Informativa sul trattamento dei dati personali (ai sensi dell’art. 13 Regolamento UE 2016/679)
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Il decorso del termine per la riassunzione o prosecuzione del procedimento interrotto per il fallimento di una parte: finalmente le Sezioni Unite fanno il punto
Di Margherita Pagnotta -
Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 12154 del 7 maggio 2021, si sono pronunciate sulla spinosa questione dell’individuazione del dies a quo al quale ancorare il decorso del termine di 3 mesi, individuato ai sensi dell’art. 305 c.p.c., per la riassunzione o per la prosecuzione del processo interrotto (ipso jure ai sensi dell’art. 43, comma 3, L.Fall. introdotto dal d. lgs. 5/2006) conseguentemente al fallimento di una delle parti in causa, enunciando il seguente principio di diritto: “ in caso di apertura del fallimento, ferma l’automatica interruzione del processo (con oggetto i rapporti di diritto patrimoniale) che ne deriva ai sensi della L.Fall., art. 43, comma 3, il termine per la relativa riassunzione o prosecuzione, per evitare gli effetti di estinzione di cui all’art. 305 c.p.c. e al di fuori delle ipotesi di improcedibilità ai sensi della L.Fall., artt. 52 e 93 per le domande di credito, decorre da quando la dichiarazione giudiziale dell’interruzione stessa sia portata a conoscenza di ciascuna parte; tale dichiarazione, ove già non conosciuta nei casi di pronuncia in udienza ai sensi dell’art. 176 c.p.c., comma 2, va direttamente notificata alle parti o al curatore da ogni altro interessato ovvero comunicata – ai predetti fini – anche dall’ufficio giudiziario, potendo inoltre il giudice pronunciarla altresì d’ufficio, allorché gli risulti, in qualunque modo, l’avvenuta dichiarazione di fallimento medesima”.
Il tratto della vicenda fattuale (rilevante in questa sede) che ha occasionato la rimessione alle Sezioni Unite della suddetta questione, con ordinanza interlocutoria n. 21961 del 12 ottobre 2020, da parte della prima sezione civile della Corte di cassazione riguarda la riassunzione, svolta dall’appellante, di un giudizio di gravame interrotto dopo che l’appellata, essendosi costituita, veniva dichiarata fallita. Quest’ultima, in seguito alla riassunzione disposta da (OMISSIS) ne eccepiva l’intempestività essendo decorsi più di tre mesi dalla comunicazione ricevuta dalla parte appellante dell’apertura del fallimento o, comunque, dall’atto di partecipazione al concorso fallimentare formulata dall’appellante quale creditrice.
In primo luogo, giova sottolineare che la Corte ha accolto il secondo motivo di ricorso, evidenziando che la Corte di appello avrebbe errato nel ritenere applicabile al suddetto giudizio il termine di tre mesi per la riassunzione previsto nella nuova formulazione dell’art. 305 c.p.c., che opererebbe solo per i giudizi di primo grado instaurati dopo il 4 luglio 2009 e avrebbe dovuto, invece, ritenere applicabile il più lungo termine di sei mesi, precedentemente previsto dall’art. 305 cit.
L’accoglimento del secondo motivo di ricorso circa l’applicabilità del termine semestrale conferisce rilevanza all’ attività di riassunzione svolta dalla (OMISSIS) e al suo interesse processuale, ponendo la Corte dinnanzi all’interrogativo circa la possibilità o meno di considerare conosciuto il fallimento di (OMISSIS) in capo alla parte appellante, per aver essa ricevuto in proprio dal curatore l’avviso destinato ai creditori, cui è seguita la relativa insinuazione al passivo. Ed infatti, qualora il dies a quo per la riassunzione, ai citati fini, si consideri integrato dal primo evento (la comunicazione ricevuta dalla parte e su iniziativa del curatore il 3 maggio 2014) ovvero dal secondo (l’atto di partecipazione al concorso fallimentare ad opera della stessa appellante (OMISSIS) il 10 giugno 2014), il termine semestrale dell’art. 305 c.p.c. non potrebbe dirsi rispettato, derivandone la tardività della riassunzione, nel senso considerato, estrinsecata mediante il deposito del ricorso solo in data 29 aprile 2015; qualora, invece, si ritenesse che il giudice del merito avrebbe dovuto individuare nell’emissione della dichiarazione dell’interruzione del processo (avvenuta all’udienza del 9 dicembre 2014, dunque ivi conosciuta ex art. 176 c.p.c., comma 2) il dies a quo del termine semestrale per la riassunzione del giudizio, attuata con il menzionato deposito del ricorso, l’estinzione non si sarebbe verificata. Le Sezioni Unite hanno ritenuto condivisibile questo secondo assunto, in accoglimento del primo motivo di ricorso.
