Il rito del lavoro a cinquanta anni dal suo debutto: la resistenza all’effimero e le tentazioni dell’omologazione

Estratto da I. Piccinini, A. Pileggi. B. Sassani, P. Sordi, Il processo del lavoro: Cinquanta anni dopo (1973-2023), Giappichelli 2023

Di Bruno Sassani -

1.Una struttura solida e duratura

Mezzo secolo è passato dalla riforma del 1973; l’idealizzazione di allora è in buona parte svanita ma il processo del lavoro è sempre al suo posto e continua a svolgere dignitosamente la sua funzione. Negli anni il modello ha subito modifiche ma ha conservato ben visibile l’originaria struttura. Caratteristica, questa, davvero rilevante se comparata alla triste sorte della cognizione c.d. ordinaria (e di altri riti satelliti), tutti vittime di riforme e controriforme in un moto pendolare costante e interminabile (si può ragionevolmente scommettere che l’ultima riforma sarà sempre la penultima) dove il nuovo è spesso solo il ritorno di regole trionfalisticamente ripudiate tempo addietro come fonte sicura di inefficienza.

La legge 11 agosto 1973, n. 533 (Disciplina delle controversie individuali di lavoro e delle controversie in materia di previdenza e di assistenza obbligatorie) è entrata nella cultura del processo, ha fatto la cultura del processo condizionando tutte le riflessioni successive. Per prima cosa il rito del lavoro ha goduto del privilegio di riportare idealmente la stanca realtà del processo civile alla dimensione della mitizzata triade chiovendiana «oralità-concentrazione-immediatezza» (sorta di paradiso terrestre favoleggiato e mai realizzato). In secondo luogo – ed è questa la cosa più importante – esso si è mostrato adeguato alla tipologia delle controversie a cui è stato applicato. Il che è la sua forza ma, contemporaneamente, il suo limite quale modello generale del contenzioso civile.

Il disegno del rito lavoristico è semplice perché si risolve nella necessità che le parti pongano subito sul tavolo la materia del contendere, offrendo contestualmente i fatti da provare e articolando le fonti di prova, comprimendo così lo spazio residuo alla dimostrazione delle allegazioni e ai chiarimenti in jure. A chi – avendo in mente la formalistica laboriosità della cognizione ordinaria – traduce l’aggettivo semplice con grezzo è facile replicare che quel disegno si è comunque mostrato all’altezza del compito affidatogli, cosa invece clamorosamente mancata nel processo ordinario.

Nel 1973 entrò per la prima volta in scena un meccanismo funzionante, controverso ma comunque efficiente, un meccanismo che – a differenza della vicenda del codice del 1940 – non si trasformò subito nel capro espiatorio delle delusioni degli operatori. Molte furono le polemiche, ma prevalentemente investirono la disinvoltura con cui qualche settore della magistratura sembrò piegare il modulo processuale a favore della cosiddetta parte debole, a scapito dei valori di eguaglianza delle parti e della neutralità dello strumento processuale. Le critiche, in altre parole, riguardarono più la curvatura politica dell’applicazione delle regole procedurali che la loro sostanza e la fattura intrinseca della normativa. Il confronto si incentrò prevalentemente sulla c.d. «tutela differenziata» della «parte debole», rispetto al quale dibattito oggi possiamo addirittura sorridere se ne confrontiamo la latitudine con la forza espansiva che l’idea di un diritto speciale in grado di superare le regole del gioco ha acquistato quando la parte debole ha smesso di identificarsi con il lavoratore per trasformarsi nel consumatore [1].

Si può allora dire che l’accelerazione, la concentrazione, e l’immediatezza furono, da un lato, salutati come un ritorno al programma generale chiovendiano, dall’altro furono percepiti come valori (non assoluti ma) strumentali ad uno specifico programma di diritto sostanziale. In questa direzione va rammentato che la vicenda globale non può ridursi alla inserzione nel codice di rito della legge del 1973. La prova generale della legislazione differenziata era stata fatta nel 1970 con gli articoli 18 e 28 dello statuto dei lavoratori, e sarebbe proseguita poi, negli anni Settanta, con la riforma delle locazioni e la legge sui patti agrari che portavano con loro il processo lavoro.

