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Il Manuale di diritto privato di Francesco Gazzoni e i magistrati «psicolabili»: «dileggio dell’ordine giudiziario» o esercizio (magari un po’ sopra le righe) del diritto di critica?
Di Fabio Saitta -
1.Alcuni giorni fa, su un noto quotidiano, è comparso un articolo in cui si riferiva che il Manuale di diritto privato di Francesco Gazzoni[1] «da 48 ore sta scatenando una tempesta nella magistratura. Perché contiene giudizi e teorie “offensive e inaccettabili” per l’intera categoria»[2].
Si legge che il presidente dell’A.N.M. Giuseppe Santalucia ha parlato di «[e]spressioni misogine e di stupido dileggio dell’ordine giudiziario», mentre la prima presidente della Corte di cassazione Margherita Cassano si è detta amareggiata al pensiero «che studenti universitari possano formarsi in maniera emotiva e non razionale». Ciò in quanto lungo il volume sarebbero disseminati «pesantissimi […] giudizi sulle toghe» ed è stato «[i]nutile cercare l’editore, per verificare se è stata fatta una verifica sul testo, perché […] risulta “in ferie” fino alla fine di agosto».
Si riporta, poi, l’affermazione del segretario di Area Giovanni “Ciccio” Zaccaro, ad avviso del quale Gazzoni «non è un “maestro” del diritto civile ma l’autore di una sorta di Bignami».
Queste, per esemplificare, le «[f]rasi pesantissime» contenute nel Manuale e riportate nell’articolo:
– i magistrati? «Entrano in ruolo in base a un mero concorso per laureati in giurisprudenza e appartengono in maggioranza al genere femminile che giudica non di rado in modo eccellente, ma è in equilibrio molto instabile nei giudizi di merito in materia di famiglia e figli»;
– la carriera delle toghe? «Progrediscono nelle funzioni e nello stipendio in base all’anzianità e non al merito, onde sono premiati anche magistrati che si sono resi colpevoli, per negligenza, di clamorosi errori giudiziari, come nel caso Tortora»;
– i magistrati «non di rado» appartengono alla categoria degli “psicolabili”, come ha scritto un giudice non corporativo, che manifesta nelle sentenze quello squilibrio, “male oscuro tipico della funzione”. Male che giustifica il disegno di legge presentato dal senatore Francesco Cossiga, volto a introdurre la visita psichiatrica per i candidati al concorso in magistratura».
Frasi, queste, che – secondo la presidente Cassano – dovrebbero destare l’allarme «non […] solo dei magistrati, ma dell’intero mondo accademico, e più in generale dell’intera società […], perché si abituano gli studenti a non rispettare gli organi previsti dalla Costituzione, utilizzando generalizzazioni prive di ogni fondamento». Il giudizio sulle «magistrate instabili», sottintendendo «l’idea che le donne non siano dotate del necessario raziocinio ed equilibrio per amministrare la giurisdizione soprattutto in materia di famiglia e minori», sarebbe in contrasto con il principio costituzionale di uguaglianza e di non discriminazione.
2. Bene, da accademico posso dire in tutta franchezza di essere allarmato più dalla frase contenuta nell’articolo nella quale si adombra una non meglio precisata «verifica sul testo» di Gazzoni da parte dell’editore che dalle affermazioni dell’Autore.
Sotto il primo aspetto, la sola idea che una casa editrice come Edizioni Scientifiche Italiane – che, peraltro, ha sempre consentito la pubblicazione di opere (sia monografie che articoli in rivista) nelle quali si sostengono, in punto di interpretazione della norma giuridica, tesi diametralmente opposte a quelle di Gazzoni[3], dimostrando quindi grande rispetto per la libertà di insegnamento costituzionalmente garantita – dovesse controllare rigo per rigo quanto scritto dall’Autore prima di pubblicarlo è davvero ripugnante: sa tanto di censura e riporta alla mente un periodo oscuro in cui i testi scolastici rispondevano fedelmente alle direttive e alle esigenze del regime.
Sotto il secondo aspetto, non può essere allarmato chi già conosceva le precedenti edizioni del Manuale di Gazzoni. Chi scrive, ad es., aveva avuto modo di consultare l’edizione immediatamente precedente (mio figlio, pur avendo preparato l’esame di diritto privato utilizzando un altro libro di testo, l’aveva, infatti, acquistata per approfondire la materia) perché alle prese con un lavoro che involgeva profili di teoria generale dell’interpretazione e ricordava bene di aver già letto alcune frasi che soltanto oggi vengono stigmatizzate.
Non alludo soltanto alle critiche all’idea – definita «eversiva» da Gazzoni – che «al giudice competa l’interpretazione non necessariamente di un testo legislativo, i verba legis, ma del comune sentire, del tessuto socio-economico, del patrimonio di diritti e di valori che una civiltà giuridica va nel tempo maturando, talchè il testo legislativo diviene un elemento solo eventuale»[4].
Non mi riferisco esclusivamente alla segnalazione, da parte di Gazzoni, del «pericolo, specie in materia di persone e famiglia, […] che il giudice, anziché esercitare umilmente la propria funzione, imponga la tirannia dei propri valori, mascherata con la formula della interpretazione costituzionalmente orientata, mentre, per una elementare esigenza di certezza, spetterebbe, se del caso, alla Corte costituzionale il compito di stabilire con valore erga omnes quale sia la portata delle norme sulle quali dovrebbe esercitare il controllo»[5].