La ricostruzione svolta dalla Corte ha preso le mosse dai commi terzo e quarto dell’art. 43 L.F. (rispettivamente introdotti con il d.lgs. 9 gennaio 2006 n. 5 e con il D.L. 27 giugno 2015 n. 83, poi convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2015, n. 132), i quali hanno l’evidente finalità, da un lato, di attenuare con l’automaticità dell’interruzione dei processi pendenti i costi del contenzioso non endoconcorsuale (ed indirettamente la durata dei fallimenti) e, dall’altro, di istituire regole di trattazione selettiva per tutti i processi in cui la qualità di parte è assunta dall’organo concorsuale. La medesima esigenza di celerità nella trattazione dei suddetti procedimenti è emersa, peraltro, anche dalla Direttiva UE 2019/1023, ove all’art. 25 lett. b) si precisa che gli Stati membri devono garantire l’efficienza e la rapidità delle tempistiche di svolgimento delle procedure di insolvenza.
È noto che ai sensi dell’art. 43, comma 3, L. fall., “l’apertura del fallimento determina l’interruzione del processo”[1]. In un tale contesto la dichiarazione di fallimento è stata assimilata ai comuni eventi interruttivi del processo di cui agli artt. 299 comma 1, 300 comma 3 e 301 comma 1, c.p.c., che sanciscono, con formula equivalente, che il processo è interrotto ipso iure dal momento in cui si verifica l’evento, dunque con riflessi inediti nella zona in cui opera l’art. 305 c.p.c. quanto a prosecuzione o riassunzione. Si tratta di un effetto attrattivo che, avvenendo di diritto, per omogenea lettura costituzionale (Corte Cost. 17 del 2010) e della giurisprudenza di legittimità (Cass. S.U. 7443 del 2008, Cass. 773/2013) rende irrilevante, ai fini della produzione della conseguenza interruttiva, la notificazione alle altre parti costituite da parte del soggetto fallito ovvero la dichiarazione in udienza dell’intervenuto fallimento. Il Fallimento di una parte processuale fuoriesce, quindi, dall’ambito applicativo del primo, comma secondo e quarto dell’art. 300 c.p.c.
Si pone, dunque, un caso di interruzione automatica del giudizio in corso, che determina il problema dell’individuazione del dies a quo da cui far decorrere il termine per la riassunzione o prosecuzione del processo, non potendosi anche qui applicare, come evidenziato in più occasioni dal Giudice delle Leggi, l’art. 305 c.p.c. secondo il suo tenore letterale che, altrimenti, rischierebbe di condurre ad ipotesi di estinzione “misteriosa” del processo, in violazione dell’art. 24 Cost. L’art. 305 c.p.c., infatti, nel prevedere che “ilprocesso deve essere proseguito o riassunto entro il termine perentorio di tre mesi (prima erano sei) dall’interruzione, altrimenti si estingue”, non pone alcuna distinzione tra le ipotesi di cd. interruzione automatica ed immediatamente connessa al verificarsi dell’evento interruttivo e quelle (a cui meglio e pacificamente tale norma può applicarsi) di interruzione del processo “mediata” da un atto di parte, di cui all’art. 300, comma primo, secondo e quarto.
Sull’interpretazione dell’art. 305 c.p.c., come poc’anzi anticipato, è ripetutamente intervenuta la Corte Costituzionale che, in particolare, con le pronunce n. 139/1967 e n. 159/1971, ne ha dichiarato l’illegittimità nella parte in cui, in spregio del principio del diritto alla difesa, non garantiva che il termine per la riassunzione decorresse dal momento di formale conoscenza dell’evento interruttivo.
La Consulta ha interpretato tale disposizione normativa ricostruendola in termini di “esigenza primaria di tutelare la parte colpita dall’evento” ed altresì “la parte cui il fatto non si riferisce”, dando atto che il termine per la riassunzione del processo interrotto non decorre dal giorno in cui si è verificato l’evento interruttivo, bensì da quello in cui di tale evento abbia avuto conoscenza in forma legale la parte interessata alla riassunzione, con la conseguenza che il relativo dies a quo può ben essere diverso per una parte rispetto all’altra.
