Il contributo di dottrina e giurisprudenza all’evoluzione dell’espropriazione immobiliare

Di Achille Saletti -

Sommario: 1. Il nuovo processo esecutivo introdotto dal codice del 1940 e la (deludente) esperienza pratica. – 2. La delega delle operazioni di vendita. – 3. I successivi interventi in materia. – 4. Le prassi “virtuose”. – 5. Gli sviluppi successivi. – 6. Il quadro attuale dell’espropriazione immobiliare. – 7. Un bilancio conclusivo.

1. Il processo esecutivo introdotto nel codice del 1940 si differenziava profondamente da quello preesistente. Scriveva in proposito la Relazione accompagnatoria dell’odierno codice di rito – dovuta precipuamente alla penna di Piero Calamandrei – che “il libro terzo del Codice, dedicato al processo di esecuzione, è quello nel quale più che negli altri libri si è sentito il bisogno di dare agli istituti anche nella formulazione delle norme e nel loro raggruppamento, una impostazione sistematica più corrispondente ai progressi della scienza processuale”[1].

In effetti queste parole rispecchiavano puntualmente la nuova configurazione di tale processo e, in particolare, dell’espropriazione immobiliare, che ne costituisce uno degli strumenti più rilevanti, da un lato, e di maggior complessità, dall’altro.

L’introduzione del giudice dell’esecuzione, ad instar del suo omologo giudice istruttore, onde garantire la continuità dell’espropriazione, sovraintendendo al suo svolgimento; la soppressione della commistione tra forme cognitive ed esecutive prima esistente, con un risultato particolarmente rilevante con riguardo all’espropriazione immobiliare, che, fino ad allora, postulava la pronuncia di plurime sentenze per sancirne la progressione; l’introduzione di forme di liquidazione dei beni non circoscritte alla sola vendita con incanto, per cercare di migliorarne i risultati; la puntuale disciplina delle opposizioni esecutive, con netta separazione di queste parentesi cognitive dall’attività necessaria per lo svolgimento fisiologico dell’espropriazione; tutto ciò costituiva un oggettivo miglioramento rispetto al sistema precedente, come dimostra il fatto che si tratta, tuttora, di caposaldi riconosciuti del nostro sistema. Sicché non appariva eccessivo prevedere che, “in questo modo il procedimento esecutivo, sotto la direzione del giudice dell’esecuzione, giungerà rapidamente alla sua meta”[2].

Questi fausti presagi non erano però destinati a trovare riscontro nella realtà. L’espropriazione immobiliare, a dispetto delle modifiche che avrebbero dovuto accelerarne il corso, continuava a richiedere tempi lunghi. La sua durata media – che era di 1154 giorni nel 1973, cioè poco più di tre anni – era in costante e progressivo aumento: 1508 giorni nel 1987, 1791 nel 1992[3], 2483 nel 1997[4]. Si giungeva, così, ad una durata media di quasi sette anni: sicché, nell’arco di circa un ventennio, i tempi esecutivi si erano più che raddoppiati.

Se, poi, si guarda ai dati disaggregati, la situazione è ancor più sconfortante. Un’indagine conoscitiva organizzata dal Consiglio nazionale forense e condotta all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso, che aveva coinvolto oltre la metà dei tribunali italiani, evidenziava una disparità enorme: a tribunali che nel giro di due/tre anni portavano a compimento l’espropriazione immobiliare se ne contrapponevano altri – e non pochi – in cui era necessario mediamente un decennio per la sua conclusione[5].

Se la “drammatica inefficienza”[6] del processo esecutivo era unanimemente riconosciuta[7], rari e marginali, per contro, furono gli interventi normativi in materia.

Sono a tutti note le difficoltà che incontrò il nuovo codice di rito, che portarono addirittura alla proposta di abrogarlo per ritornare al sistema del 1865[8]. Pur non avendo avuto, quest’ultima tesi, successo, il codice vigente venne sottoposto a numerose modifiche, a cominciare da quelle, particolarmente incisive, intervenute negli anni tra il 1948 e il 1950[9], poco dopo la sua entrata in vigore.

Per l’esecuzione forzata, in detta occasione, vi furono solo marginali ritocchi[10]. Situazione destinata a protrarsi anche successivamente: nonostante i rilevanti interventi che continuavano ad interessare il codice[11], il processo esecutivo continuò ad essere negletto fin quasi alla fine dello scorso secolo[12].

La situazione di “drammatica inefficienza” del processo esecutivo, se non induceva il legislatore a specifici interventi, era però percepita come intollerabile da dottrina e giurisprudenza, che si sforzavano, nei limiti del possibile, di rimediarvi. In questo tentativo esse si muovevano all’unisono, ovviamente ciascuna nel reciproco campo di azione.

Molteplici sono i passaggi in cui si può riscontrare questo sforzo, ma alcuni sono particolarmente significativi, avendo condotto a modifiche idonee a migliorare la deteriorata situazione esistente. In questa prospettiva, due sono le direzioni di sviluppo che mi sembrano particolarmente significative: da un lato, suggerendo degli interventi che permettessero di acquisire nuove forze e professionalità per migliorare tempi e risultati dell’espropriazione forzata; dall’altro, valorizzando istituti fino ad allora trascurati, sì da tentare di giungere ad un procedimento che, pur facendo applicazione delle norme all’epoca esistenti, fosse idoneo a consentire una più proficua e celere realizzazione dei beni pignorati.

2.  Sotto il primo aspetto bisogna soffermarsi sulla delega delle attività di vendita.

La “degiurisdizionalizzazione della fase espropriativa in senso stretto” era stata individuata come possibile soluzione per rimediare alle disfunzioni dell’espropriazione[13]. In questa prospettiva Andrea Proto Pisani aveva proposto di delegare ai notai la fase della vendita con incanto nelle espropriazioni immobiliari[14].

Si ipotizzava una duplice possibilità. Volendo prescegliere una soluzione più circoscritta, la delega avrebbe potuto riguardare, dopo la pronuncia dell’ordinanza di cui all’art. 569 c.p.c., l’intera fase della vendita con incanto fino al versamento del prezzo, momento in cui il fascicolo sarebbe ritornato al G.E. per la pronuncia del decreto di trasferimento e per i successivi adempimenti.

In una prospettiva più estensiva la delega avrebbe dovuto mirare ad eliminare i vari “colli di bottiglia” dell’espropriazione immobiliare, a cominciare da quello rappresentato dall’acquisizione della documentazione ipocatastale, che frequentemente richiedeva tempi biblici. Così il notaio avrebbe potuto essere delegato, oltre che ad acquisire tale documentazione, alla fissazione del prezzo di vendita, all’eventuale formazione dei lotti dei beni da vendere, alla redazione del bando d’asta, per poi sovraintendere all’incanto, ferma, anche qui, l’esclusiva competenza del G.E., dopo il pagamento del prezzo di aggiudicazione, per l’ulteriore sviluppo della procedura, a cominciare dal decreto di trasferimento.

In entrambi i casi, al giudice rimaneva riservata la risoluzione di ogni incidente. Parimenti la delega non avrebbe potuto che concernere la vendita all’incanto, non quella senza incanto, per i maggiori poteri discrezionali attribuiti al giudice in questa seconda, tali da precludere la possibilità di demandarli ad un delegato.

Tale proposta, discussa nell’ambito di un convegno organizzato dal Consiglio nazionale del notariato, ebbe un’accoglienza favorevole; se ne apprezzava da tutti l’idoneità ad incidere positivamente sull’espropriazione immobiliare, per la quale era stata specificamente immaginata.

A seguito di tale convegno un gruppo di studio[15] predispose uno schema di progetto di legge per la delega ai notai delle operazioni di vendita con incanto nell’espropriazione immobiliare[16], che fu successivamente approvato dal CSM[17]; progetto che recepiva le possibilità di delega ed anzi le ampliava rispetto alla proposta iniziale, estendendola anche alla fase di distribuzione.

Dal canto suo, il disegno di legge delega per la riforma del codice di rito, approvato, nel 1996, dalla Commissione presieduta da Giuseppe Tarzia, si allineava a quanto proposto, confermando la possibilità di delega anche rispetto alla formazione del progetto di distribuzione[18].

A coronamento di queste articolate iniziative, la delega trovò riconoscimento nella legge 3 agosto 1998, n. 302, che introdusse gli artt. 534-bis e 591-bis c.p.c. Questi, peraltro, la prevedevano in termini non perfettamente coincidenti con quella che era stata l’originaria prospettazione dottrinale, ma più estensivi.

Oltre ad essere prevista anche nell’espropriazione mobiliare, seppur limitatamente alla vendita con incanto dei beni iscritti nei pubblici registri, le attività delegabili nell’espropriazione immobiliare risultavano ampliate rispetto alle soluzioni originariamente proposte. Secondo la nuova normativa il giudice dell’esecuzione, con l’ordinanza che disponeva la vendita, individuava un notaio, fra quelli disponibili a provvedere alle operazioni di vendita immobiliare[19], avente sede nel circondario e lo delegava a provvedere alla procedura di incanto: da quel momento, l’intero svolgimento delle operazioni di vendita era demandato al notaio delegato, che determinava, con l’ausilio di un esperto nominato dal giudice, il prezzo di vendita, redigeva l’avviso di cui all’art. 576 e curava le notificazioni ai creditori iscritti non intervenuti. Parimenti rientrava nel potere del delegato provvedere non solo sulle offerte dopo l’incanto, ma anche alla fissazione di ulteriori incanti, come a statuire sulle istanze di assegnazione, nonché ad autorizzare l’assunzione del debito verso il creditore ipotecario da parte dell’aggiudicatario o dell’assegnatario ai sensi dell’art. 508 c.p.c.

