Finalmente la potestà cautelare agli arbitri: vecchie e nuove questioni, con una postilla sull’arbitrato irrituale*

Di Alessio Carosi -

        

Sommario: 1. Una premessa. – 2. Il precedente dogma preclusivo. Evoluzione. Le ragioni giustificative. Critica. Definitivo superamento. – 3. La potestà cautelare del giudice ordinario come regola generale e la potestà cautelare degli arbitri quale vincolata o condizionata alla volontà delle parti. – 4. Segue. Il problema dell’atto scritto anteriore all’instaurazione del giudizio arbitrale e l’ammissibilità, al ricorrere di alcune condizioni, dell’accordo posteriore. – 5. La concreta capacità degli arbitri ad operare come momento determinante del radicamento della potestà cautelare «esclusiva» degli arbitri (con una nota sull’arbitro d’urgenza). – 6. Segue. cenni sulla applicazione del principio della perpetuatio iurisdictionis come regola generale regolatrice delle sopravvenienze potenzialmente incidenti sulla competenza.  – 7. Il regime della exceptio compromissi «cautelare»: motivi della rilevabilità officiosa. – 8. Il procedimento cautelare arbitrale: il ruolo dell’art. 816 bis c.p.c. e la possibilità di concedere provvedimenti cautelari inaudita altera parte. – 9. Il ruolo delle norme sul procedimento cautelare uniforme: in particolare, revoca, modifica e inefficacia del provvedimento cautelare; riproponibilità della domanda cautelare. – 10. Il reclamo cautelare ai sensi del nuovo art. 818 bis c.p.c. e il significato del richiamo ai motivi di cui all’art. 829, comma primo, c.p.c. «in quanto compatibili. – 11. La fase di attuazione del provvedimento cautelare. – 12. Segue. Il particolare caso dell’attuazione dei provvedimenti cautelari arbitrali esteri. – 13. La sorte dell’arbitrato societario. – 14. La tutela cautelare e l’arbitrato irrituale.

1. Si è già detto e scritto molto a proposito della ennesima riforma del processo civile[1], delle ragioni che l’hanno determinata (sia di quelle affermate, ovvero l’efficientamento della giustizia civile e la riduzione dei suoi tempi, sia di quelle più prosaiche, ovvero l’accesso ai fondi europei del PNRR) e, soprattutto, delle preoccupazioni suscitate dalla veste che il legislatore ha acconciato per il nuovo rito ordinario di cognizione (strozzato da preclusioni sempre più pressanti, perché addirittura anticipate rispetto all’udienza di cui all’art. 183 c.p.c., e sempre più indirizzato verso la decisione «quale che sia»).

Il vero è che, tra le molte novità introdotte dalla recente riforma della giustizia civile, due sembrano realmente meritevoli di attenzione teorica per la loro (quantomeno potenziale) portata innovativa: il rinvio pregiudiziale degli atti alla Corte di cassazione, regolato dal nuovo art. 363 bis c.p.c., e l’abbattimento dell’antico dogma, posto dal vecchio art. 818 c.p.c., del divieto della potestas cautelare in capo agli arbitri[2].

È di questa seconda novità che questo contributo si occupa.

Va detto, per onestà intellettuale, che l’arbitrato è proprio una di quelle materie per le quali la necessità di un intervento di riforma non si avvertiva granché, anzi[3]. Infatti, l’istituto era stato già interessato, nel corso degli ultimi quarant’anni, da tre novelle, quella del 1983, quella del 1994 e, per finire, quella del 2006, che avevano permesso di conseguire un assetto normativo tutto sommato efficiente. La quale disciplina mostrava, però, una grave e non più giustificabile lacuna, inconfutabilmente rappresentata dal dogma preclusivo posto dal vecchio art. 818 c.p.c., che negava agli arbitri il potere di concedere sequestri e altri provvedimenti cautelari. L’ultima riforma, almeno sotto questo aspetto, può quindi essere accolta con giustificato favore. Fin qui tutto bello, ma le buone notizie si fermano qui, ossia alla pura e semplice constatazione che oggi gli arbitri, al ricorrere di determinate condizioni[4], possono esercitare la potestas cautelare. Tuttavia, i nuovi artt. 818, 818 bis e 818 ter c.p.c. lasciano aperti molti interrogativi. Ed è con questi nodi che occorre immancabilmente confrontarsi perché, una volta liberata la via al cautelare arbitrale, si tratta di fronteggiare le asperità che quella via pone, come – solo per fare alcuni esempi – le insidie nascoste nel rapporto di concorrenza (non sincronica, ma solo) diacronica tra potestà cautelare del giudice ordinario e potestà cautelare degli arbitri[5] o come il ruolo da ritagliare per la disciplina del processo cautelare uniforme di cui agli artt. 669 bis ss. c.p.c. Questa disciplina, infatti, un qualche ruolo deve giocoforza averlo, vista la laconicità dei cennati artt. 818 ss. c.p.c., che nulla dicono su temi assolutamente centrali, come, ad esempio, la revoca, la modifica e l’inefficacia dei provvedimenti cautelari o la riproposizione della domanda cautelare, argomenti rispetto ai quali riterrei estraneo il pur sempre rilevante art. 816 bis c.p.c.[6] Eppure, nel recente passato, quando il dibattito dottrinale sul dogma preclusivo di cui al precedente art. 818 c.p.c. imperversava tra i teorici, la dottrina più attenta aveva messo in guardia dalla tentazione di abbandonarsi a logiche semplicistiche ed aveva avvertito, sulla scorta di un parallelismo con la complessiva architettura del processo cautelare uniforme, che un’ipotetica modifica del sistema avrebbe dovuto prevedere anche la disciplina della modifica, revoca e dichiarazione di inefficacia del provvedimento cautelare emanato dagli arbitri, così assicurando al potere cautelare arbitrale le stesse garanzie approntate per il potere cautelare esercitato dai giudici dello Stato[7]. Il legislatore della riforma, invece, ha ignorato questo avvertimento, lasciando all’interprete il difficile compito di colmare le molte lacune.