Dopo aver brevemente passato in rassegna i più diffusi orientamenti di legittimità formatisi sul punto, le Sezioni Unite hanno posto il proprio focus sull’accento assunto progressivamente dalla connotazione “legale” della conoscenza, rilevando che, oltre alla effettività della conoscenza dell’evento interruttivo comunque conseguita, devono essere valorizzate non tanto le forme di produzione ex ante idonee a documentare in modo certo o attendibile la conoscenza dell’evento, quanto piuttosto il loro contenuto, indagando anche sul contesto processuale in cui l’evento interruttivo opera e non solo l’evento in sé.
In particolare, con riferimento all’art. 43, comma 3, della L.Fall. ed al ruolo della curatela nei processi pendenti del fallito, si è ritenuto che per il curatore il problema che si pone non è tanto la conoscenza del fallimento, quanto piuttosto sapere della pendenza del processo interrotto, del quale il fallito è parte. L’idea che per la procedura fallimentare il termine di riassunzione del processo decorra dal momento in cui è stata pronunciata la sentenza dichiarativa di fallimento era parso già, secondo alcuni dei maggiori orientamenti ripotarti, eccessivamente penalizzante (Cass. n. 3782/2015; n. 27165/2016; n. 16281/2018). Per questo, si era ritenuto che il termine per la riassunzione o la prosecuzione del processo interrotto ex art. 43 cit. decorresse per ciascuna parte – e, quindi, anche per il curatore – dal momento della conoscenza legale dell’evento interruttivo, integrata da una dichiarazione, certificazione o comunicazione assistita da fede privilegiata rappresentativa sia dell’evento che ha determinato l’interruzione del processo sia dello specifico processo interessato dalla dichiarazione di fallimento.
Dalla suddetta ricostruzione sistematica svolta, le Sezioni Unite giungono ad individuare le forme di produzione della conoscenza più congrue in quell’indirizzo che collega l’onere di riassunzione o prosecuzione del processo interrotto alla dichiarazione giudiziale di interruzione per intervenuto fallimento della parte.
Ritiene, infatti, la Corte che tra i vari orientamenti esposti, il terzo (in ordine di analisi), individuando nella dichiarazione giudiziale l’elemento costitutivo del dies a quo per la decorrenza del termine di riassunzione o prosecuzione, sembra meglio rispettare un approccio di compatibilità con l’art. 43 cit. senza assorbirne del tutto la portata tra gli eventi interruttivi dell’art. 299 c.p.c., art. 300 c.p.c., comma 3 e art. 301 c.p.c., comma 1, ma tenendo presente, con la specialità della norma, la funzione già attuale cui essa assolve. Questo orientamento appare, secondo la Corte, il più idoneo a realizzare “quei valori-obiettivo di affidabilità, prevedibilità e uniformità dell’interpretazione delle norme processuali costituenti imprescindibile presupposto di uguaglianza tra i cittadini e di “giustizia” del processo (Cass. S.U. 23675/2014)” (pag. 19 della pronuncia in commento).
La soluzione del contrasto così operata dalle Sezioni Unite appare porsi in perfetta sintonia con la precisa scelta di certezza e garanzia per la difesa di tutte le parti del processo operata dall’art. 143 del nuovo Codice della Crisi d’impresa e dell’Insolvenza (CCII). La norma, nel ribadire che l’apertura della procedura di liquidazione giudiziale a carico di una parte produce l’automatica interruzione del processo pendente, prevede che il termine “per la riassunzione del giudizio decorre da quando l’interruzione viene dichiarata dal giudice”. Peraltro, deve però evidenziarsi che il CCII non chiarisce se la previsione di cui all’art. 143 debba considerarsi rivolta ad alcuni soggetti solamente, come si potrebbe evincere dal riferimento alla sola riassunzione (e non anche alla prosecuzione), delimitando la previsione della decorrenza del termine alla sola altra parte (secondo la locuzione dell’art. 303 c.p.c.), cioè a quella non colpita da fallimento oppure se si possa, come suggerisce la Suprema Corte nella sua interpretazione, riferire ad entrambe le parti, individuando così un comune dies a quo..
[1] Giova evidenziare che la chiusura del fallimento, invece, non produce effetti interruttivi automatici sui processi in cui sia parte il curatore, dal momento che la perdita della capacità processuale che ne consegue non si sottrae alla regola, dettata a tal fine dall’art. 300 c.p.c., della necessità della dichiarazione in giudizio da parte del procuratore dell’evento interruttivo (così Cass., 27 ottobre 2016, n. 21742, in Foro it., Rep., 2016, Procedimento civile, n. 324).