“Game-set-match”: obiettivi, mosse, autoresponsabilità, vittoria e sconfitta nel gioco del processo civile

Di Antonio Briguglio -

Sommario: 1.  Gioco antagonistico e gioco cooperativo sul tavolo del diritto. 2. Le strategie provvisoriamente concessorie in vista del risultato finale nel gioco antagonistico sportivo 3. ….. ed in quello processuale. 4. Teoria dei giochi come razionalizzazione delle decisioni delle parti (antagoniste o cooperanti) l’una rispetto alle scelte dell’altra: termine di confronto ideale per la ADR non aggiudicativa; meno per il processo a causa della presenza del giudice. 5. Ancora dunque su processo e gioco sportivo; giudice ed arbitro: la complicazione delle strategie predittive quando vi è di mezzo il giudice quale arbitro delle regole del gioco processuale. 6. Segue: e quando vi è di mezzo il giudice quale arbitro delle regole sostanziali. 7. Riflessioni aggiuntive sulla strategia nella prospettiva esterna al grado di giudizio: tenendo conto del decisore, nel giudizio di appello. 8. Senza tener conto del decisore, nelle more della impugnazione. 9. Il legislatore come arbitro sovrano e necessario; l’ingenuità del legislatore di fronte alla umanità delle parti e del giudice affida a volte la contesa processuale al calcolo utilitaristico. 10. Altre volte invece …; l’impugnazione incidentale tardiva e il dilemma del prigioniero: l’art. 334 c.p.c. è una regola razionale perché evita un eccesso disfunzionale di razionalità strategica delle parti. 11. Equilibrio di Nash e giustizia del gioco processuale.

1. Il contenzioso civile quando nasce, già prima e fuori dal processo, è sicuramente – se lo si vuole collocare in una delle classificazioni base presupposte alla teoria dei giochi – un “gioco antagonistico”. E non banalmente perché le parti sono in lite, ma perché si riscontra nel contenzioso civile l’ubi consistam del gioco antagonistico: Tizio vuole 100 quale prezzo del cavallo previsto in contratto, Caio non vuol pagare nulla perché il cavallo non gli è stato consegnato, o perché gli è stato consegnato un mulo o un cavallo zoppo, o perché il contratto è nullo; e quindi le risorse cui aspirano i giocatori sono limitate ed esse sono destinate ad essere aggiudicate per intero all’uno o all’altro dei contendenti ovvero ad essere ripartite.

Le trattative contrattuali sono invece tendenzialmente un “gioco cooperativo” perché le parti possono, cooperando, costruire il contratto come vogliono.

Ed infatti: se a fini solutori della lite si imbocca la strada della ADR non aggiudicativa il gioco può trasformarsi in un “gioco non antagonistico” o “cooperativo”, ed ancora una volta non nel senso banale che per raggiungere la conciliazione occorre che le parti cooperino (visto che nessuno può impedire che una parte conduca la trattativa conciliativa, proprio in base alla razionalità che innerva la teoria dei giochi, allo scopo di ottenere il massimo risultato utile e perciò di ingannare a fini utilitaristici personali l’altra parte), ma nel senso che non operando (o non operando necessariamente pur quando la lite sia già apud iudicem) i limiti dell’oggetto del processo, nulla impedisce che le risorse distribuibili con l’accordo conciliativo si allarghino rispetto a quelle in contesa (il famoso discorso vagamente anglosassone secondo cui per conciliare è meglio, piuttosto che dividere la torta, aggiungere un’altra torta; discorso questo prescindente in realtà da questa o quella cultura delle ADR perché fondato sul più elementare buon senso, sol  che occorre che la seconda torta sia disponibile sul tavolo o per lo meno già in forno).

Quando però la soluzione della lite deve passare per il processo il gioco resta indubitabilmente antagonistico e non cooperativo; salvi, da un lato, gli schieramenti e le alleanze litisconsortili, e dall’altro i segmenti isolati in cui le parti nel processo cooperano per ottenere dal giudice il risultato ad entrambe più utile: es. cosa è meglio, per entrambe le parti, la estinzione del giudizio per rinuncia agli atti ed accettazione o la dichiarazione di cessazione della materia del contendere ?.

 

2. Il processo, poi, sebbene fortemente antagonistico, non è uno scontro istantaneo e brutale nel quale uno actu prevalga chi nello scontro abbia immesso più forza o più abilità o più furbizia.

Il processo è una sequenza concatenata di atti, eventi, mosse e contromosse in progress.

Una strategia razionale della parte nella conduzione di qualsiasi processo, a fortiori del processo civile ispirato al principio dispositivo, non consiste dunque nello scegliere volta per volta e nell’immediato la condotta che attribuisce o sembra attribuire un subitaneo vantaggio, bensì nel saper anche ed autoresponsabilmente rinunciare ad un subitaneo vantaggio in vista del risultato finale.

Questo rappresenta secondo me – di là da altri aspetti più filosofici o più estetici evocati dal celebre saggio calamandreiano sul processo come gioco, ovvero più raffinatamente riconducibili alla generale idea del gioco e del processo come ritualizzazioni legittimanti del conflitto – la più evidente affinità tra processo e gioco, sportivo o non sportivo, esclusi naturalmente dalla scena i giochi puramente aleatori e le discipline sportive per così dire di pura e bruta forza (i 100 metri piani et similia).

Basti pensare, banalmente, che anche negli scacchi il sacrificio di un pezzo può essere intenzionale e funzionale rispetto a ciò che si immagina possa accadere dopo. E nella “scopa”, per “aggiustare la scopa”, debbo prima fare in modo che quell’allocco del mio avversario si illuda di fare una bella presa lasciando così una sola carta sul tavolo.

Per andare poi al titolo di questa relazione, il sacrificio di un punto o di un game può ben essere intenzionale e funzionale alla vittoria finale del set o della partita di tennis.