Lo scrivente non ricordava soltanto la ferma critica alla Cassazione che «parla di “giurisprudenza-normativa, quale autonoma fonte del diritto”, cioè creativa (“che spesso abbaglia, ma non illumina”), quasi che la sentenza valesse erga omnes sul modello di common law», l’affermazione che ormai la ὕβρις della magistratura italiana (che […] ignora l’obbligo dell’umiltà […]), è incontenibile» e «[l]’emotività sentimentale con cui si esprimono i valori o le “idee care”, va dunque sostituita dalla logica e dalla razionalità»[6].
No, rammentavamo anche il contenuto di alcune introduzioni a edizioni ancora precedenti del Manuale, riportate pure nell’ultima.
In particolare, l’introduzione del 18 giugno 2007 (quindi, ben diciassette anni fa!), nella quale era contenuta la seguente affermazione di Gazzoni: «Ci si indigna, ben a ragione, quando si scopre che un giudice è stato corrotto con il denaro, mentre appare del tutto normale che altro giudice si faccia guidare dalle proprie convinzioni ideologiche. Personalmente non riesco a vedere la diversità tra i due casi. Infatti si tratta sempre di corruzione ed anzi quella ideologica è più grave, perché non è punibile, né penalmente, né disciplinarmente e pretenderebbe perfino di basarsi su motivazioni nobili. Sennonché per lo sventurato cittadino, perdere in giudizio non già perché il giudice è stato comprato, ma perché era prevenuto ideologicamente e quindi è stato partigiano, non costituisce certo motivo di consolazione»[7].
E, nella stessa introduzione, quindi già allora, l’Autore riferiva che «[u]n giudice ha intitolato un paragrafo di un proprio libro sulla giustizia, Gli psicolabili, i quali “sono in numero preoccupante, se come tali intendiamo non i pazzi dichiarati, ma quelli che, passando per i vari gradi dell’alterazione psichica, vedono compromesso il loro equilibrio nel giudicare e nell’agire, che in questo lavoro è la cosa più preziosa […]. Si tratta di un male oscuro, tipico della funzione e variegato nel suo manifestarsi, cosicchè il più delle volte, per fortuna, si esaurisce in modeste deviazioni, ma altre volte offusca grandemente l’immagine pacata di chi dovrebbe impersonare la maestà della legge. […] Non ci si può allora meravigliare se il Sen. Francesco Cossiga nella XIV legislatura presentò il disegno di legge n. 2629, secondo cui i candidati al concorso in magistratura “sono sottoposti per l’ammissione al concorso stesso ad un esame psichiatrico”, esame che il C.S.M. potrebbe poi disporre in ogni momento nei confronti di qualsivoglia magistrato»[8].
Ancora nel prosieguo della medesima introduzione, Gazzoni affermava che «[i] giudici, in ogni caso, hanno il coltello dalla parte del manico, in tal modo potendo tranquillamente continuare a sbagliare, forti anche della loro carriera, con promozioni e aumenti di stipendio in base all’anzianità e non al merito, rafforzata dalla irresponsabilità, inamovibilità e incensurabilità, se non a livello corporativo, là dove vige, inevitabilmente, la proverbiale regola secondo cui “cane non mangia cane”»[9].
In quella introduzione di diciassette anni fa, infine, già si rinvenivano anche considerazioni sulle magistrate: «Quanto alla famiglia, il problema è reso più complicato dal fatto che di essa e delle sue liti si occupano, sempre più spesso, giudicesse anziché giudici. Già di per sé la materia è coinvolgente ed infatti ben a ragione Paolo Cendon, a proposito di una sentenza in tema di tradimenti coniugali, ha osservato che la risposta al perché di una certa motivazione “dipenderà dal personaggio storico della vicenda con cui l’estensore si è di fatto identificato, perché il giudice, motivando, finisce per raccontare la propria storia: per dirci, e per svelare anche a se stesso, quali siano in realtà i suoi desideri, quali i suoi segreti e i suoi peccati”. Dunque, a maggior ragione, di tutto le giudicesse dovrebbero occuparsi salvo che di diritto di famiglia, specie dei minori, ma non già per impreparazione giuridica (anzi, ribadisco che esse sono mediamente più preparate degli uomini, almeno stando ai risultati universitari e poi concorsuali), quanto per motivi che Freud ha ampiamente illustrato»[10].
Com’è agevole notare, si tratta, né più né meno, delle affermazioni riportate nell’ultima edizione del Manuale, nella quale, anzi, Gazzoni ha omesso di riportare il prosieguo di quella risalente introduzione, in cui suggeriva «anche che i giudici le cui sentenze sono riformate o i P.M. le cui richieste non sono accolte debbano scrivere cento volte, su apposito quaderno, la frase: “Sono un ignorante”, con somma gioia dei cartolai, visto che, rispetto al totale dei ricorsi, la percentuale delle sentenze cassate dalla Suprema Corte è stata nel 2005 del quarantatré per cento, con un incremento, rispetto al 2000, di ben dodici punti»; suggeriva «inoltre che il magistrato il quale intenda svolgere le funzioni di P.M. o di G.I.P. debba fare, almeno ogni due anni, uno stage di un mese quale recluso nelle patrie galere, in modo che i provvedimenti restrittivi che chiederà o adotterà siano presi con piena cognizione di causa»[11].
Affermazioni probabilmente sopra le righe, ma che risalgono comunque ad almeno diciassette anni fa, sicchè, leggendo le critiche che adesso sono rivolte all’ultima edizione del Manuale, a un siciliano come me viene inevitabilmente da pensare all’espressione, tipicamente messinese, «cadìri da naca»[12]. In sostanza, nell’ultimo ventennio, è cambiata l’opinione di Gazzoni sui giudici o, piuttosto, la disponibilità di questi ultimi ad accettare le sue critiche?
3.Va pure detto che il giurista romano ha sempre mostrato una notevole vocazione critica, che non ha mai risparmiato nemmeno l’accademia.
