Il recupero del credito delle imprese nel contenzioso transfrontaliero

Di Marco Farina -

 

 

 Sommario: 1. Introduzione. – 2. La determinazione della giurisdizione nelle controversie relative al recupero del corrispettivo contrattuale verso un’impresa domiciliata in un altro Stato membro. – 3. La determinazione della giurisdizione nelle controversie relative al recupero del corrispettivo contrattuale verso un’impresa domiciliata in uno Stato terzo. – 4. La determinazione della giurisdizione nelle controversie relative al recupero del corrispettivo contrattuale verso un consumatore domiciliato in uno Stato membro o in uno Stato terzo. – 5. Il recupero del credito commerciale verso un’impresa domiciliata in uno Stato membro. I procedimenti europei uniformi. – 5.1. Il regolamento n. 1896/2006. – 5.2. Il Regolamento 861/2007. – 5.2. Il Regolamento 655/2014 – 6. Il recupero del credito commerciale verso un’impresa domiciliata in Italia. Il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni.

1. Introduzione. Per ragioni di chiarezza e semplicità di esposizione, possiamo distinguere, assumendo il punto di vista dell’avvocato italiano, il caso dell’impresa “estera” che si rivolga a noi per recuperare un credito nei confronti di un cliente “italiano”, da quello dell’impresa “italiana” che si rivolga a noi perché deve agire nei confronti di un cliente “estero” per il recupero di un credito commerciale. Ancorché le due ipotesi condividano alcune delle problematiche che discuteremo quest’oggi, per semplicità assumeremo (i) che il caso dell’impresa estera contro un cliente “italiano” prospetti una questione di importazione in Italia di un titolo esecutivo altrove formatosi e (ii) che il caso dell’impresa “italiana” contro il cliente “straniero” prospetti, innanzi tutto, una questione di determinazione della giurisdizione internazionale e, poi, di eventuale selezione di adeguati strumenti processuali.

In relazione ad entrambe le ipotesi considerate, assumeremo di avere a che fare con una relazione commerciale avente ad oggetto una fornitura di merce e, dunque, con una controversia di natura contrattuale e rientrante nella materia civile e commerciale.

Inizialmente, dunque, supporremo che il caso che ci viene sottoposto riguardi un contratto di fornitura di merce concluso tra l’impresa fornitrice italiana A e l’impresa cliente estera B[1]. Ci chiederemo, quindi e prima di tutto, se, avendo B omesso di provvedere alla scadenza al pagamento di quanto dovuto, A possa agire in Italia ai fini del recupero del credito commerciale che vanta nei confronti di B e se la natura transfrontaliera della controversia implichi o meno la possibilità di servirsi di meccanismi processuali diversi da quelli ordinariamente utilizzabili a livello meramente domestico.

In relazione ad entrambe le questioni assume, tuttavia, decisiva rilevanza comprendere se la controversia risulti regolata dalla normativa europea uniforme, dalla normativa nazionale o da una convenzione internazionale bilaterale o multilaterale.

Semplificando: se la controversia riguarda il rapporto tra un’impresa italiana ed un’impresa domiciliata in un altro Stato membro troveranno applicazione le disposizioni di diritto processuale europeo uniforme; se la controversia riguarda il rapporto tra un’impresa italiana ed un’impresa estera situata in uno stato terzo, il giudice italiano applicherà le disposizioni interne di cui alla L. 218/1995, a meno che l’Italia e lo Stato terzo in questione abbiano concluso una convenzione bilaterale o siano parte di una convenzione multilaterale; se la controversia riguarda il rapporto tra un’impresa italiana ed un’impresa domiciliata in Islanda, in Norvegia o in Svizzera, si applicherà la Convenzione di Lugano del 2007 (che riproduce il contenuto del cessato Reg. 44/2011, Bruxelles I).

2. La determinazione della giurisdizione nelle controversie relative al recupero del corrispettivo contrattuale verso un’impresa domiciliata in un altro Stato membro. Prendiamo inizialmente in considerazione l’ipotesi di un rapporto di fornitura di merce tra un’impresa fornitrice con sede in Italia ed un’impresa con sede in un diverso Stato membro. Stiamo assumendo che l’impresa italiana abbia fornito la merce, sia rimasta creditrice del prezzo e che voglia, quindi, agire per ottenerne il pagamento[2].

Per determinare se il giudice italiano abbia (o meno) giurisdizione in merito all’azione di condanna al pagamento del corrispettivo contrattuale bisognerà, innanzi tutto, verificare se le parti abbiano concluso un accordo di scelta del foro; un accordo, cioè, in base al quale tutte (o solamente alcune) delle controversie derivanti dal contratto sono devolute alla giurisdizione di un determinato giudice (nel nostro caso, di uno stato membro).

Ai sensi dell’art. 25 Bruxelles I-bis, le parti[3] possono, infatti, validamente accordarsi per conferire la giurisdizione sulle controversie derivanti da un contratto[4] ai giudici di uno Stato membro. Tale accordo ha, salva espressa previsione contraria, natura esclusiva; ossia, esclude la giurisdizione dei giudici di qualsiasi altro stato membro ancorché essa sussista in base alle altre norme del regolamento.

L’articolo 25 detta i requisiti di forma che europeo iure devono essere rispettati affinché il patto di proroga della giurisdizione sia valido. Il caso più semplice, ovviamente, è quello della clausola contenuta nel contratto scritto concluso tra le parti su un unico documento ed appositamente dedicata alla scelta del foro. Più complicato è il caso in cui il rapporto contrattuale di fornitura non sia stato suggellato in un unico documento contrattuale scritto ma derivi dalla formulazione e relativa accettazione di un ordine di acquisto. Può prospettarsi il seguente scenario: l’impresa italiana riceve l’ordine di acquisto della impresa estera che riporta (o semplicemente richiama[5]) le condizioni generali di contratto di questa seconda impresa. L’impresa italiana ricevuto l’ordine, esegue la fornitura ed emette la propria fattura che riporta a tergo le proprie condizioni generali di fornitura. Le condizioni generali contenute nell’ordine di acquisto dell’impresa cliente contengono una clausola di proroga della giurisdizione a favore dei giudici francesi; le condizioni generali di fornitura dell’impresa italiana contengono una clausola di proroga della giurisdizione a favore dei giudici italiani. Quid iuris ?

Innanzi tutto ci si deve chiedere se un accordo di proroga della giurisdizione possa validamente concludersi mediante inserimento di una clausola di electio fori nelle condizioni generali unilateralmente predisposte da uno dei due contraenti. Al quesito deve fornirsi risposta positiva: nella giurisprudenza interna, Cass. Civ., 29 aprile 2022, n.13594, sulla base di conforme giurisprudenza europea (Corte di Giustizia 7 luglio 2016, Causa C-222/15, Hoszig), ha ritenuto validamente concluso un accordo di proroga della giurisdizione sulla base dell’inserimento di una clausola di scelta del foro nelle condizioni generali riportate nell’ordine di acquisto che, seppur non accettato per iscritto dal fornitore, sia stato da quest’ultimo eseguito. Ciò che rileva è che le condizioni generali non solo siano state espressamente richiamate nel documento ma, di più, che esse siano state anche espressamente comunicate o rese facilmente accessibili all’altra parte. Di modo che, per esemplificare: se l’ordine di acquisto riporti per esteso le condizioni generali, nessun dubbio vi sarà sulla valida conclusione dell’accordo di proroga[6]; qualora, invece, l’ordine di acquisto richiami le condizioni generali senza riportale per esteso o anche solo per estratto, il patto potrà dirsi validamente concluso a condizione che l’ordini contenga un rinvio al sito web dove esse siano facilmente accessibili e reperibili[7].

Nell’ipotesi che stiamo considerando, quindi, la giurisdizione relativa all’azione di condanna al pagamento del corrispettivo sarà dei giudici francesi; la clausola di proroga della giurisdizione contenuta nelle condizioni generali del compratore, oltre ad essere valida – senza necessità di sottoscrizione, tantomeno apposita[8] -, sarà anche destinata a prevalere, senza dubbio, sulla confliggente clausola contenute nella fattura emessa dal fornitore italiano solo dopo che il contratto è stato concluso ed eseguito[9].

In mancanza di un valido accordo di scelta del foro, la giurisdizione dovrà determinarsi sulla base del criterio speciale di giurisdizione in materia contrattuale di cui all’art. 7, paragrafo 1, del Regolamento n. 1215/2012 che detta una disposizione che si compone di vari enunciati normativi:

(i)        l’articolo 7, paragrafo 1, lett. a), prevede che una persona può essere convenuta «in materia contrattuale, davanti al giudice del luogo in cui l’obbligazione dedotta in giudizio è stata o deve essere eseguita»;

(ii)       l’articolo 7, paragrafo 1, lett. b), prevede che «ai fini dell’applicazione della presente disposizione e salvo diversa convenzione, il luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio è – nel caso di compravendita di beni, il luogo, situato in uno Stato membro, in cui i beni sono stati consegnati o avrebbero dovuto essere consegnati in base al contratto; – nel caso di contratto di prestazione di servizi, il luogo situato in uno Stato membro, in cui i servizi sono stati prestati o avrebbero dovuto essere prestati in base al contratto».

Con riferimento ai due tipi di contratto di più frequente applicazione, l’individuazione del luogo di esecuzione della obbligazione concretamente dedotta in giudizio è da considerarsi, dunque, del tutto irrilevante ai fini della corretta soluzione della questione di giurisdizione internazionale.

Ed infatti, nel caso di controversia concernente un contratto di compravendita di beni o di prestazione di servizi, l’articolo 7, paragrafo 1, lett. b), primo trattino, del Reg. Bruxelles I-bis individua, una volta per tutte ed in relazione a qualsiasi obbligo scaturente dai due tipi di contratti in questione, un unico luogo di esecuzione destinato a venire in rilievo per radicare la giurisdizione, ossia quello in cui i beni sono stati o avrebbero dovuto essere consegnati in base al contratto, ovvero quello in cui i servizi sono stati o avrebbero dovuto essere versati in base al contratto.

In altre parole, a differenza di quanto previsto dalla Convenzione di Bruxelles del 1968 – che imponeva dapprima l’individuazione analitica dell’obbligazione specificamente dedotta a fondamento della domanda e quindi la determinazione, per mezzo del diritto internazionale privato dell’ordinamento nazionale applicabile, del locus destinate solutionis di quella specifica obbligazione concretamente dedotta in giudizio[10] – il Regolamento n. 1215/2012 non richiede, per le tipologie contrattuali maggiormente diffuse a livello internazionale (ossia il contratto di compravendita di beni e quello di prestazione di servizi), che venga innanzitutto selezionata ed individuata e, poi, “localizzata” l’obbligazione controversa.