Siamo al quinto set entrambi stremati. 2 a 1 per me. Batte lui. 40 a 0 per lui. Lotto ad oltranza per recuperare con poche speranze e perciò rischiando di sprecare energie inutili, oppure gli mollo il game, poi vinco il mio servizio e per il break aspetto qualche doppio fallo o qualche sua sciocchezza iniziale nel game successivo? Oppure: sono due metri dietro la linea di fondo, il mio avversario fa una bella smorzata, vale la pena che io mi affanni per cercare di raggiungere la palla col rischio di restare senza fiato nei punti successivi o di slogarmi una caviglia, tanto più che, se anche riesco a rispondere alla bell’e meglio, quell’altro mi farà un passante imprendibile? Certo la scelta dipende da tante cose: chi sono io, chi è l’avversario, a che punto della partita siamo, quanto conta quel punto nella economia complessiva dell’incontro, ecc…Ed il problema è che nello sport tutto questo lo devo calcolare, in realtà intuire, in pochi decimi di secondo: altro che teoria dei giochi a tavolino! Nel processo fortunatamente vi è più tempo e più ponderazione, affinché sull’intuito istantaneo prevalga all’occorrenza la razionalizzazione utilitaristica di tipo logico-matematico, che è poi il segno distintivo della teoria dei giochi.

Anche nel gioco-sport si trovano per altro ampi spazi di razionalizzazione strategica prima o durante la gara ed anche questa razionalizzazione strategica può condurre, più e meglio del semplice intuito istantaneo, al tatticismo della mossa immediatamente ed anche smaccatamente sfavorevole ma favorevole alla lunga. Primi anni ‘60. Partita di coppa di andata. L’Ignis Varese in Jugoslavia contro una squadra di slavi molto forti e come sempre assatanati. Siamo due punti sotto a due secondi dalla fine. Due tiri liberi per l’Ignis. Asa Nicolich chiama time out e dice a Flaborea “Se ti entra il primo, sbaglia il secondo” – “Prego Mister !?!?!! Ma si è bevuto il cervello ?????” – “Fai come ti dico e basta! È finito il time out….poi vi spiego”. Spiegazione razionale: i turni di coppa in realtà si giocavano su due partite, sommandosi i punti fra andata e ritorno; l’Ignis è fuori casa ed è ridotta al lumicino per falli, infortuni e stanchezza psicofisica dei pochi giocatori ancora utilizzabili, intimiditi da un tifo infernale per la squadra di casa; a parte l’irrealistico, ma sempre possibile, evento di un rimbalzo in attacco e canestro in extremis dell’Ignis dopo il secondo tiro libero sbagliato e perciò della fortunosa vittoria dell’Ignis per un punto, se invece si segnano entrambi i tiri e si pareggia si va ai supplementari e l’Ignis becca sicuramente 20 punti non recuperabili nella partita di ritorno; invece se perde di uno o due punti…..a Varese li sommergiamo….e così fu.

Non sempre ovviamente: finale olimpica dei 1.500; sono il primatista del mondo dei 5.000 e dei 1.500; secondo un aureo criterio strategico dovrei fare tutto fuorché una gara di testa e stare invece coperto e forzare agli ultimi trecento metri (non devo fare il record, devo vincere). Ma se uno dei miei avversari più forti viene dai 400, ed ora fa 800 e 1.500, ed io non parto subito fortissimo per stroncarlo ed evitare alla fine che la sua maggiore velocità di base mi travolga, non sono uno stratega ma uno sciocco.

 

3. E nel processo ….? Due esempi abbastanza elementari, fra mille e più complessi possibili, di “cedimento” immediato in vista di successivo vantaggio o copertura del rischio, restando all’interno di una isolata vicenda processuale destinata a concludersi con la vittoria o con la sconfitta, e trascurando perciò le tante e complesse situazioni nelle quali un processo non lo si inizia necessariamente per vincerlo ma ad altri più ampi e più indiretti scopi e dunque la strategia abbraccia scenari più ampi.

Primo esempio: l’atto di citazione avversario è penoso: vi si riscontrano incertezze e confusioni palesi riguardo alla causa petendi. Se sono alle prime armi, da avvocato del convenuto, faccio subito l’eccezione di nullità; con il bel risultato che se il giudice la accoglie rimette sostanzialmente in termini il mio avversario affinché raddrizzi le gambe (magari con l’aiuto di un nuovo avvocato un po’ più provveduto) a quell’atto di citazione zoppo, al quale invece tanto varrebbe inchiodare la controparte fino al momento della rimessione in decisione in vista del risultato finale. Ciò vuol dire che non devo mai fare l’eccezione di nullità per indeterminatezza della editio actionis? Ovviamente no: ad esempio la faccio senz’altro se mi rendo conto che la sanatoria senza effetto retroattivo ad opera del mio avversario arriverebbe a termine di prescrizione scaduto.

Secondo esempio: la citazione avversaria non è né ottima né malvagia. Il fatto è però che mi è venuta fuori una comparsa di risposta con i fiocchi quanto al merito. Impostata come l’ha impostata quella citazione, alla cieca rispetto a ciò che potevo rispondergli e documentare e che lui non immaginava, ho stroncato in fatto e in diritto la prospettazione del mio avversario. Solo che in testa alla comparsa – à la guerre comme à la guerre – ho messo la solita eccezioncina di incompetenza territoriale, routinaria e piuttosto infondata: un’arma in più, ho pensato. Col bel risultato che se il mio avversario rinuncia agli atti il giudice non deve neanche chiedermi di accettare perché non ho interesse alla prosecuzione di quel giudizio, il quale dunque si estinguerà dando modo al mio avversario di reimpostare la causa con una nuova citazione alla luce di ciò che gli ho già rivelato nel merito. Insomma: per utilizzare ad ogni costo “un arma in più” ho ceduto perniciosamente il pallino strategico al mio avversario. Tanto valeva sacrificare quell’arma, solo apparentemente vantaggiosa nell’immediato.

Anche il mio avversario del resto: se per avventura l’eccezione di incompetenza territoriale viene accolta, egli dovrebbe ben guardarsi (salvo, al solito, il rischio di prescrizione) dall’imboccare, nella situazione data, la via astrattamente favorevole all’attore che il legislatore gli offre con la tempestiva riassunzione del medesimo giudizio innanzi al giudice indicato come competente, piuttosto che reimpostare un nuovo giudizio con una nuova citazione, alla luce di ciò che nel frattempo ha saputo riguardo alla mia linea difensiva.