Una volta incassato il prezzo, il delegato doveva provvedere a redigere la bozza del decreto di trasferimento, da trasmettere al G.E. per i provvedimenti di cui all’art. 586 c.p.c., attività, questa, riservata al magistrato. I compiti del delegato, peraltro, non erano ancora conclusi, essendo suo onere, una volta pronunciato il decreto di trasferimento, da un lato di curarne l’esecuzione, mediante registrazione, trascrizione e voltura, nonché le altre attività pubblicitarie necessarie; dall’altro, di procedere alla cancellazione dei pignoramenti e delle iscrizioni ipotecarie, in conformità a quanto disposto dall’anzidetto decreto.

Era, infine, onere del delegato formare una bozza di progetto di distribuzione, da trasmettere al G.E. per le eventuali modificazioni e gli adempimenti di cui all’art. 596 c.p.c.

Gli ampi poteri che venivano così conferiti al delegato trovavano il loro “punto di equilibrio” nelle previsioni dell’art. 591-ter[20], che consentiva sempre al G.E. un controllo sugli atti del delegato: ciò sia su iniziativa di quest’ultimo in caso di difficoltà riscontrate nel corso delle funzioni delegate, sia delle parti e degli altri interessati, che potevano, in ogni momento, proporre reclamo contro gli atti del delegato, così come avverso il decreto pronunciata dal giudice in relazione alle statuizioni sulle istanze del delegato. Ovviamente rimaneva ferma l’eventuale opposizione agli atti esecutivi contro detto decreto.

Come si vede, la delega si era “arricchita” cammin facendo: dalla mera sostituzione del giudice nelle attività di incanto e in quelle prodromiche allo stesso, si era giunti ad affidare al delegato una serie di ampi poteri in relazione alle varie possibili “declinazioni” della fase di vendita con incanto; nonché ad attribuirgli le attività strumentali agli adempimenti successivi all’aggiudicazione, dalla predisposizione della bozza del decreto di trasferimento alle successiva formalità attuative. Infine, vi era la possibilità di delegare attività completamente estranee alla vendita, quali quelle strumentali alla distribuzione. Dimostrazione evidente di come la delega fosse vista favorevolmente per cercare di “rivitalizzare” l’espropriazione immobiliare, traendola dalla situazione di progressiva paralisi in cui era caduta.

3.Le vicende della delega, però, erano lungi dall’essersi concluse.

Due sostanziali innovazioni non tardarono ad intervenire di lì a pochi anni – nel 2005[21] – e ne comportarono l’ampliamento, sia dal punto di vista soggettivo, sia da quello oggettivo.

Sotto il primo aspetto la platea dei potenziali delegati, inizialmente circoscritta ai soli notai, veniva estesa ad avvocati e dottori commercialisti, purché iscritti negli appositi elenchi disciplinati nell’art. 179-ter disp. att. c.p.c.[22].

Ma l’ampliamento era anche oggettivo. Il testo dell’art. 591-bis c.p.c., originariamente intitolato “operazioni di vendita con incanto di beni immobili”, a seguito della sua novellazione era rubricato, genericamente, “delega delle operazioni di vendita”. La lettura della norma confortava la conclusione che ormai anche la vendita senza incanto potesse essere oggetto di delega. L’anzidetta norma, infatti, ora prevedeva la possibilità di delegare, genericamente, “il compimento delle operazioni di vendita secondo le modalità indicate al terzo comma” dell’art. 569, disposizione che si riferiva anche alla vendita senza incanto (la quale, nel frattempo, si stava avviando, come meglio si dirà in prosieguo, a divenire la forma preferita dal legislatore per l’alienazione degli immobili). Cadeva, così, un ulteriore presupposto della delega quale concepita agli inizi degli anni ’90 del secolo scorso e consacrata dalla l. 302/1998.

Di lì a pochi anni un’ulteriore modifica normativa doveva sopravvenire, ennesima dimostrazione del favor incontrato dall’istituto in esame.

Il testo, novellato nel 2015[23], dell’art. 591-bis imponeva, infatti, nella sostanza, sempre il ricorso alla delega per le operazioni di vendita e le attività conseguenti. Se prima essa era espressione del potere discrezionale del G.E., che poteva avvalersene o meno, adesso doveva essere obbligatoriamente disposta, salvo che il G.E., “sentiti i creditori, ravvisi l’esigenza di procedere direttamente alle operazioni di vendita a tutela degli interessi delle parti”[24].

Con il che la situazione si era capovolta rispetto a quella preesistente: la delega diveniva la forma normale per le vendite immobiliari e gli adempimenti successivi, con possibile sua esclusione solo per tutelare l’interesse delle parti. Formula generica, ma dall’evidente carattere residuale.

Si era così conclusa la trasformazione della delega: da facoltà originariamente prevista per le sole vendite con incanto, “sentite le parti” (con un chiaro intento di valorizzare la loro volontà in proposito), era divenuta lo strumento normale e generale per ogni tipo di vendita immobiliare, imposto per legge, salvo eccezioni in relazione a contrari interessi delle parti, soprattutto dei creditori, la cui previa audizione, per escluderla, era imprescindibile. A ciò si aggiungeva la sua utilizzazione anche per la fase distributiva.

A questa generalizzazione dal punto di vista operativo, era corrisposta, sul piano soggettivo, un’altrettanta cospicua estensione a plurime categorie rispetto a quella (originaria) dei notai: estensione forse conseguente anche a spinte corporative, ma oggettivamente resa indispensabile dall’ampliato ambito di applicazione della delega.

Queste trasformazioni non dovevano essere le ultime, giacché altre ne saranno introdotte con il decreto delegato 149/2022, in esecuzione della legge di delega 206/2021; ma di esse dirò tra poco. Un primo rilievo è, però, fin d’ora possibile.

Se anche la delega, all’origine, fosse stata introdotta per demandare le operazioni di alienazione coattiva a soggetti particolarmente qualificati in materia di vendite immobiliari, quali i notai, nondimeno i successivi sviluppi non consentono più una tale conclusione, non potendosi dire altrettanto di avvocati e dottori commercialisti, platea dai molteplici interessi e competenze. Sicché appare realistico concludere che l’apporto dei delegati al processo esecutivo abbia avuto lo scopo di fornire adeguate risorse per lo svolgimento in tempi ragionevoli dell’espropriazione immobiliare, risorse che i soli magistrati togati non avrebbero potuto offrire, atteso il loro ridotto numero[25]. Del resto, che questa fosse la prospettiva dei conditores già ai tempi della legge del 1998, quando la delega fu introdotta, appare chiaramente dall’esame dei verbali parlamentari[26].

4. Se nell’introduzione della delega per le operazioni di vendita un apporto essenziale è stato fornito dalla dottrina, in altri settori è stata la giurisprudenza a svolgere un ruolo decisivo.

L’esigenza di migliorare le performances dell’espropriazione immobiliare era profondamente sentita dalla giurisprudenza. Lo dimostra, ad es., il fatto che già all’inizio degli anni ’90 del novecento una parte dei tribunali italiani ammetteva la sostituzione delle certificazioni ipocatastali con una relazione notarile[27], soluzione poi sancita normativamente nel 1998 con la legge che introdusse la delega[28].

Tuttavia, degli interventi complessi ed incisivi nell’anzidetta prospettiva si ebbero soprattutto con le prassi “virtuose” introdotte da taluni tribunali, segnatamente quelli di Bologna[29] e di Monza[30].

Ferme talune differenze tra le prassi adottate dai detti tribunali, esisteva un largo substrato comune. Esso – prescindendo qui dagli aspetti più specificamente organizzativi, quale la necessità di ridurre il numero delle udienze richieste per la progressione della procedura espropriativa – era rappresentato, anzitutto, dalla preferenza, al fine della liquidazione dei beni pignorati, per la vendita senza incanto, piuttosto che per quella con incanto, all’epoca prevalentemente prescelta[31]. Ciò in quanto la prima, da un lato, consentiva di accelerare i tempi della fase liquidatoria; e, dall’altro, rendeva più difficili agli speculatori le acquisizioni a prezzi vili.

La possibilità, allora priva di sanzioni, di non presenziare all’incanto qualora mancassero dei competitori, in modo da poter fruire dei ribassi previsti per i successivi esperimenti di vendita, finiva, infatti, per esercitare un effetto doppiamente pernicioso sull’espropriazione immobiliare: da un lato prolungandone i tempi oltremisura, dall’altro abbattendone il ricavato. E ciò anche senza considerare gli abusi cui, sovente, si prestavano le offerte dopo l’incanto.