Pur facendo salvo un diverso accordo delle parti relativamente al luogo di esecuzione dell’obbligazione[11], con una sorta di fictio legis il legislatore comunitario ha individuato ex auctoritate – con riguardo alle due tipologie contrattuali ricordate ed agli esclusivi fini della determinazione della giurisdizione – quale sia in ogni caso l’obbligazione dedotta in giudizio ed il luogo di sua esecuzione, di modo che per tutte le controversie relative al contratto (indipendentemente da quale sia la specifica obbligazione gravante sul venditore, sul compratore, sul prestatore di servizi o sul committente che costituisce l’oggetto della domanda) l’unico giudice fornito di giurisdizione contrattuale sarà sempre e solo quello del luogo di consegna dei beni o di prestazione dei servizi[12].

Con riferimento all’applicazione della previsione di cui all’art. 7, paragrafo 1, lett. b), del Regolamento n. 1215/2012, una questione particolare che si è posta all’attenzione degli interpreti e della giurisprudenza nazionale ha riguardato la rilevanza da assegnare, ai fini della individuazione su base pattizia del luogo di esecuzione dell’obbligazione di consegna dei beni e, di conseguenza della determinazione della giurisdizione in virtù del criterio speciale in materia contrattuale, alle clausole c.d. Incoterms eventualmente contenute nel contratto di fornitura di merci.

Elaborati dalla Camera di Commercio Internazionale (ICC), ciascun Incoterm consente di diversamente allocare fra le parti gli oneri riguardanti il ritiro ed il trasporto delle merci, così individuando il momento a partire dal quale il rischio della perdita e del danneggiamento del carico passa dal venditore al compratore. Ad esempio, se le parti nel contratto abbiano fatto riferimento all’Incoterm «EXW» («ex works»), indicando a tal fine lo stabilimento dell’impresa fornitrice in Italia, le parti avranno così inteso far gravare sul compratore l’onere di organizzare il ritiro delle merci in Italia in funzione del successivo trasporto, oltre che il rischio di danneggiamento o distruzione delle merci, se occorsi dopo la presa in carico delle stesse nel predetto magazzino.

La rilevanza dell’utilizzo da parte dei contraenti degli Incoterms (anche) ai fini della individuazione del luogo di esecuzione dell’obbligazione di consegna rilevante per la determinazione della giurisdizione ai sensi dell’art. 7, paragrafo 1, lett. b), del Regolamento n. 1215/2012 è stata sancita, da tempo, dalla giurisprudenza europea[13], mentre la giurisprudenza nazionale di vertice ha assunto a tal riguardo posizioni contrastanti che solo di recente sembrano essersi composte in una soluzione maggiormente rispettosa della vincolante interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia.

A fronte di taluni precedenti che, in ultima analisi e in via di estrema sintesi, hanno ritenuto irrilevante l’accordo delle parti circa l’applicazione di un determinato Incoterm ai fini della determinazione del luogo di consegna funzionale (anche) al radicamento della giurisdizione in materia contrattuale e ciò in quanto una siffatta pattuizione dovrebbe intendersi diretta essenzialmente a regolamentare il profilo del passaggio dei rischi e dei costi del trasporto successivo al compratore una più recente e meditata decisione della S.C.[14] che, in un caso in cui l’Incoterm Ex Works Italy era stato riportato sia sulle fatture emesse dalla fornitrice sia negli ordini di acquisto dell’acquirente, cosicché non vi era dubbio sulla sua efficacia vincolante per essere stata oggetto di apposita pattuizione delle parti contraenti, ha conclusivamente affermato che «le clausole Incoterms “Ex Works”, una volta inserite nel contratto, individuano anche il luogo di consegna della merce, salvo che dal contratto risultino diversi ed ulteriori elementi che inducano a ritenere che le parti abbiano voluto un diverso luogo della consegna».

3. La determinazione della giurisdizione nelle controversie relative al recupero del corrispettivo contrattuale verso un’impresa domiciliata in uno Stato terzo. Prendiamo ora in considerazione l’ipotesi che la pretesa dell’impresa italiana al pagamento del prezzo della fornitura sia rivolta contro un’impresa domiciliata in uno Stato terzo (ossia, non facente parte dell’Unione Europea[15]).

A venire in rilievo in tale ipotesi non saranno, direttamente (v. infra), le norme uniformi del Regolamento n. 1215/2012, bensì le previsioni unilateralmente poste dal legislatore interno per disegnare i confini dell’esercizio della giurisdizione italiana. A tale specifico fine dovrà, dunque, farsi applicazione della L. 218/1995 di riforma del sistema di diritto internazionale privato e, segnatamente e per quanto qui specificamente interessa, del primo periodo del secondo comma dell’art. 3 ai sensi del quale «la giurisdizione sussiste inoltre in base ai criteri stabiliti dalle sezioni 2, 3 e 4 del titolo II della Convenzione concernente la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale e protocollo, firmati a Bruxelles il 27 settembre 1968, resi esecutivi con la legge 21 giugno 1971, n. 804, e successive modificazioni in vigore per l’Italia, anche allorché il convenuto non sia domiciliato nel territorio di uno Stato contraente, quando si tratti di una delle materie comprese nel campo di applicazione della Convenzione».

In sintesi, con la Convenzione di Bruxelles del 1968 gli Stati membri avevano regolato in modo uniforme i criteri di giurisdizione e le condizioni per il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni rese nei loro territori mediante lo strumento convenzionale, poi sostituito, per effetto della  c.d. comunitarizzazione del diritto internazionale privato, dall’adozione di atti legislativi della Comunità (prima) e dell’Unione poi. Nel 1995 il legislatore italiano decise, dunque, di estendere l’applicazione delle disposizioni della Convenzione di Bruxelles del 1968 al di là dei suoi limiti territoriali, facendo sì che i giudici italiani potessero applicarla (non proprio vigore ma) anche allorché il convenuto fosse domiciliato in uno stato terzo (ossia, in uno stato non contraente).

L’applicazione dell’art. 3, comma 2, L. 218/1995 non ha dato particolari problemi sino al momento in cui, come anticipato, la Convenzione di Bruxelles del 1968, cui la previsione in esame rinvia, è stata sostituita dal Regolamento n. 44/2011 (c.d. Bruxelles I), poi a sua volta sostituito dal Regolamento n. 1215/2012. A seguito dell’entrata in vigore del Regolamento n. 44/2001[16] , infatti, ci si è chiesti se il rinvio alla Convenzione di Bruxelles del 1968 operato dall’art. 3 L. 218/1995 dovesse, ora, intendersi effettuato all’atto legislativo di fonte comunitaria che ne aveva preso, appunto, il posto. Ed il quesito, come evidente, ha continuato a porsi pure a seguito dell’entrata in vigore del Regolamento n. 1215/2012.

La questione interpretativa non è meramente accademica. Nel passaggio dalla Convenzione di Bruxelles del 1968 al Regolamento n. 44/2001, prima, ed al Regolamento n. 1215/2012, poi, il criterio di giurisdizione speciale in materia contrattuale ha subito, come visto in precedenza, una significativa modifica: se, infatti, nel vigore della Convenzione di Bruxelles del 1968, la determinazione della giurisdizione in materia contrattuale dipendeva, sempre, dalla selezione dell’obbligazione concretamente dedotta in giudizio e dalla individuazione del locus destinate solutionis di detta specifica obbligazione secondo le pertinenti norme della legge applicabile al contratto (determinata in virtù delle norme di diritto internazionale privato del foro), secondo quanto previsto sia dal Regolamento n. 44/2001 che dal Regolamento n. 1215/2012 in caso di contratto di compravendita di beni e di prestazione di servizi il metodo analitico è stato sostituito, come visto, dall’individuazione ex auctoritate di un unico luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio sempre rilevante quale criterio di individuazione della giurisdizione a prescindere dall’obbligazione concretamente fatta valere in giudizio[17].

Sulla questione, come noto, vi sono precedenti di legittimità (Cass., sez. un., n. 15748/2019, che richiama il principio enunciato da Cass., sez. un., n. 22239/2009; Cass., sez. un., n. 18847/2023[18]; Cass., sez. un., n. 21351/2022) che hanno affermato che il rinvio operato dalla legge n. 218 del 1995, art. 3, comma 2, attiene esclusivamente alla convenzione di Bruxelles e non si estende al regolamento n. 44 del 2001 e che non può ritenersi che la convenzione sia stata definitivamente sostituita e quindi implicitamente abrogata dal sopravvenuto regolamento, continuando la convenzione ad operare relativamente ai rapporti con soggetti non domiciliati in uno degli Stati dell’Unione europea.

Di recente, tuttavia, siffatto orientamento è stato contraddetto da altre, più meditate, decisioni del giudice di legittimità. Si è, infatti, precisato che nei confronti di soggetti domiciliati in stati terzi, ai sensi dell’art. 3, comma 2 della legge 218 del 19995, la giurisdizione italiana, quando si tratti di una delle materie già comprese nel campo di applicazione della convenzione di Bruxelles del 1968, sussiste in base ai criteri stabiliti dal regolamento n. 1215 del 2012 che ha sostituito il regolamento n. 44 del 2001, a sua volta sostitutivo della predetta convenzione (Cass., sez. un., n. 18299/2021, la soluzione è stata recepita da successive pronunzie, v. Cass., sez. un., n. 33002/2021, Cass., sez. un., n. 33003/2021, Cass., sez. un., n. 136371/2021; Cass., sez. un., n. 7065/2023; Cass., sez. un., n. 18847/2023; Cass., sez. un., n. 19571/2023;). Secondo questo più recente orientamento, quello operato dall’art. 3, comma 2, L. n. 218/1995 è un rinvio di natura ricettizia materiale di tipo mobile (o dinamico), perché lo stesso legislatore ha richiesto l’adeguamento dei criteri della Convenzione di Bruxelles «alle successive modifiche in vigore per l’Italia».

Alla luce di siffatta evoluzione del quadro giurisprudenziale, è ragionevole ritenere che la tesi del rinvio mobile (o dinamico) sarà quella che verrà certamente adottata dalle sezioni unite chiamate a pronunciarsi su tale specifica questione dalla sezione seconda con ordinanza n. 26495 del 14 settembre 2023[19].

4. La determinazione della giurisdizione nelle controversie relative al recupero del corrispettivo contrattuale verso un consumatore domiciliato in uno Stato membro o in uno Stato terzo. Qualora il credito dell’impresa derivi da una fornitura eseguita nei confronti di una persona fisica che agisca per scopi estranei alla professione eventualmente esercitata (ossia, nei confronti di un consumatore), le regole di giurisdizione uniformi mutano significativamente al ricorrere della condizione prevista dall’art. 17, lett. c), del Regolamento n. 1215/2012.