2.I fattori temporali

Bisogna però a questo punto soffermarsi a riflettere che il buon grado di effettività raggiunto nel primo quindicennio di applicazione discendeva dalla combinazione del modello con alcuni elementi peculiari e, storicamente, difficilmente ripetibili. Nell’ordine: la partenza con ruoli a zero (e la conseguente mancanza della zavorra dell’arre­trato); la creazione di un corpo di giudici specializzati e dedicati a un settore specifico; l’attribuzione a sezioni dedicate; la forte caratterizzazione tipologica delle controversie; l’alta motivazione che fece di corpo dei pretori del lavoro l’élite della magistratura dell’epoca; l’intento di raggiungere risultati intesi come i frutti voluti di un programma sociale se non politico.

Non è un caso che il coefficiente di effettività (pur restando buono) si attenui notevolmente una volta venuta meno la centralità culturale di quel programma sociale: fine della tensione sociale (di quella, specifica tensione sociale); irruzione dell’impiego con le pubbliche amministrazioni (a cominciare dalla attribuzione delle controversie di lavoro dei dipendenti delle Ferrovie dello Stato al pretore del lavoro operata dalla legge n. 210/1985); scomparsa del pretore e normalizzazione del soggetto giudicante quale magistrato di tribunale. Si aggiunga la generalizzazione del rito con sua diffusione ad altre materie, il cui punto d’arrivo è rappresentato dal decreto legislativo numero 150/2011 che, astratto il rito del lavoro dalla funzione per cui era stato creato, lo trasforma in modello per processi in materie varie ed eterogenee.

La spinta propulsiva del rito del lavoro si era attenuata al termine del primo ventennio di applicazione. Lo scontro sociale si era spostato ed era calata la tensione culturale su cui poggiava l’impegno collettivo che governava il moto del procedimento bilanciando la concentrazione con l’elasticità, complice la semplicità del modello.

Nel turbine riformatore delle strutture giudiziarie che (partito con l’istituzione del giudice pace e passando per la creazione del giudice monocratico di tribunale) si conclude nel 1998 con l’abolizione delle preture, la conferma del trend si rafforza per la scomparsa del personaggio che aveva contribuito decisivamente al successo del modello, del personaggio che aveva assunto in prima persona i problemi del contenzioso del lavoro fino a farsi garante del meccanismo processuale spingendosi a gestirlo con uno spirito che sarebbe vano cercare nel suo successore. Parlo del pretore, del pretore del lavoro, peculiare figura di giudice travolto appunto dalla riforma del c.d. giudice unico. Solo chi ha vissuto i venticinque anni trascorsi dal 1973 può capire l’importanza di questa figura, un regista che del processo del lavoro «sentiva il polso» con atteggiamenti e sensibilità che sarebbero ben presto divenuti anacronistici. Sfumature si dirà, ma sfumature non irrilevanti se accostate all’irrigidimento burocratico progressivamente installatosi nei tribunali del nuovo millennio: a questo irrigidimento il pretore del lavoro avrebbe probabilmente opposto il senso, ormai scomparso, di una professionalità peculiare; avrebbe opposto l’istintiva resistenza di un personaggio animato da quello spirito di ragionevolezza operativa che gli permetteva di tenere saldamente in mano le redini della disputa, dialogando con gli avvocati delle parti e resistendo al montante formalismo.

 3.Trionfo e crisi dell’oralità

La costanza del successo del processo del lavoro si spiega per una serie di fattori, alcuni strutturali, altri storicamente determinati e difficilmente ripetibili. Chi lo aveva equivocamente mitizzato come un trionfo dell’ideale chiovendiano, aveva però inteso i principi del processo del lavoro come una sorta di segnaletica sulla strada verso la palingenesi della disastrata cognizione ordinaria.