Si pensi, innanzitutto, all’opera Favole quasi-giuridiche[13], una raccolta di scritti in tono favolistico e semi-serio sull’università (professori, concorsi a cattedra, studenti), su argomenti tecnico-giuridici e sull’antiformalismo nel diritto, che contengono invettive esilaranti contro taluni professori, indicati con nome e cognome.
Lo stesso Autore riferisce di aver pensato di imitare Bigiavi, pubblicando anch’esso taluni scritti, definiti pertanto quasi-giuridici in onore di se stesso, di tono polemico, libellistico e panflettistico, i quali, forse, nel rievocare talune vicende, avrebbero potuto anche dare, in termini di conferma, un sia pur minimo apporto alla discussione sull’attuale condizione dell’università e sulla necessità di abolire i concorsi a cattedra, così mettendo in concorrenza tra loro le varie facoltà, «con conseguente taglio delle unghie al mefitico potere accademico, causa prima, anche se non unica, dell’attuale degrado, temo irreversibile, dell’università stessa».
Insomma, un sagace libello, in cui Gazzoni si diverte, con una penna tanto sofisticata quanto caustica, a narrare in brevi racconti tutti gli orrori che – a suo avviso – si nascondono dietro gli apparenti “onori” di cui si titolano gli accademici e che conferma come le sue critiche si rivolgano indistintamente anche al di fuori della magistratura, ai suoi colleghi universitari.
Parliamo di conferma perché indicazioni in tal senso si rinvenivano già prima nelle succitate introduzioni alle precedenti edizioni del Manuale.
Nella più citata, quella del 18 giugno 2007, nella quale l’Autore lamentava che «[l]e leggi sono scritte con l’ausilio dei nuovi professori, quelli usciti analfabeti dall’università e tali restati ad onta dei miracoli concorsuali, che trasformano asini in cavalli del tipo Incitatus, onde la frequente necessità di correggere o modificare leggi appena entrate in vigore»[14].
In quella del 26 aprile 2013, nella quale parlava di professori che ritengono «che la lezione sia una sorta di conferenza, volta a dimostrare la propria alta scienza e il proprio forbito eloquio, piuttosto che un mezzo per entrare in contatto con ascoltatori di scarsa capacità di comprensione; riferiva, con linguaggio alquanto colorito, che, quand’era studente, «i banchi, allora di legno, dell’aula I erano istoriati con vari pensieri, dedicati anche ai due professori di Istituzioni di diritto romano e di Economia politica, così giudicati: “Quando parla il buon Volterra/c… e p… vanno a terra!”; “quando parla Ugo Papi/non c’è c… che si arrapi!”; parlava, ancora di «professori chiacchieroni, privi di radici, i quali, nel migliore dei casi, si appellano alla assiologia e alla interpretazione costituzionalmente orientata, per giustificare fanfaluche giuridiche»[15]. E chi più ne ha più ne metta.
Il personaggio, insomma, è sempre stato questo e sorprende che oggi esso… possa ancora sorprendere.
4. Andando al merito delle «frasi pesantissime» di Gazzoni ritenute inaccettabili dalla magistratura, si ha la sensazione che, innanzitutto, alcune di esse non facciano altro che descrivere obiettivamente una situazione che, piaccia o non piaccia, quella è e non può che prendersene atto.
Alludiamo, innanzitutto, alle critiche al c.d. «creazionismo giudiziario», che – come abbiamo ribadito anche da ultimo in uno scritto a cui rinviamo per motivi di spazio – sono ormai pressochè unanimi in tutti i settori del diritto[16] e provengono anche, e soprattutto, dai giuristi più accreditati[17].
Ma ci riferiamo anche – com’è intuibile – alle osservazioni sulla carriera dei magistrati, che entrano in ruolo in virtù di un concorso per l’ammissione al quale è sufficiente la laurea in giurisprudenza e progrediscono nelle funzioni e nello stipendio in base alla mera anzianità.
Comprendiamo bene, invero, che possa dare fastidio l’affermazione secondo cui i giudici «non di rado appartengono alla categoria degli “psicolabili”».
Trattasi, però, innanzitutto, di un’affermazione che – come Gazzoni non manca di riferire sin dall’introduzione di diciassette anni fa – era stata pronunciata, oltre vent’anni addietro, da un magistrato[18] alla luce dell’esperienza maturata percorrendo in lungo e in largo il mondo giudiziario[19], già allora connotato – a suo dire – da una crescente insofferenza verso il diritto, che, lungi dall’essere semplicemente «mite» o «leggero» o «flessibile», stava vivendo, in realtà, una delicatissima fase di indebolimento complessivo, se non, addirittura, di resa incondizionata[20]. In quel libro, dunque, con grande onestà intellettuale, un giudice evidenziava colpe della magistratura, troppo a lungo impegnata esclusivamente a tutelare le proprie prerogative di stampo corporativo, tra cui, in primis, la sostanziale abolizione della carriera e il ripudio di ogni selezione ulteriore rispetto a quella iniziale, fermo restando l’incremento stipendiale per anzianità.
Nel focalizzare l’analisi sui componenti della categoria in esame, Garavelli ne evidenziava l’eterogeneità, individuando oltre a «instancabili lavoratori» anche «emeriti lavativi», a fianco di «grandi organizzatori» pure «segnalati confusionari», il tutto senza escludere «mariuoli» e «psicolabili»[21].
Ora, si fa sinceramente fatica a comprendere perché un magistrato, a fine carriera, possa svolgere serenamente una siffatta analisi critica, mentre un professore universitario – prima quattro e poi ventuno anni dopo – non potrebbe citarla, implicitamente condividendola.
