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La decisione conforme alla proposta definitoria ex art. 380 bis, comma terzo, c.p.c.: una forma codificata di abuso del processo o una mera presunzione?
Di Silvia Rusciano -
Sommario: 1. Premessa: la questione e le soluzioni della Corte di Cassazione; 2. I principi direttivi della legge delega e la vigente formulazione dell’art. 380 bis c.p.c.; 3. L’interpretazione dell’istituto della responsabilità ex art. 96, comma 3, c.p.c.; 4. Illogicità e contrasto con i principi del giusto processo civile della interpretazione severa.
Cass. civ., Sez. Un., ord., 22.09.2023, n. 27195
In tema di procedimento per la decisione accelerata dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati, di cui all’art. 380 bis c.p.c. (come novellato dal d.lgs. n. 149 del 2022), la condanna del ricorrente al pagamento della somma di cui all’art. 96, comma 4, c.p.c. in favore della cassa delle ammende – nel caso in cui egli abbia formulato istanza di decisione (ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 380 bis c.p.c.) e la Corte abbia definito il giudizio in conformità alla proposta – deve essere pronunciata anche qualora nessuno dei soggetti intimati abbia svolto attività difensiva, avendo essa una funzione deterrente e, allo stesso tempo, sanzionatoria rispetto al compimento di atti processuali meramente defatigatori.
Cass. civ., Sez. Un., ord., 27.09.2023, n. 27433
In tema di procedimento per la decisione accelerata dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati, l’art. 380-bis, comma 3, c.p.c. (come novellato dal d.lgs. n. 149 del 2022) – che, nei casi di definizione del giudizio in conformità alla proposta, contiene una valutazione legale tipica della sussistenza dei presupposti per la condanna ai sensi del terzo e del quarto comma dell’art. 96 c.p.c. – codifica un’ipotesi normativa di abuso del processo, poiché non attenersi ad una valutazione del proponente poi confermata nella decisione definitiva lascia presumere una responsabilità aggravata del ricorrente.
Cass. civ., Sez. I, 11.07.2023, n. 19749
In tema di procedimento per la decisione accelerata dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati, l’art. 380 bis, comma 3, c.p.c. (come novellato dal d.lgs. n. 149 del 2022) – che, nei casi di definizione del giudizio in conformità alla proposta, contiene una valutazione legale tipica della sussistenza dei presupposti per la condanna ai sensi del terzo e del quarto comma dell’art. 96 c.p.c. – codifica un’ipotesi normativa di abuso del processo, poiché non attenersi ad una valutazione del proponente poi confermata nella decisione definitiva lascia presumere una responsabilità aggravata del ricorrente.
1. Con le prime due pronunce, rese a distanza di pochi giorni, il massimo Collegio della nomofilachia adotta l’interpretazione più severa del rinvio dell’art. 380 bis, comma terzo, c.p.c. all’art. 96, comma terzo e quarto, c.p.c., sostanzialmente ritenendo che laddove la decisione sollecitata dalle parti sia conforme alla proposta presidenziale debba automaticamente trovare applicazione la sanzione punitiva a favore dell’avversario e della cassa delle ammende, con conseguente condanna di una somma di denaro (equitativamente determinata a favore della controparte e, nei limiti indicati dall’ultimo comma dell’art. 96 cit., a favore della cassa ammende).
In particolare a giudizio delle Sezioni Unite l’impulso delle parti, volto a sollecitare una ulteriore attività per la Corte rivelatasi inutile ai fini della decisione, rappresenta una condotta codificata di abuso del processo che, pertanto, non lascia margini valutativi al giudice di legittimità (a differenza del giudice di merito, che invece può – non deve – d’ufficio applicare la condanna punitiva).
Nel primo caso, invero, già nella proposta di definizione della controversia veniva evidenziata l’inammissibilità del ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 362 c.p.c. e 111 Cost.: l’impugnazione mirava sostanzialmente a sollecitare la Corte ad una valutazione circa l’erroneo esercizio e le modalità della potestà giurisdizionale (le condizioni di ammissibilità dell’istanza di revocazione presentata al Consiglio di Stato, nonché l’apprezzamento dell’errore di fatto operata dal giudice a quo in ordine alla costituzione nel giudizio di appello di una parte) , senza contestazione alcuna circa la violazione dei limiti esterni della giurisdizione.