4.Il titolo della relazione, ed anche questa premessa, virano dal gioco non sportivo al gioco sportivo.

Perché? Perché come è noto la teoria dei giochi è anche una teoria delle decisioni, ma si differenzia dalla teoria delle decisioni in senso puro perché quest’ultima è un modo di razionalizzare la decisione di fronte ad una situazione solo oggettiva più o meno connotata da aleatorietà e incertezza, mentre la TDG è un modo di razionalizzare la decisione tenendo conto soprattutto di cosa farà o potrà fare il decisore concorrente. Questo ovviamente avvicina la razionalità della teoria dei giochi alla razionalità, sebbene non necessariamente matematica ma anche eminentemente empirica ed intuitiva, che l’avvocato applica nel processo civile.

Ciò che poi sposta l’asse verso il gioco-sport, e lo allontana dalla teoria dei giochi almeno nelle sue prevalenti epifanie, è che in pochissimi giochi propriamente detti c’è un arbitro propriamente detto, mentre un arbitro c’è in tutti gli sport, perfino nel braccio di ferro.

In altri termini: la naturale “empatia” fra teoria dei giochi e universo giuridico è data dalla circostanza che isolando una singola vicenda giuridica concreta i suoi protagonisti, come accade nelle situazioni oligopolistiche in relazione alle quali la teoria dei giochi è specialmente significativa, sono relativamente pochi ed è dunque postulabile che la condotta ottimale che ciascuno dovrebbe adottare dipenda dalle scelte di un altro o degli altri protagonisti. Ma quanto alla vicenda processuale questa circostanza viene messa in crisi dalla presenza del giudice in posizione di terzietà, che di solito le teorie dei giochi non considerano (sebbene, ai fini dello sviluppo della IA in funzione predittivo/statistica – e per carità mai decisoria – degli esiti processuali, sarebbe assai utile che economisti e matematici implementassero le teorie dei giochi con particolare attenzione alla presenza del terzo decisore equidistante fra le parti).

E quindi nello sport come nel processo la singola “mossa” o “giocata” del concorrente deve tenere conto di quello che ha fatto o potrà fare l’altro concorrente, ma anche di quello che ha fatto o potrà fare l’arbitro-giudice.

Certo vi sono segmenti, nella vicenda contenziosa, in cui l’arbitro-giudice è momentaneamente assente e occorre considerare in via predittiva solo cosa potrà fare l’avversario, e perciò la teoria dei giochi riprende campo: ad esempio il segmento corrispondente alle more della impugnazione. Ci torneremo brevemente alla fine.

Come pure la teoria dei giochi in senso classico riprende campo quando, sul fronte del contenzioso civile, si tratti di metodologie di ADR non aggiudicativa.

Vi sono varie formalizzazioni dei percorsi conciliativi che traggono linfa da acquisizioni della teoria dei giochi o per lo meno si ispirano alle impostazioni logiche della teoria dei giochi ovvero si prestano ad essere gestite strategicamente attraverso la teoria dei giochi: il terzo conciliatore individua e non rivela una via di mezzo non aritmetica ma a suo avviso equa tra le opposte pretese; le parti mettono in busta le rispettive proposte; vince la proposta che più si avvicina alla via di mezzo; se Tizio, che chiedeva in partenza 100, esagera nella riduzione rischia che il prevalere della sua proposta conciliativa favorisca inaspettatamente l’avversario Caio che in partenza rifiutava in toto il pagamento; se invece è troppo tirato nella riduzione rischia che prevalga la proposta di Caio, più “normale” ma in definitiva a Caio ben più favorevole rispetto alla linea mediana; e viceversa.

Oppure si consideri la in parte affine “clausola della roulette russa” per la soluzione delle situazioni di stallo societario (offro di comprare la partecipazione altrui fissando un prezzo, che devo però accettare se l’altro mi risponde che invece compra lui la mia); clausola che risponde ad una logica singolarmente analoga a quella del giuramento decisorio e del suo riferimento come metodo di soluzione non decisorio/gnoseologico bensì fideistico/aleatorio delle liti giudiziali.

5.Quando però c’è di mezzo l’arbitro-giudice il piano comparativo – che come dicevo preferisco svolgere rispetto al gioco sportivo – si complica e si arricchisce. E viene messa in crisi la naturale “empatia” fra teoria dei giochi e mondo del diritto.

Il giudice è un arbitro che sta lì a far rispettare le regole del gioco dettagliatamente prefissate, come l’arbitro del tennis, oppure le crea almeno in parte a seconda di ciò che accade sul campo, sia pure sulla base di “principi”, come gli arbitri di alcuni (pochi) sport (ad esempio il pugilato)?

Sul piano giuridico questa domanda corrisponde all’interrogarsi sul rapporto fra il giudice e le regole del processo: quanto siano suscettibili di interpretazione più o meno creativa le regole del processo, o se si vuole in che misura sono meno ampi (ed anche meno mutevoli nel tempo) i margini interpretativi delle norme processuali rispetto a quelli delle norme sostanziali; quale il grado di discrezionalità o di case management del giudice nel governare il processo ecc..

Per incidens aggiungo solo che nel processo come nello sport (ma anche nei giochi non sportivi) occorrerebbe sempre astenersi dal trasformare in regole del gioco quelle che sono solo regole (o meglio accorgimenti) per giocare meglio. Le regole per giocare meglio sono e devono restare rispetto al processo, come accade di solito nello sport, regole e pratiche di allenamento-predisposizione-prestazione del giocatore e di esse non devono preoccuparsi né il giudice né il legislatore. O per meglio dire il giudice si farà sempre condizionare, in ogni sua decisione interinale o finale, da chi gioca meglio e cioè da chi spende più efficacemente le proprie ragioni, ma né lui né tanto meno il legislatore dovrebbero poter imporre a priori, come regola del gioco, di giocare secondo un certo standard qualitativo. Dal che ad esempio la sostanziale vacuità e però anche la pericolosa irrazionalità della attuale  mania del nostro legislatore riguardo a “chiarezza e sinteticità” degli atti processuali.