Né è vero che, in tal modo opinando, si generalizza, facendo «”di tutta l’erba un fascio”, attribuendo determinate (pretese) connotazioni negative alla magistratura nel suo complesso»[22]. Non l’hanno fatto, comunque, né Gazzoni («non di rado» non vuol dire sempre[23]) né, tantomeno, Garavelli (che si è limitato a segnalare la compresenza, accanto ai tanti «instancabili lavoratori» e «grandi organizzatori», di «psicolabili»).
A parte il fatto che «psicolabile» non significa pazzo: il termine indica un soggetto che presenta, semplicemente, una qualche «instabilità psichica, accentuata mutevolezza del comportamento, sia sul piano sentimentale sia su quello volitivo e operativo»[24].
Del resto, il fatto stesso che il 26 marzo scorso sia stato stabilito con un decreto legislativo che chi vuol fare il magistrato deve sottoporsi a un test psico-attitudinale (come previsto, peraltro, in dodici Paesi dell’Unione europea su ventisette) dovrebbe significare che, ricordando il risalente d.d.l. Cossiga, Gazzoni si è limitato, ancora una volta, a manifestare un’esigenza sentita dai più. Anziché indignarsi, sarebbe più saggio, pertanto, spostare il discorso sul tipo di test che potrebbe essere proficuamente usato per i magistrati[25].
Non ci sembrano frutto di affrettate generalizzazioni nemmeno i giudizi sulle «magistrate instabili», ai quali Gazzoni premette subito che il «genere femminile […] giudica non di rado in modo eccellente», circoscrivendo le proprie considerazioni ai «giudizi di merito in materia di famiglia e figli».
Chi scrive non pratica quel settore del diritto e non è in grado di dire quanto fondate siano tali valutazioni, che non sembrano comunque mai tradursi in un «dileggio dell’ordine giudiziario».
E’ risaputo, d’altronde, che il giudice, chiamato a governare una pluralità di interessi in conflitto, nel momento dell’apprezzamento, fa inevitabilmente valere e iscrive nell’ordinamento la propria cultura, le proprie convinzioni sociali, la propria gerarchia di valori[26], conformando ad essi l’ordinamento, e che la sentenza, quindi, nasconde il contributo di valutazioni individuali che l’hanno prodotta. Le corti giudicanti, alla fin fine, sono fatte di uomini e donne che vivono nel loro tempo e fanno parte di determinati ceti sociali, con puntuali coordinate assiologiche[27]. Autorevoli teorici dell’interpretazione hanno chiaramente osservato che «il fatto interpretativo non può in nessun modo essere avulso dalla personalità e socialità dell’interprete»[28], al quale non si può chiedere lo «sforzo di sopprimersi»[29], e hanno parlato di «oggettività esistenziale dell’interpretazione»[30] per significare che quest’ultima, per quanto ineludibilmente oggettiva, non può essere privata della sua componente ontologico-esistenziale, per cui in ogni procedimento ermeneutico rimane fondamentale il problema dell’individuazione del giusto punto di equilibrio e di sintesi tra i due momenti[31]. Ogni interpretazione, insomma, è, in misura maggiore o minore e più o meno consapevolmente, condizionata dal vissuto della persona/giurista[32], dal suo «abito mentale»[33], per cui ogni sentenza è luogo d’incontro di soggettività diverse e portatrici di differenti interessi provenienti dal sistema sociale[34] e ogni interprete è, in certo senso, «sospetto» per definizione, in quanto portatore di una visione che si riflette nelle interpretazioni che propone[35].
Si tratta, in definitiva, del «dramma del giudizio» con cui deve fare i conti chi è chiamato a stabilire chi ha torto e chi ha ragione e che, durante tutto il ‘900, ha fatto sì che venisse messo in discussione il fondamento oggettivo della facoltà del giudicare giuridico, finché «tanto l’evoluzione della logica nell’ambito della metodologia scientifica, quanto la rilevanza che venne sempre più attribuita ai profili di ordine valoriale, personale e psicologico per comprendere il processo decisionale del giudice», ha contaminato la purezza del metodo della tradizione positivistica[36].
Non si dice nulla di male, dunque, sostenendo che, quando si occupano di diritto di famiglia e in particolare di figli, le donne possano essere talvolta coinvolte emotivamente e condizionate più del dovuto dal loro “vissuto”, stentando a individuare il «giusto punto di equilibrio». Simili giudizi possono, ovviamente, non essere condivisi, ma non anche essere ritenuti oltraggiosi.
Tenderei decisamente a escludere, poi, che si tratti di affermazioni «palesemente sessiste» – come si legge nelle premesse all’interrogazione presentata alla Ministra dell’Università dalla responsabile Giustizia dem Debora Serracchiani – e a considerarle tutt’al più inopportune e sopra le righe.
A ciò m’induce, a tacer d’altro, l’opinione più volte espressa da Gazzoni sulle giuriste. Sotto questo profilo, oltre alla surriportata affermazione di Gazzoni secondo cui le giudicesse «sono mediamente più preparate degli uomini», appare significativo il brano contenuto nell’introduzione a un’edizione ancora più risalente del Manuale, laddove egli afferma che «[l]e studentesse, in verità, sono assai più sveglie e capaci degli studenti, anche perché, secondo le statistiche, esse, in maggioranza e a differenza della maggioranza degli studenti, assegnano all’istruzione un valore eminentemente civile e socio-culturale, piuttosto che utilitaristico, in chiave di investimento, e sono quindi assai più disponibili e motivate sul piano dell’arricchimento di sé, che all’apprendimento e alla cultura consegue. Non è dunque solo colpa degli estrogeni, cioè degli ormoni femminili, con i quali sono allevati i vitelli, la cui carne finisce negli omogeneizzati, secondo la tesi accuratamente motivata da un mio colto amico, fine giurista, se gli studenti sono, in confronto alle studentesse, babbei infantili, destinati a soccombere nei concorsi e, tra breve, anche nella vita, nello scontro tra i sessi per la conquista del dominio»[37].