Nel caso di specie, la Cassazione ha ritenuto applicabile il nuovo art. 380 bis c.p.c. ratione temporis[1], qualificando nella parte motiva della decisione (che ha il sapore anche di un avvertimento pro futuro) l’ipotesi di applicazione automatica in cassazione degli ultimi due commi dell’art. 96 (che si aggiungono in astratto alla applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, sussistendone i presupposti) come fattispecie legali e codificate di abuso del processo.
Nella controversia che ha occasionato l’intervento della Corte n. 27433.2023, l’inammissibilità della pronuncia definitiva era anch’essa derivata dalla violazione degli artt. 362 c.p.c. e 111. Cost.: veniva sì dal ricorrente rimproverato al Consiglio di Stato di essere incorso in eccesso di potere giurisdizionale e diniego di giurisdizione per avere omesso di esaminare un motivo (ritenuto assorbito dai primi giudici) e riproposto con l’atto di appello (motivo con cui si deduceva che il titolo legittimante il diritto al rilascio del permesso di costruire era rappresentato dalla diffida del Comune ad eseguire l’adeguamento degli impianti), ma in sostanza si allegava null’altro che un classico error in procedendo, come correttamente già era stato evidenziato nella proposta di definizione accelerata e dunque non integrante un motivo attinente alla giurisdizione. Anche con questa pronuncia, la Cassazione ritiene codificata una ipotesi di abuso del processo, “peraltro già immanente nel sistema processuale (da iscrivere nel generale istituto del divieto di lite temeraria nel sistema processuale). Non attenersi ad una valutazione del Presidente della Sezione che poi trovi conferma nella decisione finale lascia certamente presumere una responsabilità aggravata”.
Nell’ultimo caso, in materia di protezione internazionale, l’inammissibilità dell’impugnazione oggetto della proposta di definizione del giudizio derivava dal difetto di procura, apposta su foglio separato e materialmente congiunto al ricorso, priva della certificazione da parte del difensore della data di rilascio, ai sensi del d. lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, comma 13, non avendo il ricorrente ottemperato all’onere per il difensore di certificare specificamente la data di conferimento della procura, che invece deve essere conferita posteriormente al momento della pubblicazione della decisione impugnata.
La prima sezione della Corte fa conseguire dalla decisione finale – perfettamente simmetrica rispetto alla proposta definitoria – l’applicazione del solo quarto comma dell’art. 96, ritenendo (giustamente) che la mancanza di attività difensiva dell’intimato impedisce l’applicazione della sanzione pecuniaria a favore della controparte.
Leggendo, però, il provvedimento per esteso emerge una diversa lettura del rinvio all’art. 96 citato: la Corte, in tal caso, compie la valutazione – seppur minima – circa i presupposti legittimanti l’applicazione dell’art. 96 c.p.c. Si legge, testualmente, in motivazione: “Poiché il ricorso è deciso in conformità alla proposta formulata ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., vanno applicati – come previsto dal comma 3, ultima parte, dello stesso art. 380-bis c.p.c. – il terzo e il quarto comma dell’art. 96 c.p.c.; non potendo operare il comma 3, in difetto di costituzione della parte intimata e di pronuncia sulle spese, va disposta, ai sensi del comma 4 dell’art. 96 c.p.c. e stante la colpa grave del ricorrente, nell’avere chiesto, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 380 bis c.p.c., a fronte di proposta di definizione accelerata di inammissibilità per difetto di valida procura alle liti, la decisione del ricorso senza aver adoperato la normale diligenza per acquisire la coscienza dell’infondatezza o dell’inammissibilità della propria iniziativa processuale …, la condanna della parte ricorrente al pagamento di una somma – nei limiti di legge – in favore della Cassa delle Ammende”.
La questione esegetica attiene alla portata del richiamo ai commi terzo e quarto dell’art. 96 c.p.c., contenuto nell’art. 380 bis, comma 3, c.p.c.: il tenore letterale del richiamo, nella parte in cui stabilisce che la Corte quando definisce il giudizio in conformità alla proposta applica il terzo e il quarto comma dell’articolo 96 pone la questione se, in tal modo, il legislatore abbia inteso codificare un’ipotesi normativa di abuso del processo, vincolando l’organo giudicante nell’applicazione della relativa sanzione, ovvero se ad esso sia, comunque, rimessa una valutazione discrezionale in ordine alla sussistenza dei presupposti della responsabilità aggravata[2].