Ma torniamo al giudice come arbitro sportivo ed alla comparazione fra processo e gioco sportivo.

La complicazione di una strategia processuale predittiva quando c’è di mezzo il giudice quale arbitro delle regole del gioco processuale dipende soprattutto dal quoziente di ponderabilità o imponderabilità della condotta futura del giudice, dal quale discende anche (pur se non solo da lì) il quoziente di imponderabilità della risposta del concorrente.

A misura che sia poco ponderabile la risposta del giudice ad una “mossa” processuale, il concorrente, e cioè la parte che deve scegliere se intraprenderla, sconterà anche una maggiore imponderabilità della intermedia “contromossa” dell’avversario, perché anche questa non potrà essere del tutto orientata dalla sicurezza della finale risposta del giudice.

Ad esempio:

(i) se sono il convenuto e inserisco nella comparsa di risposta una riconvenzionale, so già con certezza che il giudice dovrà ammetterla avendo ben pochi margini interpretativi rispetto all’art. 167 ter c.p.c e qualcuno in più rispetto alle ormai effimere costrizioni oggettive ex art. 36 riguardo alla connessione anche debole fra riconvenzionale e principale; perciò l’unico vero rischio che devo ponderare rispetto alla contromossa dell’attore è che questi risponda con una reconventio reconventionis, e allora devo ragionare su quale reconventio reconventionis sia ipotizzabile, quanto possa preoccuparmi, quali siano i margini, per altro ben decifrabili, di sua concreta ammissibilità sotto il profilo del suo necessario collegamento reattivo alla mia riconvenzionale, posto che riguardo alla ammissibilità astratta e cioè alla possibilità del suo inserimento nella seconda memoria ex art. 171 ter il giudice non avrà dubbi.

(ii) Ma se sono il convenuto e inserisco nella comparsa una riconvenzionale o una eccezione che potrebbero stimolare l’attore ad una conseguenziale chiamata di terzo in causa, posso ragionare strategicamente quanto voglio sulla non convenienza o convenienza di ciò rispetto a quello che farà il mio avversario (la partecipazione del terzo mi esporrà ad una sua domanda trasversale e la cosa non mi conviene, oppure la partecipazione del terzo impedirà che questi sia sentito come testimone e la cosa mi conviene); ma qualunque calcolo di costi/benefici (dove fra i benefici sono ovviamente da annoverarsi anzitutto quelli intrinseci, maggiori o minori della mia domanda riconvenzionale o della mia eccezione) rispetto a come potrà replicare il mio avversario sarà un fare i conti senza l’oste; perché il giudice di merito – grazie ad un improvvido indirizzo della Cassazione – ha ormai una amplissima discrezionalità nell’autorizzare o non autorizzare la chiamata in causa; e dunque non mi basta solo dare per scontato in via predittiva che il mio avversario può sicuramente chiedere l’autorizzazione alla chiamata nella memoria successiva, ma devo sempre in via predittiva (alquanto aleatoria) cercare di prevedere se quel giudice autorizzerà o no la chiamata (il che oggi vuol dire non solo prevedere se considererà la richiesta di chiamata davvero conseguenza della mia riconvenzionale o eccezione, e cioè preconizzare la concreta applicazione di una norma processuale puntuale sulla ammissibilità della chiamata da parte dell’attore, ma anche e soprattutto – e la cosa è ovviamente molto più difficile – preconizzare l’uso che il giudice farà del suo potere discrezionale).

(iii) Ancora: in un sistema di prova esclusivamente legale o esclusivamente tassata, e cioè pesata a priori dal legislatore quanto alla efficacia del mezzo rispetto al risultato, ciascuna parte compie le sue valutazioni, sulla scelta quantitativa e qualitativa dei mezzi di prova, in correlazione con ciò che potrà verosimilmente fare, contemporaneamente in prova diretta o successivamente in prova contraria, l’avversario, tenendo sì conto anche di quello che a posteriori farà il giudice in punto di ammissibilità della prova, e però sulla base di norme predeterminate quanto al profilo della sua valutazione, norme che il giudice deve solo interpretare,  alquanto meccanicamente, ed applicare al caso concreto; invece in un sistema come il nostro attuale, ove vige come regola, e perciò per le prove libere e per le prove atipiche, il criterio indeterminato del prudente apprezzamento riguardo alla valutazione della efficacia probatoria del mezzo e questa valutazione ampiamente discrezionale è compiuta ovviamente al momento della decisione senza dunque che la parte possa aggiustare il tiro probatorio, la prognosi strategica è molto più difficile e complicata rispetto a ciò che penserà il giudice del prudente apprezzamento; detto in termini più icastici: so di avere un onere probatorio, posso stabilire a priori e secondo regole ragionevolmente decifrabili fin dove esso oggettivamente si estende, ma non posso stabilire, se non con larga approssimazione, cosa mi serve per assolverlo se non dopo che il giudice ha valutato secondo il suo prudente apprezzamento, e cioè con amplissima discrezionalità, la concludenza nonché la sufficiente o meno efficacia probatoria dei mezzi di prova che ho utilizzato, e ciò quando ormai almeno de facto  è tendenzialmente troppo tardi per rimediare.

(iv) Affine a quest’ultimo è poi il grande tema – troppo complesso per essere sceverato qui – dalla dinamica contrapposta fra graduazione per scelta strategica della parte e potere di assorbimento esercitato a posteriori dal giudice. Mi limito a rammentare il profilo più semplice: posso ordinare come voglio le mie domande come pure i miei argomenti difensivi e le mie eccezioni, ma mentre la graduazione delle prime è di regola vincolante per il giudice, la graduazione delle difese e delle eccezioni è esposta, oltre che ad una considerazione giudiziale ex post diversa del loro astratto ordine logico, soprattutto alla eventuale scelta giudiziale della questione più liquida.

6. Il profilo della prova e quello dell’ordine delle questioni ci avvicinano alla decisione di merito ed alla applicazione del diritto sostanziale nel processo.

