“Foglietto” sulle applicazioni a distanza (art. 3, decreto-legge 8 agosto 2025, n. 117).

Di Bruno Capponi -

Il tentativo di raggiungere in extremis gli obiettivi del PNRR Giustizia ha indotto il Governo a varare il decreto-legge 117/2025, attualmente in fase di conversione, e tra le varie misure proposte si segnala quella dell’applicazione a distanza dei giudici civili. Il nuovo istituto non somiglia molto a quello che conosciamo, perché il magistrato applicato resta nell’organico del suo ufficio e in più si dichiara disposto a definire, a distanza, almeno 50 giudizi civili entro il 30 giugno 2026. Quei giudizi provengono dagli uffici che si segnalano per «la gravità dello scostamento rispetto al raggiungimento degli obiettivi», mentre il magistrato applicato deve provenire da altri uffici (più virtuosi) o dev’essere fuori del ruolo organico, purché non «in sedi situate al di fuori del territorio nazionale». I giudizi non vengono scelti a caso, perché «il capo dell’ufficio giudiziario destinatario della applicazione predispone un programma di definizione dei procedimenti civili maturi per la decisione, tra quelli delle macro-materie rilevanti ai fini del raggiungimento degli obiettivi».

Le parti del giudizio non vengono sentite; ma possono, indirettamente, opporsi all’applicazione a distanza chiedendo la fissazione di udienza in presenza; se l’applicato ritiene la richiesta “fondata”, «rimette la causa al capo dell’ufficio per la riassegnazione a un magistrato dell’ufficio». Nulla è previsto per il caso di connessione o riunione, ma tutto lascia pensare che anche in queste evenienze la causa debba tornare all’ufficio di provenienza.

Udienza sostituita da note scritte, trattazione da remoto, definizione da parte di un giudice “virtuale” appartenente ad altro ufficio giudiziario: le evoluzioni della giustizia senza volto si rincorrono disordinate, formando un quadro che sembra dominato dalla logica dell’efficienza ma che dev’essere applicato in un contesto che, da decenni, di efficienza non vuole proprio sentir parlare.

I magistrati applicati a distanza dovrebbero essere in numero di 500; ma sembra che, ad oggi, poco più di 200 abbiano manifestato la loro disponibilità. Molti pensano che gli incentivi economici e di carriera non siano stati previsti in misura sufficiente.

Personalmente, ritengo che la ragione non sia questa.

Al fondo, credo, c’è l’imbarazzo di condividere una logica che mira non al recupero dell’efficienza grazie a misure strutturali e stabili, bensì a truccare l’inefficienza in taluni settori soltanto (le macro-materie) appunto e unicamente perché servono per accedere ai finanziamenti. È una logica utilitaristica che nasconde qualcosa di perverso, e giacché il reclutamento avviene su base volontaria è ragionevole pensare che il magistrato finisca per compiere le sue valutazioni senza farsi troppo abbagliare dai modesti incentivi economici e di carriera: per accedere a un programma così bizzarro occorre condividerlo ideologicamente.

C’è poi l’imbarazzo di recepire una concezione del processo civile contrastante con gli insegnamenti appresi sin dall’università e con la pratica giudiziaria sinora seguita. Il giudizio non si identifica con la decisione, e decidere un processo istruito da altri è una delle cose meno gradite a un giudice che lavori in modo appassionato e serio.

Non sorprende, quindi, che la stragrande maggioranza dei giudici civili abbia disatteso la logica del decreto-legge; sarebbe anzi giunto il momento che i magistrati, spesso indicati non a ragione come i principali responsabili della crisi di efficienza e di durata del processo civile, facessero sentire forte la loro voce, in alternativa alle “ricette” ministeriali.