2. Il legislatore, allo scopo di assicurare meccanismi di accelerazione del processo e di rafforzare i principi di lealtà, trasparenza e soprattutto di collaborazione delle parti in una visione economicistica del processo (ove la limitatezza della risorsa giustizia assume la qualità di faro guida nella esegesi delle disposizioni processuali) ha introdotto il nuovo procedimento per la definizione accelerata dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati, riscrivendo l’art. 380 bis c.p.c.[3]
Il nuovo schema procedimentale ruota intorno alla possibilità per il presidente della sezione, o un consigliere da lui delegato, che ravvisi l’inammissibilità, l’improcedibilità o la manifesta infondatezza del ricorso, di formulare una proposta sintetica di definizione del giudizio, da comunicare ai difensori delle parti. Ove la parte ricorrente non richieda la decisione, il ricorso si intende rinunciato, con conseguente estinzione del processo. Per contro, ove venga richiesta la decisione ed il giudizio venga deciso dal collegio in conformità alla proposta, “la Corte … applica il terzo e il quarto comma dell’articolo 96”[4].
Tale ultima previsione (che ha il sapore di una velata minaccia), viene giustificata dal legislatore sulla base della seguente circostanza: come si legge nella Relazione illustrativa al d. lgs. 149/2022, trattasi di “conseguenza disincentivante” a fronte di un filtro negativo. In particolare, “la previsione non risponde ad un intento punitivo o sanzionatorio, ma è la realistica presa d’atto del fatto che la giurisdizione è una risorsa limitata. Sicché appare conforme al sistema che il costo dell’aggravio per il servizio giustizia sia sostenuto da colui che, nonostante una prima delibazione negativa, abbia chiesto comunque una valutazione supplementare collegiale senza che ne sussistessero fondate ragioni”[5].
Invero, la legge delega – lungi dal prevedere la sanzione processuale per la “ribellione” del ricorrente alla proposta presidenziale – stabiliva un diverso principio direttivo (l. 206/2021, art. 1, co. 9, lett. e): nell’introdurre un procedimento accelerato rispetto all’ordinaria sede camerale, si stabiliva – infatti – che “se nessuna delle parti chiede la fissazione della camera di consiglio nel termine di venti giorni dalla comunicazione, il ricorso si intenda rinunciato e il giudice pronunci(a) decreto di estinzione, liquidando le spese, con esonero della parte soccombente che non presenta la richiesta di cui al presente numero dal pagamento di quanto previsto dall’articolo 13, comma 1-quater, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115”. In sostanza, il legislatore delegato intendeva così premiare la parte ricorrente che, omessa l’attività di impulso, tacitamente accetta la valutazione proposta.
La questione nascosta è, forse, altra: qualificare l’ipotesi come forma di abuso del processo codificata significa, sostanzialmente, privare la parte del diritto alla decisione completa (seppure di rigetto) e implica anche la negazione del diritto a vedere risolta l’impugnazione di legittimità da un organo collegiale[6].
In forza di un elemento spurio ed esterno al processo e, ancora, certamente a-giuridico (mancanza di risorse sufficienti a far funzionare il sistema nel suo complesso), il ricorrente che persevera nell’errore è tenuto, a prescindere dalla gravità (e varietà) del motivo del rigetto (inammissibilità, improcedibilità o manifesta infondatezza), a pagare una somma alla controparte (oltre che alla cassa ammende)!
3. Per lungo tempo il regime della soccombenza si è retto su un doppio binario: quello ordinario del rimborso delle spese di lite e quello aggravato del risarcimento del danno in caso di lite temeraria. Nel 2006, in occasione dell’intervento riformatore del giudizio civile di cassazione, il legislatore ha introdotto, per la prima volta, una prescrizione inedita a corredo di tale regime della soccombenza: l’art. 385 c.p.c.[7], nel disciplinare le spese di lite con il richiamo dell’ordinario regime del codice di rito, prevedeva, al quarto comma, che «quando pronuncia sulle spese, anche nelle ipotesi di cui all’art. 375, la corte, anche d’ufficio, condanna, altresì, la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma, equitativamente determinata, non superiore al doppio dei massimi tariffari, se ritiene che essa ha proposto il ricorso o vi ha resistito anche solo con colpa grave»; disposizione questa destinata ad avere vita breve, giacché abrogata dall’art. 46, comma 20, della legge 18 giugno 2009 n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile).