Occorre comunque partire dalla legge delega. L’art. 1, comma 15, lett. c), della legge 21 novembre 2021, n. 206, recante «Delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata», aveva fissato all’Esecutivo, tra gli altri, i seguenti principi e criteri direttivi ai fini della emanazione dei correlati decreti attuativi «c) prevedere l’attribuzione agli arbitri rituali del potere di emanare misure cautelari nell’ipotesi di espressa volontà delle parti in tal senso, manifestata nella convenzione di arbitrato o in atto scritto successivo, salva diversa disposizione di legge; mantenere per tali ipotesi in capo al giudice ordinario il potere cautelare nei soli casi di domanda anteriore all’accettazione degli arbitri; disciplinare il reclamo cautelare davanti al giudice ordinario per i motivi di cui all’art. 829, primo comma, del codice di procedura civile e per contrarietà all’ordine pubblico; disciplinare le modalità di attuazione della misura cautelare sempre sotto il controllo del giudice».

Le Note illustrative della Commissione per l’elaborazione di proposte di interventi in materia di processo civile e di strumenti alternativi, presieduta dal Prof. Francesco Paolo Luiso, i cui lavori avrebbero dovuto ispirare la riforma[8], avevano così spiegato le ragioni della proposta d’intervento che contemplava l’attribuzione agli arbitri del potere di emanare provvedimenti cautelari: «Una seconda proposta di intervento è quella di riconoscere agli arbitri rituali, in presenza di specifiche condizioni, il potere di emanare provvedimenti cautelari, così attribuendo il dovuto rilievo alla linea di apertura che già era stata impressa con l’ultima riforma dell’arbitrato e la correlata modifica dell’articolo 818 c.p.c., ma che sino ad oggi era nell’ordinamento di fatto limitata al solo arbitrato societario e al potere per gli arbitri, in tale sede previsto, di disporre la sospensione delle delibere assembleari. La proposta tiene conto dei rilievi critici che dal punto di vista dogmatico sono stati mossi al generale divieto per gli arbitri di emanare provvedimenti cautelari, risponde alla ormai pacificamente riconosciuta funzione di indispensabile complemento e completamento della tutela cautelare nell’ambito della tutela giurisdizionale e per realizzare il principio di effettività di quest’ultima (cfr. ad esempio in ambito eurounitario la sentenza della Corte di Giustizia 19 giugno 1990, C-213/89, Factortame Ltd.), e da ultimo intende allineare la disciplina italiana dell’arbitrato a quanto previsto negli ordinamenti europei, che da tempo riconoscono in capo agli arbitri il potere di emanare provvedimenti cautelari. Sotto questo profilo, dunque, la proposta rende maggiormente attrattivo lo strumento arbitrale anche per soggetti e investitori stranieri. In concreto il riconoscimento dei poteri cautelari al giudice privato viene delimitato alle sole ipotesi di previa espressa volontà delle parti, manifestata nella convenzione di arbitrato o in atto scritto successivo, così rimettendo tale prerogativa alla libera e consapevole scelta dei compromittenti. A ulteriore completamento e garanzia della disciplina si prevede, in primo luogo, che resta fermo il potere cautelare del giudice ordinario anteriormente all’accettazione della nomina da parte degli arbitri e, in secondo luogo, che il controllo sull’esercizio del potere cautelare da parte degli arbitri, sub specie dell’istituto del reclamo, resta attribuito al giudice ordinario (per le ipotesi di vizi di cui all’art. 829, comma 1, c.p.c., oltre che per contrarietà all’ordine pubblico). Il giudice ordinario mantiene altresì la competenza per l’eventuale fase di attuazione della misura».

Il legislatore delegato, con l’art. 3, comma cinquantadue, lett. b) e c), del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149, ha attuato in modo pressoché pedissequo i criteri e i principi direttivi posti dalla legge delega, con un particolare per nulla irrilevante, che è quello di non aver accolto – almeno non espressamente – l’indicazione che prescriveva di attribuire la potestas cautelare ai soli arbitri rituali[9].

2.Il vecchio art. 818 c.p.c. stabiliva che «Gli arbitri non possono concedere sequestri, né altri provvedimenti cautelari, salva diversa disposizione di legge». L’ovvia conseguenza del divieto era che, in presenza di controversia devoluta agli arbitri in forza di compromesso o di clausola compromissoria, la parte, che intendesse avanzare un’istanza di cautela – conservativa, anticipatoria o volta alla preventiva formazione della prova (dunque, audizione dei testimoni a futura memoria e accertamento tecnico preventivo) – a protezione del diritto sostanziale fatto valere (o da far valere) nel processo arbitrale, doveva farne domanda al giudice ordinario competente, come individuato innanzitutto in forza dell’art. 669 quinquies c.p.c. e poi, ma solo in caso di arbitrato estero ed in via meramente suppletiva, ai sensi dell’art. 669 ter, comma terzo, c.p.c. (e cioè qualora la potesas iudicandi di merito del giudice italiano non sarebbe, neanche virtualmente, configurabile)[10].