Precisato, infatti, che le regole protettive in materia di giurisdizione non si applicano in tutti i casi in cui a venire in rilievo sia un contratto concluso tra un’impresa ed un consumatore ma solamente allorché ricorra una delle ipotesi di cui all’art. 17 del Regolamento n. 1215/2012[20], nel caso che stiamo esaminando[21] ciò che rileva è quanto previsto, come anticipato, dalla lett. c) del richiamato art. 17 del Regolamento n. 1215/2012 secondo la quale le disposizioni sulla giurisdizione in materia di contratti conclusi dai consumatori si applicano «qualora il contratto sia stato concluso con una persona le cui attività commerciali o professionali si svolgono nello Stato membro in cui è domiciliato il consumatore o sono dirette, con qualsiasi mezzo, verso tale Stato membro o verso una pluralità di Stati che comprende tale Stato membro, purché il contratto rientri nell’ambito di dette attività».

Con riferimento specifico al requisito della “direzione” con “qualsiasi mezzo” (anche elettronico, quindi) dell’attività dell’impresa verso lo stato membro ove è domiciliato il consumatore, la Corte di Giustizia (nelle cause riunite Alpenhof e Pammer[22]) ha ritenuto che la mera accessibilità del sito internet dell’impresa in un altro stato membro, il fatto che il sito stesso sia consultabile anche nella lingua del diverso stato membro di domicilio del consumatore e l’indicazione di un indirizzo mail e/o di un numero di telefono non sono sufficiente a far ritenere integrato il requisito in esame. Diversamente, qualora il contratto possa concludersi direttamente tramite l’utilizzo del sito internet del fornitore, ciò imporrà l’applicazione delle norme protettive del consumatore in materia di giurisdizione[23].

Se il contratto da cui deriva il credito rientra in una delle ipotesi di cui all’art. 17 del Regolamento n. 1215/2012, la conseguenza in punto di giurisdizione sarà che l’azione dell’impresa contro il consumatore potrà essere proposta esclusivamente dinanzi ai giudici dello stato membro ove è domiciliato il consumatore; nel caso in cui l’azione venga invece proposta, ad es., dinanzi ai giudici dello stato membro dove ha sede l’impresa fornitrice e una decisione di condanna del consumatore venga comunque resa, quantunque in manifesta violazione della regola di giurisdizione esclusiva di cui all’art. 18 del Regolamento n. 1215/2012, ciò implicherà l’impossibilità per la decisione di poter essere riconosciuta ed eseguita in qualsiasi altro Stato membro[24].

Nel caso in cui il contratto di fornitura sia stato concluso con una persona fisica, per uno scopo estraneo alla professione eventualmente esercitata, domiciliata in uno stato terzo, le regole applicabili saranno le medesime qualora si aderisca alla tesi del rinvio mobile alle disposizioni della Convenzione di Bruxelles ad opera dell’art. 3, comma 2, L. 218/1995; qualora, invece, si adotti la tesi del rinvio fisso, ciò comporterà la necessità della conclusione di un contratto a distanza secondo quanto previsto dall’art. 13, n. 3), lett. b), Conv. Bruxelles 1968[25].

5. Il recupero del credito commerciale verso un’impresa domiciliata in uno Stato membro. I procedimenti europei uniformi. Ammesso che rispetto alla controversia relativa al recupero del credito da parte dell’impresa fornitrice italiana verso il cliente domiciliato in altro Stato membro sussista la giurisdizione italiana, possiamo chiederci se la natura transfrontaliera della lite in questione giustifichi l’applicabilità di strumenti processuali diversi ed ulteriori rispetto a quelli d’ordinario utilizzabili secondo la legge processuale interna.

Precisato che, in ogni caso, nei casi di controversia transfrontaliera europea nulla si oppone all’utilizzo da parte del creditore (italiano o estero) dei procedimenti ordinari e speciali previsti dal codice di procedura civile[26], al quesito che ci siamo posti nel precedente capoverso deve darsi risposta positiva.

L’Unione Europea, proseguendo sempre più rapidamente verso una graduale uniformazione delle procedure giudiziarie volte al recupero transfrontaliero dei crediti nella materia civile e commerciale, ha adottato, infatti, a partire dal 2006 tre regolamenti (c.d. di seconda generazione) con cui sono state istituite altrettante procedure uniformi al livello europeo, applicabili in tutti gli Stati membri con l’eccezione della Danimarca.

Si tratta, in particolare, del Regolamento n. 1896/2006 che ha istituito un procedimento europeo d’ingiunzione di pagamento (Ingiunzione di Pagamento Europea – IPE), del Regolamento n. 861/2007 che ha istituito un procedimento per le controversie di modesta entità (small claims) e del Regolamento n. 655/2014 che ha istituito l’ordinanza europea di sequestro conservativo sui conti correnti bancari (OESC).

Ciascuno di questi regolamenti[27] contiene una previsione che ne limita l’applicabilità ai casi transfrontalieri: l’art. 3 del Regolamento n. 1896/2006 prevede che si possa ottenere l’IPE solo nei casi di «controversia in cui almeno una delle parti ha domicilio o residenza abituale in uno Stato membro diverso da quello del giudice adito» ed identica previsione è contenuta nell’art. 3 del Regolamento n. 861/2007 quanto al procedimento small claims; l’art. 3 del Regolamento n. 655/2014 dispone, invece, che si possa ottenere un’OESC allorché «il conto bancario o i conti bancari su cui si intende effettuare il sequestro mediante l’ordinanza di sequestro conservativo sono tenuti in uno Stato membro che non sia: a) lo Stato membro dell’autorità giudiziaria presso cui è stata presentata la domanda di ordinanza di sequestro conservativo conformemente all’articolo 6; o b) lo Stato membro in cui il creditore è domiciliato»[28].

Nel caso, quindi, di fornitura di merce eseguita da un’impresa italiana in favore di un’impresa domiciliata in un altro Stato membro, la prima potrà servirsi – davanti al giudice italiano se dotato di giurisdizione[29] – del procedimento europeo di ingiunzione di pagamento o del procedimento small claims a condizione che, al momento del deposito della domanda, il debitore convenuto sia ancora domiciliato in un diverso Stato membro[30]; l’impresa italiana potrà, invece, servirsi dell’ordinanza europea di sequestro conservativo dei conti bancari anche se il debitore sia domiciliato in Italia a patto che, però, il conto corrente su cui imporre il vincolo del sequestro sia intrattenuto dal debitore italiano presso una banca situata in un altro Stato membro[31].

Quanto al funzionamento dei tre regolamenti citati, ci possiamo limitare solo ad alcune notazioni di carattere generale.

5.1. –  Il Regolamento n. 1896/2006. L’IPE può essere richiesto[32] al giudice competente[33] in relazione ad un credito avente ad oggetto una somma liquida ed esigibile di denaro, senza che sia necessario fornire una prova scritta del credito[34]. Il legislatore europeo ha, dunque, adottato un modello puro di procedimento monitorio, nel quale ciò che unicamente rileva ai fini dell’emissione dell’ingiunzione di pagamento è la mera affermazione del creditore. Il giudice può rigettare la domanda di ingiunzione qualora non ricorrano le condizioni previste per la sua emissione, senza che ciò tuttavia implichi la formazione di un giudicato ancorché una ragione del rigetto sia, come pure espressamente previsto, la riscontrata manifesta infondatezza del credito[35]. Nel caso di positivo riscontro delle condizioni previste dal regolamento, il giudice, servendosi del modulo E[36], emetterà l’IPE che conterrà, oltre ovviamente all’ordine rivolto al debitore di pagare l’importo di denaro specificato, l’avvertimento che il debitore stesso può, nel termine di trenta giorni dalla notificazione, o pagare quell’importo oppure proporre opposizione innanzi allo stesso giudice che l’ha emessa e che, in difetto di tempestiva opposizione, l’ingiunzione acquisterà forza esecutiva.

In conseguenza della natura pura del procedimento monitorio in esame, nella pendenza del termine per proporre l’opposizione l’IPE non potrà, in nessun caso, essere dichiarata provvisoriamente esecutiva[37]. Ulteriore conseguenza della struttura del procedimento consiste nel fatto che l’opposizione – in quanto si rivolge verso un provvedimento emesso sulla base delle sole affermazioni del creditore – non dovrà essere motivata, potendosi[38] risolvere anche nella mera dichiarazione della volontà di opporsi, e comporterà il definitivo venir meno dell’ingiunzione[39]. Anche per l’opposizione non è necessario il ministero di un avvocato ed essa potrà essere proposta –  mediante deposito in cancelleria (sia in forma cartacea, che in forma telematica) ovvero mediante invio a mezzo posta[40] –  utilizzando il modulo F che viene consegnato al debitore unitamente all’ingiunzione di pagamento europea[41].

In caso di tempestiva proposizione dell’opposizione, il procedimento prosegue dinanzi ai giudici competenti dello Stato membro d’origine, a meno che il ricorrente non abbia esplicitamente richiesto l’estinzione del procedimento[42]. Il meccanismo in virtù del quale si passa dalla fase monitoria alla fase a cognizione piena non è regolato specificamente dal regolamento il quale, invece, prevede un rinvio alle norme di diritto processuale civile interno. Escluso che, a tal fine, possa farsi applicazione delle norme che regolano la “nostra” opposizione a decreto ingiuntivo – e ciò in ragione della diversissima natura e struttura dell’opposizione e del procedimento ingiuntivo in quanto tale – la soluzione che è stata individuata dalla giurisprudenza[43] è stata quella secondo cui il giudice, nel momento in cui informa il creditore della avvenuta proposizione dell’opposizione[44], dovrà anche provvedere a fissare un termine perentorio entro il quale notificare o depositare (a secondo del rito applicabile ex lege o di quello che l’attore può scegliere[45]) l’atto introduttivo di un giudizio a cognizione piena. Nel caso in cui il creditore ometta tale attività, l’intero procedimento si estinguerà[46].

Se, invece, l’opposizione non viene proposta (o viene proposta tardivamente), l’IPE acquisirà definitiva forza esecutiva e sarà automaticamente riconosciuta ed eseguita in tutti gli altri stati membri senza che sia necessario alcun procedimento intermedio e, soprattutto, senza che sia possibile opporsi al riconoscimento ed all’esecuzione[47].

5.2. – Il Regolamento 861/2007. Il procedimento small claims è un procedimento a cognizione piena, ancorché semplificata, a disposizione per crediti sino all’importo massimo di Euro 5.000,00[48]. Il procedimento inizia mediante il deposito di una domanda, formulata utilizzando il modulo standard A. La domanda, unitamente ai documenti, è trasmessa a cura dell’ufficio al convenuto, il quale ha trenta giorni di tempo per depositare la sua risposta[49].