La misura suddetta si traduceva in una somma diretta a sanzionare sia il ricorrente che, con colpa grave, avesse proposto il ricorso per cassazione, sia l’intimato che parimenti versasse in colpa grave nel resistere con controricorso; somma che era sì determinata secondo un criterio equitativo, ma con un limite ben preciso parametrato al doppio del massimo delle tariffe professionali.
In giurisprudenza[8] tale somma veniva qualificata come «una vera e propria sanzione processuale dell’abuso del processo perpetrato da una delle due parti».
Nel 2009 tale disposizione è stata abrogata, ma contestualmente una norma analoga è stata introdotta nell’ordinaria disciplina delle spese di lite riferita a tutti i giudizi e non più solo a quello di cassazione: il terzo comma dell’art. 96 c.p.c.[9] – come già ricordato – prevede che «in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata».
La funzione di questa somma è rimasta la stessa di quella prevista dal quarto comma dell’art. 385 c.p.c.: una sanzione per l’abuso del processo a opera della parte soccombente mediante la condanna di quest’ultima, anche d’ufficio, al pagamento di tale somma in favore della controparte, oltre al (o indipendentemente dal) risarcimento del danno per lite temeraria.
Però, rispetto al quarto comma dell’art. 385 c.p.c., il terzo comma dell’art. 96 c.p.c. presenta un duplice elemento differenziale, come sottolineato dalla Consulta[10]: “da una parte, non si prevede più, come presupposto della condanna, la «colpa grave» della parte soccombente, perché l’incipit della disposizione … fa riferimento a «ogni caso», scilicet, di responsabilità aggravata che, come enunciato nella rubrica della disposizione, ne costituisce l’oggetto, sicché devono intendersi richiamati i presupposti del primo comma: aver la parte soccombente agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 20 aprile 2018, n. 9912). D’altra parte, soprattutto rileva … che il criterio di quantificazione della somma, oggetto della possibile condanna, è rimasto solo equitativo, non essendo più previsto il limite del doppio dei massimi tariffari”.
Oggi, una serie di disposizioni[11] – che integrano la disciplina delle spese di lite in sistemi processuali distinti (civile, amministrativo, contabile, tributario), ma ormai tra loro comunicanti dopo l’introduzione della translatio iudicii (ex art. 59 della legge n. 69 del 2009) – seppur declinate con alcune varianti, hanno una matrice comune: il contrasto dell’abuso del processo, sanzionato, in particolare, con la condanna della parte soccombente a favore della parte vittoriosa di una somma equitativamente determinata dal giudice.
Questa obbligazione, che si affianca al regime del risarcimento del danno da lite temeraria, ha natura sanzionatoria dell’abuso del processo, commesso dalla parte soccombente, non disgiunta da una funzione indennitaria a favore della parte vittoriosa[12].
Ciò perché l’attribuzione patrimoniale – a differenza di varie altre norme del codice di rito che sanzionano con pene pecuniarie specifiche ipotesi di abuso del processo, quali quelle dell’inammissibilità o rigetto della ricusazione del giudice (art. 54, terzo comma, c.p.c.) e dell’arbitro (art. 815, quarto comma, c.p.c.), o dell’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva o dell’esecuzione della sentenza impugnata (artt. 283, ultimo comma, e 431, quinto comma, c.p.c.), o dell’inammissibilità, improcedibilità o rigetto dell’opposizione di terzo (art. 408 c.p.c.) – è riconosciuta proprio in favore della parte vittoriosa, al di là del danno risarcibile per lite temeraria, e non già – come si sarebbe portati a ritenere, stante la funzione meramente pubblicistica della disposizione – in favore dell’Erario, benché sia proprio l’amministrazione della giustizia a subire un pregiudizio come disfunzione e intralcio al suo buon andamento.
Nell’ipotesi, invece, qui considerata, in forza del mero richiamo dell’art. 380-bis cit., si viene a determinare un ibrido: tipizzazione della condotta processuale in termini di abuso del processo cui consegue una attribuzione patrimoniale in favore della parte vittoriosa!
4.Tra le due astratte soluzioni estreme, pare potersi preferire quella intermedia: la Corte non deve in automatico condannare la parte ricorrente che non si è accontentata delle proposta definitoria al pagamento della somma a favore della controparte, né è tenuta in ogni caso ad effettuare una valutazione specifica della abusività della sua specifica condotta, bensì il legislatore ha inteso porre una presunzione circa la sussistenza delle condizioni richieste per l’applicazione dell’art. 96 citato. Non può escludersi, infatti, che le peculiarità del caso concreto (conferma della proposta presidenziale con correzione della motivazione, ad esempio) possano giustificare la mancata applicazione delle sanzioni[13].