Ed in proposito i margini di imponderabilità riguardo a ciò che farà o non farà il giudice:

– da un lato incidono direttamente sull’esito finale e cioè sulla vittoria e la sconfitta;

– d’altro lato sono ben maggiori che quanto alla applicazione della legge processuale, in primo luogo perché coinvolgono il giudizio su un fatto che non è processuale (ovvero extra processuale ma di relativamente facile apprensione: la localizzazione del convenuto ai fini della applicazione della regola sulla competenza territoriale), bensì è un fatto extra processuale e di solito anche storico o comunque di difficile ricostruzione; e in secondo luogo perché coinvolgono altresì la meno stabile, più mutevole ed aleatoria interpretazione astratta, e specialmente concreta, della legge sostanziale.

Da entrambi questi punti di vista l’arbitro sportivo che è più avvicinabile al giudice non è ovviamente quello del tennis o del calcio o del basket, cioè quello che si limita a garantire il rispetto delle regole del gioco, ma quello che decide e premia – con valutazione di merito largamente discrezionale pur se riconducibile anche essa a regole o criteri valutativi – chi ha giocato meglio; insomma parlo dell’arbitro o meglio della giuria dei tuffi o della ginnastica (in parte anche del pugilato quando la vittoria è assegnata “ai punti”). Per incidens: nello sport in questi casi – siccome non è mai dato assicurare la terzietà ed imparzialità della giuria al livello delle garanzie istituzionali, nonché preventive o successive che presiedono alla imparzialità del giudice – si fa alla buona e sul piano stocastico: si eliminano dal conteggio il voto più alto ed il voto più basso.

Ma quando c’è di mezzo il giudice che decide il merito della lite, la teoria dei giochi c’entra ben poco, anche ove ritenessimo di riguadagnarne le strutture logiche adeguandole alla presenza ed alle mosse non solo della controparte ma del terzo equidistante. E ciò perché evidentemente sulla mossa decisoria finale del terzo equidistante è possibile fare una prognosi, ma non determinare – se restiamo all’interno del grado di giudizio – quali potrebbero essere le eventuali contromosse (perché non ci sarà più spazio per esse), né dunque ha senso più di tanto calcolare costi e benefici delle scelte strategiche perché i margini della strategia si riducono o si limitano al rapporto fra me e il giudice.

Quel calcolo nel processo come sequenza di atti e fasi dovrebbe essere sempre proiettato – come ho lasciato intendere in apertura – ben oltre l’immediata convenienza della mossa rispetto alla immediatamente successiva contromossa ed invece nella tendenziale prospettiva della sequenza prolungata. Ma in vista della decisione di merito vi è, invece, la constatazione ovvia – in relazione alla quale non vi è bisogno di scomodare alcuna teoria dei giochi bensì soltanto la retorica e la logica argomentativa – secondo cui arrivati alla fine della gara, secondo il percorso che il concatenarsi delle opzioni processuali mie, del mio avversario e del giudice ha definito (percorso che può certo incidere anche sulla decisione di merito ma ormai quel che è fatto è fatto), ogni sforzo argomentativo idoneo alla decisione favorevole è un puro beneficio, ed ogni argomento inidoneo o controproducente un puro costo.

7.Ciò, ben inteso, se la prospettiva resta interna al grado.

Se invece ci si proietta già verso il grado successivo vi sono occasionali spazi di riflessione logica e razionale, sia pure rudimentale, che vanno al di là del semplice “citius, altius, fortius” e cioè del semplice sforzo finale per la vittoria ad ogni costo.

Sono appellante. Il mio primo motivo d’appello in ordine logico è fondatissimo: il Tribunale ha accolto la domanda principale del mio avversario, senza neppure esaminare la mia eccezione di simulazione, ritenendo, in base ad un ragionamento del tutto confuso e cervellotico, solo quest’ultima e non la domanda principale attratta alla competenza arbitrale in virtù di una clausola compromissoria contenuta in realtà in un contratto diverso da quello cui la simulazione si riferisce. Insomma una palese follia.

Sennonché, accolto questo motivo, la Corte d’appello dovrebbe entrare per la prima volta nel merito della mia eccezione di simulazione, ed allora sarebbero dolori perché la prova della simulazione con ogni probabilità non c’è.

La Corte d’Appello, superficiale e distratta, ha già respinto la mia istanza di inibitoria frettolosamente dicendo che tutti i motivi, compreso quel primo fondatissimo motivo, non sono manifestamente fondati ed escludendo altresì il periculum.

A questo punto, posto che contro il rigetto della inibitoria non ho praticamente nulla da fare e l’istanza di inibitoria non è riproponibile se non per circostanze sopravvenute (che non ho), e posto che è difficilissimo far cambiare idea ad un giudice specie se superficiale, mi si può prospettare il seguente scenario strategico: forse è meglio che la Corte d’appello decida altrettanto velocemente e frettolosamente nel merito, respingendo il primo motivo e confermando in toto la sentenza di primo grado senza perciò occuparsi della eccezione di simulazione. In questo caso vado subito in Cassazione con un motivo molto forte, tale da impensierire notevolmente il mio avversario, ed il cui accoglimento determinerà una cassazione con rinvio e perciò una prosecuzione per qualche anno del giudizio in appello. Altrimenti, se la Corte d’appello decidesse per la fondatezza del mio primo motivo dovrebbe, non brevemente, trattare ed istruire il merito della mia eccezione di simulazione ed in proposito mi darebbe verosimilmente torto in fatto, in modo da obbligarmi semmai ad un ricorso per cassazione assolutamente avventuroso che non impensierirebbe minimamente il mio avversario.

Insomma e paradossalmente: meglio aver torto subito in appello ed avere più chances successive in Cassazione, che aver torto comunque più in là ed in modo di per sé irrimediabile in Cassazione.

Questo tipo di approccio strategico sconta ovviamente una serie di considerazioni extra processuali, ed in primo luogo: mi conviene prolungare la lite a scopo transattivo? Posso gestire la esposizione alla esecuzione forzata della sentenza di primo grado in modo da non pregiudicare la eventuale transazione?

Se mi determino strategicamente e scelgo la strada che ho detto – se la Corte d’Appello deve darmi torto (come probabilmente sarà) è preferibile che lo faccia subito ed occupandosi solo del mio primo motivo con assorbimento di tutto il resto – altro discorso sarà poi come veicolare formalmente questo intendimento.

