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La Corte Costituzionale n. 58/2020 sull’art. 354 c.p.c.: prima lettura.
È infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 354 c.p.c., in relazione agli art. 3, 24, 111, 117, 1° comma, Cost. (quale norma interposta dell’art. 6 CEDU), nella parte in cui non prevede che il giudice d'appello debba rimettere la causa al primo giudice per permettere la chiamata di un terzo in primo grado. (massima non ufficiale).
Di Giuseppina Fanelli -
Con la sentenza n. 58/2020, di cui si offre un breve commento, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 354 c.p.c., in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione (quale parametro interposto in relazione all’art. 6 della CEDU), sollevata dalla Corte d’appello di Milano (ord. 30 gennaio 2019), nella parte «in cui non prevede che il giudice d’appello debba rimettere la causa al giudice di primo grado, se è mancato il contraddittorio, non essendo stata da questo neppure valutata, in conseguenza di un’erronea dichiarazione di improcedibilità dell’opposizione, la richiesta di chiamata in causa del terzo, proposta dall’opponente in primo grado, con conseguente lesione del diritto di difesa di una delle parti».
La rimessione prende le mosse da un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo dichiarato improcedibile per mancato esperimento del tentativo obbligatorio di mediazione. La chiusura di mero rito in prime cure impediva all’opponente di chiamare in causa l’Impresa di Assicurazione garante della restituzione del finanziamento oggetto dell’iniziativa monitoria, come pure aveva chiesto nell’atto di opposizione. La Corte d’Appello di Milano, investita dell’appello dell’opponente, assegnava il termine per l’esperimento della mediazione obbligatoria e successivamente valutava l’istanza di chiamata in garanzia reiterata dall’appellante. Al riguardo, la Corte osservava che l’intervento del garante non avrebbe potuto essere provocato in grado d’appello, essendo l’intervento del terzo consentito soltanto ai soggetti legittimati ad esperire opposizione di terzo. D’altra parte, la Corte riteneva di non poter rimettere la causa al giudice di primo grado, in applicazione analogica dell’art. 354 c.p.c., stante il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità che qualifica come tassative, eccezionali e insuscettibili di applicazione analogica le ipotesi di rimessione in primo grado contemplate dagli artt. 353 e 354 c.p.c. All’esito di tali valutazioni, riteneva la Corte di Milano di sollevare incidente di costituzionalità in relazione all’art. 354 c.p.c., osservando che il principio di tassatività ed eccezionalità delle ipotesi di rimessione necessitava di essere rivisto sia alla luce della progressiva trasformazione dell’appello civile (che avrebbe assunto, per effetto delle riforme succedutesi nel tempo, i caratteri di una revisio prioris instantiae di natura cassatoria), sia a seguito dell’introduzione dell’art. 105 d.lgs. n. 104/2010 (il Codice del processo amministrativo, c.p.a.), che consente la rimessione in primo grado non individuando specifiche ipotesi ma riferendola ad ogni difetto del contraddittorio e lesione del diritto di difesa.
Come anticipato, la Corte Costituzionale, non persuasa dalle argomentazioni del giudice rimettente, ha affermato che la «scelta del legislatore di non includere tra le ipotesi di rimessione in primo grado quella della pretermissione dell’istanza del convenuto-opponente di chiamata di un terzo in garanzia è, dunque, un’opzione discrezionale, legittima perché non manifestamente irragionevole, attesa la sua funzionalità al valore costituzionale della ragionevole durata del processo sul rapporto principale, e non ingiustificatamente compressiva del diritto di azione, potendo il convenuto-opponente esercitare la domanda di garanzia tramite l’instaurazione di un autonomo giudizio contro il terzo» [1]. Di seguito, in breve, le ragioni addotte dalla Corte a sostegno di tale scelta.
In primo luogo, il giudice delle leggi ha ricordato che il legislatore (anche processuale) dispone di un’ampia discrezionalità nella conformazione degli istituti processuali, incontrando il solo limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte compiute, limite che, con riferimento all’art. 24 Cost., viene superato solo qualora emerga un’ingiustificabile compressione del diritto di agire (ex plurimis, Corte cost. n. 271/2019; Corte cost. n. 199/2017; Corte cost. n. 44/2016).
Peraltro, secondo la Corte, la tassatività ed eccezionalità delle ipotesi normative di rimessione in primo grado è affermata da una consolidata e risalente giurisprudenza della Corte di cassazione [2], «come un riflesso della natura prevalentemente rescissoria del giudizio d’appello, coerente con la regola di assorbimento dei vizi di nullità in motivi di gravame, potendo il giudice d’appello limitarsi ad emettere una pronuncia rescindente, cioè di mero annullamento con rinvio, nei soli casi espressamente indicati dal legislatore» (così in motivazione, il provvedimento in nota). Non persuade il giudice delle leggi, infatti, l’idea del giudice rimittente che vi sia stata una trasformazione del giudizio d’appello in una revisio prioris instantiae di tipo cassatorio, ad opera delle riforme legislative di cui (soprattutto) al d.l. n. 83/2012, convertito, con modificazioni, nella l. n. 134/2012. In proposito, se anche in dottrina si discute di un progressivo avvicinamento tra il giudizio d’appello e quello per cassazione [3], nondimeno alla struttura del giudizio d’appello resta connaturato il carattere sostitutivo che, pertanto, giustifica l’interpretazione tassativa degli artt. 353 e 354 c.p.c.