Rilevato che, ai sensi dell’art. 5, il procedimento europeo per le controversie di modesta entità si svolge, tendenzialmente, in forma scritta, senza necessità che si tenga una udienza di comparizione delle parti e/o di discussione[50], la fase decisoria muta a seconda che il convenuto si sia difeso o meno. In questo secondo caso, infatti, la causa è decisa senz’altro in favore dell’attore, sulla base di una sentenza c.d. contumaciale avverso la quale il convenuto potrà formulare istanza di riesame in casi eccezionali qualora dimostri che il modulo di domanda non gli è stato in tempo utile e in modo tale da consentirgli di provvedere alla propria difesa; oppure di non aver avuto la possibilità di contestare la domanda a causa di forza maggiore o di circostanze eccezionali a lui non imputabili.

La sentenza emessa al termine del procedimento è impugnabile con i mezzi di impugnazione ordinaria e, quindi, in Italia con l’appello (innanzi al Tribunale, nel caso in cui il giudizio di primo grado si sia svolto davanti al giudice di pace competente per valore) e con il ricorso per cassazione. La sentenza è, comunque, provvisoriamente esecutiva ed è riconosciuta ed eseguita in tutti gli altri stati membri senza necessità di alcun procedimento intermedio e, anche qui, senza che sia data al debitore la possibilità di opporsi al riconoscimento.

5.3 –  Il Regolamento n. 655/2014. Il Regolamento n. 655/2014 ha istituito, come anticipato, una procedura uniformemente regolata a livello europeo destinata a concludersi – al ricorrere delle condizioni di ammissibilità e fondatezza di cui si dirà infra[51] – con una decisione che, volendo utilizzare una terminologia di diritto interno, autorizza il creditore a procedere alla esecuzione di un sequestro conservativo presso terzi (o meglio, presso ben individuati terzi; ossia banche e/o istituti di credito) e che, proprio in quanto assunta all’esito di una procedura uniforme, potrà liberamente circolare nel territorio dell’Unione europea senza alcun bisogno di ottenere, in ciascun Stato membro diverso da quello ove la decisione è stata resa, un preventivo (e pur massimamente semplificato) provvedimento di exequatur.

Al ricorrere del fondamentale requisito della natura transnazionale della controversia, la domanda per l’emissione di un’OESC potrà essere richiesta sia ante causam, sia in corso di causa; in tali ipotesi, ai sensi dell’art. 6, paragrafo 1, il giudice competente sarà quello fornito di competenza giurisdizione sul merito secondo le pertinenti norme applicabili (e che, in massima parte, saranno quelle di cui al Regolamento n. 1215/2012)[52].

L’OESC, peraltro, può essere richiesta anche allorché in relazione al credito sia stata resa «una decisione giudiziaria, una transazione giudiziaria o un atto pubblico che impongono al debitore di pagare il credito vantato dal creditore»; in siffatte ipotesi, i paragrafi 3 e 4 dell’art. 6 prevedono che la competenza ad emettere l’OESC spetti ai giudici dello Stato membro in cui in cui è stata emessa la decisione giudiziaria, è stata approvata o conclusa la transazione giudiziaria ovvero, e da ultimo, ove è stato redatto l’atto pubblico[53].

Nel caso di richiesta di concessione dell’OESC ante causam o in corso di causa, il creditore dovrà provare la sussistenza dei due noti presupposti del fumus boni iuris[54] e del periculum in mora[55], mentre qualora la richiesta avvenga allorché sia stata già resa una decisione giudiziaria (o approvata una transazione giudiziaria o redatto un atto pubblico) dovrà provarsi esclusivamente il periculum.

Rispetto ad un nostro sequestro conservativo presso terzi, varie sono le particolarità dell’OESC alle qui può farsi solo un breve cenno: la prima sta nel fatto che il procedimento cautelare che mette capo all’emissione ed alla successiva attuazione OESC ha una necessaria ed integrale struttura unilaterale, nel senso che il debitore non deve essere avvertito né della pendenza del procedimento, né dell’emissione del provvedimento che, infatti, gli sarà notificato solo dopo che il terzo (ossia, la banca) abbia effettuato la sua positiva dichiarazione in ordine alla sussistenza di somme di pertinenza del debitore in uno dei conti presso di essa intrattenuti[56]; un’ulteriore peculiarità risiede nella circostanza per l’OESC sarà sempre pronunciata nei confronti di uno o più istituti di credito, i quali dovranno essere indicati dal ricorrente già nella sua domanda, ovvero oggetto di una indicazione successiva resa possibile dall’attività di ricerca dei “terzi sequestrati”[57] a cui il creditore può aspirare solo ed esclusivamente nei casi in cui abbia posto a fondamento della sua richiesta cautelare una decisione giudiziaria, una transazione o un atto pubblico esecutivi[58].

Qualora l’OESC sia stata emessa ante causam, il creditore dovrà dare avvio al procedimento di merito entro un termine perentorio[59] pena la definitiva perdita di efficacia del provvedimento precedentemente emesso che, ovviamente, non potrà più avere alcuna attuazione in nessuno Stato membro.

Quanto alla fase prettamente esecutivo-attuativa dell’OESC, il regolamento prevede che essa avvenga secondo le singole norme ed in conformità ai singoli procedimenti volta a volta previsti in ciascun Stato membro in relazione alla esecuzione di provvedimenti di sequestro conservativo presso terzi ivi, eventualmente, disciplinati. Il regolamento, tuttavia, non rinuncia a dettare alcune norme uniformi relative alla fase attuativo/esecutiva dell’OESC che, in quanto tali, sono destinate a prevalere su quelle interne che rispetto ad esse mostrino una sicura incompatibilità. A tale ultimo proposito, ad es., il regolamento prevede che l’esecuzione dell’OESC debba avvenire mediante notificazione o comunicazione alla banca dell’ordinanza a cui farà seguito una dichiarazione, positiva o negativa, che la banca dovrà inviare, entro un termine prestabilito, al creditore e, comunque, all’autorità competente per l’esecuzione nello Stato membro di esecuzione. Ancorché si tratti di modalità di attuazione del sequestro non dissimile da quella applicabile in Italia ai sensi dell’art. 678 c.p.c. (che rinvia, come noto, alle norme sul pignoramento presso terzi), il fatto che, nel contesto del regolamento, il debitore non deve essere portato a conoscenza dell’OESC fin tanto che essa abbia avuto attuazione implica, tra le altre cose, che le norme interne che prevedono, al fine di dare attuazione al sequestro conservativo presso terzi, la notificazione di un atto di sequestro sia al debitore che al terzo saranno inapplicabili[60].

Infine, gli artt. 33, 34, 35 e 36 del regolamento attribuiscono al debitore una serie di rimedi per contestare la concessione, l’esecuzione e l’efficacia del sequestro. Il primo rimedio concesso al debitore consiste nel ricorso avverso l’ordinanza di sequestro (art. 33); non si tratta, tuttavia, di un rimedio impugnatorio modellato sulla falsariga del nostro reclamo cautelare ma, diversamente, di uno strumento che consente al debitore di devolvere alle autorità giudiziarie dello Stato membro d’origine un esame a contraddittorio integro della ammissibilità e fondatezza della domanda proposta dal creditore[61]. Il secondo rimedio è regolato dall’art. 34 e consiste nella possibilità per il debitore di far valere motivi attinenti alla esecuzione del sequestro e, cosa rimarchevole, anche ad una eventuale contrarietà all’ordine pubblico dello Stato membro di esecuzione dell’attuazione del sequestro. Da ultimo, poi, l’art. 35 attribuisce, questa volta sia al creditore che al debitore, il potere di chiedere all’autorità giudiziaria dello Stato membro di esecuzione la revoca o la modifica dell’OESC in ragione di un sopravvenuto mutamento di circostanze[62].

6. Il recupero del credito commerciale verso un’impresa domiciliata in Italia. Il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni. Si ammetta, ora, di essere stati incaricati da una impresa domiciliata all’estero di recuperare un credito nei confronti di un’impresa domiciliata in Italia, credito per il quale è stata resa una decisione esecutiva in un altro stato.

Prenderemo, innanzi tutto, in considerazione l’ipotesi che la decisione di condanna esecutiva sia stata emessa in un altro Stato membro. Successivamente, ci occuperemo del caso della sentenza emessa in uno stato terzo.

Con riferimento all’ipotesi di decisione di condanna emessa in un diverso Stato membro, il riconoscimento e l’esecuzione di essa in Italia sono disciplinati dagli articoli da 36 a 57 del Regolamento n. 1215/2012. Tali previsioni, in sintesi, hanno profondamente innovato il sistema precedentemente in vigore, procedendo alla c.d. abolizione dell’exequatur. Per tutti i provvedimenti resi all’esito di procedimenti iniziati dopo il 10 gennaio 2015[63], tanto il riconoscimento quanto l’esecuzione sono automatici; nel senso che tanto l’eventuale efficacia di accertamento, quanto l’efficacia meramente esecutiva (anche solo provvisoria) del provvedimento reso in uno stato membro si producono nel territorio di tutti gli stati membri senza che sia necessario far ricorso in ciascuno ad alcuna procedura intermedia[64].

Ciò significa, in buona sostanza, che il creditore che abbia ottenuto un titolo esecutivo in Francia potrà servirsi di esso direttamente in Italia, ivi procedendo ad esecuzione forzata secondo le norme del libro terzo del codice di procedura civile se non derogate dalle previsioni uniformi del regolamento. In caso di esecuzione transfrontaliera, pertanto, il creditore dovrà procedere alla notificazione del titolo esecutivo e del precetto ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 479 c.p.c.[65] e, in virtù di quanto specificamente previsto dall’art. 43 del regolamento, dovrà anche aver cura di notificare, prima dell’inizio dell’esecuzione forzata l’attestato di cui all’art. 53[66].

Ancorché, come detto, nel vigore del Regolamento Bruxelles I-bis sia il riconoscimento (dell’efficacia di accertamento e, quindi, di giudicato) che l’esecuzione (ossia, il riconoscimento dell’efficacia esecutiva, anche solo meramente provvisoria) siano entrambi automatici, essi non sono però incondizionati. Nel contesto del sistema di Bruxelles I-bis – che in ciò si differenzia notevolmente rispetto al sistema edificato dai regolamenti di c.d. seconda generazione[67] – il riconoscimento e l’esecuzione costituiscono ancora l’effetto dell’integrazione di una fattispecie distinta ed ulteriore rispetto alla mera vigenza nel foro di origine della decisione, fattispecie rispetto alla quale i c.d. motivi ostativi al riconoscimento ed all’esecuzione di cui all’art. 45 del regolamento costituiscono altrettanti fatti impeditivi o estintivi.