Ben altri (e ben noti) sono i casi in cui, parlando di magistrate, si sono fatte assurde generalizzazioni e ci si è spinti oltre il legittimo esercizio del diritto di critica con affermazioni – quelle sì – davvero sessiste.
Risale a meno di quattro anni fa, ad es., la seguente affermazione di un professore di bioetica dell’Università di Bari: «La donna è più emotiva, è per questo che io dico che giudici donne non dovrebbero esserci, perché giudicare significa essere imparziali». Un intollerabile stereotipo, che è sembrato porsi in continuità con la lunga storia della cultura giuridica, che – com’è stato recentemente ricordato – «vedeva con occhio ostile l’ingresso delle donne in magistratura, ritenendole inadatte allo svolgimento della professione di magistrato a motivo del potenziale biologico femminile che, secondo questa impostazione, renderebbe le donne troppo emotive, non equilibrate. Com’è noto, riferendosi alle ragioni fisiologiche, i giuristi che sostenevano l’esclusione delle donne dalla magistratura per eccesso di emotività intendevano alludere, più o meno esplicitamente, al ciclo mestruale come elemento destabilizzante, proprio del corpo sessuato femminile»[38].
E’ in tal caso – e non in quello di Gazzoni – che si fanno generalizzazioni anacronistiche, che ci riportano agli anni ’60 del secolo scorso, quando, soltanto a seguito di una pronuncia della Corte costituzionale, intervenne la legge n. 67 del 1963 e, il 3 maggio dello stesso anno, si ebbe il primo concorso in magistratura aperto alle donne[39].
Da allora in poi, per fortuna, le cose sono notevolmente cambiate e, passo dopo passo, le donne stanno iniziando ad avere ruoli apicali negli uffici giudiziari e negli organi rappresentativi della magistratura: un esempio in tal senso è proprio quello di Margherita Cassano, prima donna a ricoprire il ruolo di presidente aggiunto della Corte di cassazione.
Ciò non toglie, tuttavia, che, siccome il lupo perde il pelo ma non il vizio, l’8 marzo scorso, in occasione della festa delle donne, la Procura di Perugia abbia opportunamente ricordato come, in Assemblea costituente, obiettando alla proposta di Teresa Mattei di aprire le porte della magistratura alle cittadine, un rappresentante disse: «Signorina, lei vuole ammettere le donne alla magistratura! Ma sa che in certi giorni del mese le donne non ragionano?». Mattei rispose: «No, ma so che molti uomini come lei non ragionano tutti i giorni del mese».
Ebbene, le pur opinabili affermazioni di Gazzoni non hanno nulla a che vedere con tutto ciò ed assomigliano molto di più alle critiche all’operato di alcune corti che, utilizzando stereotipi sessisti nell’apprezzamento dei fatti e delle prove in alcune decisioni in materia di reati sessuali, hanno adottato decisioni sfavorevoli alle donne che si affermavano parti offese; critiche, del tutto legittime, sulla mancanza della necessaria imparzialità del giudice, cioè del suo dovere di ricostruire i fatti in modo razionale e obiettivo, perciò fondato su regole di giudizio dotate di adeguata attendibilità[40], che nessuno ha ritenuto oltraggiose nella misura in cui impingono in definitiva sull’equilibrio, esigenza imprescindibile per il lavoro di ogni giudice, uomo o donna che sia.
Affermare che, in alcuni ambiti del contenzioso giudiziario, tale equilibrio sia, talvolta, mancato anche in capo alle donne non ci sembra di per sé sessista.
Che dire, allora, di quanto osservato da Gazzoni con riguardo al «trionfale ingresso in carriera del gentil sesso» cui si è assistito nei decenni scorsi in ambito accademico? Si allude alla seguente affermazione, contenuta nell’introduzione al Manuale del 26 aprile 2013: «Un tempo l’aspirante professoressa, rara avis, si appoggiava in tutti i sensi al Maestro, nel senso, cioè, peggiore mimando il maschio nella simbiosi del servitore, ma anche migliore, vedendo in lui la figura paterna ed instaurando un saldo rapporto affettivo di natura sentimentale. Oggi, viceversa, il romantico transfert accademico è scomparso, sicchè, non di rado, il rapporto ha natura decisamente sessuale e, in ogni caso, trova la propria non recondita motivazione nell’ansia di partecipare all’assalto della diligenza concorsuale, con successiva spartizione del bottino accademico, piuttosto che di realizzare le inconsce fantasie edipiche dell’infanzia. Anche se non mancano fanciulle che esibiscono la loro riconoscenza di miracolate, scrivendo dell’estasi orgasmica, degna delle mistiche medioevali, che le colse alla sola vista del professore-benefattore, al loro primo incontro»[41].
Il fatto che, a quanto consta, nessuna delle nostre colleghe universitarie sia insorta leggendo quanto surriportato è, forse, dovuto alla circostanza che simili vicende sono realmente esistite, ma – com’è a tutti evidente – rappresentano una sparuta minoranza, essendo quasi tutte le professoresse universitarie approdate meritatamente ai vertici della carriera accademica?
5.Sembra che nessuno di coloro che hanno criticato le discusse considerazioni contenute nell’ultima edizione del Manuale di Gazzoni l’abbia letto con la necessaria attenzione né, tantomeno, conoscesse le precedenti edizioni.
Di certo non lo conosce chi – come riferito nell’articolo da cui traggono spunto le presenti riflessioni – l’ha definito «una sorta di Bignami».