E qui subentra nuovamente la retorica processuale, posto che a questo punto, nel gioco del processo, il mio avversario diventa il giudice. Non posso dire o far capire schiettamente “Cara Corte d’appello dammi torto subito così ti aggiusto io in Cassazione e poi si vedrà, intanto impensierisco il mio avversario e lo induco ad una transazione”.

Quindi dirò o scriverò: “Sono convinto della piena fondatezza anzitutto del mio primo motivo, nonostante quello che avete scritto nella ordinanza interinale. Perciò siccome l’unico modo per eliminare il titolo esecutivo contro di me è una pronunzia rescindente, si rinvii subito per la discussione orale e si faccia una vostra sentenza non definitiva e si rimetta poi in istruttoria per il merito riguardo alla eccezione di simulazione”.

Delle due l’una: o, cosa molto improbabile, ci ripensano sul serio e seguono la via formalmente indicata e allora l’effetto deterrente in mio favore ai fini di una eventuale transazione sarà equivalente a quello che otterrei con un ricorso in cassazione contro la pedissequa conferma della sentenza di primo grado, e per di più immediato; oppure ritengono che in realtà sia del tutto agevole, dopo avermi dato torto sulla inibitoria, tornare a darmi torto velocemente e per la via più breve con la sentenza e che il modo più semplice sia respingere, all’esito di ravvicinata discussione orale, il mio primo motivo con assorbimento di tutto il resto, e così ho ottenuto non certo quello che formalmente chiedevo, ma almeno quello che speravo come più probabile male minore.

8.Nello spazio temporale e logico che corre tra la sentenza e la impugnazione della medesima il giudice scompare (non scompare ovviamente la giurisprudenza come fonte integrativa delle regole processuali concrete da applicare) e ci sono solo le parti. Le quali muovono le pedine – impugnazione sì o no, e se sì come e quando – nell’ambito comunque di regole del gioco segnate dal legislatore.

È qui dunque che la teoria dei giochi in senso classico riprende importanza. Riprende importanza cioè il calcolo razionale dei costi e benefici della mia mossa solo in relazione alla precedente mossa ed alla possibile futura mossa dell’avversario, senza per il momento l’incognita di ciò che farà il terzo decisore.

Esempio classico e assai banale, dove la logica del gioco si colora anche di prognosi per così dire psicologica, certamente non estranea alla teoria dei giochi sotto il profilo della informazione sulle preferenze dei giocatori.

Stravinco in primo grado. Notifico o non notifico la sentenza? La regola del gioco mi assegna un vantaggio se notifico: decorrono solo trenta giorni invece che sei mesi per l’impugnazione avversaria. Ma appunto perciò qualunque avvocato si chiederà se proprio la notifica non possa avere l’effetto di stimolare subito una impugnazione foss’anche pretestuosa, mentre nel decorso del termine lungo l’attenzione della controparte sulla controversia può diminuire, i rapporti fra la controparte ed il suo legale si possono slabbrare ecc…. ed insomma può darsi che le probabilità che la sentenza a me favorevole passi serenamente in giudicato siano perfino maggiori se non notifico.

9.Vorrei però ora affrontare un tema più complesso e più rilevante sul piano dei principî.

Questo il tema: il legislatore – specialmente quando le conseguenze delle mosse delle parti non sono moderabili o modulabili dal potere discrezionale del giudice – non dovrebbe abbandonare le parti alla teoria dei giochi o a qualcosa di simile. Dovrebbe cioè porre le regole del gioco in modo che l’esercizio razionale del calcolo costi-benefici delle mosse di parte non conduca a risultati iniqui o ingiusti, o comunque sconvenienti per la generale funzionalità della giurisdizione civile.

Questo tipo di ragionamento ci avvicina a contrario a quello pessimistico di Calamandrei nel celebre saggio, al rilievo cioè secondo cui il legislatore processuale è stato in realtà molto ingenuo (ed in taluni casi, ma solo in taluni casi, è davvero così) nel dettare le regole processuali immaginando che i destinatari, e cioè le parti ed all’occorrenza anche il giudice, siano molto migliori sul piano etico di quello che sono, nonché – aggiungo io – senza fare i conti con i profili umani e psicologici.

Tanto per capirci:

(i) le parti di un processo civile non sono Federer e Nadal separati da una rete, ed insomma, pur quando nei limiti del consentito, esse tendono a profittare di ogni possibilità per nuocere all’avversario. La regola sul deposito di conclusionale e replica non prevede che si abbia diritto alla seconda solo se si è depositata la prima, e per quanto ci si sforzi, eventualmente invocando il debolissimo art. 88 c.p.c., e si trovino occasionali pronunce di merito in senso diverso, non ha davvero alcun fondamento normativo affermare che la memoria di replica è inammissibile se non preceduta dalla conclusionale. Ecco un esempio di “ingenuità” legislativa: per quanto callido e riprovevole, l’escamotage alle volte utilizzato di riservarsi a sorpresa l’ultimissima parola, ben inteso solo argomentativa in fatto o in diritto, depositando unicamente la replica senza preannunciare nulla in conclusionale neppure depositandola o depositandone una solo “di stile”, dà luogo essenzialmente a sterili lamentele e ancor più sterili minacce di esposto al consiglio dell’ordine.

(ii) E quanto al giudice: egli dovrebbe arbitrare non solo imparzialmente ma anche ispirandosi al “vinca il migliore” non nel senso del più bravo o più abile, ma nel senso di chi lo merita di più secondo giustizia. Sennonché, nei limiti della decenza, la subliminale aspirazione, oltre che alla giustizia, al minimo sforzo decisorio è umana, se non del tutto commendevole, anche da parte del giudice. Ed insomma, per paradossale che possa sembrare, una eccezione di inammissibilità o improcedibilità della impugnazione risulta avvantaggiata in Corte d’appello perché il suo accoglimento risparmia al giudice lo sciropparsi svariati faldoni e complicatissime questioni ed indagini sul merito; ma quando si ricorre in Cassazione contro una siffatta declaratoria di inammissibilità dell’appello ecco che questa volta risulta avvantaggiato o per lo meno non svantaggiato il ricorso, e la Corte di Cassazione si ammanta di sano e moderno anti formalismo; tanto, che le costa ?! i faticosi faldoni se li sciropperà il giudice di rinvio. Il che dovrebbe indurre il legislatore (e dietro di lui la giurisprudenza di vertice), su fondamento psicologico ed in controtendenza rispetto a quanto è accaduto negli ultimi decenni, ad attenuare largamente piuttosto che inasprire la condizione di ammissibilità dell’appello e delle deduzioni in appello.