Inconvenienti evitabili, invece, con la vendita senza incanto, che, una volta formulata l’offerta, non consentiva di sottrarsi agli impegni conseguenti, se non con la perdita della cauzione. Per contro, questa forma di vendita, pur non presentando gli inconvenienti tipici di quella con incanto, ne garantiva in larga parte i vantaggi: prevedendosi una gara tra gli offerenti, in caso di loro pluralità, sulla base dell’offerta maggiore, era possibile, comunque, aggiudicare il bene a chi in quella sede prevaleva, migliorando l’offerta originariamente effettuata.

In effetti, il favor per la vendita con incanto, che si registrava fino ad allora nella pratica, seppur non privo di giustificazioni pratiche[32], non era condiviso dal codice. A prescindere da talune incertezze a livello del sistema – ad es. l’art. 108 l.f. considerava quale forma normale per la liquidazione dei beni l’incanto, ammettendo la vendita senza incanto solo con l’assenso dei creditori ammessi al passivo aventi diritto di prelazione sugli immobili da vendere – la preferenza del codice di rito andava alla vendita senza incanto. Basta leggere l’art. 569, 3° comma, c.p.c., nel testo originario, rimasto vigente fino alla riforma del 2005, laddove prevedeva che “il giudice dispone con ordinanza la vendita, la quale si fa a norma degli articoli seguenti, se egli non ritiene opportuno che si svolga con il sistema dell’incanto”, per avere l’assoluta evidenza che le prassi “virtuose”, lungi dal voler proporre soluzioni anomale, si sforzavano di ripristinare delle precise scelte legislative, largamente disattese.

Ma i problemi dell’espropriazione immobiliare non erano rappresentati solo dalle forme con cui effettuare la vendita. Come è facilmente intuibile, indipendentemente dalla forma prescelta per la liquidazione del bene pignorato, la stessa non poteva dare dei risultati soddisfacenti in mancanza, da un lato, di adeguata pubblicità; e, dall’altro, di puntuali informazioni circa le condizioni dell’immobile offerto. A ciò si aggiunga l’aspettativa di chi acquista un immobile di poterne disporre quanto prima.

Sono questi i profili su cui la giurisprudenza “virtuosa” ebbe parimenti a soffermarsi. La carenza di informazioni in capo ai potenziali acquirenti veniva in gioco sotto più profili: non solo quello di una carente informativa circa la vendita, ma anche – profilo parimenti determinante – con riguardo alle caratteristiche dell’immobile esecutato. Temi, invero, non considerati delle norme all’epoca vigenti.

Ci si sforzò, quindi, non solo di migliorare la pubblicità sui quotidiani, per esempio raggruppando gli avvisi delle vendite immobiliari in un unico contesto, ma anche, utilizzando la previsione sulla pubblicità commerciale (possibile in quanto prevista in via generale dall’art. 490 c.p.c.), mediante l’affissione di manifesti che davano conto della vendita, informando i confinanti dell’immobile pignorato, inserendo le informazioni sulla vendita in siti internet.

D’altro canto, si trattava anche di fornire ai potenziali acquirenti puntuali informazioni circa le condizioni e i vincoli gravanti sull’immobile da vendere. Finalità perseguita disponendo che la perizia di stima da redigersi dall’esperto dovesse dare conto di una serie di dati tali da fornire un quadro analitico della situazione dell’immobile, nonché rendendo tale atto, al pari dell’ordinanza di vendita, facilmente accessibile al pubblico. Cose non previste dal codice, ma che il G.E. poteva introdurre tramite le direttive per l’esperto e disciplinando la pubblicità.

Infine, l’informativa circa l’immobile da vendere non poteva ritenersi completa in mancanza della possibilità per i potenziali acquirenti di visionare l’immobile posto in vendita. Risultato, questo, ottenuto generalizzando la sostituzione al debitore esecutato, custode ex lege del bene pignorato ai sensi dell’art. 559 c.p.c. allora vigente, con un custode terzo, il quale poteva altresì fornire informazioni agli interessati.

Anche qui la soluzione non era in contrasto con il quadro normativo. Al debitore costituito custode era, infatti, vietato di disporre dell’immobile pignorato, essendogli preclusa non solo la possibilità di cederne la disponibilità a terzi (salva autorizzazione del G.E.), ma anche l’utilizzazione diretta, potendo egli continuare ad abitarlo solo se autorizzato dal giudice (e in ogni caso occupando esclusivamente i locali “strettamente” necessari a lui e alla sua famiglia: art. 560, 3° comma, c.p.c.). Sicché la nomina di un custode terzo in sostituzione del debitore consentiva di realizzare proprio quell’obiettivo che il legislatore perseguiva, ma che era rimasto largamente disatteso.

A ciò si aggiungeva la prassi di liberare – tramite il custode “terzo” – l’immobile pignorato, in modo da consegnarlo libero all’aggiudicatario. Ancora una volta una tale soluzione non risultava contrastante con le disposizioni sopra ricordate in materia di custodia: nel momento che il debitore è costituito custode, non detiene più l’immobile pignorato in proprio, ma nell’interesse della procedura, sicché dovrebbe rilasciarlo spontaneamente, se non autorizzato ad abitarvi. Ma questa, evidentemente, è teoria: solo la sostituzione del debitore-custode con un ausiliare del giudice consentiva di realizzare l’obiettivo della liberazione dell’immobile, se del caso coattivamente, secondo le istruzioni del G.E.

Infine, non può essere dimenticato il tentativo di agevolare il potenziale acquirente nell’acquisizione delle somme necessarie per l’acquisto.

Appartiene alla comune esperienza come l’acquisto di un immobile avvenga per lo più tramite un finanziamento concesso dal sistema bancario. Tanto, però, non era possibile in sede esecutiva, considerando la scansione dei tempi: il pagamento del prezzo deve precedere il decreto di trasferimento, che solo legittima l’aggiudicatario, trasferendogli la proprietà del bene, ad autorizzare l’iscrizione ipotecaria per garantire il mutuo. D’altra parte, anche utilizzando la possibilità di iscrivere ipoteca sui beni altrui, già di per sé non gradita agli istituti di credito, la prassi bancaria richiedeva che l’ipoteca a garanzia del mutuo fosse di primo grado, il che era possibile solo a seguito della cancellazione delle formalità pregiudizievoli sul bene venduto, tra cui le ipoteche preesistenti, che parimenti seguiva al decreto di trasferimento.

In difetto di ogni previsione normativa in proposito, le prassi “virtuose” si sforzarono di superare anche tali difficoltà, negoziando specifici accordi con le banche, per permettere l’iscrizione dell’ipoteca di primo grado, pur garantendo alla procedura esecutiva il preventivo incasso del prezzo. Non occorre soffermarsi qui sulla via seguita per realizzare tale risultato, se non per sottolinearne il carattere creativo.

Emerge da questo articolate quadro, sinteticamente ripercorso, lo sforzo di rivitalizzare l’espropriazione immobiliare ponendo rimedio alle lacune del sistema introdotto nel 1940, ancorché nel rispetto della normativa all’epoca esistente.

In effetti, alle enunciazioni di principio contenute nella Relazione, circa le nuove forme sulla liquidazione dei beni pignorati, tali da “dare al processo esecutivo quella scioltezza ed adattabilità di forme che permetterà, secondo le circostanze, di trovare nelle espropriazioni quello stesso rendimento economico che potrebbe essere raggiunto sul mercato attraverso le intese tra privati”[33], non corrispondeva una disciplina tale da favorire tale risultato.

La pubblicità, strumento evidentemente indispensabile per porre effettivamente il bene sul mercato, era inesistente nella vendita senza incanto, essendo circoscritta a degli adempimenti burocratici – quale la pubblicazione dell’avviso di vendita sul F.A.L. e la sua affissione nell’albo del tribunale – inutili nella prospettiva di un’informativa effettiva dei potenziali acquirenti; mentre, per il resto, era lasciata alla discrezionalità del singolo magistrato. Non erano previste strutture ausiliarie per assistere il giudice per collocare il bene sul mercato nella maniera commercialmente più valida. La possibilità, per l’acquirente, di ottenere finanziamenti per l’acquisto, non andava oltre alla previsione del subentro nel debito ipotecariamente garantito, regolata dall’art. 508 c.p.c. Insomma, un sistema “monco”, da rivitalizzare con uno sforzo di creatività “complementare”.

5. Questi orientamenti giurisprudenziali hanno trovato, in seguito, non solo riconoscimento normativo, ma hanno altresì costituito lo spunto per valorizzare istituti su cui le prassi “virtuose” avevano particolarmente puntato per potenziare l’espropriazione immobiliare[34].

Emblematiche, in questa prospettiva, le previsioni in tema di vendita senza incanto. Le varie riforme succedutesi negli anni tra il 2005 ed il 2015 hanno confermato inequivocabilmente come, nell’iter della vendita immobiliare, quella forma di alienazione dovesse essere prescelta in prima battuta. Se già le previsioni originarie del codice di rito legittimavano questa conclusione, la modifica, nel 2005, dell’art. 569 non lasciava più dubbi in proposito[35]; scelta poi ulteriormente rafforzata nel 2015, quando il 3° comma, ultima parte, di detta norma[36] aveva sancito che il G.E. potesse disporre in prima battuta l’incanto solo qualora ritenesse probabile che la vendita con tale modalità potesse “aver luogo per un prezzo superiore della metà rispetto al valore del bene, determinato a norma dell’art. 568”. Ipotesi evidentemente non facile a realizzarsi.