Con tutto il rispetto di questi ultimi, celeberrimi testi di piccolo formato, che riassumono le nozioni basilari di una determinata disciplina e sono stati proficuamente utilizzati da chiunque abbia frequentato una scuola italiana almeno fino all’inizio di questo secolo, il Manuale in questione potrà essere, forse, considerato «una potenziale fonte di esaurimento nervoso», come riteneva la «matricola di Macerata» menzionata dall’Autore nella prefazione del 21 settembre 1989[42], ma è un pregevolissimo testo, non a caso elogiato anche da affermati giuristi.
Risale a poco più di due anni fa il nostalgico ricordo di un apprezzato consigliere di Stato, il quale riferisce che quando, all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso, si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma La Sapienza, «il manuale di Gazzoni, che di pagine ne aveva quasi millecinquecento, lo sceglievano solamente gli studenti che dovevano sostenere l’esame con il suo autore, che solo da pochi anni era approdato alla Sapienza. Tutti gli altri se ne tenevano giudiziosamente alla larga»[43].
Era (ed è) sicuramente «un testo difficile, il Manuale, che ti metteva a dura prova», ma «aveva il vantaggio di stare tutto dentro un solo libro (ma che libro…) e di essere aggiornatissimo. Studiandolo, e imparandolo, potevi risparmiarti lo sforzo di andare a sfogliare anche le riviste, al tempo ancora cartacee, per leggere le principali sentenze della Cassazione. Tanto più che di quelle sentenze, non di rado, si faceva carico Lui stesso di critiche aspre, talvolta vere e proprie stroncature compendiate nell’uso (e nell’abuso) del verbo “errare” riferito ogni volta al giudice della singola pronuncia»[44].
Significativa, per quanto sin qui detto, è la notazione dell’affezionato lettore di Gazzoni in ordine allo «stile “corsaro” dell’autore del libro. Più misurato in principio ma da subito con dei tratti di forte originalità, con il succedersi delle edizioni lo stile diverrà sempre più aspro e vivace, infine esagerato, manifestando l’autore in misura crescente e inarrestabile le sue insofferenze ed idiosincrasie, specie verso le credute mode del momento (il danno esistenziale, il trust, la fecondazione assistita, su tutti)»[45].
Il lettore nota, infine, che «mentre il Manuale guadagnava sempre maggiori consensi in funzione della preparazione al concorso in magistratura […] gli strali del suo autore finivano per concentrarsi anche sui magistrati, dopo avere in precedenza dedicato le proprie attenzioni soprattutto all’accademia. I magistrati (ai quali sarà dedicata tanta parte dei suoi “Scritti giuridici minori” del 2016) sono tacciati nell’introduzione all’edizione del Manuale del 2007 di politicizzazione, protagonismo ed esibizionismo; nel loro seno viene isolata la figura del giudice “missionario”, di colui che “infedele alla legge, scrive prima il dispositivo in base alle proprie opinioni pre o extragiuridiche e poi va alla ricerca di una motivazione come che sia”. Non mancano poi nel corpo del manuale riferimenti, a proposito del rifiuto di cure mediche, a giudici monocratici “avventurosi”, portatori di “tesi insensate”, e definizioni di sentenze della Corte di cassazione, in tema di aspettativa dei genitori in caso di lesione o uccisione del figlio, come “cervellotiche”. Il cerchio si sarebbe poi chiuso, almeno idealmente nel suo “percorso” di inarrestabile allontanamento dal main stream, con la critica alla sentenza del Tribunale civile di Milano sul risarcimento del danno per il c.d. Lodo Mondadori, nella lunga contesa tra la Cir di De Benedetti e la Fininvest di Berlusconi, e con l’invocazione che “ci vorrebbe un giudice di un altro pianeta”»[46].
Ecco, probabilmente, il consigliere di Stato che si è formato sul Manuale di Gazzoni non è rimasto sorpreso dalle affermazioni contenute nella sua ultima edizione; sicuramente, non lo definirebbe «una sorta di Bignami» come colui che, verosimilmente, non l’ha mai nemmeno sfogliato.
Diversamente, non affermerebbe che «il pregio maggiore che vi h[a] sempre trovato è quello di allenare i suoi lettori al ragionamento e all’esercizio del diritto di critica»[47]. Aspetto, quest’ultimo, evidentemente sfuggito a coloro che ritengono intollerabile che gli studenti si possano formare sul Manuale di Gazzoni e invocano una «verifica sul testo» da parte dell’editore e financo interventi a livello ministeriale.
Postilla
Nelle more della pubblicazione del presente scritto, Gazzoni ha replicato alle accuse mosse nei suoi confronti, con argomentazioni che in gran parte coincidono con quelle da noi qui esposte.