10.Ma torniamo ottimisticamente ai casi in cui il legislatore è stato invece avveduto.

Un esempio di regola processuale virtuosa nel senso cui sopra accennavo, in materia di impugnazioni e rivolta alle parti in un momento in cui il giudice non c’è, è l’art. 334 c.p.c., e cioè la regola che ammette l’impugnazione incidentale tardiva (solo condizionandone ex post la procedibilità alla ammissibilità e procedibilità della impugnazione e principale).

Cosa accadrebbe se questa regola non vi fosse e cioè se l’impugnazione incidentale potesse essere solo tempestiva e cioè formulata ammissibilmente con la risposta alla impugnazione principale ma solo se questa risposta è prodotta entro i termini generali di impugnazione?

In breve (e salvi i casi in cui il pressante stimolo alla impugnazione sia dato dalla necessità di richiedere l’inibitoria): in caso di soccombenza reciproca entrambe le parti sarebbero spinte dalla razionalità logica ad impugnare all’ultimo momento utile, o quasi, prima della scadenza del termine per non stimolare e consentire la impugnazione incidentale dell’altra parte, o comunque per lasciare a questa pochissimo spazio di manovra.

Perciò anche chi è soccombente “abbastanza” ma è nel dubbio se gli convenga impugnare e cioè sulla eventualità che in sede di gravame possa finirgli in pejus, o perfino chi è “molto” soccombente troverebbe conveniente impugnare al termine della scadenza. Ma – in un sistema che non conosce la “Beschwer” (e cioè la misura della soccombenza) come filtro astratto di ammissibilità del gravame – anche la parte “poco” soccombente troverebbe conveniente impugnare all’ultimo momento utile o comunque risolversi ad impugnare del tutto a prescindere dalla impugnazione altrui (non si sa mai…meglio non perdere la chance di un risultato economicamente ancor più favorevole all’esito del gravame o per lo meno la chance di una pressione strategica sulla controparte e sul giudice del grado successivo).

Sì avrà insomma qualcosa di molto simile all’equilibrio di Nash nel “dilemma del prigioniero”: i due prigionieri, gli unici presenti sul luogo dell’omicidio, sono in celle diverse e non comunicano fra loro; se entrambi tacciono saranno assolti per insufficienza di prove; se entrambi parlano saranno condannati entrambi; se uno parla e l’altro tace quest’ultimo sarà condannato ad una pena ancor più pesante e l’altro sarà assolto; ergo tenderanno a parlare entrambi.

E qui le parti del primo grado – se come i prigionieri non comunicano e cioè se non si mettono d’accordo, il che nella dinamica del processo civile vuol dire di regola non impugnare entrambe e transigere la lite – tenderebbero ad impugnare entrambe all’ultimo momento utile.

Il risultato – anche a prescindere da tatticismi e trabocchetti ad esito sconveniente – sarebbe in linea generale disfunzionale perché aumenterebbero statisticamente le impugnazioni contrapposte e perciò e comunque il numero delle impugnazioni; e soprattutto aumenterebbe il numero delle impugnazioni bagatellari o poco più che bagatellari o economicamente ed esistenzialmente poco significative per l’impugnante, non provocate dalla effettiva impugnazione altrui ma solo dal suo rischio.

E teniamo presente che, al di là della misura della “Beschwer”, la impugnazione incidentale, specialmente in caso di soccombenza reciproca su capi distinti, è un’arma strategica, aggiuntiva rispetto alla semplice difesa dalla impugnazione altrui, che il soccombente parziale merita per ragioni di equilibrio e per condizionare su di un piano paritetico lo stimolo alla transazione in corso di impugnazione. E perciò non sarebbe giusto mortificare quest’arma precludendola solo perché l’impugnante principale ha impugnato all’ultimo giorno, e neppure sarebbe giusto costringere chi vorrebbe utilizzarla semmai e solo in via incidentale a sparare invece alla cieca una impugnazione principale all’ultimo giorno nella incertezza riguardo al se l’altro abbia impugnato anche lui all’ultimo giorno.

In conclusione la regola dell’art. 334 è una regola razionale perché evita un eccesso disfunzionale di razionalità strategica delle parti.

E questa regola deve perciò espandersi secondo la volontà del legislatore che non pone altri limiti ad essa salvo quelli che espressamente pone. Giusto fu dunque tanti anni fa che le Sezioni Unite mutassero giurisprudenza riguardo agli irrazionali limiti oggettivi alla impugnazione incidentale tardiva. E vi è poi ancora da lavorare riguardo ai residui limiti soggettivi. Anzi la perdurante incertezza interpretativo-applicativa sulla eventuale inammissibilità della impugnazione incidentale tardiva in ragione di presunti limiti soggettivi spinge occasionalmente le parti a ricercare uno sconveniente equilibrio di Nash.

11.Il tutto ci riporta al punto di partenza.

L’equilibrio di Nash e moltissime altre anche meno celebri o più complicate epifanie della teoria dei giochi ed in particolare dei giochi antagonistici (l’”ottimo” di Pareto, gli sviluppi cd. bayesiani dei teoremi di Nash e così via) sono schematizzazioni strategico-razionali delle scelte più convenienti pensate essenzialmente ovvero opportunamente adattabili specialmente per il mondo dell’economia. Ed il mondo dell’economia, per quanto oggi sempre più regolato, resta un mondo in cui sulle regole prevale l’oggettività materiale o comunque i macro e micro eventi esterni e non determinabili, nonché le stesse condotte e scelte umane in quanto tali e non pre-regolate, e soprattutto i rapporti contingenti di forza fra i player: le condotte e le scelte dei player del mondo dell’economia determinano insomma i risultati economici molto più di quanto non li determinino le regole che dovrebbero orientare o condizionare quelle condotte.