Insomma, l’incanto, da forma normale per la realizzazione dei beni pignorati, qual era nella prassi del secolo scorso, diveniva residuale.

Ma se per questo verso le modifiche normative non facevano altro che confermare una scelta già presente nel codice di rito, ancorché spesso disattesa, per altri versi gli interventi legislativi tendevano a rendere la vendita senza incanto più appetibile di quanto fosse nel quadro originario del codice.

Se in questo il dissenso di un solo creditore era sufficiente a far respingere l’offerta di acquisto che non superasse di almeno un quarto il prezzo fissato per la vendita[37], limite che evidentemente poteva rendere problematica l’utilizzazione dell’istituto in questione, già nel 2005 questa previsione veniva attenuata[38]. E nel 2015 si giungeva alla regola attualmente vigente, del tutto opposta a quella originaria: non solo l’offerta pari al prezzo stabilito per la vendita andava senz’altro accolta (art. 572, 2° comma, c.p.c.), ma pure quella inferiore, purché di non oltre un quarto, giustificava l’aggiudicazione qualora il G.E. ritenesse la mancanza di una “seria possibilità di conseguire un prezzo superiore con una nuova vendita”[39] (art. 572, 3° comma, c.p.c.)[40].

In conclusione, un vero e proprio capovolgimento del quadro originario, che non è azzardato ricollegare alle prassi “virtuose”, le quali avevano valorizzato la vendita senza incanto.

Né si può ritenere illogica la scelta di ammettere l’acquisto per un prezzo inferiore a quello stimato (soluzione in passato caldeggiata dalla dottrina[41]), quando si consideri che vendita volontaria e coatta non sono equivalenti in una prospettiva di mercato. Non solo per la differenza, ad es., delle garanzie previste nei due casi (riconosciuta e valorizzata dall’art. 568 c.p.c.[42]), ma soprattutto per la mancanza di equivalenza tra vendita forzata e volontaria, se non altro perché da quest’ultima ci si può astenere se il prezzo non sia ritenuto congruo dal venditore, soluzione impossibile quando essa è coattiva.

Insomma, un “bagno di realismo”, che si sforza di tener conto delle regole del mercato, con cui, per forza di cose, l’espropriazione deve misurarsi. Del resto, il codice aveva immaginato un possibile correttivo per tale situazione, prevedendo l’amministrazione giudiziaria, ma tale istituto non è mai decollato, forse anche per la rigidità del mercato delle locazioni in cui avrebbe dovuto operare.

Oltre che su scelte di fondo come quella testé indicata, anche su temi apparentemente minori – ma in realtà fondamentali per favorire la vendita dei beni esecutati – i successivi interventi legislativi hanno confermato l’apprezzamento per le soluzioni propugnate in via interpretativa dalla giurisprudenza.

L’informativa dei potenziali acquirenti, che aveva costituito un passaggio fondamentale delle prassi “virtuose”, mediante un’adeguata pubblicità della vendita senza incanto, si arricchisce progressivamente: in un primo tempo, nel 2005, sostituendo all’inutile pubblicità sul F.A.L., quella via internet dell’avviso di vendita, della relativa ordinanza e della relazione di stima[43]; poi, nel 2015, introducendo il portale delle vendite pubbliche[44].

Al contempo, sempre riprendendo un suggerimento giurisprudenziale, viene normato il contenuto della relazione di stima di cui all’art. 173-bis disp. att. c.p.c.[45], atto per il quale, originariamente, non era previsto un contenuto predeterminato. Senza entrare nei particolari, una serie di dati – dalla regolarità edilizia allo stato di possesso del bene pignorato, ai vincoli gravanti su di esso – va obbligatoriamente fornita; né è il caso di spendere parole sulla loro rilevanza per un potenziale acquirente, il quale potrà prenderne nota direttamente tramite la pubblicità prevista (anche) per tale atto (art. 490, 2° comma, c.p.c.), come a suo tempo propugnato dalle prassi “virtuose”.

D’altro canto, sempre in linea con le anzidette prassi, viene valorizzata la custodia del bene pignorato da parte di un ausiliare del tribunale, nominato ad hoc. Originariamente, come già accennato, detta custodia competeva, ex lege, all’esecutato, il quale poteva, sì, essere sostituito da un terzo, ma la giurisprudenza, in più di un’occasione, aveva circoscritto tale possibilità al caso di violazione degli obblighi su di lui gravanti[46].

Nelle prassi “virtuose” tale sostituzione diventa, invece, la regola. Anche sotto questo profilo il legislatore, con i suoi interventi, ha mostrato di condividere le nuove soluzioni: in occasione della riforma del 2005 la custodia viene partitamente disciplinata e la sostituzione del debitore diviene la regola, allorché il G.E. autorizza la vendita o delega la relativa attività[47]. Onere specifico del custode, nelle norme novellate, al di là di curare la conservazione e la gestione del bene affidato alle sue cure, è poi quello di adoperarsi “affinché gli interessati a presentare offerta di acquisto esaminino i beni in vendita”[48].

Quanto alla liberazione dell’immobile pignorato ed occupato dal debitore, essa è parimenti demandata al custode “terzo”, nei vari casi in cui può avvenire. Qui, però, il quadro normativo è meno univoco.

Se il 3° comma dell’art. 560 c.p.c., quale novellato nel 2005, adottava la soluzione secondo la quale il giudice dispone la liberazione dell’immobile, oltre che in ipotesi specifiche, al più tardi quando ne dispone l’aggiudicazione o l’assegnazione, soluzione confermata da detta disposizione, quale modificata nel 2016[49], successivamente il quadro muta[50], distinguendosi tra gli immobili pignorati, a seconda che siano occupati dal debitore e dalla sua famiglia, oppure no. Mentre, per questi ultimi, il G.E. può disporne, senza particolari limiti, la liberazione (ovviamente fatti salvi i diritti dei terzi opponibili alla procedura)[51], per gli altri si preferisce ritardarne la liberazione, forse apparendo troppo rigorosa la regola precedentemente accolta. Sicché, per detti immobili (art. 560, 8° comma, c.p.c.), la liberazione viene fatta coincidere con la pronuncia del decreto di trasferimento. Soluzione sicuramente meno appagante per chi si renda acquirente di un immobile abitativo occupato dal debitore e dai suoi familiari (essendone differito il rilascio ad un momento successivo al passaggio di proprietà del bene medesimo), nondimeno ragionevole nella prospettiva di un contemperamento con le esigenze abitative del debitore.

D’altra parte, già si è visto come l’acquisto di un bene possa avvenire anche per un importo non di poco inferiore – fino ad un quarto – al valore attribuito allo stesso: sicché quella riduzione può giustificarsi, oltre che per le ragioni già sottolineate, anche in considerazione di taluni possibili inconvenienti per l’aggiudicatario, come quello di non poter disporre, in taluni casi, immediatamente del bene acquistato.

Per contro, se in taluni casi viene ritardato il momento del rilascio dell’immobile, migliorano le modalità per realizzarne la liberazione. La soluzione del 2005 secondo la quale il provvedimento di rilascio era titolo esecutivo (il che presupponeva un’ordinaria procedura di rilascio, con tutte le problematiche tipiche della stessa), viene successivamente abbandonata, optandosi per una soluzione a carattere amministrativo, atteso il carattere c.d. autoesecutivo del provvedimento di rilascio: in conseguenza il custode può avvalersi della forza pubblica, seppur con l’autorizzazione del giudice, per procedere al rilascio, senza necessità dell’osservanza degli artt. 605 ss. c.p.c. Liberazione che sarà eseguita dal custode nelle anzidette forme anche dopo la pronuncia del decreto di trasferimento, qualora vi sia istanza dell’aggiudicatario o dell’assegnatario[52].

In questo quadro, un ulteriore perfezionamento è rappresentato dalla disciplina dettata per i mobili contenuti nell’immobile da liberare. Ove essi non siano asportati dai legittimi titolari entro il termine loro assegnato, si considerano derelitti e il custode potrà disporne lo smaltimento o la distruzione[53], superandosi così un problema, frequente quando si deve procedere alla liberazione di un immobile, di una qualche rilevanza.

L’ultimo profilo di cui dar conto nell’esame di come le prassi “virtuose” abbiano saputo accreditarsi, tanto da venire sancite legislativamente, con disposizioni anche migliorative delle soluzioni praticate – il che è del tutto fisiologico, essendo il raggio di azione del legislatore ben più ampio di quello dell’interprete, per il quale la norma costituisce un limite invalicabile – concerne le possibilità dell’aggiudicatario di “finanziarsi” in relazione agli acquisti da effettuare in sede esecutiva.