In pratica, dunque, il debitore nei cui confronti sia minacciata un’esecuzione forzata sulla base di un titolo esecutivo formatosi in altro Stato membro potrà contestare il riconoscimento e l’esecuzione della decisione deducendo l’esistenza, appunto, di uno o più dei motivi ostativi tassativamente previsti dall’art. 45: si potrà, quindi, dedurre (i) la contrarietà all’ordine pubblico (sostanziale o processuale) della decisione, (ii) se la decisione è stata resa in contumacia, che la domanda giudiziale non è stata notificata in tempo utile e in modo tale da consentire al convenuto di poter presentare le proprie difese[68], (iii) il contrasto della decisione riconoscenda con altra decisione (anteriore o posteriore) resa nello stato membro di esecuzione, oppure con altra decisione anteriore resa in altro stato membro o in uno stato membro che possieda le condizioni per potere essere riconosciuta nello stato membro di esecuzione, (iv) la violazione delle regole di competenza esclusiva[69].

Tali motivi ostativi potranno essere dedotti in sede di opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c. da proporsi sempre dinanzi al tribunale[70], nella quale potranno essere fatti valere anche altri motivi di contestazione del diritto di procedere ad esecuzione forzata non necessariamente consistenti nell’esistenza di ragioni di rifiuto del riconoscimento o dell’esecuzione[71]. Secondo quanto oggi previsto dall’art. 30-bis del D.lgs. 150/2011[72], il rito applicabile all’opposizione all’esecuzione proposta (esclusivamente) per far valere la sussistenza di uno o più motivi ostativi al riconoscimento o all’esecuzione di una decisione resa in altro Stato membro ai sensi dell’art. 45 sarà il rito semplificato di cui agli artt. 281-decies e ss. c.p.c.[73].

Nel caso in cui la decisione sia stata resa in uno Stato terzo, il riconoscimento e l’esecuzione saranno regolati dagli artt. 64 e 67 della L. 218/1995. In sintesi, nel sistema della L. 218/1995, affinché il riconoscimento e l’esecuzione possano prodursi in Italia è, innanzi tutto, necessario che la decisione sia passata in giudicato[74]. Il riconoscimento dell’efficacia di giudicato sostanziale (e, quindi, di accertamento) è automatico, di modo che non è necessario ottenere una dichiarazione giudiziale apposita affinché la decisione possa dispiegare questi effetti in Italia[75] ; l’efficacia esecutiva è, invece, subordinata all’ottenimento di una apposita dichiarazione di esecutività da chiedersi, secondo le forme del procedimento semplificato di cognizione[76] e, quindi, di un giudizio a contraddittorio integro sin dall’inizio, alla Corte d’Appello competente (in unico grado di merito).

La dichiarazione di esecutività[77] sarà resa dalla Corte d’Appello una volta che risulti accertata l’integrazione della fattispecie data dall’insieme di quei fatti costitutivi, impeditivi ed estintivi indicati dall’art. 64 L. 218/19995; e così, la sentenza non potrà essere riconosciuta (e dovrà pertanto negarsi la dichiarazione di esecutività) (i) se il giudice che l’ha emessa ha conosciuto della causa «secondo i principi sulla competenza giurisdizionale propri dell’ordinamento italiano» (controllo della c.d. competenza indiretta[78]), (ii) se essa è contraria ad altra sentenza passata in giudicato pronunciata (prima o dopo la sentenza riconoscenda) dal giudice italiano, (iii) se davanti al giudice italiano pende un processo fra le stesse parti avente ad oggetto la stessa causa che è iniziato prima del giudizio estero, (iv) se la sentenza produce effetti contrari all’ordine pubblico, (v) se sono stati violati i diritti essenziali di difesa del convenuto.

* Testo della relazione tenuta nel corso del Convegno “L’Avvocato ed il contenzioso transfrontaliero” organizzato da EJN-ita 2.0, C.N.F. e S.S.A. e svoltosi a Roma il 7 febbraio 2024.

[1] È necessaria una precisazione. Nel testo si è fatto riferimento, per comodità, alla nazionalità dei soggetti protagonisti della relazione commerciale da cui deriva la pretesa creditoria dell’impresa cliente dell’avvocato italiano. In realtà, il requisito della nazionalità, in quanto tale, è irrilevante ai fini della soluzione delle questioni di giurisdizione, di individuazione degli strumenti processuali applicabili e di riconoscimento ed esecuzione dei provvedimenti. Nonostante taluni (anche recentissimi) disorientamenti della nostra SC (che non esita ad affermare – in modo chiaramente erroneo – che la giurisdizione italiana sussiste sempre e comunque nei confronti del cittadino italiano; così da ultimo Cass., sez. un., n. 141/2024, secondo la quale «i criteri di collegamento previsti dall’art. 3 legge 218/1995 non valgono come limite alla giurisdizione nei confronti del cittadino italiano, in quanto il cittadino italiano sempre e senza riserve può essere convenuto avanti ai giudici italiani») è il domicilio (o la residenza) a rilevare, ad es., in tema di giurisdizione internazionale, non certo la nazionalità del convenuto.

[2] In un successivo paragrafo ci occuperemo dei problemi specifici che si pongono nell’eventualità che il credito commerciale dell’impresa italiana sia vantato verso una persona fisica che agisca per scopi estranei alla professione o al commercio eventualmente esercitati (ossia, verso un consumatore).

[3] Nel nostro caso entrambe le imprese sono domiciliate in uno stato membro; quanto stiamo dicendo nel testo in merito all’accordo di proroga della giurisdizione in favore di un giudice di uno stato membro vale ugualmente, ancorché nessuna delle due imprese sia domiciliata in uno Stato membro.

[4] Ma la previsione in esame è destinata ad applicarsi, più ampiamente, a tutti i casi in cui tra le parti corra una «particular legal relationship», non necessariamente, allora, di natura contrattuale.

[5] V. meglio infra a tale specifico proposito.

[6] L’art. 25, infatti, prevede espressamente che l’accordo di electio fori possa essere concluso oralmente ma provato per iscritto.

[7] Sulla base di quanto abbiamo provato a sintetizzare nel testo, non è condivisibile quanto deciso da Cass. civ., 10 gennaio 2023, n. 361 che ha escluso la validità di un accordo di scelta del foro di cui si assumeva la conclusione mediante l’inserimento di una clausola di proroga contenuta in condizioni generali di contratto. Nel caso di specie, le condizioni generali erano state espressamente richiamate nella prima pagina del contratto e poi anche allegate al testo contrattuale senza, però, essere state sottoscritte. A parere della SC, tuttavia, il mero richiamo alle condizioni generali pur allegate non era sufficiente in quanto, in mancanza di sottoscrizione del documento contenente le condizioni generali, il richiamo avrebbe dovuto essere specifico, ossia avrebbe dovuto fare espresso riferimento al fatto che le condizioni in questione recassero una clausola di proroga/deroga della giurisdizione.

[8] Ai sensi di quanto previsto dall’art. 1341 c.c. Tale disposizione non è applicabile alla clausola di scelta del foro contenuta in condizioni generali di contratto secondo quanto ripetutamente affermato dalla nostra cassazione, dovendosi peraltro aver cura di precisare che, in ogni caso, essa dovrebbe ritenersi astrattamente applicabile ai soli casi in cui la clausola in questione elegga i giudici italiani. Solo in questo caso, infatti, potrebbe astrattamente sostenersi l’applicabilità della legge italiana alle questioni di validità dell’accordo di deroga (arg. art. 25, paragrafo 1, Bruxelles I-bis).

[9] Corte di Giustizia, 8 marzo 2018, Causa C-64/17, Saey Home & Garden NV/SA

[10] Il metodo analitico continua, peraltro, ad applicarsi a tutti i tipi di contratto diversi dalla compravendita di beni e dalla prestazione di servizi, in virtù di quanto previsto dall’art. 7, paragrafo 1, lett. a).

[11] Accordo da non confondere, quindi, con quello di scelta del foro. Perché se è vero che l’accordo delle parti relativo al luogo di esecuzione dell’obbligazione caratteristica influisce sulla individuazione del giudice fornito di giurisdizione secondo il criterio speciale in materia contrattuale, tale accordo, però, non ha né l’effetto di escludere la giurisdizione di dei giudici di un diverso Stato membro qualora essa sussista in virtù di altre norme del regolamento, né quello di aggiungere un ulteriore foro rispetto a quelli d’ordinario disponibili.

[12] Pertanto, per esemplificare: ancorché il contratto di fornitura di merce concluso tra l’impresa italiana A e l’impresa B domiciliata in Francia sia regolato dalla legge italiana e l’obbligazione concretamente dedotta in giudizio sia quella gravante sul compratore di pagare il prezzo, non rileva ai fini della giurisdizione il fatto che detta obbligazione (ai sensi dell’art. 1182 c.c.) debba essere adempiuta al domicilio del creditore. Rileverà, invece, esclusivamente il luogo di esecuzione dell’obbligazione caratteristica, ossia quello di consegna dei beni.

[13] Corte di giustizia, 9 giugno 2011, in causa C-87/10, Electrosteel Europe SA, secondo la quale «al fine di verificare se il luogo di consegna sia determinato ‘in base al contratto’, il giudice nazionale adito deve tenere conto di tutti i termini e di tutte le clausole rilevanti di tale contratto che siano idonei a identificare con chiarezza tale luogo, ivi compresi i termini e le clausole generalmente riconosciuti e sanciti dagli usi del commercio internazionale, quali gli Incoterms (International Commercial Terms), elaborati dalla Camera di commercio internazionale».

[14] Cass. civ., sez. un., 2 maggio 2023, n. 11346, in Riv. dir. int. priv. e proc., 2023, 450 ss. Sulla pronuncia v. P. Franzina, La cassazione muta indirizzo su Incoterms e luogo della consegna dei beni, ivi, 290 e ss., al quale si rinvia per un ulteriore approfondimento dei termini della questione in esame.

[15] A seguito della uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, la controversia tra un’impresa italiana ed altra impresa domiciliata nel Regno Unito ricade tra le ipotesi di pretese rivolte contro un soggetto domiciliato in uno Stato terzo a condizione che la causa sia iniziata dopo il 31 dicembre 2020, ossia dopo la fine del periodo transitorio di cui al all’art. 67, comma 1, lett. a), dell’Accordo di recesso concluso fra il Regno Unito e l’Unione europea. Per tutte le controversie fino al 31 dicembre 2020, continuano infatti ad applicarsi, tra le altre, le disposizioni del Regolamento n. 1215/2012.

[16] Il cui articolo 68 così recita: «Il presente regolamento sostituisce, tra gli Stati membri, le disposizioni della convenzione di Bruxelles salvo per quanto riguarda i territori degli Stati membri che rientrano nel campo di applicazione territoriale di tale convenzione e che sono esclusi dal presente regolamento ai sensi dell’articolo 299 del trattato. Nella misura in cui il presente regolamento sostituisce, tra gli Stati membri, le disposizioni della convenzione di Bruxelles ogni riferimento a tale convenzione si intende fatto al presente regolamento».