Inoltre la situazione di partenza del gioco economico e cioè il campo da gioco e le sue regole rudimentali possono risultare sommamente ingiuste senza che il diritto possa farci nulla. Sicché l’esito del gioco dettato dalle condotte razionali dei partecipanti nella situazione data si porterà comunque dietro, oltre che un ingiusto margine di alea, anche l’ingiustizia brutale della situazione di partenza.

Facciamo un esempio.

Il campo di gioco è la ripartizione di 100. Le regole brutali sono solo due, entrambe sommamente ingiuste: propone la ripartizione Tizio con offerta minima 5, e Caio risponde; se Caio accetta l’offerta di Tizio, la somma viene conformemente ripartita, se Caio rifiuta restano all’asciutto entrambi. Fine dei giochi. È una situazione questa – non regolata a monte secondo diritto e giustizia anche perché condizionata da fattori oggettivi esterni non governabili che hanno imposto quella regola brutale – che si può verificare spesso nel mondo della economia o della politica.

Qual è razionalmente l’offerta più conveniente per Tizio? 5 oppure qualcosa in più, diciamo 30? Non è affatto detto, come pure si potrebbe pensare, che l’offerta razionalmente più conveniente sia 5.

È vero infatti che Caio potrebbe a sua volta razionalizzare la risposta nel seguente modo: se rifiuto non prendo niente, meglio 5 di niente. Ma non si può trascurare che se Caio rifiuta anche Tizio non prende niente, e che dunque Tizio non può correre il rischio statistico sulla “preferenza” di Caio, e che cioè Caio ragioni che 5 e 0 sono in fin dei conti molto simili e perciò rifiuti.

Dunque Tizio dovrebbe razionalmente offrire quel qualcosa in più – 30 appunto – che risulti per Caio ragionevolmente più significativo rispetto allo 0 in modo da indurlo con ragionevole certezza ad accettare.

Il risultato del gioco sarà comunque iniquo e contrario al suum cuique tribuere. Se Caio accetta Tizio avrà preso più del doppio di Caio sol perché solo a lui spettava la proposta. Se Caio rifiuta va del tutto sprecata una risorsa destinata ad entrambi.

Proviamo ora a sovrapporre il diritto. Un modo plausibile è di immaginare che vi sia una lite e che quel gioco brutale corrisponda solo alla organizzazione di una fase previa di media-conciliazione cui poi seguirà, se Caio rifiuta la proposta, un giudizio.

Allora sì le valutazioni razionali di Tizio dovranno tenere conto del rischio causa e cioè dell’esito possibile di un giudizio, nonché – quanto alle “preferenze” di Caio – della immaginabile percezione del rischio-causa anche da parte di Caio. Ed ecco che la proposta di Tizio, assai più prudente e favorevole all’avversario, se accettata da Caio, darà luogo ad un risultato transattivo molto più vicino a giustizia; e se non accettata il successivo risultato giudiziale sarà per definizione giusto.

Il diritto è fatto essenzialmente di regole e di regole per definizione “giuste”. Il gioco antagonistico del diritto e del processo è e deve essere un gioco iper-regolato proprio perché esso sia sottratto il più possibile a scelte, svolgimenti e risultati razionalizzabili e preconizzabili solo mediante elaborazioni matematiche di tipo economicistico quali sono tendenzialmente quelle delle teorie dei giochi. E le regole dovrebbero essere tali da arrecare a ciascuna parte vantaggi e svantaggi i quali risultino di per sé “giusti” e razionali, e non si producano cioè sol perché una parte non ha calcolato o non ha calcolato razionalmente la contromossa dell’avversario. Niente “roulette russa” insomma …. E non è un caso che la regola del giuramento decisorio – che, come dicevo, è ispirata alla medesima logica della “roulette russa” – ci sembra nel processo ormai primitiva ed inappropriata.

Altro discorso è poi che la “giustizia” dal singolo esito processuale sia giuridicamente predicabile solo in coincidenza col giudicato: né prima né dopo, e dunque tutt’altro che matematicamente prevedibile prima e non matematicamente discutibile dopo.

Il fatto dunque che vi sia al centro un giudice, e che la condotta del giudice sia sì essa pure regolata ma tutt’altro che decifrabile oggettivamente ex ante come è di solito una regola, avvicina ancor di più il processo al gioco sportivo con l’arbitro e sempre sommariamente governato dal principio giusto ed equidistante del vinca il migliore, allontanandolo invece dal gioco non sportivo e cioè dal gioco diretto, come la pura economia, da criteri prescindenti dalla giustizia o addirittura ingiusti (si pensi ai giochi di ruolo, ove uno o più concorrenti partono svantaggiati dal ruolo assegnato) e senza arbitro.

L’aspirazione alla giustizia, intrinseca al processo, paga dunque uno scotto necessitato quanto tollerabile. Il che non solo ci allontana vieppiù dalle teorie dei giochi, ma più seriamente dovrebbe allontanarci più che possibile dal miraggio di modelli matematici o pseudo-matematici di decisione delle liti. Nonostante vi siano di mezzo regole del gioco processuale, nonché ovviamente regole sostanziali che concernono la decisione finale e perciò l’esito del gioco tutte articolate, complicate, raffinate ed a vocazione esaustiva, il gioco del processo resta – per usare un’altra delle classiche categorizzazioni della teoria dei giochi – un gioco ad “informazione incompleta”. Perché nessuna vocazione esaustiva di quei complessi di regole, processuali e sostanziali, può eliminare un consistente margine di pura ed umanissima discrezionalità giudiziale e perché proprio la complicazione, raffinatezza ed articolazione di quei complessi di regole accresce il quoziente di loro incertezza interpretativo-applicativa da parte del giudice.

* E’ il testo della relazione tenuta al convegno “Teoria dei giochi e processo civile” (organizzato dalla Università di Messina l’11 aprile 2025), destinato alla pubblicazione nei relativi Atti.