che al primo la misura “non è stata richiesta”.

Per converso, non sembra più plausibile la soluzione di rivolgersi al giudice della cognizione con autonoma domanda finalizzata solo a munire di astreinte un provvedimento di condanna emesso in precedente giudizio e passato in giudicato[11]: in tal caso, deve ritenersi che la competenza del giudice della cognizione sia venuta meno e residui la sola possibilità di proporre istanza al giudice dell’esecuzione, non essendo stata “richiesta” la misura al primo giudice.

Non potrà invece ricorrersi al giudice dell’esecuzione in caso di rigetto dell’istanza in sede di cognizione e, stando al tenore letterale della nuova disposizione, (sembrerebbe) neppure in caso di omessa pronuncia. In realtà, in quest’ultimo caso non vi è ragione di escludere la competenza del g.e.: la logica seguita dal legislatore sembra infatti quella di non provocare interferenze tra il giudice della cognizione e quello dell’esecuzione, interferenze che non hanno ragione di porsi allorché l’istanza al giudice della cognizione sia rimasta del tutto trascurata (sempre che, ovviamente, non possa dirsi implicitamente rigettata)[12].

Se si condividono i suesposti rilievi, anche l’ultimo argomento fornito dalla Corte non pare decisivo a far propendere per l’equiparazione dell’istanza volta all’erogazione di misure coercitive a una “vera e propria domanda” giudiziale, con ciò che ne consegue circa il regime di preclusione. Assoggettare alle preclusioni assertive l’istanza ex art. 614-bis c.p.c. non solo contraddice la sua natura ma non arreca benefici nel riparto di competenza con il giudice dell’esecuzione, ricavabile senza particolari patemi in via interpretativa alla luce di quanto sopra si è detto[13].

Si deve, pertanto, concludere che la sua natura di provvedimento accessorio alla condanna e funzionale all’esecuzione spontanea della sentenza escluda che la relativa istanza debba essere formulata prima delle preclusioni assertive, fermo restando che gli elementi fattuali e le prove addotte a sostegno della stessa dovranno comunque rispettare tali barriere (ove non sopravvenuti).

[1] Per un approfondimento del tema, si consenta il rinvio a U. Corea, Condanna civile e misure coercitive, 2023, passim; Id., L’art. 614-bis c.p.c. nel prisma della tutela giurisdizionale, in www.judicium.it.

La dottrina, avallata dalla Corte di cassazione, ne evidenzia in prevalenza una duplice finalità, che ne metterebbe in luce i profili più rilevanti: una funzione anzitutto compulsoria, ovvero tesa a stimolare l’adempimento alle statuizioni del provvedimento di condanna sotto pena del pagamento di una somma di denaro, secondo modalità variamente articolate in rapporto alla eventuale inosservanza o al ritardo; in secondo luogo sanzionatoria, ove riguardata ex post, nella misura in cui, non essendosi realizzata la prima funzione, in mancanza di esatto adempimento da parte del soggetto tenuto, questi sarà chiamato a corrispondere alla controparte una somma di denaro; in giurisprudenza, cfr. Cfr. Cass., 15 aprile 2015, n. 7613, in Danno e resp., 2015, 1155; Cons. St., Ad. Plen., 26 giugno 2014, n. 15, in Corr. giur., 2014, 1406, con nota di F.G. Scoca. Nella precitata sentenza, la Corte di cassazione (la quale prende le mosse dalla verifica di compatibilità con l’ordine pubblico italiano di una astreinte proveniente dall’ordinamento belga e indugia sulle differenze tra questo provvedimento e i c.d. punitive damages) rimarca la differenza tra risarcimento del danno e astreinte, riconducendo al primo funzione reintegrativa e alla seconda funzione coercitiva di stimolo all’adempimento. La sentenza non nega che vi siano dei punti in comune, segnatamente il fatto che entrambi mirino all’adempimento, l’astreinte in modo diretto nell’ambito della relazione tra le parti derivante dal provvedimento giudiziale, il risarcimento punitivo con proiezione futura verso l’obbligo di neminem ledere o l’obbligazione contrattuale principale, restando però il contenuto suo proprio quello di una sanzione per la violazione già intervenuta. Ma il parallelismo si estende anche in senso inverso, posto che pur conservando l’astreinte una funzione eminentemente coercitiva, “ex post funziona anche come sanzione per il suo contrario”. Eppure la differenza resta fondamentale: l’astreinte non ripara un danno in favore di chi l’ha subito ma lo minaccia a chi non si comporta nel senso desiderato.