[17] Per intendersi e ragionando pragmaticamente: nel vigore della Convenzione di Bruxelles del 1968, la pretesa dell’impresa italiana avente ad oggetto il pagamento del prezzo convenuto in un contratto regolato dalla legge italiana con altra impresa domiciliata in Francia era, senz’altro, devoluta alla giurisdizione del giudice italiano ai sensi dell’art. 5 quale giudice del luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio avente ad oggetto una somma di denaro liquido da adempiere, quindi, presso il domicilio del creditore ai sensi dell’art. 1182 c.c. Diversamente, in questo stesso caso la giurisdizione italiana in materia contrattuale potrà darsi solo se i beni sono stati o avrebbero dovuto essere consegnati in Italia.

[18] Che, tuttavia, non motiva la scelta e, per di più, applica male, in ogni caso, il rinvio perché in un caso in cui veniva in rilievo una domanda di condanna al pagamento di un compenso professionale pattuito in un incarico regolato dalla legge italiana (di modo che, dunque, l’obbligazione dedotta in giudizio aveva ad oggetto il pagamento di una somma di denaro liquida, da adempiere al domicilio del creditore ex art. 1182 c.c.), ha dato rilievo al luogo di esecuzione della prestazione professionale (ugualmente localizzata in Italia).

[19] Vi è anche un’altra ordinanza di rimessione alle sezioni unite, emessa il giorno precedente dalla stessa seconda sezione (medesimo relatore, Dott.ssa Besso Marcheis): Cass. civ., sez. 2, 13 settembre 2023, n. 26422. Dopo le due ordinanze di rimessione gemelle, già altre pronunce della SC hanno chiaramente aderito alla soluzione del rinvio mobile (Cass. civ., sez. 2, 25 ottobre 2023, n. 29575; Cass. civ., sez. un., 5 dicembre 2023, n. 34032; Cass. civ., sez. un., 8 gennaio 2024, n. 613), senza attendere il responso delle sezioni unite. Con ordinanza n. 5303 del 28 febbraio 2024, le Sezioni Unite hanno confermato il più recente orientamento e, dunque, ritenuto fondata la tesi del rinvio mobile.

[20] Ai sensi delle lettere a) e b) dell’art. 17 del Regolamento n. 1215/2012, le regole protettive di giurisdizione in materia di contratti conclusi da un consumatore si applicano «a) qualora si tratti di una vendita a rate di beni mobili materiali; b) qualora si tratti di un prestito con rimborso rateizzato o di un’altra operazione di credito, connessi con il finanziamento di una vendita di tali beni».

[21] Contratto di fornitura di merce con pagamento in unica soluzione.

[22] C-585/08 e C-144/09 (sentenza 7 dicembre 2010).

[23] Quantunque non sia necessario che il contratto sia concluso a distanza (Corte di Giustizia, 6 settembre 2012, causa C‑190/11, Mühlleitner).

[24] Art. 45, lett. e), punto (i), del Regolamento n. 1215/2012. Diversa questione – che qui può essere solo accennata – è quella relativa alla possibilità di esportare in altro Stato membro una decisione resa in Italia contro un consumatore ivi domiciliato, allorché tale decisione sia (come possibile) un decreto ingiuntivo divenuto definitivo per mancata opposizione. In generale, il decreto ingiuntivo italiano divenuto definitivo per mancata opposizione reso contro il consumatore domiciliato in Italia è automaticamente riconosciuto ed eseguito negli altri Stati membri, in conformità alle previsioni di cui al Regolamento n. 1215/2012. Il problema sorge se questo decreto ingiuntivo sia stato emesso senza aver esaminato l’eventuale natura abusiva delle clausole contrattuali ai sensi della Direttiva CE n. 93/113 e, dunque, senza aver espressamente motivato al riguardo mancando, così, anche di avvertite il consumatore delle conseguenze della sua inattività. In tali casi, come tutti sanno, Cass., sez. un., 9479/2023 – dando seguito a quanto deciso da Corte di Giustizia, 17 maggio 2022, cause riunite C-693/19 e C-831/19, SPV Project – ha ritenuto che, nonostante l’acquisita definitività del decreto, il consumatore possa proporre opposizione tardiva ai sensi dell’art. 650 c.p.c. all’esclusivo fine di rilevare l’abusività di una o più clausole in grado di incidere sul fondamento di rito o di merito dell’ingiunzione. Tale opposizione tardiva va proposto entro 40 giorni dal giorno in cui il giudice dell’esecuzione abbia avvertito il consumatore di tale eventualità. Ci si può chiedere, quindi, se un decreto ingiuntivo, definitivo per mancata opposizione, ma privo di motivazione e di avvertimento con riferimento al tema della abusività delle clausole, possa ugualmente circolare liberamente nello spazio giudiziario europeo o se, invece, rispetto ad esso sussistano uno o più motivi ostativi al riconoscimento di cui all’art. 45 del Regolamento n. 1215/2012.

[25] V. la precedente nota n. 19.

[26] Non vi sono, infatti, previsioni che limitano, in ragione della localizzazione in altro Stato membro del domicilio del convenuto, l’utilizzo del processo ordinario di cognizione di primo grado davanti al Tribunale o al giudice di pace, del procedimento semplificato o del procedimento monitorio, per come regolati dalle corrispondenti norme del codice di rito. Il fatto che la controversia – instaurata in una delle forme previste dalla legislazione processuale meramente interna – veda il coinvolgimento di un convenuto domiciliato in un diverso Stato membro rileverà, semmai, ai fini del rispetto dei termini a difesa e delle modalità di notificazione degli atti. Quanto al primo aspetto, l’art. 163-bis, comma 1, c.p.c. prevede che in caso di notificazione all’estero dell’atto di citazione, il termine minimo a comparire sia di 150 giorni (e non di 120 giorni); l’art. 281-undecies c.p.c. prevede che, in caso di notificazione del ricorso all’estero, tra la data di notificazione del ricorso e la data dell’udienza di comparizione debbano intercorrere termini liberi non inferiori a 60 giorni; l’art. 641, secondo comma, c.p.c. prevede che, nel caso in cui il debitore ingiunto risiede in un diverso Stato membro, il termine per l’opposizione è di 50 giorni (anziché 40). Quanto al secondo aspetto, nel caso di convenuto domiciliato in un altro Stato membro, la notificazione dell’atto introduttivo dovrà avvenire secondo quanto previsto dal Regolamento (UE) n. 1784/2020.

[27] Le cui disposizioni, come è facile intendere, richiederebbero un livello approfondimento incompatibile con la natura di questo scritto.

[28] Tutte e tre le disposizioni citate nel testo contengono l’ulteriore previsione secondo cui il momento rilevante per determinare se sussiste o meno una controversia transfrontaliera è quello di deposito della domanda.

[29] Per semplicità di esposizione abbiamo assunto di trovarci al cospetto di un’impresa italiana che ci ha conferito mandato per recuperare un credito nei confronti di altra impresa domiciliata in un diverso Stato membro, con giudizio da intraprendersi, se possibile, in Italia. Stiamo, quindi, esaminando la possibilità di servirci dinanzi al giudice italiano, se giurisdizionalmente competente, di strumenti di diritto processuale europeo uniforme. Tuttavia, la possibilità di fare ricorso a procedimenti uniformemente regolati a livello europeo sembrerebbe essere più utilmente apprezzabile proprio allorché l’impresa italiana sia costretta, in ragione del diverso operare dei criteri di giurisdizione, ad agire presso lo stato membro di domicilio del convenuto. È proprio in tali ipotesi, in effetti, che l’uniformazione processuale parrebbe dare i suoi maggiori e, come si diceva, più utili frutti, in quanto essa consente al creditore “straniero” di agire fuori casa servendosi, però, di procedure conosciute in quanto applicabili anche nel proprio stato membro.

[30] Se, invece, il cliente, al tempo del contratto domiciliato in altro stato membro, abbia spostato, nel frattempo, il proprio domicilio in Italia, ciò non consentirà di fare ricorso alle procedure uniformi di cui si dice nel testo, e ciò per difetto del requisito della natura transfrontaliera della lite. Nel caso di controversia transfrontaliera al momento del deposito della domanda, a nulla rileva, invece, il fatto che l’ingiunzione di pagamento (se non opposta) possa essere, comunque, eseguita su beni del debitore situati in Italia. Sempre in relazione al requisito della natura transfrontaliera della controversia, parrebbe doversi ritenere che, nei casi di litisconsorzio facoltativo passivo (come, ad es., nel caso di azione proposta contro il debitore principale e contro il fideiussore), l’IPE e il procedimento small claims possano utilizzarsi allorché anche solo dei convenuti sia domiciliato in un diverso Stato membro.

[31] Pertanto, per esemplificare: se l’impresa italiana A ha fornito merce alla impresa italiana B che possiede un conto corrente in Lussemburgo, A potrà richiedere un’OESC al giudice italiano (fornito di giurisdizione in ragione della localizzazione del domicilio del convenuto in Italia e sempre che il contratto non contenga un accordo di deroga alla giurisdizione).

[32] Mediante l’utilizzo del Modulo A, compilabile anche direttamente su internet al sito https://e-justice.europa.eu/156/IT/european_payment_order_forms?clang=it. Poiché il Regolamento 1896/2006 prevede che la domanda possa essere depositata nelle forme tradizionali o anche in forma telematica, per richiedere l’IPE non è obbligatorio servirsi del processo civile telematico (così anche Trib. Milano, decreto, 8 aprile 2015, n, 10488). Ai sensi dell’art. 24 del regolamento, peraltro, non è obbligatoria l’assistenza di un avvocato.

[33] Il legislatore italiano, diversamente da quanto accaduto in altri ordinamenti (Irlanda e Germania, tra gli altri), ha deciso di non concentrare presso un unico foro la competenza interna per l’emissione delle ingiunzioni di pagamento europea. Varranno, quindi, tanto le ordinarie regole di giurisdizione (quelle di cui al Regolamento n. 1215/2012, per intendersi), quanto quelle ordinarie di competenza interna per valore, materia e territorio. Con riferimento all’ipotesi di ingiunzione di pagamento richiesta nei confronti di un consumatore, l’unico giudice giurisdizionalmente competente ad emettere l’IPE sarà il giudice dello stato membro di domicilio del consumatore, quantunque il credito ingiunto derivi da un contratto diverso da quelli previsto dall’art. 17 del Regolamento n. 1215/2012.

[34] L’articolo 7, paragrafo 1, lett. e), richiede, infatti, solo che il ricorrente indichi nel modulo una «descrizione delle prove a sostegno della domanda». Allorché, tuttavia, il credito sia vantato nei confronti di un consumatore, il giudice potrà richiedere al creditore di produrre il contratto al fine di verificare l’esistenza di eventuali clausole abusive (Corte di Giustizia, 19 dicembre 2019, causa C-453/18, Bondora).