La dottrina nel complesso – anche quella che censurava, criticandolo, il fondamento dogmatico e sistematico dell’assioma preclusivo – considerava il divieto posto dall’art. 818 c.p.c. alla stregua di un vero dogma, secondo alcuni universale ed assoluto[11], secondo altri no[12]. Tuttavia, quel che appare certo è che quell’assioma era assai radicato fra gli studiosi del passato, i quali avevano la tendenza a relegare l’arbitrato nel campo dell’autonomia privata[13]; mentre la necessità di una sua erosione è stata via via caldeggiata dagli studiosi di epoca più recente, che hanno visto l’arbitrato affermarsi quale autentica giurisdizione, davvero alternativa e pienamente sostitutiva di quella esercitata dai giudici statuali[14].

Una prima crepa nel monolitico dogma si aprì per l’effetto di alcune novità legislative a cavallo tra il 2003 e il 2006: prima, nell’arbitrato societario, in ragione dell’art. 35, comma 5, del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, che aveva esplicitamente investito gli arbitri, anche non rituali, del potere di sospendere con ordinanza non reclamabile l’efficacia della delibera assembleare oggetto di impugnativa dinanzi ad essi; e poi, con il decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40, che aveva aggiunto, a chiusura dell’art. 818 c.p.c., l’inciso facente riferimento alla «salva diversa disposizione di legge»[15]. Tuttavia, la dottrina aveva in qualche misura ridimensionato la portata di quelle novità ed interpretato l’inserimento dell’inciso a chiusura dell’art. 818 c.p.c., più che come reale apertura legislativa all’accantonamento del divieto, quale scelta imposta dall’esigenza di coordinare la disposizione generale dell’art. 818 c.p.c. con quella settoriale che era stata inserita pochi anni prima per l’arbitrato societario dall’art. 35, comma cinque, del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5[16]. Scendendo più nel dettaglio, non pochi studiosi ritenevano che la clausola posta a chiusura dell’art. 818 c.p.c. costituisse una deroga solo apparente al divieto proclamato dalla prima parte della norma, che ne riemergeva in realtà confermato[17]; altri studiosi affermavano, invece, che un significato di eccezione alla regola generale – per quanto timida ed appena settoriale – andasse assegnato a quelle novità legislative[18]. A prescindere dalla tesi sposata, più o meno tutti convergevano sulla constatazione che la disciplina speciale dell’art. 35, comma cinque, del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, trovasse la propria ratio nella peculiarità del provvedimento cautelare ivi regolato, ossia nella sua tendenziale natura self-executing, perché non richiedente alcuna attività di adeguamento coattivo della realtà materiale al comando impartito[19]: pur non essendo tale ultima affermazione vera in assoluto perché non è a priori escludibile che la delibera, impugnata e inibita in via cautelare, abbia nel frattempo generato un qualche effetto che la sospensiva è in grado di sterilizzare solo in astratto e che l’organo gestorio è chiamato rimuovere in concreto (v. l’art. 2377, comma sette, c.c.), onde una qualche coercizione potrebbe occorrere pure in tal caso[20].

Torniamo al dogma preclusivo ed al suo fondamento.

Siamo stati abituati a leggere che la giustificazione del divieto di cui al vecchio art. 818 c.p.c. andasse ricercata nella carenza di poteri coercitivi in capo agli arbitri[21] e abbiamo trovato questa affermazione ribadita, pressoché tralatiziamente, con una costanza tale da ingenerare il convincimento che la carenza di imperium fosse la sola spiegazione della preclusione.

Ciò è vero solo in parte. Ossia, è innegabile che l’antico dogma sia stato tradizionalmente motivato con il regime del monopolio della forza in capo allo Stato, e cioè con il diritto esclusivo di quest’ultimo di dare tutela coattiva ai diritti soggettivi dei privati[22].

Tuttavia, un’analisi più approfondita delle diverse tesi restituisce un quadro assai più articolato. Così, secondo alcuni, la circostanza che solo i lodi arbitrali potessero acquisire l’efficacia di sentenza (all’epoca ciò accadeva per effetto del decreto pretorile ex art. 825 c.p.c. a seguito della presentazione, da parte degli arbitri, del lodo nel termine perentorio di cinque giorni dalla sua sottoscrizione) doveva indurre a ritenere non compromettibili quelle materie la cui tutela fosse affidata a riti (connotati da un incremento dei poteri officiosi del giudice) che, se introdotti dinanzi al giudice statuale, si sarebbero chiusi con provvedimenti aventi la forma dell’ordinanza o del decreto, come, per l’appunto, i provvedimenti cautelari[23]: quei riti, insomma, sarebbero stati modellati in funzione della natura pubblicistica delle situazioni sostanziali protette, quindi non compromettibili. Altri, invece, sosteneva che il fondamento del divieto sancito dal vecchio art. 818 c.p.c. andasse ricercato nella gravità degli effetti scaturenti dai provvedimenti cautelari, poiché immediatamente indicenti sul diritto sostanziale, e nella incapacità degli arbitri a creare titoli esecutivi[24]. Altri ancora, poi, affermava l’assenza negli arbitri dei poteri che sono tipici della giurisdizione statuale, che comprenderebbero non solo la cognizione (di accertamento, costitutiva o di condanna), ma pure la coercizione per l’adeguamento forzoso della realtà materiale al precetto impartito, di modo che ai giudici privati sarebbe stata impedita la sfera della tutela coattiva dei diritti soggettivi sia di tipo strumentale (i.e. cautelare) sia di tipo finale (i.e. esecutiva)[25]. Altri, infine, affermava che la ragione della negazione agli arbitri della possibilità di esercizio della potestas cautelare andasse ravvisata nella carenza delle garanzie di indipendenza e di imparzialità considerate indispensabili per la emanazione di provvedimenti idonei ad incidere direttamente sulla realtà sostanziale e nel carattere più marcatamente pubblicistico delle norme sulla tutela cautelare[26].