[2] Si tratta di Cass., 9 dicembre 2019, n. 32023, dove per la verità solo in un mero obiter si afferma che nella specie l’istanza era stata inammissibilmente proposta nel giudizio di appello in violazione dell’art. 345, comma 1, c.p.c.

[3] F.P. Luiso, Diritto processuale civile, III, Milano, 2024, 246 ss.; Mandrioli, Carratta, Diritto processuale civile, IV, Torino, 2024, 212, secondo cui, ove emesso dal giudice dell’esecuzione, il provvedimento non sarebbe assimilabile a quello pronunciato con la condanna in sede cognitiva, limitandosi a “integrare” il titolo esecutivo già esistente con la misura accessoria, e in quanto atto esecutivo sarebbe opponibile ex art. 617 c.p.c.

[4] A.M. Soldi, Manuale dell’esecuzione forzata, Milano, 2024, 2534; contra Luiso, Diritto processuale civile, III, cit., 247; G. Olivieri, Le misure coercitive indirette riformate, in Inexecutivis, 2023, §2.

[5] Capponi, Manuale di diritto dell’esecuzione civile, Torino, 2017, 36; Id., Diritto dell’esecuzione civile, Torino, 2025, 28 ss.

[6] B. Sassani, Possono gli arbitri pronunciare l’astreinte?, in www.judicium.it, 3 ss., il quale comunque esclude che l’istanza di astringente possa essere equiparata tout court a una domanda giudiziale ed essere perciò soggetta al regime di preclusioni: questo “è un dato tecnico-procedimentale che deriva non dalla sua mancanza di “sostanza” (dalla sua natura meramente processuale, come si dice) ma dal fatto che la relativa materia del contendere non è tale da imporre esigenze di ordine processuale e di contraddittorio. La sua cognizione è un elementare aposteriori, che si esaurisce nella fissazione dei presupposti, sicché non vi sono ragioni cogenti per uniformarne il trattamento a domande che impongono una cognizione ad hoc e richiedono garanzie per la controparte (e quindi termini a favore di questa e dell’ordine di svolgimento del processo)”.

[7] Conf. G. Olivieri, Le misure coercitive indirette riformate, cit., §2; B. Capponi, L’art. 614-bis c.p.c. (versione 2022) e il giudice dell’esecuzione, in Foro it., 2024, V, 167.

[8] È l’orientamento prevalso a far data da Cass., 15 maggio 2018, n. 11792, in forza del quale il rigetto della domanda ex art. 96 c.p.c. non dà luogo ad una ipotesi di pluralità di domande effettivamente contrapposte idonea a determinare la soccombenza reciproca ai fini della compensazione delle spese di lite.

[9] B. Capponi, L’art. 614-bis c.p.c. (versione 2022) e il giudice dell’esecuzione, cit., 167; C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, I, Torino, 2023, 74.

[10] In termini, B. Capponi, L’art. 614-bis c.p.c. (versione 2022) e il giudice dell’esecuzione, cit., 167, il quale osserva come valga anche il contrario, nel senso che proposta l’istanza al giudice dell’esecuzione non sarà possibile proporla nella sede cognitiva in appello.

[11] Tale possibilità, paventata anche in dottrina, è stata riconosciuta dalla citata Cass. 9 dicembre 2019, n. 32023, secondo cui “la legge non esclude in modo univoco la proposizione successiva in separato giudizio della richiesta di emanazione della misura di coercizione indiretta, in un’ottica di progressivo rafforzamento della tutela di tali categorie di creditori. E’ pur vero che la norma in questione prevede esplicitamente che la pronuncia di fissazione delle misure indirette di coercizione avvenga con il provvedimento di condanna ma nulla esclude che il creditore possa introdurre in un secondo tempo e in separato giudizio tale richiesta, in esplicazione del principio dispositivo, a patto di giustificare adeguatamente la separata proposizione delle richieste e la conseguente frammentazione dell’istanza di tutela, evitando una eventuale contestazione di “abuso del processo” e spiegando la propria condotta in una prospettiva di progressiva e bilanciata reazione all’avversario inadempimento”.

[12] In tal senso, anche G. Olivieri, Le misure coercitive indirette riformate, cit., §2.

[13] Si è ritenuto che, se il potere esercitato dal g.e. è un potere cognitivo esso sarà direttamente impugnabile con regolamento, senza che si debba ritenere assoggettabile a tale strumento solo la sentenza che concluda l’eventuale opposizione agli atti avverso detto provvedimento, come sostenuto da un consolidato orientamento della Cassazione: B. Capponi, L’art. 614-bis c.p.c. (versione 2022) e il giudice dell’esecuzione, cit., 168