La lettera dell’art. 380 bis c.p.c. non è dirimente per la individuazione della soluzione più corretta: è, infatti, vero che la norma utilizza l’indicativo (applica) nel rinviare all’art. 96 citato, ma quest’ultima disposizione attribuisce un mero potere al giudice, verificate le condizioni di mala fede e colpa grave[14]. Carattere neutrale può attribuirsi anche alla Relazione illustrativa, che – anzi – pare suggerire la soluzione qui proposta: “nel caso in cui la Corte definisca il giudizio in conformità alla proposta, infatti, si è ritenuto opportuno inserire un espresso richiamo all’applicabilità delle disposizioni di cui all’articolo 96, terzo e quarto comma, così come modificate in attuazione della delega: nel caso di decisione conforme alla proposta di definizione, quindi, la parte ricorrente sarà condannata al pagamento di una somma di denaro tanto in favore della controparte, quanto della cassa ammende”. Applicabilità non necessariamente significa automatica applicazione.
Non accogliere una tale soluzione e ritenere che sia sufficiente la mera richiesta del ricorrente ad ottenere la decisione del collegio e la stessa decisione della Corte conforme alla proposta presidenziale per l’applicazione dell’ulteriore condanna in favore della controparte e dell’Erario appare irragionevole, prima ancora che contraria ad ogni regola del giusto processo.
L’irragionevolezza della soluzione si percepisce già tenendo conto delle diverse ipotesi di inammissibilità delle impugnazioni e, in particolare, del caso contemplato dall’(ancora vigente) art. 360 bis c.p.c.; rende più evidente la gravità di una interpretazione severa la circostanza di prevedere comunque la condanna del ricorrente al pagamento di una somma a favore della controparte per sanzionare un comportamento processuale che, pur non recando alcun danno all’avversario, rappresenta una forma di abuso del sistema giustizia considerato nel suo complesso: una previsione che sottende un interesse pubblicistico di cui, però, se ne giova l’intimato costituito, che ovviamente è in tal modo indotto a prendere parte al giudizio di legittimità[15].
Tali illogicità che derivano dall’applicazione automatica dell’art. 96, co. 3, e 4 c.p.c. paiono rappresentare pericoli alla tenuta costituzionale[16] e sovranazionale della disposizione[17]: come, peraltro, affermato dalla Corte di cassazione, in altro e diverso contesto, “la responsabilità di cui all’art. 96 comma 3 c.p.c., presuppone, sotto il profilo soggettivo, una concreta presenza di malafede o colpa grave della parte soccombente perché agire in giudizio per far valere una pretesa non è di per sé condotta rimproverabile anche se questa si riveli infondata. La figura dell’art. 96/3 è evidentemente, per così dire, eccezionale e/o residuale, come l’istituto – evidentemente correlato – dell’abuso del processo, giacché una sua interpretazione lata o addirittura automaticamente aggiunta alla sconfitta processuale verrebbe a contrastare con i principi della Cost., art. 24, a prescindere poi da quelli sovranazionali”[18].
Del resto, occorre fare tesoro dei principi di massima già espressi dalla Consulta al riguardo, seppure in contesti parzialmente diversi: analoga questione era stata rimessa alla Corte Costituzionale con riguardo al previgente art. 54, comma 3, c.p.c., che imponeva un rigido automatismo sanzionatorio non derogabile nemmeno nel caso – che non si può a priori escludere – in cui la ragione della inammissibilità o della infondatezza della ricusazione non fosse percepibile dal ricusante all’atto della presentazione del ricorso.
La Consulta, in tal caso, nel dichiarare la illegittimità costituzionale della disposizione, affermava che “pur non essendo la previsione di una sanzione pecuniaria collegata alla reiezione del ricorso e intesa a scoraggiare l’abuso o l’uso temerario o puramente dilatorio del potere, di per sé in contrasto con l’assolutezza del diritto alla tutela giudiziaria, garantito dall’art. 24 della Costituzione (cfr. sentenza n. 69 del 1964) – di cui il potere della parte di proporre la ricusazione, a tutela del proprio diritto ad un giudizio imparziale, costituisce esplicazione -, l’accedere della condanna sempre e necessariamente alla reiezione del ricorso, indipendentemente dalle circostanze del caso concreto, apprezzabili dal giudice, comporta una irragionevole compressione di tale diritto, in contrasto con il principio di eguaglianza. Si viene infatti a trattare allo stesso modo, sotto il profilo dell’applicazione della sanzione, la posizione di chi ha proposto la ricusazione ragionevolmente fidando nella sua ammissibilità e nella sussistenza delle ragioni su cui essa si fondava, e quella del ricorrente che non versi in tale situazione (cfr. sentenza n. 186 del 2000). Sono dunque violati gli articoli 3 e 24 della Costituzione”.