Il panorama di idee, come visto, era molto variopinto. Un’idea di fondo, però, campeggiava su tutto, ossia quella della esistenza di diversi livelli di auctoritas, per cui, sebbene il giudicare sia espressione di un primo e più superficiale livello auctoritas, il potere di far eseguire il comando, dettato anche solo in via di provvisoria cautela e non ancora eseguito, sarebbe manifestazione di una auctoritas ancor più incisiva e penetrante, perché implicante la capacità di piegare la realtà materiale (il che potrebbe sembrare tanto più vero in quei casi in cui le modalità di attuazione del provvedimento cautelare siano plasmate su quelle proprie della tutela esecutiva, ad esempio come avviene ex art. 669 duodecies c.p.c. per l’attuazione dei provvedimenti cautelari aventi ad oggetto il pagamento di somme di denaro con il rinvio agli artt. 491 ss. c.p.c. o per l’esecuzione dei sequestri ex artt. 677 (esecuzione per consegna o rilascio ex artt. 605 ss. c.p.c.) e 678 c.p.c. (pignoramento presso il debitore o presso terzi)[27]. Insomma, si pensava che, nella tutela cautelare, i due aspetti della cognizione e della attuazione non potevano che darsi e negarsi insieme per cui i giudici privati, essendo sprovvisti del potere di coercizione, non potevano nemmeno conoscere l’istanza di cautela.

Le principali critiche verso la concezione che vedeva nel divieto del cautelare arbitrale la giusta e ovvia conseguenza della mancanza di imperium erano due.

Il primo argomento di critica era di tipo sistematico e faceva leva sulla constatazione che il potere di emanare provvedimenti cautelari non ha alcuna diretta e necessaria implicazione di tipo coercitivo, la quale si manifesta solo nella fase di attuazione del provvedimento, che è soltanto eventuale[28]: si osservava, in altri termini, che altro è l’accoglimento della domanda cautelare ex art. 669 octies c.p.c., altro è l’attuazione della cautela ex art. 669 duodecies c.p.c. perché nulla induce ad escludere o che la cautela impartita sia self-executing[29] o che il destinatario dell’ordine vi si adegui spontaneamente[30].

La seconda ragione di censura rimarcava la contraddizione insita nel dogma preclusivo: da un verso, si consentiva agli arbitri di statuire definitivamente sul rapporto sostanziale controverso in forza di un lodo suscettibile non solo di acquisire l’efficacia vincolante giudicato, ma anche, se con contenuto condannatorio, la particolare efficacia esecutiva; dall’altro verso, si negava loro il potere di adottare provvedimenti a cautela di quello stesso diritto, tra l’altro interinali ed instabili per definizione perché suscettibili di perdere efficacia ex art. 669 novies c.p.c. o di essere revocati e modificati ex art. 669 decies c.p.c. Il che palesava l’evidente incongruenza che il più (ossia, la definitiva tutela nel merito, destinata, nel caso di condanna, a sfociare nella esecuzione forzata) non comprendesse pure il meno (ossia, la interinale tutela cautelare)[31]. Si osservava, infine, che l’impostazione alla base del divieto ex art. 818 c.p.c., che di fatto sottraeva la potestà cautelare al giudice (privato) realmente competente per il merito[32], evidenziava l’ulteriore difetto di contravvenire al fondamentale postulato per cui non possa esservi una piena ed effettiva tutela giurisdizionale di merito senza il necessario complemento della tutela cautelare, delocalizzata sul giudice statuale virtualmente competente per il merito[33].

Si proponeva, quindi, di abolire il divieto del potere cautelare degli arbitri, però lasciando al giudice togato sia il vaglio omologatorio per mezzo dell’exequatur del provvedimento cautelare reso dagli arbitri[34] sia il controllo sulla attuazione della cautela impartita[35]. La potestas cautelare, inoltre, sarebbe dovuta necessariamente rimanere radicata in capo al giudice statuale competente ex art. 669 quinquies c.p.c. per la domanda di protezione interinale avanzata ante causam, cioè prima dell’accettazione degli arbitri, onde prevenire intollerabili vuoti di tutela interinale.

Ho già detto che, sotto la vigenza del vecchio art. 818 c.p.c., si discuteva anche se quella norma fosse inderogabile ovvero se le parti avessero la facoltà di accordare agli arbitri un qualche potere di concedere provvedimenti cautelari[36]. La questione poteva apparire di pura accademia, ma aveva in realtà una un suo forte risvolto pratico, soprattutto nella prospettiva dell’arbitrato amministrato da istituzioni, i cui regolamenti di procedura prevedono già da tempo – ed in linea con buona parte degli ordinamenti giuridici stranieri[37] – l’attribuzione agli arbitri del potere di emettere provvedimenti interinali. Poiché è noto che il patto per arbitrato amministrato ex art. 832 c.p.c. recepisce per relationem il regolamento di procedura[38], che così va a completare e ad integrare la convenzione arbitrale, la scelta fatta dalle parti comporterebbe l’attribuzione agli arbitri dei poteri cautelari previsti dal regolamento di arbitrato, se non espressamente esclusi dagli stessi compromittenti[39].

Si fronteggiavano due posizioni.

Un primo orientamento considerava l’art. 818 c.p.c. norma inderogabile di modo che, se le parti avessero espresso la volontà di assegnare agli arbitri il potere di emanare provvedimenti cautelari, direttamente o indirettamente per effetto del rinvio ad un regolamento di arbitrato, quella manifestazione volitiva avrebbe addirittura cagionato la nullità del patto di arbitrato o nella sua interezza o in parte qua[40].