Nel suo scritto[48], in sintesi, egli osserva che:
– già nell’introduzioneall’edizione del 2007 del Manuale «avev[a] rappresentato un quadro critico della magistratura, da più punti di vista. Quando h[a] poi curato l’edizione del 2024 (a distanza quindi di ben diciassette anni) nel contesto della parte sull’interpretazione della legge, […] h[a] ritenuto opportuno riproporre nel testo, alla p. 51, alcune delle criticità già rese note», sicchè, «[t]rattandosi di una riproposizione, tutto [si sarebbe] aspettato meno che essa sarebbe stata considerata dai magistrati non solo una novità, ma del tutto sorprendente, dopo diciassette anni»;
– «è irreale l’ipotesi che nessuno, ma proprio nessuno dei candidati al concorso in magistratura che aveva studiato sul [suo] testo a far tempo dal 2007 e nelle successive sette edizioni, ove [tale introduzione] era riportata, l’avesse letta e non ne avesse parlato con i colleghi. Il [suo] quadro critico della magistratura era del resto, in un certo ambiente (avvocati, oltre che magistrati), un fatto notorio, anche per le [sue] Note a sentenza molto polemiche»;
– «i giudici evidentemente non sanno assumere il ruolo di giudicati, almeno per quanto riguarda il loro modo non di rado non equilibrato di giudicare, secondo la critica di Mario Garavelli»;
– ironizzando sull’inverosimile interrogazione al Ministro dell’Università finalizzata a vietare la divulgazione del contestato Manuale, «[è] evidente il non detto del desiderio di bruciare il vituperato, odioso testo, usando magari il lanciafiamme come per i libri in Fahrenheit 451 (ma lì si cominciava con il Don Quijote, non certo con un modesto Manuale universitario) oppure, quanto meno, ad imitazione della Chiesa cattolica di un tempo, l’inserimento nell’Index librorum prohibitorum. […] Il giudizio sul [suo] Manuale, se non si vuole instaurare un regime da Ministero della cultura popolare, deve essere lasciato ai lettori, i quali, essendo pressochè esclusivamente laureati, sono ben in grado di esprimere, se del caso, riprovazione e dissenso, per quel che non si condivide»;
– perché dei giudici che sono “non di rado psicolabili” «non se ne deve scrivere, nella parte di un Manuale dedicata al ruolo del giudice nell’interpretazione della legge, con una censura volta ad ingannare il lettore, tacendo che per i magistrati esiste il problema di assicurare il loro equilibrio mentale, mediante test psicoattitudinali? Non lo diceva Garavelli, non lo [dice lui], lo dice il Decreto Legislativo n. 44 del 2024, entrato in vigore dopo la stampa della XXI edizione, onde non h[a] potuto sostituirlo al richiamo alla proposta di legge Cossiga»;
– «[q]uanto poi al [suo] giudizio sulle donne giudici, [… l]a riserva che [ha] espresso ha riguardato le sole controversie di merito in materia di famiglia e figli, là dove l’equilibrio è molto instabile. È ovvio che il giudizio, come tutti quelli di carattere generale, non pretende, né può essere totalizzante, ma è riferito ad una tendenza»;
– è grave «aver[gli] attribuito un’idea errata delle donne magistrato, che riterre[bbe], in quanto donne, di per sè, non raziocinanti ed equilibrate», avendo egli […] affermato che esse giudicano non di rado in modo eccellente e questo è il [suo] giudizio di fondo».
Ci asteniamo, ovviamente, dal commentare le surriportate affermazioni di Gazzoni, ma non possiamo far altrettanto con riguardo all’articolo successivamente apparso sul medesimo quotidiano nel quale, ormai quasi un mese fa, si era riferito della «tempesta nella magistratura» che il Manuale stava scatenando. In quest’ultimo articolo, si legge, fra l’altro, che «sono quasi 300 le firme che chiedono il ritiro del […] manuale», che «centinaia di magistrati chiedono che scompaia dalle università»[49].
Chi ha sottoscritto una simile richiesta finge evidentemente di dimenticare che, come proprio la giurisprudenza ha in più occasioni chiarito, il diritto di critica si differenzia dal diritto di cronaca poiché non si concretizza nella narrazione di fatti, ma nell’espressione di un’opinione, che come tale non può pretendersi rigorosamente obiettiva, posto che la critica, per sua natura, non può che essere fondata su un’interpretazione, necessariamente soggettiva, di fatti e comportamenti. Essa, oltre che in forma di pacata espressione di una valutazione personale dell’autore, può esprimersi, legittimamente, anche in forma di aperto dissenso.
E’ triste constatare che taluno preferisca a un confronto, anche acceso, ad armi pari il ricorso a forme di censura risalenti a un secolo fa.
* La redazione del presente scritto è stata ultimata il 23 agosto 2024.
[1] Si allude alla 21ª ed., da ultimo pubblicata per i tipi di Edizioni Scientifiche Italiane.
[2] l.mi., “I magistrati? Sono psicolabili. E le magistrate instabili”. Bufera sul manuale di diritto, in la Repubblica, 8 agosto 2024, 10.
[3] Per tutti, P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-europeo delle fonti, 4ª ed., Napoli, 2020; Id., Il diritto giurisprudenziale e il ruolo della dottrina, in Giusto proc. civ., 2012, 1 ss.; Id., L’interpretazione della legge come sistematica ed assiologica. Il brocardo in claris non fit interpretatio, il ruolo dell’art. 12 disp. prel. c.c. e la nuova scuola dell’esegesi, in Rass. dir. civ., 1985, 990 ss., ora in Id., Scuole tendenze e metodi. Problemi del diritto civile, Napoli, 1989, 273 ss.
[4]Manuale di diritto privato, 20ª ed., Napoli, 2021, 50.
[12] La «naca» era un particolare tipo di culla, molto rudimentale, costituita da una pelle di montone o da un panno. Era solitamente sospesa con corde sul letto matrimoniale. In passato, soprattutto nei paesini della Sicilia, i bimbi si mettevano a dormire nella naca tenuti costantemente sotto controllo dai genitori. Poteva anche capitare che, nonostante l’attenzione nel sorvegliarli, cadessero: così, una notizia inaspettata dà la stessa sensazione di quel tipo di caduta improvvisa.
[16] F. Saitta, Regole processuali, indeterminatezza e creazionismo giudiziario, in Dir. proc. amm., 2024, 263 ss., spec. 332 ss.