Depone per la soluzione prospettata (anche con riferimento al richiamo dell’art. 96, comma 4, c.p.c.) l’esperienza interpretativa dell’art. 616 c.p.p.: in origine la disposizione prevedeva che, in caso di inammissibilità del ricorso per cassazione, la parte privata ricorrente dovesse essere necessariamente condannata al pagamento di una somma in favore della cassa delle ammende.
Rimessa la questione alla Corte costituzionale per violazione dell’art. 3 Cost., la Consulta[19] ha avuto modo di precisare che “la natura sanzionatoria della condanna in esame esige la valutazione della condotta del destinatario della sanzione, anche in relazione all’elemento soggettivo. E’ pertanto incompatibile con il principio di eguaglianza una norma che tratti allo stesso modo la posizione di chi abbia proposto il ricorso per cassazione, poi dichiarato inammissibile, ragionevolmente fidando nell’ammissibilità e quella del ricorrente che invece non versi in tale situazione, al punto da essere definito dall’ordinanza <<temerario>>. In questa prospettiva la norma denunciata – in quanto dà rilievo all’errore prescindendo dalla sua causa e quindi dall’aspetto soggettivo della sua determinazione – si risolve nell’irragionevole assoggettamento alla stessa disciplina di situazioni che identità di trattamento non meritano. Possono infatti verificarsi casi nei quali l’errore tecnico causativo dell’inammissibilità del ricorso non sia percepibile al momento della sua proposizione, come nell’ipotesi di un imprevedibile mutamento di giurisprudenza che induca la Corte di cassazione a ritenere inammissibili ricorsi per il passato pacificamente non considerati tali, sulla base di una variazione del criterio di apprezzamento della causa di inammissibilità. In tali evenienze estreme la rigida applicazione della sanzione secondo il criterio della soccombenza non è conforme al principio posto dall’art. 3 della Costituzione”.
L’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 380 bis citato conduce, quindi, a ritenere necessaria l’eliminazione dell’automatismo e comporta l’attribuzione alla Corte del potere di apprezzare, nel caso concreto, se sussistano le condizioni per escludere la condanna alla pena pecuniaria, o se invece la stessa debba trovare concreta applicazione: alla necessità della condanna, attualmente affermata dal massimo Collegio della Corte, si deve preferire la soluzione che affida il potere al giudice di disapplicarla, apprezzando le eventuali circostanze della fattispecie che la rendano ingiustificata.
[1] La disciplina intertemporale delle disposizioni in esame (art. 380 bis e art. 96, terzo e quarto comma, c.p.c.) è applicabile anche ai giudizi già pendenti alla data del 28 febbraio 2022 (in deroga alla previsione generale contenuta nell’art. 35, comma 1, d. lgs. 149/2022); l’art. 35, comma 6, cit. prevede – tra l’altro – che l’art. 380 bis c.p.c. si applica “… anche ai giudizi introdotti con ricorso già notificato alla data del 1° gennaio 2023 per i quali non è stata ancora fissata udienza o adunanza in camera di consiglio”.
[2] Sulla specifica questione si v. Corte Suprema di Cassazione – Ufficio del Massimario, Relazione tematica n. 70 del 9 ottobre 2023.
[3] Tra i primi commenti alla norma, B. Capponi, 2023: Odissea nel Palazzaccio, in www.judicium.it; F. Santagada, Commento all’art. 380-bis c.p.c., in R. Tiscini (a cura di), La riforma Cartabia del processo civile. Commento al d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, Pisa, 2023, 575 e ss.; F.S. Damiani, La riforma del giudizio di cassazione, in D. Dalfino (a cura di), La Riforma del processo civile. L. 26 novembre 2021 n. 206 e d. leg. 10 ottobre 2022 n. 149 e n. 151, in Foro it., Gli speciali, 2022, 219; A. Graziosi, Le nuove norme sul giudizio di cassazione e la revocazione, in Riv. dir. proc., 2023, 667; C. Besso, Le modifiche al giudizio di cassazione, in Giur. it., 2023, 474; I. Fedele, Il nuovo ‘filtro’ e l’unificazione dei riti camerali, in P. Curzio (a cura di), La Cassazione civile riformata, Bari, 2023, 63; U. Morcavallo, Il ricorso per cassazione. Dal giusto processo al processo efficiente, Milano, 2023, 188; F.M. Giorgi, Riforma del processo civile in Cassazione: unificazione dei riti camerali e procedimento accelerato (focus sulle controversie lavoristiche), in Giustiziacivile.com, 12/2022.