Un diverso orientamento, invece, esprimeva un atteggiamento più flessibile, che consisteva nel ritenere l’art. 818 c.p.c. impeditivo solo del potere degli arbitri di somministrare cautele in tutto e per tutto equiparabili, quanto agli effetti, a quelle concedibili dal giudice dello Stato[41]. Secondo questi Autori, però, l’art. 818 c.p.c. non precludeva anche che gli arbitri, a ciò facoltizzati espressamente dalle parti o dal regolamento di arbitrato richiamato dal patto di arbitrato, potessero emettere provvedimenti interinali con efficacia «persuasiva» perché solo privatistica: in altri termini, l’obbligo della parte destinataria di conformarsi al provvedimento interinale veniva individuato nel dovere generale di cooperare per la realizzazione dello scopo del patto di arbitrato, di modo che la mancata spontanea attuazione del provvedimento emanato sarebbe potuta valere ora come contegno processuale valutabile dagli arbitri ex art. 116, comma secondo, c.p.c., ora come rilevante ai fini della statuizione sulle spese di lite, ora come fonte di obbligazione risarcitoria[42]. Ciò che l’art. 818 c.p.c. escludeva senz’altro era che il provvedimento cautelare arbitrale potesse ricevere un’attuazione forzata con l’assistenza dell’autorità giudiziaria ex art. 669 duodecies c.p.c. Inoltre, l’attribuzione agli arbitri di una simile (limitata) potestas cautelare non avrebbe eradicato la competenza esclusiva del giudice dello Stato per l’emanazione delle cautele, previste dal codice di procedura civile o da altre disposizioni di legge, suscettibili di attuazione coercitiva[43].

Anche io, vigente la vecchia disciplina, avevo posto in dubbio l’assolutezza del dogma preclusivo imposto dal vecchio art. 818 c.p.c., pur con tutti i limiti e con tutte le precisazioni di cui si è detto[44], sulla base della convinzione che altro fosse sostenere l’inderogabilità dell’art. 818 c.p.c., altro fosse la constatazione della scarsa utilità pratica del provvedimento interinale emanato dagli arbitri per la sua insuperabile incoercibilità: la seconda constatazione, di natura eminentemente metagiuridica, non era idonea a dare fondamento giuridico alla prima.

Insomma, il divieto ex art. 818 c.p.c. vecchio testo era il prodotto di una scelta di politica legislativa, determinata dalla radicata diffidenza del potere statuale verso la giurisdizione esercitata dai privati e non votata ad un qualche principio di ordine universale[45]. Ogni scelta di politica legislativa è, proprio in quanto tale, ispirata da valutazioni di opportunità che sono, a loro volta, condizionate dal contesto storico, sociale e culturale in cui la singola decisione è presa. La scelta di politica legislativa è, per questo peculiare connotato, tendenzialmente reversibile. In altri termini, il vecchio art. 818 c.p.c. si era tradotto in un dogma quasi insuperabile per la costante ritrosia dello Stato a cedere porzioni di potere e non per la sua reale rispondenza a valori irrinunciabili che lo rendessero immutabile.

La novella dell’art. 818 c.p.c. mi sembra stia oggi qui anche a confermare la correttezza di quegli assunti.

3. Il nuovo art. 818, comma primo, c.p.c. dispone che «Le parti, anche mediante rinvio a regolamenti arbitrali, possono attribuire agli arbitri il potere di concedere misure cautelari con la convenzione di arbitrato o con atto scritto anteriore all’instaurazione del giudizio arbitrale. La competenza cautelare attribuita agli arbitri è esclusiva».

La novella apparentemente ribalta il dogma preclusivo che si era consolidato sotto la vigenza del vecchio art. 818 c.p.c. In verità, il capovolgimento c’è, ma esso è meno radicale di quanto sembri.

L’incipit del novellato art. 818, comma primo, c.p.c. non recita «Gli arbitri possono concedere (…)», come pure sarebbe stato possibile se la volontà del legislatore fosse stata, puramente e semplicemente, quella di travolgere il dogma preclusivo; bensì, assai significativamente, la norma statuisce che «Le parti (…) possono attribuire (…)».

Il primo dato, dunque, è che i destinatari del precetto legislativo non sono gli arbitri, bensì le parti: è a queste ultime che è rivolto il permesso che il nuovo sistema elargisce[46].

Il profilo non è di poco conto perché da esso mi pare che si desuma che la potestas cautelare degli arbitri è innanzitutto vincolata o condizionata e poi (ma, solo ove la condizione si sia verificata) come esclusiva. La conseguenza di questa costruzione è che il potere interinale dei giudici privati non è la regola generale, la quale rimane quella della competenza cautelare del giudice ordinario[47], salva diversa volontà delle parti. Così, sotto questo specifico profilo, non è che, in mancanza della volontà delle parti, la competenza cautelare del giudice ordinario riacquista vigore[48], bensì è che la potestà cautelare del giudice statuale, in caso di patto arbitrale, è già lì, ad assicurare che non vi siano vuoti di tutela, e che essa non abbia necessità di riacquistare forza. È la potestà cautelare degli arbitri che prenderà semmai vigore, se così le parti avranno voluto in conformità dell’art. 818 c.p.c. Fa eccezione all’architettura del nuovo art. 818 c.p.c. il potere di sospensiva delle delibere assembleari impugnate dinanzi agli arbitri, il quale è, invece, radicato ex lege ed inderogabilmente nei giudici privarti ai sensi del nuovo art. 838 ter, comma quarto, c.p.c.[49]

Ma, questa potestas cautelare arbitrale è vincolata a, o condizionata da, cosa?