Questa possibilità, inesistente nel testo originario del codice, è stata espressamente prevista nel 2005, sancendosi espressamente all’art. 585, 3° comma, c.p.c. che, qualora il versamento del prezzo di aggiudicazione avvenga tramite un contratto di finanziamento che preveda il pagamento direttamente alla procedura e la garanzia ipotecaria di primo grado sull’immobile oggetto di vendita, di esso dovrà darsi atto nel decreto di trasferimento, di modo che il conservatore dei registri immobiliari non possa eseguirne la trascrizione “se non unitamente all’iscrizione dell’ipoteca concessa dalla parte finanziata”. Si realizza così un importante passo nella prospettiva di “equiparare”, dal punto di vista dell’acquirente, la vendita coattiva a quella volontaria.

La disamina sin qui svolta evidenzia, dunque, come la giurisprudenza sia stata determinante nell’evoluzione dell’esecuzione forzata. Un profilo, però, merita di essere segnalato. Normalmente l’attività giurisprudenziale incide sull’interpretazione da dare a singole norme, sicché, anche quando la soluzione abbia un particolare rilievo sistematico, non trascende lo specifico ambito a cui si riferisce la pronuncia. Qui, invece, vi è qualcosa di più: infatti, le prassi “virtuose” hanno saputo incidere sulla configurazione dell’intera espropriazione immobiliare, rileggendola, così da renderla più proficua e funzionale, ed influenzandone l’evoluzione con soluzioni poi riprese dai successivi interventi legislativi.

6. Il quadro, profondamente innovato, testé delineato trova conferma nel d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, che ha dato esecuzione alla legge delega n. 206/2021.

Cominciando dalla custodia, individuata come elemento centrale dalle prassi “virtuose” e, poi, dai successivi interventi legislativi, ne prosegue la razionalizzazione ed il rafforzamento.

Se, per quanto concerne la liberazione dell’immobile pignorato, il nuovo art. 560 c.p.c. si è limitato a confermare il precedente sistema (intervenendo opportunamente su aspetti di dettaglio, di cui non è necessario dare qui conto), mantenendo come centrale la distinzione tra l’immobile abitato dal debitore e dalla sua famiglia e quello non utilizzato dall’esecutato a tal fine o comunque occupato da terzi privi di un titolo opponibile alla procedura, per altri versi sono state introdotte rilevanti novità in materia, riscrivendo l’art. 559 c.p.c.

Riprendendo i suggerimenti dell’organo di governo della magistratura circa le prassi da generalizzare[54], la sostituzione del debitore esecutato – che tuttora è costituito custode ex lege con il pignoramento – diviene la regola. Sganciata definitivamente dall’istanza di parte, che ne costituiva in passato un presupposto essenziale[55], il custode “terzo” diviene una figura necessaria dell’espropriazione, dovendo essere sempre nominato contestualmente allo stimatore, salvo in caso di manifesta inutilità della sostituzione.

Arricchiti, infine, sono i compiti del custode, sempre nell’ottica di potenziare l’espropriazione: a quelli tradizionali si aggiunge la collaborazione con lo stimatore per controllare la completezza della documentazione ipocatastale.

L’evoluzione della custodia appare, a questo punto, completa.

Essa diviene sempre più centrale nello svolgimento dell’espropriazione forzata, a differenza dal passato, quando la sostituzione del debitore in tale ruolo rimaneva sullo sfondo, come un “accidente” della procedura. Se uno degli intenti perseguiti dal vigente codice era quello di “perfezionare i mezzi volti ad accrescere il rendimento economico della esecuzione”[56], sicuramente un tale risultato è stato validamente perseguito tramite la progressiva evoluzione della custodia.

Analogo rafforzamento vale per la delega ai professionisti.

Da un lato essa è stata ulteriormente ampliata, stabilendo che anche la fase distributiva è ormai destinata a svolgersi sempre avanti al delegato[57]. Dall’altro, sempre in questa prospettiva, si giustifica la modifica dell’art. 591-ter, che disciplina il sistema dei controlli sull’attività del delegato.

Mentre in precedenza le censure contro gli atti di questi potevano sempre essere sollevate[58] fino a conclusione della fase della vendita, normalmente sancita dal decreto di trasferimento, oggi le parti e gli eventuali interessati sono tenuti ad impugnarli immediatamente, quando non li condividano, introducendosi allo scopo un termine decadenziale di venti giorni per proporre reclamo al G.E. In difetto, tali atti non potranno più essere messi in discussione, con conseguente loro stabilizzazione. Si evita, così, che le censure non sollevate nell’immediatezza possano essere fatte valere in occasione dell’impugnazione di successivi atti dell’espropriazione, primo fra tutti il decreto di trasferimento.

In astratto la soluzione non è da valutare negativamente, in quanto impedisce che l’intera fase della vendita possa essere travolta ex post per vizi preesistenti. Obbligando gli interessati a contestare immediatamente gli atti del delegato, si elimina tale eventualità. Il rischio connesso al nuovo sistema è quello di moltiplicare le opposizioni ex art. 617 c.p.c., possibili contro la decisione sul reclamo, essendo stato, parallelamente, eliminato il richiamo all’art. 669-terdecies, prima esistente. Il che potrebbe, visti i tempi lunghi dell’opposizione agli atti esecutivi, come quelli di ogni processo di cognizione, creare un intreccio, non facilmente risolubile, con l’ulteriore svolgimento dell’attività delegata.

Si tratta dunque di una scelta delicata[59], che solo il futuro potrà dire se felice: certo è che la volontà di rafforzare gli atti del delegato – e quindi la delega – risulta evidente.

Piuttosto, se il favor legislativo per questo istituto risulta ulteriormente confermato, emerge con particolare rilievo dall’ultima riforma l’esigenza di rafforzare il controllo sull’operato dei delegati.

Essa era già presente nel quadro normativo precedente, con la previsione del termine per lo svolgimento delle operazioni delegate, da fissarsi dal G.E. Il nuovo testo dell’art. 591-bis, 1° comma, c.p.c. torna in argomento, precisando, a scanso di fraintendimenti, che tale termine è “finale”; nonché chiarendo ulteriormente gli obblighi del delegato, tenuto ad effettuare almeno tre esperimenti di vendita entro l’anno dall’ordinanza di delega. È evidente, da un lato, l’obiettivo di fissare una cadenza tipizzata per le operazioni delegate; e, dall’altro, di evitare il dilatarsi eccessivo dei tempi della fase liquidativa, riprendendo i suggerimenti delle buone prassi raccolte dal C.S.M.[60].

Vengono ribaditi, inoltre, i poteri di controllo del giudice sull’attività da svolgersi dai delegati e meglio disciplinate le conseguenze della loro inosservanza. Infine, i delegati sono tenuti a dar conto, periodicamente, dell’attività svolta, depositando dei rapporti informativi, tali da agevolare il controllo da parte del magistrato.

Evidente, insomma, è la preoccupazione – per la verità non priva di fondamento, evidenziando l’esperienza quotidiana una certa disparità di solerzia dei delegati nello svolgimento del loro incarico – che l’istituto possa non realizzare appieno le finalità acceleratorie che ne hanno giustificato l’introduzione[61]. In questa prospettiva si giustifica anche la previsione del novellato art. 179-quater, 1° comma, disp. att. c.p.c., secondo la quale non possono essere attribuiti al singolo delegato incarichi in eccedenza al 10% di quelli conferiti dall’ufficio, essendo evidenti gli inconvenienti che un eccessivo cumulo di incarichi può provocare nella prospettiva dell’accelerazione dell’espropriazione.

Se per questi aspetti il decreto delegato si è mantenuto in linea con le precedenti scelte, rafforzandole nei limiti del possibile, innovativa è invece l’introduzione della c.d. “vendita diretta”.

Ispirata alla vente amiable del diritto francese, ma in realtà profondamente diversa da tale istituto quanto meno nella versione introdotta nel codice[62], essa – senza, peraltro, espropriare i creditori dei propri poteri – dà rilievo all’iniziativa del debitore che possa favorire la vendita del bene pignorato.

Abbandonando la prospettiva tradizionale, che tendeva ad escludere tale soggetto dalle operazioni di vendita, con l’istituto in esame si introduce una via alternativa per la realizzazione dei beni pignorati, appunto conseguente all’iniziativa del debitore. Questi ha facoltà di presentare una proposta di acquisto da parte di un possibile interessato all’aggiudicazione prima dell’udienza di autorizzazione alla vendita. Detta proposta si caratterizza per dover offrire un prezzo di acquisto pari al valore stabilito dal giudice per il bene pignorato, senza quindi poter fruire della riduzione fino ad un quarto prevista dal 2° comma dell’art. 571 c.p.c.

A seguito di essa, due sono le situazioni possibili: se nessuno dei creditori “titolati” o intervenuti di cui all’art. 498 c.p.c. si oppone, il G.E. procede direttamente all’aggiudicazione dell’immobile all’offerente. Al contrario, qualora taluno di detti soggetti dissenta, la procedura refluisce nell’ambito di una vendita competitiva, anche se con delle varianti nell’iter rispetto a quello ordinario, fermo restando che la competizione dovrà assumere come base di partenza il prezzo offerto dal terzo indicato dal debitore.