[4] Invero, in attuazione del principio contenuto nella legge delega (art. 1, comma 9, lett. e), n. 3), il legislatore delegato ha anche modificato l’art. 13 del TU 115/2002, prevedendo (comma 1 quater.1) un aspetto premiale che segue alla mancata richiesta di decisione: infatti, non trova applicazione il comma 1-quater (ovvero il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale respinta integralmente o dichiarata inammissibile o improcedibile) “ quando il ricorso per cassazione viene dichiarato estinto ai sensi dell’articolo 380-bis, secondo comma, ultimo periodo”. Sulla scarsa produttività dell’incentivo, tenuto conto della giurisprudenza di legittimità in ipotesi di inammissibilità sopravvenuta, I. Fedele, op. cit., 83.
[6] Così B. Capponi, Il giudice monocratico in Cassazione, in Foro it., 2023, V, 23, il quale dubita della tenuta costituzionale del nuovo filtro per contrasto con l’art. 106 Cost. Sul punto si v. anche M.F. Giorgi, op. cit., che qualifica il meccanismo descritto dall’art. 380 bis c.p.c. quale “aspirazione ad una evoluzione monocratica dell’attività decisoria della Corte”, peraltro in contrasto con l’art. 67 ord. giud. (ove si prevede che la Cassazione giudica “sempre” in composizione collegiale). Sulla necessità costituzionale della collegialità in Cassazione F. Auletta, Profili nuovi del principio di diritto (il “vincolo delle sezioni semplici al precedente delle sezioni unite”), in E. Fazzalari (a cura di), Diritto processuale civile e Corte Costituzionale, Napoli, 2006, 13 e ss.
[7] Aggiunto dall’art. 13 del decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40 (Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma dell’articolo 1, comma 2, della L. 14 maggio 2005, n. 80).
[8] Corte di cassazione, Sez. III, 7 ottobre 2013, n. 22812.
[9] Introdotto dall’art. 45, comma 12, della legge n. 69 del 2009.
[11] La nuova disposizione (art. 96, terzo comma, c.p.c.) è stata inizialmente riprodotta – in termini analoghi – nell’art. 26, secondo comma, dell’Allegato 1 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo) che ha previsto, nei giudizi innanzi al giudice amministrativo, la possibilità per il giudice, nel pronunciare sulle spese, di condannare, anche d’ufficio, la parte soccombente al pagamento in favore dell’altra parte di una somma di denaro equitativamente determinata, quando la decisione è fondata su ragioni manifeste o orientamenti giurisprudenziali consolidati. Al pari dell’art. 96, terzo comma, c.p.c., anche l’art. 26 cod. proc. amm. prevedeva solo il criterio equitativo per la quantificazione della somma suddetta e, inizialmente, non conteneva alcun limite, diversamente dal quarto comma dell’art. 385 c.p.c. Ciò è apparso al legislatore costituire una manchevolezza da emendare. È quanto emerge chiaramente dai lavori preparatori del disegno di legge 2486-A, di conversione in legge del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, nella legge 11 agosto 2014, n. 114: l’art. 41 del d.l. n. 90 del 2014, recante una disposizione di contrasto dell’abuso del processo, nel testo formulato in sede di conversione in legge, ha novellato l’art. 26 cod. proc. amm., il cui secondo periodo del primo comma, nella formulazione attualmente vigente, prevede che «il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, in favore della controparte, di una somma equitativamente determinata, comunque non superiore al doppio delle spese liquidate, in presenza di motivi manifestamente infondati».
L’art. 31 del decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174 (Codice di giustizia contabile, adottato ai sensi dell’articolo 20 della legge 7 agosto 2015, n. 124), recante disposizioni per la regolazione delle spese processuali nei giudizi innanzi alla Corte dei conti, contiene, al comma 4, una norma analoga a quella censurata: il giudice, quando pronuncia sulle spese, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento in favore dell’altra parte, o se del caso dello Stato, di una somma equitativamente determinata, quando la decisione è fondata su ragioni manifeste o orientamenti giurisprudenziali consolidati.