[17] Da ultimo, nell’introdurre un convegno su un tema prescelto dalla Scuola Superiore della Magistratura, N. Irti, Le ragioni del tema, in Il giudice e lo Stato di diritto. Indipendenza della magistratura e interpretazione della legge nel dialogo tra le Corti, Milano, 2024, 12: «Attribuire alla parola del legislatore un significato, estraneo alla normatività linguistica, è sovvertire il sistema, deludere l’aspettativa dei destinatarî, cadere nel più capriccioso soggettivismo. La positività, giuridica e linguistica, solleva un argine contro rotture fideistiche, di cui già vivemmo il cupo orrore; ed anche serve a spiegare e sciogliere la molteplicità delle fonti giuridiche. Né il vincolo normativo del linguaggio può esser rotto dal dualismo di ‘regole’ e ‘principî’ (dualismo di immeritata fortuna), poiché anche i principî, i quali non assumano l’indiscutibilità di fedi meta-positive, vanno ricavati e pensati entro il sistema delle norme. Lo Stato di diritto, che non voglia precipitare nel buio mistico delle credenze o nello spocchioso soggettivismo dei giudicanti, ha bisogno di salvarsi e durare come Stato della razionalità linguistica, sicché i giudici, nel soggiacere al diritto, siano custodi della legalità espressiva, e si facciano garanti del nostro capire e intenderci entro il vincolo della comune società».
[18] M. Garavelli, Ma cos’è questa giustizia? Luci e ombre di un’istituzione contestata, Roma, 2003, 41. Il volume è stato recensito, tra gli altri, da S. Chiarloni, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2004, 691 ss.
[19] Nella sua lunga carriera, il magistrato piemontese autore del libro in questione ha svolto le sue funzioni in vari uffici di merito (avendo tra l’altro presieduto il Tribunale di Torino e la Corte d’appello di Genova) e presso la Corte di cassazione.
[20] A.I., Recensione a M. Garavelli, Ma cos’è questa giustizia? Luci e ombre di un’istituzione contestata, Roma, 2003, in Instrumenta, n. 22/2004, 373.
[22] Così S. Lorusso, Con le frasi sul suo manuale Gazzoni ha tradito sé stesso e i suoi studenti, in www.ildubbio.it, 9 agosto 2024.
[23] Per cui è ragionevole chiedersi: «perché nascondere che all’interno di questa autorevolissima categoria “non di rado” vi sono soggetti problematici?» (P. Sammarco, “Macchè misogino, quel manuale contestato è un pilastro!”, in www.ildubbio.it, 19 agosto 2024).
[24]Vocabolario della lingua italiana, Roma, 1991, III, 1184.
[25] Cfr. I test psicoattitudinali ai magistrati. Intervista di Angelo Costanzo a Santo Di Nuovo, in www.giustiziainsieme.it, 25 marzo 2024.
[26] O. Abbamonte, Le ragioni del decidere. Per un possibile studio della giurisprudenza e della mentalità del giudice, in Soc. dir., 2001, 13 (anche in nota) e 24.
[28] E. Paresce, Interpretazione (filosofia del diritto e teoria generale), in Enc. dir., XXII, Milano, 1972, 174.
[29] L. Pareyson, Verità e interpretazione, Milano, 1971, 57 ss.
[30] G. Benedetti, Oggettività esistenziale dell’interpretazione. Scritti su ermeneutica e diritto, Torino, 2014.
[31] V. Scalisi, Per una ermeneutica giuridica ‘veritativa’ orientata a giustizia, in Riv. dir. civ., 2014, 1249.
[32] A. Valastro, Storie di democrazia sociale. La narrazione biografica e autobiografica nella riflessione giuridica, Firenze, 2020, passim, ma spec. 26; adesivamente, O. Roselli, Alla ricerca della dimensione giuridica (ed umana) attraverso la narrazione biografica ed autobiografica dei giuristi (a proposito di un libro di Alessandra Valastro), in Riv. AIC, n. 6/2020, 545 ss., spec. 548.
[33] Che «è rappresentato dalle opinioni professionali, dai modi di pensare, ma anche dall’età media, dal sesso, dall’estrazione sociale, dalla tipologia di formazione, dal distacco dalle dinamiche politico-elettorali, ecc.»: F. Politi, Studi sull’interpretazione giuridica, Torino, 2019, 59.
[34] D. de Felice – G. Giura, Selettività della giurisprudenza di merito. Giudizio di legittimità e giurisprudenza locale, in Soc. dir., 2016, 138.
[35] R. Del Punta, Il metodo di Giuseppe Pera, in Riv. it. dir. lav., 2018, 166.
[36] A. Lo Giudice, Il dramma del giudizio, Milano-Udine, 2023, 103.
[37] Introduzione del 30 gennaio 2003, in Manuale, 21ª ed., cit., XXXV.
[38] C. Agnella, Questioni di genere in magistratura: tra femminilizzazione e complessità, in Quest. giust., n. 4/2023, 97, che parla senza mezzi termini di «stigma del ciclo».
[39] La vicenda è dettagliatamente descritta da E. Palici di Suni, Le donne nell’università e in magistratura: brevi considerazioni a partire da un’esperienza personale, in Nomos, n. 2/2021, 4-6. La storia delle otto vincitrici di quel concorso è raccontata da E. Di Caro, Magistrate finalmente. Le prime giudici d’Italia, Bologna, 2023.
[40] Cfr. E. Tarquini, L’imparzialità rispetto al pregiudizio inconsapevole: lo stereotipo sessista, in Quest. giust., n. 1-2/2024, 39 ss.
[48]PER FATTO PERSONALE (asili infantili e organico dei tribunali per i minorenni e delle sezioni Famiglia dei tribunali ordinari), in www.personaedanno.it, 29 agosto 2024.
[49] L. Milella, Il prof del libro sessista insiste “Le giudici sono instabili lo dico perché ne ho le prove”, in la Repubblica, 1 settembre 2024, 16.