[35] Art. 11, lett. b). Nel caso di parziale accoglimento, invece, il regolamento rinvia alla legge processuale nazionale per disciplinare la sorte del parziale rigetto. In Italia, come tutti sanno, nel caso di accoglimento parziale, non si forma alcun giudicato di rigetto sulla parte non accolta.

[36] Che, allo stato, non prevede alcuna possibilità per il giudice di dare atto dell’avvenuto controllo sull’abusività delle clausole del contratto di consumo eventualmente posto a base della domanda e di avvertire il debitore-consumatore delle conseguenze della sua inattività. Tuttavia, a noi sembra di poter osservare che, nel contesto del procedimento europeo di ingiunzione di pagamento, la necessità di un controllo effettivo da parte del giudice in ordine alla eventuale abusività di una o più clausole incidenti sul fondamento di rito o di merito dell’emittenda ingiunzione potrebbe ritenersi soddisfatta le volte in cui il giudice, servendosi del potere riconosciutogli dalla sentenza Bondora (v. la precedente nota 33)

[37] Diversamente, quindi, da quanto previsto per il decreto ingiuntivo italiano, il quale ai sensi dell’art. 642 c.p.c. può essere dichiarato provvisoriamente esecutivo anche nella fase inaudita altera parte. Tuttavia, nel contesto del contenzioso transfrontaliero, la provvisoria esecutività del decreto ingiuntivo ai sensi dell’art. 642 c.p.c. non sortirà particolari effetti utili per il creditore atteso che ad un provvedimento siffatto (emesso senza che sia stata data al debitore la possibilità di difendersi) sembrerebbe doversi negare l’attitudine all’automatica circolazione infra-europea secondo le pertinenti norme del Regolamento n. 1215/2012 (in senso contrario v. però Trib. Milano, 7 maggio 2020, in Riv. Dir. Internaz. Priv. e Proc., 2020, 4, 920, secondo il quale il decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo ai sensi dell’art. 642 c.p.c. potrebbe circolare secondo le disposizioni del regolamento 1215/2012 «ai sensi dell’art. 2 lett. a del regolamento (UE) n. 1215/2012 del 12 dicembre 2012, il quale richiede che l’ingiunzione di pagamento sia stata notificata, ma (prescindendo dalla mancata contestazione) non anche che sia decorso il termine per la proposizione dell’opposizione, e consente la circolazione anche di decisioni diverse da quelle di condanna al pagamento di una somma di denaro»). In relazione a tale affermazione, tuttavia, pare lecito sollevare un dubbio in quanto, in realtà, anche nel passaggio dal regolamento 44/2001 al reg. 1215/2012 parrebbe rimanere intatta la necessità (ai fini della agevolata circolazione esecutiva delle decisioni in materia civile e commerciale) che sia stata data al debitore la possibilità di difendersi (ciò ricavandosi da quanto previsto dall’art. 45, n. 2, reg. 1215/2012 che, infatti, ricollega la possibilità di una circolazione dei provvedimenti emessi senza la partecipazione del convenuto solo a condizione che a questi sia stata comunicata o notificata in tempo utile la domanda giudiziale).

[38] Essendo, anzi, fortemente consigliabile che si limiti a ciò. Per evitare che ulteriori affermazioni relative al merito della controversia possano essere intese alla stregua di un’accettazione della giurisdizione o come rinuncia a farne valere delle altre.

[39] Che, dunque, non potrà in nessun caso rivivere, nel caso in cui il giudizio a cognizione piena che si apre a seguito dell’opposizione (v. infra) si estingua, nè essere dichiarata provvisoriamente esecutiva nel corso di tale giudizio.

[40] In tal caso, l’opposizione sarà tempestiva se inviata entro i trenta giorni dalla notificazione. Se ne trae argomento dall’art. 16, paragrafo 1.

[41] Tuttavia, il considerando 23 dispone che «i giudici dovrebbero tuttavia tener conto di qualsiasi altra forma di opposizione scritta se espressa in modo chiaro».

[42] Al momento della presentazione della domanda di ingiunzione (in apposita appendice del modulo A che non sarà notificata al debitore) o, al più tardi, prima che sia emessa l’ingiunzione, il creditore può infatti informare il giudice che, in caso di opposizione, egli non intende proseguire oltre con il procedimento. Tale facoltà del creditore, si giustifica in virtù della considerazione per cui il ricorrente ha fatto, in un certo senso, affidamento, per il recupero del credito pecuniario vantato, sul contegno non contestativo del proprio debitore e, quindi, ha stimato a tale scopo conveniente, sotto ogni profilo, il ricorso ad un procedimento poco impegnativo e poco costoso. Cosicché, qualora tali aspettative vengano meno a causa dell’opposizione del convenuto, si è ritenuto opportuno che questi possa di fatto rinunciare all’instaurazione di un ordinario giudizio sicuramente più oneroso e maggiormente gravoso.

[43] Cass., sez. un., 2840/2019.

[44] Secondo quanto previsto dall’art. 17, paragrafo 5.

[45] Se, ad es., il credito ingiunto fosse relativo ad un contratto di locazione, l’atto introduttivo dovrebbe necessariamente assumere le forme di un ricorso da depositarsi in cancelleria entro il termine fissato dal giudice. Qualora, invece, la materia non implichi l’applicabilità di un rito speciale, l’attore potrà decidere liberamente se servirsi delle regole del processo ordinario, ovvero delle regole del procedimento semplificato di cui agli artt. 281-decies e ss. c.p.c.

[46] La soluzione adottata dalle sezioni unite si espone, a nostro avviso, a questa fondamentale obiezione: allorché, come visto, il regolamento richiede una espressa dichiarazione del creditore, anticipata rispetto all’eventuale opposizione, di non voler dar corso al procedimento ordinario per il caso di contestazione della pretesa da parte del debitore, ciò significa che, una volta proposta l’opposizione, il creditore perde il monopolio della scelta relativa alla prosecuzione del procedimento nella sede ordinaria, imponendo al contrario una perfetta bilateralità nella relativa iniziativa giudiziale; qualsiasi soluzione relativa al passaggio dalla fase monitoria a quella a cognizione  piena deve, dunque, assicurare questa necessaria bilateralità che, invece, è fatalmente frustrata ritenendo, come fanno le sezioni unite, che il giudice debba assegnare un termine al solo creditore, in quanto così si attribuisce a quest’ultimo, in violazione del principio di bilateralità appunto, il solitario governo dei destini del procedimento.

[47] Se non per l’eccezionale motivo ostativo (previsto dall’art. 22) del contrasto dell’IPE con una decisione anteriore emessa nello stato membro di esecuzione o in uno stato terzo.

[48] In Italia, pertanto, il procedimento è destinato a trovare applicazione quasi esclusivamente dinanzi al giudice di pace, atteso l’innalzamento sino ad Euro 10.000,00 della sua competenza per valore a seguito delle modifiche in vigore dal 1° marzo 2023 di cui al D.lgs. 149/2022 (Riforma Cartabia).

[49] Nel caso in cui il convenuto abbia proposta una domanda riconvenzionale, l’attore avrà a disposizione 30 giorni per replicare.

[50] Il paragrafo 1-bis dell’art. 5, infatti, prevede che «l’organo giurisdizionale procede a un’udienza esclusivamente se ritiene che non sia possibile emettere la sentenza sulla base delle prove scritte o su richiesta di una delle parti. L’organo giurisdizionale può rigettare tale richiesta se ritiene che, tenuto conto delle circostanze del caso, un’udienza sia superflua per l’equa trattazione del procedimento. Il rigetto è motivato per iscritto. Il rigetto non può essere impugnato autonomamente rispetto all’eventuale impugnazione della sentenza».

[51] Seppur in modo necessariamente incompleto, non potendo aver luogo in questa sede un esame dettagliato ed approfondito del complesso meccanismo di funzionamento dell’OESC.

[52] Anche qui, tuttavia, vale la regola eccezionale per la quale la competenza ad emettere l’ordinanza in relazione ad un credito derivante da un contratto concluso con un consumatore spetta esclusivamente all’autorità giudiziaria dello Stato membro in cui è domiciliato il debitore

[53] Al di là delle previsioni in ordine alla competenza, non v’è dubbio che proprio tale possibilità di tutelare in via cautelare un credito già divenuto oggetto di una decisione giudiziaria, di una transazione giudiziaria o di un atto pubblico costituisca uno degli snodi maggiormente critici del regolamento in esame

[54] Secondo quanto disposto dal paragrafo 2 dell’art. 7, il creditore dovrà, infatti, in tal caso convincere l’autorità giudiziaria che la sua domanda relativa al credito vantato nei confronti del debitore sarà verosimilmente accolta nel merito

[55] Più in particolare, ai sensi dell’art. 7, paragrafo 1, il creditore deve presentare «prove sufficienti per convincere l’autorità giudiziaria dell’urgente necessità di una misura cautelare sotto forma di ordinanza di sequestro conservativo in quanto sussiste il rischio concreto che, senza tale misura, la successiva esecuzione del credito vantato dal creditore nei confronti del debitore sia compromessa o resa sostanzialmente più difficile».

[56] Tale struttura è stata adottata dal legislatore europeo «per garantire l’effetto sorpresa dell’ordinanza di sequestro conservativo e assicurare che questa sia uno strumento utile per un creditore intenzionato a recuperare crediti da un debitore in casi transnazionali» (così il considerando 15)

[57] V. a tal proposito quanto previsto dall’art. 3 D.lgs. 26 ottobre 2020 n. 252 che si occupa specificamente del profilo della ricerca dei conti da sequestrare nell’ambito del Regolamento n. 655/2014, rinviando all’art. 492-bis c.p.c. seppure con talune rilevanti deroghe (ad es., la competenza del presidente del tribunale, anziché dell’Ufficiale Giudiziario).

[58] L’attività di ricerca di conti da sequestrare è concessa anche al creditore anche qualora la decisione giudiziaria, la transazione e l’atto pubblico non siano esecutivi ma abbiano ad oggetto un credito di rilevante importo.

[59] Che è di trenta giorni dal deposito della domanda o di 14 giorni dall’emissione dell’OESC, a seconda di quale delle due date cada successivamente (art. 10).

[60] Ed infatti, l’art. 5, comma 1, del D.lgs. 152/2020 prevede che «l’ordinanza europea di sequestro conservativo su conti bancari, attuata in conformità alle disposizioni del capo 3 del regolamento, si esegue secondo le norme previste dall’articolo 678 del codice di procedura civile per il pignoramento presso terzi successivamente alla notificazione o comunicazione al debitore di cui all’articolo 28 del regolamento».