Il novellato art. 818, comma primo, prima parte, c.p.c. è esaustivo sul punto perché esso dispone proprio che «Le parti, anche mediante rinvio a regolamenti arbitrali, possono attribuire agli arbitri il potere di concedere misure cautelari con la convenzione di arbitrato o con atto scritto anteriore all’instaurazione del giudizio arbitrale (…)».

L’ipotesi più semplice è quella in cui le parti, già con il patto di arbitrato – sia esso compromesso ex art. 807 c.p.c, clausola compromissoria ex art. 808 c.p.c. o convenzione arbitrale in materia non contrattuale ex art. 808 bis c.p.c.[50] –, direttamente o indirettamente, mediante la relatio ad un regolamento di arbitrato, abbiano conferito agli arbitri il potere di concedere provvedimenti cautelari. Non mi pare che, in questo caso, si diano problemi particolari.

4.L’ipotesi in cui le parti affidino la potestas cautelare agli arbitri con un atto scritto separato dalla convenzione arbitrale, ma comunque anteriore all’instaurazione del giudizio arbitrale, sollecita qualche riflessione in più.

Il primo e più delicato problema è quello relativo alla corretta individuazione del momento entro cui tale scelta deve intervenire[51].

L’immediato referente è giocoforza l’art. 816 bis, comma primo, c.p.c., ai sensi del quale «Le parti possono stabilire nella convenzione di arbitrato, o con atto scritto separato, purché anteriore all’inizio del giudizio arbitrale, le norme che gli arbitri devono osservare (…)».

Il parallelo esame[52] del nuovo art. 818, comma primo, c.p.c., da un lato, e dell’art. 816 bis, comma primo, c.p.c., dall’altro, fa risaltare una lieve differenza terminologica, a cui si accompagna un rilevante, almeno a mio avviso, punto in comune. La lieve differenza sta nell’uso del sostantivo «instaurazione» nell’art. 818 c.p.c. e di quello «inizio» nell’art. 816 bis c.p.c. Ciò che, invece, accomuna le due disposizioni è il ricorso al sostantivo «giudizio», seguito dall’aggettivo «arbitrale».

Viene così in gioco la nozione di litispendenza arbitrale in senso ampio[53], intesa cioè come il momento in cui il rapporto processuale viene giuridicamente ad esistere dinanzi ai giudici privati[54]. Ossia, se è possibile affermare che, a mente del nuovo art. 818 c.p.c., l’assegnazione della potestas cautelare agli arbitri deve precedere il momento in cui sorge la litispendenza arbitrale in senso ampio, non ritengo che questo momento coincida con quello in cui è stata proposta la domanda di arbitrato[55]. Esula da questa trattazione l’esame di quello che è ritenuto l’aspetto più complesso dell’intera disciplina dell’arbitrato[56], e cioè lo studio della sua fase introduttiva. Basti qui segnalare che il problema della litispendenza in senso ampio non può essere impostato per l’arbitrato come per il giudizio dinanzi al giudice statuale. Se, infatti, rispetto a quest’ultimo, è stato possibile concludere che per la pendenza della lite, vista come il momento in cui il rapporto processuale acquista esistenza giuridica[57], è sufficiente la proposizione della domanda giudiziale, quale atto indirizzato, oltre che alla controparte, ad un giudice che già esiste, per cui, preesistendo il giudice, un giudizio è possibile già nel momento in cui la domanda di tutela è avanzata[58]; altrettanto non potrebbe dirsi per il giudice privato, il quale non (pre)esiste per il solo fatto della stipulazione del patto compromissorio, essendo necessaria la sua accettazione ex art. 813 c.p.c.[59]: si può anche dire che «non può esservi giudizio là ove manca il giudice»[60]. È solo con l’accettazione degli arbitri che il duplice rapporto tra le parti compromittenti e poi tra queste e gli arbitri si perfeziona[61] ed è solo da quel momento – che nell’arbitrato ad hoc normalmente coincide con la costituzione del tribunale arbitrale[62], mentre la questione è un po’ più complessa per quello amministrato – che il giudizio arbitrale può dirsi effettivamente iniziato[63]. Si è osservato che tale impostazione troverebbe conferma in due dati, uno di diritto positivo, l’altro di natura più schiettamente interpretativa[64]. Il dato di diritto positivo è nell’art. 820, comma secondo, c.p.c., ai sensi del quale il termine per la pronuncia del lodo decorre dall’accettazione degli arbitri[65]. Il dato di natura interpretativa sta, invece, nella tradizionale, per quanto non monolitica, lettura del già citato art. 816 bis, comma primo, c.p.c., secondo la quale il termine entro cui le parti possono esercitare la facoltà di dettare le norme del procedimento è quello dell’accettazione degli arbitri[66].

Non sembra poter smentire tale ricostruzione nemmeno la peculiare natura «qualificata» che la domanda di arbitrato ha assunto a seguito della riforma che fu effetto della legge 5 gennaio 1994, n. 25[67]. È noto che una parte della dottrina, a seguito di quella riforma, ha ritenuto di individuare nella proposizione della domanda arbitrale, avente determinati requisiti di contenuto-forma[68], il momento determinativo della litispendenza arbitrale in senso ampio[69]. D’altronde, non può negarsi che si deve a quella legge la disciplina positiva degli effetti sostanziali e processuali della domanda di arbitrato, quale atto equiparato, a quegli scopi, alla domanda giudiziale. Il riferimento chiaro è, quanto agli effetti sostanziali, agli artt. 2652, 2653, 2690, 2691 (in materia di trascrizione delle domande giudiziali) e all’l’art. 2943 c.c. (per l’interruzione della prescrizione), e, quanto agli effetti processuali, all’art. 669 octies, comma quinto, c.p.c. (per l’introduzione del giudizio di merito ai fini della conservazione dell’efficacia del provvedimento cautelare non anticipatorio reso ante causam). Tali norme fanno tutte, indistintamente, riferimento all’atto con cui la parte dichiara «la propria intenzione di promuovere il procedimento arbitrale, propone la domanda e procede, per quanto le spetta, alla nomina degli arbitri», e cioè alla domanda di arbitrato, equiparata a tutti quegli scopi, alla domanda giudiziale.