Pure deve essere respinta la censura del giudice rimettente secondo cui la formula ampia dell’art. 105 c.p.a., laddove prevede la rimessione in primo grado «se è mancato il contraddittorio, oppure è stato leso il diritto di difesa di una delle parti», raffrontata alla più restrittiva disposizione del codice di rito civile, metterebbe in luce un’irragionevole disparità tra modelli processuali. In proposito, la Corte costituzionale chiarisce che, a seguire il ragionamento del giudice milanese, si finirebbe per invertire il rapporto tra i citati modelli processuali, elevando il processo amministrativo «a paradigma» di quello civile «in aperta contraddizione con quanto indicato dalla legge 18 giugno 2009, n. 69». Questo provvedimento, infatti, all’art. 44, comma 1, individua tra le finalità della riforma delle norme sul processo amministrativo quella «di coordinarle con le norme del codice di procedura civile in quanto espressione di principi generali», sicché – ribadisce la Corte costituzionale – «è la disciplina del processo amministrativo a sperimentare un percorso di assimilazione alla disciplina di principio del processo civile, e non viceversa». Peraltro, secondo l’interpretazione del Consiglio di Stato, l’art. 105 c.p.a. si deve ritenere allineato agli artt. 353 e 354 c.p.c., nel senso che anche nel processo amministrativo, le ipotesi di rimessione al primo giudice sono da qualificarsi come tassative ed eccezionali (cfr. Cons. Stato, ad. plen., 30 luglio 2018, n. 10) [4].
Da ultimo, la Corte esclude la sussistenza di una violazione dei princìpi del «giusto processo» di cui agli artt. 111 Cost. e 6 CEDU [5], poiché, per costante orientamento della Corte stessa, il doppio grado di giurisdizione di merito non è assistito da copertura costituzionale (cfr., tra le tante, Corte cost. n. 199/2017; Corte cost. n. 243/2014). Se non è costituzionalizzato il principio del doppio grado di giudizio, non lo è neppure quello del simultaneus processus, trattandosi «di un mero espediente tecnico finalizzato, laddove possibile, a realizzare un’economia dei giudizi e a prevenire il conflitto tra giudicati, sicché la sua inattuabilità non lede il diritto di azione, né quello di difesa, se la pretesa sostanziale dell’interessato può essere fatta valere nella competente, pur se distinta, sede giudiziaria con pienezza di contraddittorio e difesa» (cfr. Corte cost. n. 451/1997; Corte cost. 295/1995; Corte cost., ord., n. 215/2005). Del resto, concludono i giudici, lungi dal rappresentare una violazione dei princìpi del «giusto processo», il sistema delineato dagli artt. 353 e 354 c.p.c. soddisfa la necessità che il processo abbia una durata ragionevole, escludendo la rimessione del giudizio in primo grado in tutte le ipotesi in cui questa non sia giustificata da esigenze indefettibili (i.e., quelle indicate dal legislatore processuale).
Coerente e convincente la motivazione fornita dalla Corte Costituzionale, la quale conferma indirettamente che gli artt. 353 e 354 c.p.c. sono vere e proprie chiavi di lettura dell’intero sistema processuale o, almeno, di quello delle impugnazioni. La maggiore perplessità che ci resta, in queste modestissime note a prima lettura, è quella legata al diritto dell’opponente che, pur non pregiudicato come sostiene la Corte, risulta non poco compromesso in ragione di una decisione sbagliata del giudice di prime cure, rispetto alla quale il giudice dell’impugnazione non può porre rimedio né direttamente, autorizzando la chiamata del garante, né indirettamente, con la rimessione in primo grado. A tacere del fatto che, seppure la soluzione è ritenuta in piena armonia con le esigenze di economia del giudizio, si tratta sempre della valorizzazione dell’economia endoprocessuale (del singolo giudizio in corso che, quindi, non retrocede) e non di quella ultraprocessuale (del complessivo sistema, poiché la soluzione individuata costringe il garantito, almeno in alcune ipotesi, a promuovere un nuovo e diverso giudizio contro il garante).