È prevista, inoltre, anche la possibilità che il G.E., anziché procedere con il decreto di trasferimento, su istanza dell’aggiudicatario autorizzi il trasferimento dell’immobile tramite atto negoziale, ordinando, contestualmente alla trascrizione di tale atto, la cancellazione dei pignoramenti e delle iscrizioni ipotecarie.

Queste, in estrema sintesi, le linee essenziali del nuovo istituto, le cui caratteristiche peculiari, quando non si debba procedere secondo lo schema della vendita competitiva, sono rappresentate essenzialmente dal prezzo offerto, che deve essere allineato alla stima del giudice, e dalla possibilità di celere aggiudicazione, seguita dal trasferimento del bene in tempi altrettanto rapidi, quanto meno in caso di utilizzazione delle forme privatistiche.

Non è agevole immaginare quali saranno le possibilità di successo della “vendita diretta”. L’aspetto più delicato è rappresentato dall’importo dell’offerta, che dev’essere pari ad almeno il valore del bene determinato dal giudice: in un sistema dove è possibile concorrere all’acquisto offrendo solo il settantacinque per cento di tale importo, è evidente che acquisire offerte almeno pari all’intero valore stimato del bene pignorato non è agevole.

Questa criticità del nuovo istituto può, però, paradossalmente divenire un suo elemento di forza. Di fronte a un’offerta notevolmente superiore a quella che d’ordinario potrebbe condurre all’aggiudicazione dell’immobile pignorato, è presumibile che difficilmente i creditori si opporranno, a meno di situazioni limite, in quanto essa non verrà ritenuta, normalmente, migliorabile.

A ciò si aggiunga che la “vendita diretta” trova un ulteriore punto di forza nell’accelerazione dei tempi della procedura. Quando, infatti, non ci sia opposizione da parte dei creditori legittimati, l’aggiudicazione può seguire molto rapidamente. Si tratta di circostanza potenzialmente idonea ad indurre sia l’offerente ad effettuare un’offerta più alta di quella con la quale avrebbe potuto aggiudicarsi il bene in sede di vendita ordinaria, ma in tempi assai più lunghi, sia i creditori – per i quali l’aggiudicazione rappresenta una tappa fondamentale nella prospettiva del loro soddisfacimento – a rinunciare all’opposizione onde incassare celermente quanto loro spetta. Anche per questi soggetti, infatti, i tempi di soddisfacimento del credito azionato costituiscono un fattore estremamente rilevante, tale da poter influenzarne la condotta[63].

Né si può dimenticare che la “vendita diretta” è idonea anche a ridurre i costi della procedura: costi che non solo devono essere anticipati dai creditori, ma rischiano anche di gravare definitivamente sugli stessi in caso di insufficienza del ricavato per il soddisfacimento dei crediti vantati.

Insomma, vi è un complesso insieme di fattori che possono giocare a favore del nuovo istituto: anche qui solo l’esperienza potrà dirci se siano tali da giustificarne il successo. In ogni caso si tratta di uno sforzo positivo nella prospettiva di modernizzare l’espropriazione immobiliare, valorizzando – profilo spesso negletto – il fattore “tempo”, in cui si può cogliere un’eco delle esigenze sottolineate dalle prassi “virtuose”.

7.Il discorso sin qui svolto dimostra come la sistemazione attuale dell’espropriazione immobiliare sia, in larga parte, frutto delle iniziative concomitanti di dottrina e giurisprudenza, poi sancite e valorizzate dal legislatore.

Occorre a questo punto interrogarsi sull’esito di questa evoluzione.

Indubbiamente essa ha riportato ad accettabili livelli di efficienza una forma espropriativa che sembrava divenuta, verso la fine del secolo scorso, inidonea a realizzare la sua funzione[64]: lo confermano i dati statistici, che evidenziano, nel 2010, una durata media dell’espropriazione immobiliare di poco più di tre anni[65], simile a quella del 1973: risultato sicuramente non di poco conto di fronte alla deriva verificatasi negli ultimi anni del ‘900. Ma soprattutto evidenzia una configurazione della nostra espropriazione diversa da quella immaginata dal codice del 1940: ciò per vari ordini di fattori.

In primis quello di carattere soggettivo, con l’assegnazione di funzioni fondamentali per l’espropriazione immobiliare ad una serie di soggetti che prima non erano chiamati ad operarvi, o, se già presenti, vi svolgevano un ruolo assolutamente marginale.

La delega ai professionisti, con l’attribuzione agli stessi dell’intero svolgimento della fase successiva all’ordinanza di vendita/delega, quando non vi sia l’esigenza di risolvere controversie, anche potenziali, è stata determinante nella prospettiva di garantire al processo esecutivo quelle risorse, necessarie per il suo svolgimento in tempi ragionevoli, che prima mancavano. D’altra parte, valorizzando figure già presenti – ma il cui ruolo era assolutamente marginale: l’evoluzione della custodia è emblematica a questo proposito – si sono potute realizzare delle attività fondamentali per uno sviluppo fruttuoso dell’espropriazione.

Insomma, una procedura che prima ruotava sostanzialmente intorno ad un unico soggetto, il giudice, adesso vede una serie di figure chiamate a coadiuvarlo, talvolta sostituendolo, talaltra svolgendo attività in precedenza non previste o comunque non compatibili con il suo ruolo.

D’altro canto, dal punto di vista oggettivo, si è cercato di migliorarne l’efficienza. Se la vendita forzata non potrà mai essere equivalente, attesa l’obbligatorietà che la caratterizza, a quella volontaria, nondimeno molteplici sono stati gli sforzi per ridurne l’handicap rispetto a quest’ultima.

La fissazione di un prezzo appetibile per l’immobile, sia valorizzando la differenza di garanzie esistente nei due casi, sia ammettendo, quando non vi sia gara, l’acquisto per un corrispettivo ridotto rispetto a quello di mercato, costituisce un passaggio fondamentale in tal senso; come altrettanto fondamentale è la possibilità, parimenti oggi esistente, di avvalersi di un finanziamento bancario per procedere all’acquisto.

Sono solo due esempi di come si sia operato per rendere più appetibili le vendite coattive; naturalmente a tutto ciò si aggiungono le scelte tecniche – da un’adeguata pubblicità alla preferenza per la vendita senza incanto – su cui, peraltro, non è il caso di soffermarsi, per non ripetere cose già dette.

Si è da taluno osservato che queste modifiche sarebbero espressione di una sorta di privatizzazione dell’espropriazione forzata[66], ma tale conclusione non mi pare condivisibile.

In effetti, se si considera che i passaggi salienti del processo esecutivo – rappresentati dall’autorizzazione alla vendita, da un lato, e dal decreto di trasferimento, dall’altro – sono comunque riservati al G.E., si potrebbe già seriamente dubitare di tale affermazione. E altrettanto vale per la fase distributiva, avendo il giudice dell’esecuzione il potere di apportare le modifiche del caso al progetto predisposto dal delegato.

Conclusione ulteriormente confortata dal rilievo che la sorveglianza del magistrato è comunque immanente sullo svolgimento dell’espropriazione. La possibilità delle parti di provocare il controllo del giudice sugli atti del processo, compresi quelli del delegato, costituisce, a mio avviso, la miglior dimostrazione del fatto che la delega non gli sottrae il suo potere decisorio, ma lo riserva alle situazioni in cui effettivamente è necessario, cercando di liberarlo da oneri non strettamente connessi alla sua funzione tipica.

Se la giurisdizione è una risorsa limitata, come abitualmente si dice, la delega è lo strumento per utilizzarla al meglio, facendola intervenire solo laddove sia necessario risolvere un conflitto oppure valutare i passaggi nodali della procedura: come stabilire se, in effetti, esistano i presupposti per procedere alla vendita; se lo svolgimento pregresso della procedura legittimi il trasferimento del bene, anche in relazione alla congruità del prezzo ricavatone rispetto a quello giusto; o, ancora, se il progetto di distribuzione sia conforme alle regole. Il fatto che le attività delegate non si svolgano al cospetto del giudice non giustifica una valutazione critica, quando ne sia possibile, come in effetti è, il suo controllo e il suo intervento: se questo non viene invocato dalle parti, che sono le prime interessate ad uno svolgimento regolare del processo esecutivo, non v’è ragione per imporre la partecipazione del giudice a operazioni che sono in larga parte di natura attuativa.

Escluso, a mio avviso, che sotto questo profilo possa parlarsi di privatizzazione, non diversa è la conclusione rispetto alla “vendita diretta”, parimenti considerata come una manifestazione di tale fenomeno[67].

Anche tale affermazione non sembra condivisibile nel quadro normativo vigente, nel quale l’iniziativa del debitore rimane pur sempre condizionata dal controllo del giudice. Questi, dopo aver valutato l’ammissibilità dell’offerta presentata per la “vendita diretta”, su di essa provvede, pronunciando l’aggiudicazione o, in caso di opposizioni dei creditori, aprendo una procedura di vendita competitiva; il tutto si conclude, quale che sia stato l’iter liquidativo, con la pronuncia del decreto di trasferimento o con un provvedimento equiparabile, quando il G.E. rinvia al notaio per il trasferimento in forme negoziali, sancendo al contempo le formalità da cancellare.