[61] La competenza sarà, quindi, dello stesso giudice (monocratico) che ha emesso il provvedimento (cfr., da noi, l’art. 6 del D.lgs. 152/2020

[62] L’art. 37 prevede che le parti debbano avere la possibilità di impugnare le decisioni emesse all’esito di uno dei giudizi di cui agli artt. 33, 34 o 35. Ai sensi dell’art. 8 del D.lgs. n. 152/2020, l’impugnazione proponibile sarà, in ogni caso, il reclamo al collegio ai sensi dell’art. 669-terdecies c.p.c.

[63] Per il riconoscimento e l’esecuzione dei provvedimenti emessi dopo il 10 gennaio 2015 ma all’esito di procedimenti iniziati prima si continuerà, invece, ad applicare il Regolamento n. 44/2011 il quale, tra l’altro, subordinava la possibilità di procedere esecutivamente in uno stato membro diverso da quello di emissione della decisione all’ottenimento nel primo stato (c.d. stato di esecuzione) di un decreto di exequatur. Ancora più in particolare, in quel sistema il creditore che intendeva procedere ad esecuzione forzata in Italia di un titolo esecutivo formatosi in altro stato membro doveva richiedere alla Corte d’Appello un decreto di exequatur da rendersi inaudita altera parte e all’esito di un controllo meramente formale della regolarità della documentazione; avverso tale decreto il debitore doveva opporsi entro un termine perentorio al fine di far valere uno o più motivi ostativi al riconoscimento. Nelle more del giudizio di opposizione, il creditore non poteva procedere ad esecuzione forzata (potendo, al contrario, procedere solo al compimento di atti cautelari).

[64] Quanto al riconoscimento è l’art. 36 a prevedere che «la decisione emessa in uno Stato membro è riconosciuta in un altro Stato membro senza che sia necessario il ricorso ad alcuna procedura particolare»; con riferimento all’esecuzione l’art. 39 dispone che «la decisione emessa in uno Stato membro che è esecutiva in tale Stato membro è altresì esecutiva negli altri Stati membri senza che sia richiesta una dichiarazione di esecutività».

[65] Non sarà, peraltro, obbligatorio fornire, a pena di nullità, una traduzione in italiano della decisione che costituisce titolo esecutivo. Lo si ricava con certezza dalle previsioni contenute negli articoli 42, paragrafo 3, e 43, paragrafo 3. La prima previsione riconosce, infatti, all’autorità competente per l’esecuzione la semplice facoltà di richiedere al creditore una traduzione del certificato (e non della decisione), mentre la seconda consente al debitore di richiedere la traduzione della decisione (dunque notificata in lingua originale) con conseguente limitazione alle sole misure cautelari del procedimento di esecuzione.

[66] L’attestato di cui all’art. 53 – rilasciato dal giudice di origine utilizzando un modulo standard allegato al regolamento – contiene tutte le informazioni necessarie alla completa individuazione degli elementi soggettivi ed oggettivi della decisione da eseguire. L’articolo 43 non dice quanto tempo prima il certificato debba essere notificato al debitore, ma il considerando 32 spiega che la notifica deve essere effettuata «in un tempo ragionevole» prima del primo atto esecutivo. Da noi, quindi, sarà sufficiente notificarlo unitamente all’atto di precetto ed al titolo esecutivo. La notificazione del titolo esecutivo si impone, quantunque l’art. 43, primo paragrafo, preveda che l’attestato debba essere notificato unitamente alla decisione a meno che questa «non sia già stata notificata o comunicata» al debitore esecutato. Tale preventiva comunicazione o notificazione non esonera il creditore dal rispettare la previsione di cui all’art. 479 c.p.c., a meno che, ovviamente, si tratti proprio di una notificazione del titolo esecutivo già avvenuta in Italia.

[67] In cui il riconoscimento e l’esecuzione di decisioni europee assunte all’esito di procedure uniformemente regolate a livello europeo sono automatici e non possono neppure essere contestati negli altri stati membri (se non con la limitatissima eccezione della esistenza di una decisione anteriore contrastante emessa nello stato membro di esecuzione). Può dirsi, insomma, che nel sistema Bruxelles I-bis la logica è ancora quella della circolazione (ancorché massimamente semplificata) di una decisione nazionale rispetto alla quale i motivi ostativi al riconoscimento costituiscono fatti impeditivi di una fattispecie diversa ed ulteriore rispetto alla mera vigenza nel foro della decisione, con la conseguenza per cui la decisione può continuare ad essere valida nello stato membro di origine e non produrre effetti (perché la fattispecie del riconoscimento non si è integrata) in un diverso Stato membro. Al contrario, nel caso delle decisioni rese all’esito dei procedimenti europei uniformi, la mera vigenza nel foro della decisione è circostanza necessaria ma sufficiente per la sua automatica ed incondizionata vigenza anche in tutti gli altri Stati membri, con la conseguenza per cui la decisione o è valida ovunque o non è valida da nessuna parte.

[68] Tale motivo ostativo, peraltro, sarà sterilizzato in tutti i casi in cui la violazione processuale in cui si è incorsi nel giudizio a quo (e che non ha permesso al convenuto di partecipare al processo o, comunque, di avere tempo sufficiente per allestire la sua difesa) possa essere rimediata impugnando la decisione; facendosi, dunque, applicazione del principio di necessaria concentrazione delle difese nello stato membro di origine anche in relazione al sistema della circolazione e del riconoscimento della decisione.

[69] Quelle di cui all’art. 24 e quelle in materia di contratti di assicurazione, di contratti con i consumatori e di contratti di lavoro. In quest’ultimo caso, peraltro, la violazione delle regole di competenza può essere dedotta come motivo ostativo solo nella misura in cui la decisione è stata resa contro l’assicurato, il consumatore o il lavoratore. Non costituisce, invece, motivo ostativo al riconoscimento la violazione della regola esclusiva di competenza data dall’esistenza di un accordo di proroga, né la violazione della regola di priorità in caso di litispendenza.

[70] Ancorché il credito oggetto della decisione straniera sia di importo pari o inferiore ad Euro 10.000,00 (limite di competenza per valore del Giudice di pace, come si sa).

[71] Se consentito dai limiti oggettivi e temporali dell’eventuale giudicato (o, comunque, nella misura in cui ciò non sia impedito dal principio del dedotto e del deducibile rispetto alla decisione straniera), in sede di opposizione all’esecuzione contro una decisione proveniente da un altro Stato membro potranno dedursi fatti impeditivi, estintivi o modificativi del diritto di credito rilevanti nel terreno del diritto sostanziale (ad es., già avvenuto pagamento posteriore alla decisione, conclusione di una transazione, remissione del debito, etc.).

[72] Introdotto dal D.lgs. 149/2022 (c.d. Riforma Cartabia) e quindi applicabile a decorrere dal 1 marzo 2023 (incluso).

[73] Nel caso in cui, unitamente alla contestazione del diritto di procedere ad esecuzione forzata europeo iure, si deducano ulteriori motivi di opposizione all’esecuzione c.d. interni (e per i quali, quindi, sarebbe applicabile il rito ordinario di cognizione, salva la possibilità di applicazione opzionale del rito semplificato), il simultaneus processus potrà garantirsi attraverso l’applicazione del rito ordinario all’intera causa (valorizzando quanto oggi previsto dal secondo periodo del secondo comma dell’art. 40 c.p.c.), ovvero attraverso l’applicazione del procedimento semplificato con possibilità, però, per il giudice di mutare il rito ai sensi di quanto previsto dall’art. 281-duodecies c.p.c.

[74] Non potrà, quindi, darsi esecuzione in Italia a provvedimenti che aspirino a divenire definitivi e che però siano ancora solo provvisoriamente esecutivi emessi in uno Stato terzo, né (a maggior ragione) a provvedimenti meramente provvisori (quali, ad es., i provvedimenti cautelari).

[75] Così da costituire, ad es., l’oggetto di un’eccezione di giudicato che il convenuto opponga all’azione di accertamento negativo del debitore iniziata in Italia, in contrasto appunto con l’accertamento già altrove formatosi e automaticamente, appunto, vigente in Italia. In casi come questi, tuttavia, il debitore attore in accertamento negativo potrà contrastare l’eccezione di giudicato (estero) deducendo nel giudizio (in via incidentale) la sussistenza di uno o più motivi ostativi al riconoscimento di cui all’art. 64.

[76] Arg. ex art. 30 D.lgs. n. 150/2011

[77] E, comunque, il riconoscimento della sentenza straniera.

[78] In sintesi, il requisito della c.d. competenza indiretta di cui alla lett. a) dell’art. 64 della L. 218/1995 non ha nulla a che vedere con la competenza giurisdizionale del giudice straniero così come determinata dalla lex fori. Rispetto al requisito in esame, non è dunque esatto affermare che esso consenta di dedurre in sede di riconoscimento il difetto di giurisdizione del giudice straniero che ha emesso la sentenza (e che, di conseguenza, tale attività sia preclusa se si sia mancato di rilevare il difetto di giurisdizione del giudice straniero nel giudizio chiusosi con la sentenza riconoscenda). Diversamente, il controllo affidato al giudice italiano nell’ambito del riconoscimento di sentenze ai sensi dell’art. 64, lett. a), L. 218/1995 consiste nel verificare che «ricorra rispetto allo Stato straniero un criterio che, se sussistesse rispetto allo Stato italiano, legittimerebbe l’esercizio della giurisdizione da parte di questo» (così, efficacemente, G. Morelli, Il diritto processuale civile internazionale (1938), ristampa anastatica, Napoli, 2021, 327, ovviamente con riferimento all’art. 941, n. 1, del codice di procedura civile del 1865). Lo stesso concetto si può anche esprimere affermando che il giudice italiano chiamato a valutare la sussistenza del requisito di cui all’art. 64, lett. a), L. 218/1995 «dovrà effettivamente controllare se il giudice straniero avrebbe potuto riconoscersi munito di giurisdizione ove avesse dovuto fare applicazione dei criteri della legge processuale italiana» (così C. Consolo, Profili della litispendenza internazionale, in Nuovi problemi di diritto processuale civile internazionale, Padova, 2002,182, nt. 116). Nell’ambito del controllo della c.d. competenza indiretta rimessa al giudice italiano dall’art. 64, lett. a), L. 218/1995 questi potrà, dunque, dare rilievo (anche) ad ipotesi di radicamento della giurisdizione su base (eminentemente) volontaristica, ossia in dipendenza del contegno del convenuto che compaia nel processo senza proporre una (tempestiva) eccezione di difetto di giurisdizione. Da tale conclusione si deve, verosimilmente, dissentire solo nei casi in cui il convenuto dimostri che la mancata eccezione è dipesa non da una consapevole accettazione (tacita) della giurisdizione straniera ma, diversamente, dall’impossibilità di contestarla in quanto la stessa sussisterebbe, comunque, in base ad un criterio che risulti, tuttavia, esorbitante.