NOTE BIBLIOGRAFICHE:
[1] Vedi, ad esempio, sulla esclusione dai vizi dell’art. 354 c.p.c. quello della invalidità della vocatio in ius dell’atto di citazione: G. Balena, Nullità del procedimento di primo grado per vizi del contraddittorio e poteri del giudice d’appello, in Foro it., 1996, I, spec. 1230; C. Delle Donne, Tra neutralità e concludenza. La contumacia nel processo civile, Torino, 2019, 59, secondo la quale alla declaratoria di nullità della vocatio in ius in appello non può conseguire la rimessione della causa al giudice di primo grado sia perché la nullità della citazione non è inclusa tra le tassative ipotesi di regressione del processo previste dagli art. 353 e 354 c.p.c. (non interpretabili analogicamente perché norme eccezionali); sia perché l’esigenza della ragionevole durata del processo prevarrebbe sul principio del doppio grado di giudizio sfornito di copertura costituzionale.
[2] Si tratta di un orientamento consolidato e consacrato già diversi anni fa da una sentenza della Corte di cassazione: Cass. 3 ottobre 1995, n. 10389, Foro it., 1996, I, 1297, con note di G. Balena e di S. Toffoli; in Corr. giur., 1996, 425, con nota di M. De Cristofaro; in Nuova giur. civ., 1996, 533. V. anche Cass., sez. un., 27 luglio 1998, n. 7339, Foro it., 1999, I, 2001, con note di F. Cipriani e di A. Palmieri. Di recente, sulla natura tassativa dell’art. 354 (come, del resto, dell’art. 353), v. Cass. (ord.) 7 maggio 2019, n. 12020, Foro it., Rep. 2019, voce Adozione, n. 8; Cass. 12 aprile 2017, n. 9515, id., Rep. 2017, voce Appello civile, n. 117; Cass. 2 febbraio 2016, n. 1992, id, Rep. 2016, voce cit., n. 131, che ribadisce espressamente il principio secondo cui i casi che impongono la rimessione della causa al giudice di primo grado sono espressamente indicati dagli art. 353 e 354 c.p.c. e al di fuori dei casi ivi tassativamente previsti non è possibile la rimessione al primo giudice, secondo quanto esplicitato dall’art. 354, la cui disposizione esprime una norma conforme a costituzione, giacché non esiste garanzia costituzionale del doppio grado di giurisdizione di merito.
[3] Vedi in proposito R. Poli, Giusto processo e oggetto del giudizio d’appello, in Riv. dir. proc., 2010, 48 ss.; Id., La evoluzione dei giudizi di appello e di cassazione alla luce delle recenti riforme, in Riv. dir. proc., 2017, 128 ss.; G. Costantino, Le riforme dell’appello civile e l’introduzione del “filtro”, in www.treccani.it/magazine/diritto, 10 settembre 2012; D. Dalfino, Premessa, in L’appello e il ricorso per cassazione nella riforma del 2012 (d.l. 83/12 convertito, con modificazioni, in l. 134/12), in Foro it., 2012, V, 281 ss.; A. Tedoldi, I motivi specifici e le nuove prove in appello dopo la novella“iconoclastica” del 2012, in Riv. dir. proc., 2013, 145 ss.; A. Briguglio, Un approccio minimalista alle nuove disposizioni sull’ammissibilità dell’appello, in Riv. dir. proc., 2013, 573 ss.
[4] in Foro it., 2018, III, 546, con nota di A. Travi; in Giornale dir. amm., 2019, 207, e da A. Squazzoni, in Dir. proc. amm., 2019, 583, secondo cui i casi di rimessione da parte del Consiglio di Stato al giudice di primo grado, ai sensi dell’art. 105 c.p.a., sono tassativi. Pertanto, non comportano rimessione al giudice di primo grado né l’erronea declaratoria di irricevibilità, inammissibilità o improcedibilità del ricorso, né la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.
[5] Disposizioni ormai sempre più vicine. Secondo alcuni autori, infatti, il legislatore costituzionale ha voluto introdurre una vera propria clausola generale al fine di arricchire la gamma delle garanzie processuali, recependo così i canoni del processo «equo» disegnati dall’art. 6 e 13 CEDU. Sul tema cfr.: S. Chiarloni, Il nuovo art. 111 Cost. e il processo civile, in Riv. dir. proc., 2000, 1010 ss.; Id., Giusto processo, garanzie processuali, giustizia della decisione, cit., 129 ss.; N. Trocker, Il nuovo art. 111 della costituzione e il «giusto processo» in materia civile: profili generali, in Riv. trim. dir. prc. civ, 2001, 381 ss.; G. Costantino, Il nuovo art. 111 della Costituzione e il «giusto processo civile». Le garanzie, in M.G. Civinini, C.M. Verardi, Il nuovo art. 111 Cost. e il giusto processo civile, Milano, 2001, 255 ss.; L.P. Comoglio, Il «giusto processo» civile nella dimensione comparatistica, in Riv. dir. proc., 2002, 702 ss.; M. Bove, Art. 111 Cost. e «giusto processo civile», in Riv. dir. proc., 202, 479 ss.