Se, dunque, per questi aspetti, l’espropriazione immobiliare oggi vigente sembra scevra da criticità, il discorso cambia quando si considerino i costi necessari per il suo svolgimento. Essi, in effetti, sono aumentati in modo rilevante in ragione del compenso spettante al delegato e agli altri soggetti chiamati a svolgere funzioni in sede esecutiva; come per la relazione notarile che tiene il luogo delle certificazioni ipocatastali (ormai quasi impossibili da ottenere nei ridotti tempi previsti dal codice), per la pubblicità e per altri adempimenti. Costi che non solo devono essere anticipati dal creditore procedente, ma rischiano anche di rimanere a suo carico, non solo quando la procedura abbia termine per anti-economicità[68], ma altresì se il bene esecutato non dia un ricavo sufficiente a soddisfare sia il credito fatto valere, sia i costi anticipati.

È questa la vera critica che si potrebbe muovere all’odierna espropriazione immobiliare. Tuttavia, nell’alternativa tra un processo espropriativo meno costoso, ma inefficiente, e il suo contrario, non mi sembrano leciti dubbi sulla scelta a favore di questa seconda soluzione.

(*) Relazione tenuta nell’ambito del Convegno su “Il ruolo della giurisprudenza e della dottrina nell’esecuzione forzata”, svoltosi a Roma il 30 gennaio 2024. Sono stati aggiunti i riferimenti essenziali.

[1] Così Relazione alla Maestà del Re Imperatore, § 31. Giustamente Sassani, Il codice di procedura civile e il mito della riforma perenne, in Saggi scelti, Torino, 2023, p. 265, parla in proposito di “capolavoro di retorica alata”.

[2] Relazione cit., § 31.

[3] I dati sopra riportati, relativi agli anni 1973 e 1992, sono tratti dalle Statistiche giudiziarie civili anno 1973, XXII, edizione 1975, tav. 44/B, e da Statistiche giudiziarie civili anno 1992, annuario n. 1, edizione 1994, tav. 3.24, edite dall’ Istituto nazionale di statistica. Quelli dell’anno 1987 da Chiarloni, Giurisdizione e amministrazione nell’espropriazione forzata, in Atti del XVII convegno nazionale, Milano, 1992, p. 6 s.

[4] Cfr. Durate e funzionalità del processo civile dopo la riforma del giudice unico in primo grado, Roma, 2004, p. 46, sempre edito dall’ISTAT.

[5] La Volpe, Per un’espropriazione immobiliare sono necessari più anni che per un procedimento civile di cognizione?, in Atti del convegno su Delegabilità ai notai delle operazioni di incanto nelle espropriazioni immobiliari – Normativa vigente e prospettive di riforma, Milano, 1994, p. 81 ss.

[6] Così Vaccarella, Delegabilità ai notai de iure condito e de iure condendo delle operazioni di incanto nelle espropriazioni immobiliari, in Atti del convegno su Delegabilità ai notai, cit., p. 34 ss.

[7] Cfr., ad es., Borré, Incanti immobiliari e delega ai notai, in Atti del convegno su Delegabilità ai notai, cit., p. 55; Proto Pisani, Delegabilità ai notai delle operazioni di incanto nella espropriazione forzata immobiliare, in Foro it., 1992, V, c. 444 ss., nonché in Atti del convegno su Delegabilità ai notai, cit., p. 13 ss. (i successivi riferimenti sono sempre a questa ultima collocazione).

[8] Le vicende del codice del 1940 sono analiticamente esaminate da Picardi, Prefazione alla V edizione – I. Il codice di procedura civile nel suo bicentenario, in Codice di procedura civile a cura di Nicola Picardi, V ed., I, Milano, 2010, p. XXIV ss.

[9] Sulle modifiche apportate dalla l. 14 luglio 1950, n. 581, v., sinteticamente, Picardi, op. cit., p. XXVII, nonché, analiticamente, Andrioli, Le riforme del codice di procedura civile, Napoli, 1951, p. 1 ss.

[10] Essenzialmente concernenti l’intervento, la vendita mobiliare, la c.d. piccola espropriazione mobiliare e l’estinzione del processo esecutivo, cui si aggiungeva la modifica di norme sparse (ad es., gli artt. 475, 494, 512, 524, 545, 548 e 627 c.p.c.).

[11] In primis con le leggi 11 agosto 1973, n. 533, e 26 novembre 1990, n. 353.

[12] I pochi interventi di sostanza sul processo esecutivo, dopo quelli del 1950 e prima del 1998, furono rappresentate dall’introduzione dell’art. 618-bis, dedicato alle opposizioni in materia di lavoro, previdenza ed assistenza (l. n. 533/1973), nonché dalla modifica, in senso conforme alla previsione dell’art. 108 l.f., dell’art. 586 c.p.c. (d.l. 13 maggio 1991, n. 152, conv. in l. 12 luglio 1991, n. 203).

[13] Così Costantino, Note tecniche sulla attuazione dei diritti di credito nei processi di espropriazione forzata, in Processo e tecniche di attuazione dei diritti a cura di Mazzamuto, Napoli, 1989, II, p. 810 s., cui appartengono le parole tra virgolette nel testo. Secondo detto A., “la fase di distribuzione, necessariamente giurisdizionale, potrebbe innestarsi su una fase liquidativa affidata ad enti muniti delle necessarie capacità professionali per trasformare in denaro i beni del debitore, l’attività dei quali dovrebbe comunque essere sottoposta al controllo successivo del giudice dell’esecuzione”. Ovviamente “degiurisdizionalizzazione” non significa “privatizzazione” dell’espropriazione forzata, come ben chiarito da Costantino (Degiurisdizionalizzazione della espropriazione immobiliare, in Atti del convegno su Delegabilità ai notai, cit., p. 231 s.). In argomento cfr. anche Fabiani, Dalla delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata alla delega della giurisdizione in genere, in Atti del convegno Processo civile e delega di funzioni, Milano, 2016, p. 12 e 23.

[14] Delegabilità ai notai delle operazioni di incanto nella espropriazione forzata immobiliare, cit., p. 13 ss., che non escludeva la praticabilità di talune delle soluzioni proposte già nel quadro normativo allora esistente.

[15] Costituito per iniziativa del Consiglio superiore della magistratura, del Consiglio nazionale forense, del Consiglio nazionale del notariato e dell’Associazione bancaria italiana.

[16] Pubblicato nell’Appendice II agli Atti del convegno su Delegabilità ai notai delle operazioni di incanto nelle espropriazioni immobiliari, cit.

[17] Nella seduta del 17 gennaio 1996.

[18] Il d.d.l. delega è pubblicato, unitamente alla relazione, in Riv. dir. proc., 1996, p. 948 ss. In proposito cfr. Tarzia, Qualche notizia, ivi, 945. Le direttive per la materia della vendita immobiliare sono contenute al punto 36 del d.d.l. (p. 963) ed illustrate al punto XXIII della Relazione (p. 1007 ss.), ove si menziona espressamente la delegabilità al notaio anche della fase della distribuzione.

[19] Cfr. art. 179-ter disp. att. c.p.c., nel testo allora vigente.

[20] E dell’art. 534-ter c.p.c., per quanto concerneva l’espropriazione mobiliare di beni iscritti nei pubblici registri.

[21] Con la modifica del testo dell’art. 591-bis c.p.c. operata dal d.l. 14 marzo 2005, n. n.35, convertito con modifiche in l. 14 maggio 22005, n. 80, poi ulteriormente modificato con l. 28 dicembre 2005, n. 263.

[22] A tali categorie di soggetti si aggiungevano gli istituti per le vendite giudiziarie, nel caso di vendite con incanto di beni mobili registrati.

[23] Dal d.l. 27 giugno 2015, n. 83, convertito con modificazioni in l. 6 agosto 2015, n. 132.

[24] Così il secondo comma del novellato art. 591-bis c.p.c.

[25] Osserva Liccardo, La ragionevole durata del processo esecutivo: l’esperienza del Tribunale di Bologna negli anni 1996-2001 ed ipotesi di intervento, in Riv. esec. forzata, 2001, p. 567, che la delega della vendita ai notai deriva dall’impossibilità concreta di molte realtà giudiziarie, pur in assenza di “incidenti di esecuzione”, di seguire concretamente un’espropriazione immobiliare caratterizzata da una pluralità di udienze.

[26] Cfr., ad es., i lavori della seduta n. 400 del 28 luglio 1998 – “Discussione del disegno di legge: S. 1800 – Norme in tema di espropriazione forzata e di atti affidabili ai notai (approvato dal Senato)“ – della Camera dei deputati, p. 120.

[27] Cfr. le tabelle allegate alla relazione di La Volpe, Per un’espropriazione immobiliare, cit., p. 101 ss.

[28] Delega che, al contrario, prima dell’anzidetta legge, non veniva praticata nelle espropriazioni immobiliari, mentre era talvolta ammessa da qualche tribunale per le vendite fallimentari: cfr. ancora La Volpe, op. ult. cit., p. 124 ss. Ma in proposito cfr. anche Berti Arnoaldi Veli, Prassi e giurisprudenza del Tribunale di Bologna nelle espropriazioni immobiliari: in particolare, il custode giudiziario e le azioni del legale della custodia finalizzate alla liberazione del compendio, in Riv. esec. forzata, 2003, pag. 60, nota 2, secondo cui la delega ai notai veniva utilizzata dal Tribunale di Prato anche prima della l. 302/1998.