L’intero dibattito che condusse alla ampia riforma del processo civile costituita dalla legge n. 353/1990, mostra invero come questa fu concepita quale travaso nel corpo della cognizione ordinaria di regole proprie del processo lavoristico. Scelta ingannevole [2].

Innanzitutto perché non si è tenuto conto che i successi più spettacolari del debutto erano dipesi dai fattori sociali che avevano sostenuto il suo successo iniziale. L’attenuazione di quei fattori aveva poi allentato i successi del rito, ma questo fatto viene debolmente percepito. Negli anni di preparazione della riforma del 1990 del rito del lavoro si parla ancora come di una forza viva, in grado di trainare il boccheggiante processo civile che dovrebbe essere recuperato secondo gli ideali di accelerazione concentrazione e immediatezza. Quando però queste parole d’ordine saranno recuperate in chiave generale, sarà troppo tardi e il processo del 1990 riceverà pomposamente il guscio vuoto di un’esperienza svanita.

Il resto è storia. Al mito di un’immediatezza presidiata dal principio di preclusione ispirato al rito del lavoro segue a ruota la controriforma del 1995, e seguono le tante modifiche degli anni successivi. Infine – ed è cronaca – lo smantellamento di ogni residua illusione di oralità, dapprima imposta dalla legislazione emergenziale pandemica, e poi accolta ed esaltata dalla riforma del d.lgs. n. 149/2022 che ha sancito di fatto la fine dell’udienza. Ci si trova dunque di fronte al rovesciamento della impostazione della legge intesa a portare nel processo civile lo spirito del processo del lavoro. Altro che oralità! A venir meno nella riforma del 2022 è la stessa udienza. Il luogo dell’udienza è stato trasformato nel non-luogo dello scambio scritto: è il modello del processo come scansione di attività condivise che viene rovesciato. La massima è diventata «incontrarsi il meno possibile», e non è inutile ricordare che il rito dell’assenza, imposto dal Covid e poi sancito dalla riforma del 2022, era stato anticipato nel 2016 dalla Corte di Cassazione che – con una legge pensata e scritta a Piazza Cavour – aveva semplicemente cancellato l’incontro di giudici e avvocati riservando la presenza fisica di questi ultimi ai pochi casi di pubblica udienza.

Non mi sembra esagerato affermare che l’oralità è ormai ufficialmente valutata quale fattore negativo, fattore di perdita di tempo e di efficienza del procedere. E il bello è che, proprio brandendo il mito oralità/concentrazione/immediatezza estratto dall’esperienza del rito del lavoro, il riformatore processuale è approdato ad un nuovo modello di processo scritto e disperso.

4. Specificità della procedura

Quello del lavoro è dunque un rito solido, positivamente sopravvissuto alla forza destabilizzante del tempo e mitizzato però per le ragioni sbagliate. Buon modello di procedura per i settori che gli competono, epperò esso non si presta affatto ad una generalizzazione che ne faccia il modello del processo civile di cognizione.

Per quanto numerose (e talvolta fantasiose) le controversie lavoristiche tendono infatti per loro natura a presentarsi e a svolgersi secondo schemi ricorrenti. Sul palcoscenico del processo entrano in scena soggetti tipizzabili, cioè personaggi con un ruolo abbastanza definito e – considerati gli interessi che li animano – dotati di una certa prevedibilità comportamentale. Sul piano oggettivo la materia del contendere ha la tendenza a raggrupparsi in blocchi seriali che favorisce la circolazione delle soluzioni finendo per portare con sé anche la tecnica di trattazione.

A questi pattern si adattano bene, da un lato la tecnica della presentazione immediata e (tendenzialmente) completa della materia del contendere, dall’altro una partecipazione del giudice alle vicende processuali del tutto estranea al modello comportamentale del giudice medio che popola i tribunali italiani.