Eppure, questi argomenti non risultano davvero decisivi a superare le obiezioni sopra fatte circa la impossibilità di ipotizzare un rapporto processuale perfetto, e dunque un giudizio pendente, quando un giudice ancora non c’è (come normalmente accade al momento della proposizione della domanda arbitrale, seppure «qualificata»). Se quel giudice ancora non c’è, egli deve essere prima individuato dalle parti e, una volta individuato, egli deve accettare[70]. Ecco, quindi, la necessità, precipuamente individuata in dottrina[71], di operare una distinzione tra l’inizio del procedimento arbitrale, che avviene per effetto della domanda di arbitrato e a cui si ricollegano i sopraricordati effetti sostanziali e processuali, e l’inizio del giudizio arbitrale vero e proprio, che segue solo all’accettazione degli arbitri ex art. 813 c.p.c. Siffatta ricostruzione appare suffragata pure da un dato testuale, solo in apparenza secondario, ma a cui può ben essere assegnato un qualche senso. Infatti, mentre tutte le norme regolatrici degli effetti sostanziali e processuali della «domanda di arbitrato qualificata» richiamano l’atto con cui la parte dichiara la propria intenzione di promuovere il procedimento arbitrale, significativamente altre disposizioni, ossia l’art. 816 bis c.p.c. e il nuovo art. 818 c.p.c., menzionano significativamente l’inizio o l’instaurazione del giudizio arbitrale.

Questi rilievi ci consentono di affermare che il momento entro cui le parti possono conferire, con atto scritto separato anteriore all’instaurazione del giudizio arbitrale, la potestà cautelare agli arbitri è quello della loro accettazione, così come l’accettazione è il momento entro cui le parti possono esercitare la facoltà loro affidata dalla legge ex art. 816 bis c.p.c. di stabilire le norme del procedimento. Questa soluzione, avvalorata da indici sistematici, presenta anche il vantaggio di non far retrocedere l’atto scritto separato di cui al nuovo art. 818 c.p.c. ad un momento addirittura precedente alla proposizione della domanda di arbitrato, quando è verosimile che gli arbitri – quantomeno non tutti – non siano stati neppure individuati. Questa retrocessione non avrebbe senso perché, se la ratio di quel limite temporale è garantire alle parti e agli arbitri la certezza circa il perimetro dei poteri spettanti ai giudici privati, quello scopo è più e meglio realizzato procrastinando quel momento all’accettazione degli arbitri, la quale è assai probabile che, nell’arbitrato ad hoc, coinciderà con la costituzione del tribunale arbitrale, a cui opportunamente riservare un’apposita udienza[72]. E, anzi, a confermare la plausibilità di questi assunti è anche quanto scritto nella Relazione illustrativa al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149, dove la scelta del legislatore di fissare lo spartiacque temporale dell’instaurazione del giudizio arbitrale, come momento entro cui le parti possono attribuire la potestà cautelare agli arbitri, è motivata con «l’esigenza di cristallizzare, prima dell’instaurarsi della litispendenza (in senso ampio) arbitrale, il perimetro dei poteri spettanti agli arbitri, così da attribuire maggiore certezza in proposito sia alle parti, sia agli stessi arbitri, che possono avere accettato la nomina anche sulla base di una determinata prefigurazione del complessivo svolgimento dell’iter processuale». Mi sembra chiaro che dalle parole della Relazione illustrativa affiorino due dati difficili da confutare: il primo è che, anche nei riferimenti del legislatore, la litispendenza arbitrale in senso ampio è data dall’accettazione degli arbitri (e non, quindi, dalla proposizione della domanda di arbitrato); il secondo è che sia proprio l’accettazione degli arbitri, quale fatto costitutivo della litispendenza arbitrale in senso ampio, ad attivare la barriera temporale a cui l’art. 818 c.p.c. accenna.

Risolto nei termini che precedono il fondamentale problema di quale sia il momento anteriore all’instaurazione del giudizio arbitrale ex art. 818 c.p.c., rimane ora da vedere come può in concreto atteggiarsi l’atto scritto separato di cui alla norma de qua.

Mi pare che possano darsi fondamentalmente due casi.

Il primo, più semplice e scontato, è quello in cui le parti del patto compromissorio, fino ad un attimo prima dell’accettazione degli arbitri, pongano in essere un atto scritto con cui esse manifestino la volontà di dotare i giudici privati della potestas cautelare.

Il secondo caso è quello in cui le parti si risolvano ad una simile determinazione direttamente con lo stesso atto scritto separato, anteriore all’inizio del giudizio arbitrale, con cui, a norma dell’art. 816 bis c.p.c., dettano le norme del procedimento. Riterrei anche tale strada validamente percorribile proprio in considerazione delle più sopra evidenziate analogie di ratio, oltre che di formulazione lessicale, che corrono tra l’art. 816 bis c.p.c. e il nuovo art. 818 c.p.c.