[29] In argomento cfr. Berti Arnoaldi Veli, Prassi e giurisprudenza del Tribunale di Bologna, cit., p. 59 ss.; Liccardo, La ragionevole durata del processo esecutivo, cit., pag. 566 ss.

[30] Su cui v. Miele, Roda, Fontana, La prassi delle vendite immobiliari nel Tribunale di Monza, in Riv. esec. forzata, 2001, p. 503 ss.; Valcavi, Miele, Sulle vendite immobiliari nelle esecuzioni e nei fallimenti, in Dir. fall., 1999, I, p. 505 ss. (con la relazione allegata); Fontana, La gestione attiva del compendio immobiliare pignorato, in Riv. esec. forzata, 2005, p. 571 ss.; Relazione della Commissione di studio sulle procedure esecutive immobiliari, Modifica delle prassi delle vendite immobiliari del Tribunale di Monza, in Fall., 1999, p. 1382 ss.; e, se si crede, Saletti, La prassi di fronte alle norme e al sistema, in Riv. esec. forzata, 2001, p. 487 ss.

[31] Alla fine degli anni ’80 dello scorso secolo il 73,1% dei tribunali non utilizzava mai la vendita senza incanto, il 25% la utilizzava raramente e solo l’1,8% vi faceva abitualmente ricorso: cfr. La prassi dei Tribunali italiani in materia di vendita immobiliare nell’ambito dell’esecuzione immobiliare, in Atti del Convegno su La vendita immobiliare nell’ambito delle procedure esecutive e concorsuali, I, Cologno Monzese, 1989, p. 211.

[32] In proposito rinvio al mio scritto La prassi di fronte alle norme e al sistema, cit., p. 489.

[33] Relazione, cit., § 31.

[34] In argomento cfr. Miele, La prassi del Tribunale di Monza in tema di espropriazione immobiliare e la l. n. 80 del 2005, in Foro it., 2005, V, c. 145 ss.

[35] Il testo del 3° comma dell’art. 569 c.p.c. (modificato dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito con modifiche in l. 14 maggio 2005, n. 80, poi ulteriormente modificato con l. 28 dicembre 2005, n. 263) esordiva come segue: “Se non vi sono opposizioni o se su di esse si raggiunge l’accordo delle parti comparse, il giudice dispone con ordinanza la vendita, fissando un termine non inferiore a novanta giorni, e non superiore a centoventi, entro il quale possono essere proposte offerte d’acquisto ai sensi dell’art. 571”. La norma proseguiva precisando che il giudice provvedeva ai sensi dell’art. 576 per il caso che la vendita senza incanto non avesse avuto luogo.

[36] Quale modificato dal d.l. 27 giugno 2015, n. 83, convertito con modificazioni in l. 6 agosto 2015, n. 132.

[37] Così il testo originario dell’art. 572, 2° comma, c.p.c.

[38] Il nuovo testo dell’art. 572 (introdotto dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito con modifiche in l. 14 maggio 2005, n. 80, poi ulteriormente modificato con l. 28 dicembre 2005, n. 263) stabiliva, infatti, al 2° comma, che, “se l’offerta è superiore al valore dell’immobile determinato a norma dell’articolo 568, aumentato di un quinto, la stessa è senz’altro accolta”.

[39] Purché in assenza di istanze di assegnazione.

[40] Così i commi 2° e 3° dell’art. 572, quali sostituiti dal d.l. 27 giugno 2015, n. 83, convertito con modificazioni in l. 6 agosto 2015, n. 132.

[41] In proposito già Mortara, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, III ed., V, Milano, s.d., p. 327 ss., spec. 330, segnalava l’opportunità che il bene sottoposto ad incanto venisse posto in vendita al prezzo di mercato diminuito di una percentuale da determinarsi; e, più recentemente, Vaccarella, Delegabilità ai notai, cit., p. 38; e, si vis, Saletti, Riforme urgenti del processo civile ed esecuzione forzata, in Riv. dir. proc., 1988, p. 153.

[42] Il quale, nel testo introdotto dal d.l. 27 giugno 2015, n. 83, convertito con modificazioni in l. 6 agosto 2015, n. 132, prevede che la stima del valore dell’immobile pignorato vada ridotta, rispetto a quello di mercato, “per l’assenza della garanzia per vizi del bene venduto”.

[43] Così l’art. 490, 2° comma, c.p.c., quale introdotto dalla l. 24 maggio 2005, n. 80.

[44] Cfr. 1° comma dell’art. 490, introdotto dal d.l. 27 giugno 2015, n. 83, convertito con modificazioni in l. 6 agosto 2015, n. 132, ancorché l’istituto sia divenuto operativo solo nel 2017 a seguito del D.M. 19 giugno 2017.

[45] Inserito dalla l. 14 maggio 2005, n. 80, poi modificato dalla l. 28 dicembre 2005, n. 263

[46] In argomento cfr. Saletti, Questioni attinenti alla custodia dell’immobile pignorato, in Giur.it., 1989, IV, c. 139 ss.

[47] Cfr. art. 559 c.p.c., nel testo introdotto dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito con modifiche in l. 14 maggio 2005, n. 80, poi ulteriormente modificato con l. 28 dicembre 2005, n. 263.

[48] Art. 560, 5° comma, c.p.c., come modificato dai provvedimenti citati alla nota precedente.

[49] Con d.l. 3 maggio 2016, n. 59, convertito con modificazioni in l. 30 giugno 2016, n. 119.

[50] Così il testo dell’art. 560 c.p.c., quale sostituito dal d.l. 14 dicembre 2018, n. 135, convertito con modificazioni in l. 11 febbraio 2019, n. 12.

[51] Così il 6° comma dell’art. 560 c.p.c., come novellato dai provvedimenti legislativi indicati nella nota precedente.

[52] Così l’art. 560, 4° comma, c.p.c., nel testo di cui al d.l. 3 maggio 2016, n. 59, convertito con modificazioni in l. 30 giugno 2016, n. 119.

[53] Cosi ancora l’art. 560, 4° comma, c.p.c., citato alla nota precedente.

[54] Cfr. il documento dell’11 ottobre 2017 del C.S.M., Buone prassi nel settore delle esecuzioni immobiliari – linee guida, in www.csm.it, §§ 7 e 9.

[55] E che poteva costituire un impedimento al funzionamento delle prassi “virtuose”: in argomento v. Saletti, La prassi di fronte alle norme e al sistema, cit., p. 492.

[56] Relazione cit., § 31.

[57] Così il vigente art. 596, 2° comma, c.p.c.

[58] Come chiarito da Cass., 9 maggio 2019, n. 12238.

[59] In proposito confronta già Vaccarella, Delegabilità ai notai, cit., p. 51 s.

[60] V. C.S.M., Buone prassi nel settore delle esecuzioni immobiliari – linee guida, cit., § 15.

[61] Circostanza che trova riscontro nei tempi delle espropriazioni immobiliari, che, dopo essersi ridotte sensibilmente nel primo decennio di questo secolo (v. Dati statistici relativi all’ amministrazione della giustizia in Italia, a cura del servizio studi del Senato, s.l., 2013, p. 51) rispetto alla situazione monstre della fine degli anni ’90 del secolo scorso (su cui cfr. il § 1 di questo lavoro), negli anni successivi hanno ripreso ad allungarsi, come risulta dallo Studio dei tempi dei tribunali italiani in materia di procedure esecutive individuali, a cura della Associazione “Tavolo di studio sulle esecuzioni italiane” (T.S.E.I.), n. 9-20, settembre 2020, p. 17, consultabile on line all’indirizzo www.osservatoriot6.com.

[62] In proposito si riscontra una certa divergenza tra la legge delega ed il decreto delegato: in tema cfr. Saletti, La “vendita diretta”, in Giur. it., 2023, p. 484 s.

[63] Ciò vale, in particolare, per i nuovi creditori “professionali”, quali sono le società di cartolarizzazione, tenute a soddisfare in tempi predefiniti i loro sovventori.

[64] Secondo una simulazione effettuate dal Tribunale di Monza la durata di un’espropriazione immobiliare, senza interventi correttivi, sarebbe stata destinata a divenire di circa vent’anni (Miele, La prassi del Tribunale di Monza, cit., c. 145).

[65] E precisamente 1196 giorni nel 2010 e 1218 giorni nel 2011: cfr. Dati statistici relativi all’amministrazione della giustizia in Italia, cit., p. 51.

[66] Canella, Proposte in materia di esecuzione forzata, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2021, p. 1038 e 1052, con riferimento alle proposte della Commissione presieduta dal prof. Francesco Paolo Luiso, poi largamente recepite nella legge delega (n. 206/2021).

[67] Canella, Proposte, cit., p. 1047.

[68] Tanto più che le spese non recuperate sono irripetibili: Cass., 5 ottobre 2018, n. 24571.