Quanto al processo tributario, l’art. 15, comma 2-bis, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’articolo 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), nel testo da ultimo sostituito dall’art. 9, comma 1, lettera f), numero 2), del decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 156, recante «Misure per la revisione della disciplina degli interpelli e del contenzioso tributario, in attuazione degli articoli 6, comma 6, e 10, comma 1, lettere a) e b), della legge 11 marzo 2014, n. 23», prevede che si applicano le disposizioni di cui all’art. 96, commi primo e terzo, c.p.c.
[13] Secondo F.S. Damiani, op. cit., 241, (il quale comunque propende per l’automatica applicazione dell’art. 96 citato nel testo, in ipotesi di definizione conforme alla proposta presidenziale) se “dopo la proposta di definizione, il collegio modifichi la ragione del respingimento del ricorso, ad esempio dichiarando il ricorso inammissibile anziché improcedibile o anche inammissibile per ragioni diverse da quelle indicate dal relatore”, deve escludersi la condanna punitiva.
[14] La disposizione, infatti, è interpretata dalla Cassazione nel senso che l’art. 96, comma 3, c.p.c., a differenza delle fattispecie di cui ai primi due commi, non richiede la domanda di parte, né la prova del danno, esige solo, sul piano soggettivo, la mala fede o la colpa grave della parte soccombente, sussistente nell’ipotesi di violazione del grado minimo di diligenza che consente di avvertire facilmente l’infondatezza o l’inammissibilità della propria domanda – coinvolgendo l’esercizio dell’azione processuale nel suo complesso, cosicché possa considerarsi meritevole di sanzione l’abuso dello strumento processuale in sé – mentre non sarebbe sufficiente di per sé l’infondatezza, anche manifesta, delle tesi prospettate (Cass., Sez. Un., 20 aprile 2018, n. 9912): “costituisce infatti indice di mala fede o colpa grave – e, quindi, di abuso del diritto di impugnazione – la proposizione di un ricorso per cassazione senza avere adoperato la normale diligenza per acquisire la coscienza dell’infondatezza o inammissibilità della propria posizione, ovvero senza compiere alcuno sforzo interpretativo, deduttivo ed argomentativo per mettere in discussione, con criteri e metodo di scientificità, il diritto vivente o la giurisprudenza consolidata, sia pure solo con riferimento alla fattispecie concreta” (Cass., Sez. Un., 28 ottobre 2022, n. 32001).
[15] Sulla natura pubblicistico-autoritaria dell’art. 96, comma 3, c.p.c. – introdotta dall’art. 45, comma 12, della legge 69/2009 – v. G. Scarselli, Il nuovo art. 96, 3° comma c.p.c.: consigli per l’uso , in www.judicium.it, il quale sottolinea che “la norma non può proprio essere utilizzata per sanzionare comportamenti processuali che, commessi senza violazione della legge o della deontologia professionale, semplicemente sono realizzati dall’avvocato nell’interesse individuale e privato della parte che assiste, anziché in quello generale e pubblico”. Sul punto si v. anche Id., Le modifiche in tema di spese, in Foro it., 2009, V, 258.
[16] L’applicazione del terzo e quarto comma dell’art. 96 c.p.c. svincolata del tutto dalla verifica in concreto della temerarietà della lite e conseguente unicamente al perseverare nell’errore da parte del ricorrente, “ridonderebbe anche in violazione dell’art. 23 Cost., difettando nella norma primaria il requisito (insito nella norma costituzionale) dell’individuazione dei presupposti cui viene ricollegata l’imposizione della prestazione patrimoniale”. Così F. M. Giorgi, op. cit., 15.
[17] Sotto altro profilo, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 380-bis c.p.c. A. Graziosi, op. cit., 680, “poiché un giudice che formula «una sintetica proposta di definizione del giudizio», dopo aver motivatamente rilevato una causa di improponibilità, inammissibilità o manifesta infondatezza del ricorso, e poi in quello stesso processo partecipa al collegio giudicante, inficia senza ombra di dubbio la terzietà ed imparzialità dell’organo collegiale decidente, con grave e patente violazione dell’art. 111, comma 2 ̊, Cost.”.
[18] Cass. civ., Sez. III, ord., 12 luglio 2023, n. 19948