Basta poco, però, per alterare l’equilibrio. Valga per tutte la non remota vicenda dell’applicazione del rito del lavoro alle controversie da sinistro stradale. La legge n. 102/2006, recante «Disposizioni in materia di conseguenze derivanti da incidenti stradali» stabilì che, al fine di garantire una più efficace tutela alle vittime della strada, e di abbreviare i tempi di definizione dei relativi procedimenti risarcitori, tale tipo di contenzioso doveva essere trattato con il rito degli artt. 409 ss. del codice di procedura. La buona intenzione stava nella constatazione della positiva esperienza del processo del lavoro, e nell’applicazione della proprietà transitiva che ne avrebbe fatto un buon rito per la disputa infortunistica. La legge entrò subito in vigore e fu un totale disastro: bastò poco per rendersi conto del fatto che il contenzioso non si prestava affatto al tipo di trattazione proprio del processo lavoristico. Le tipologie sui generis delle controversie, i caratteri dei soggetti direttamente coinvolti, la difficoltà delle ricostruzioni storiche dei fatti, la presenza costante di soggetti quali le compagnie di assicurazioni ecc. crearono subito un malessere diffuso che si trasformò nell’opposizione unanime di giudici e avvocati alla legge che fu seccamente e frettolosamente abrogata dalla legge n. 69/2009.

Nella materia lavoristica, la capacità di resistenza del modello generale de rito del lavoro si rivela peraltro inversamente proporzionale a quel suo sotto-rito a cui l’esperienza ha dato la palma del peggiore dei riti possibili. Parlo del c.d. rito Fornero che, programmato per una tutela differenziata, si è rivelato un processo-trappola, zeppo di problemi, di incertezze e moltiplicatore di fasi di giudizio. Una iattura fortunatamente eliminata dalla riforma del 2022.

Riforma che pone ora il problema dell’applicabilità dell’art. 127 ter (Deposito di note scritte in sostituzione dell’udienza) al processo del lavoro: ha senso quel che qualche interprete ha già proposto, trattarsi cioè di norma generale che non trova ostacoli ad essere applicata a tutti i processi? Sul piano della formale correttezza interpretativa, la risposta dovrebbe essere positiva, se si guarda alla collocazione della norma nel libro I dei principi generali, alla formulazione in termini generali della disciplina, e anche alla impossibilità di escludere che anche nel processo del lavoro si diano talora in concreto le condizioni per un uso ragionevole dello scambio scritto. Qui c’è qualcosa di più però rispetto alle regole ermeneutiche. Resta infatti che il processo del lavoro merita di conservare quelle caratteristiche vitali che lo hanno positivamente caratterizzato, una delle quali è il mantenimento della centralità dell’udienza rispetto alle altre forme di contraddittorio. La soluzione verrà pertanto dalla sensibilità dei giudici del lavoro: se si opporranno compattamente all’applicazione dell’art. 127 ter al loro campo, vorrà dire che il processo del lavoro avrà salvato qualcosa delle proprie caratteristiche essenziali.

Viceversa, ci si sarà incamminati verso un’omologazione a cui si era finora opposta resistenza. Si avvierà così a chiusura una lunga stagione.

[1] Le vicende del giudicato travolto in nome del vulnus alla effettività della tutela del consumatore sog­getto ad ingiunzione, con le sentenze della Corte di giustizia UE e delle sez. un. della Cassazione italiana fanno impallidire le tesi più ardite di tutela differenziata del lavoratore.

[2] Mi riferisco precipuamente alla esaltazione delle preclusioni. Altra cosa è la generalizzazione, operata dalla riforma del 1990, di meccanismi originariamente concepiti in favore del lavoratore, quali le ordinanze provvisionali dell’art. 423 e soprattutto l’esecutorietà immediata della sentenza di primo grado in origine relativa ai soli crediti di lavoro.