Le questioni aperte, però, non finiscono qui perché i primi commenti alla riforma dimostrano che l’esegesi dell’art. 818 c.p.c pone un altro interrogativo di non poco conto. È opportuno chiedersi, cioè, se il limite temporale indicato dall’art. 818, comma primo, c.p.c. sia, o non sia , tassativo, perché, se lo fosse, un eventuale accordo successivo – espresso o per facta concludentia – sarebbe insanabilmente nullo ed inefficace ed il provvedimento cautelare emanato senz’altro reclamabile ai sensi del combinato disposto degli artt. 818 bis e 829, comma primo, c.p.c.; se, invece, non lo fosse, lo scenario muterebbe.

Preliminarmente, condivido l’annotazione di chi ha già evidenziato che il problema di un eventuale accordo postumo, ossia posteriore all’instaurazione del giudizio arbitrale, è ipotesi assai remota perché, una volta incardinatasi la lite in tutti i suoi classici elementi identificativi (parti, oggetto, giudice), è difficile che le parti possano più ritrovarsi d’accordo sulle «regole del gioco», incluse quelle sulla tutela cautelare[73]. Ciò non toglie che ciò sia possibile poiché nulla esclude che le parti, al presentarsi di un’affermata esigenza di tutela cautelare, possano quantomeno convergere sull’idea di sottrarre il loro caso in tutto e per tutto alla cognizione del giudice statuale[74], e così anche in punto di protezione interinale del diritto sostanziale. Non mi pare possibile sostenere la nullità di un accordo postumo tra le parti volto ad attribuire agli arbitri la potestà cautelare. Vi contravviene il principio di autonomia, che rimane il fondamento dell’arbitrato, per cui, se la volontà delle parti è quella che gli arbitri conoscano anche della tutela cautelare, essa non può essere frustrata, neanche se manifestata tardivamente rispetto alla barriera temporale posta dall’art. 818, comma primo, c.p.c.[75] Tuttavia, in questo caso, sarà necessario che la manifestazione di volontà provenga dalle parti personalmente o dai difensori con procura speciale e che gli arbitri vi acconsentano espressamente, i quali devono poter accettare, sebbene ex post, quell’attribuzione di ulteriore potestà[76]; esattamente come gli arbitri devono poter acconsentire qualora le parti definiscano ulteriori norme del procedimento ex art. 816 bis c.p.c. (ma) dopo l’inizio del giudizio arbitrale[77]. Che poi la volontà delle parti ed il consenso degli arbitri siano oggetto di una espressa manifestazione o risultino per facta concludentia[78] poco o nulla conta. È sin troppo scontato osservare che, a questo punto, il provvedimento cautelare degli arbitri non potrà essere reclamato in punto di difetto del relativo potere perché vi osterebbero gli specifici artt. 817, comma secondo, secondo periodo, e 829, comma secondo, c.p.c.[79], ma anche la più generale exceptio doli (di cui, d’altronde, le due disposizioni appena richiamate sono espressione abbastanza nitida).

5.Dal nuovo art. 818, comma primo, c.c. emerge un altro dato, ossia che la potestà cautelare degli arbitri, quando affidatagli dalle parti e poi radicatasi alle ulteriori condizioni che vedremo tra breve, è esclusiva. È così che la norma citata statuisce nella seconda proposizione del suo comma primo, ai sensi della quale «La competenza cautelare attribuita agli arbitri è esclusiva». Non mi occuperò delle ragioni delle molte critiche levate contro la scelta del legislatore e sostenute alla luce di un panorama comparatistico che vede la maggior parte degli ordinamenti avere optato per la competenza cautelare simultaneamente concorrente e della constatazione che sempre più spesso i rapporti coinvolgono terzi estranei alle parti compromittenti (come, ad esempio, eventuali garanti)[80], i quali non possono essere destinatari di un valido provvedimento cautelare impartito dagli arbitri (nel qual caso, tra l’altro, mi pare che nulla osti a che la domanda di cautela, se invocata nei confronti di un terzo, sia proposta al giudice statuale competente, senza che neanche possa discorrersi dell’esercizio di potestà cautelare concorrente).

Dobbiamo confrontarci con quel che il legislatore ha deciso, che è la esclusività della competenza cautelare esercitata dagli arbitri, ove le parti gliel’abbiano assegnata.

Tale esclusività non basta ad affermare che il legislatore della recente riforma abbia concepito la potestà arbitrale come del tutto impermeabile all’interferenza del giudice ordinario. Anzi, gli spazi per una possibile intromissione vi sono e non sono marginali[81].

Il primo, e potenzialmente più incisivo, spazio di ingerenza del giudice ordinario nel pieno della vicenda arbitrale è consentito dal reclamo cautelare, che l’art. 818 bis c.p.c. dispone deve essere proposto, ai sensi dell’art. 669 terdecies c.p.c., davanti alla corte d’appello del distretto in cui è la sede dell’arbitrato per i motivi di cui all’art. 829, comma primo, c.p.c., in quanto compatibili, e per contrarietà all’ordine pubblico. Il legislatore ben avrebbe potuto sottrarre il provvedimento cautelare emanato dagli arbitri alla regola della reclamabilità, esattamente come aveva già fatto in passato con l’ordinanza arbitrale di inibitoria della delibera assembleare, che l’art. 35, comma quinto, del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, qualificava esplicitamente come non reclamabile[82]. Si è optato, invece, per la reclamabilità, con una soluzione di natura «politica»[83], non imposta da principi superiori  e non immune da critiche perché le parti, nel momento stesso in cui stabiliscono di assegnare la competenza cautelare agli arbitri, spianano la via all’interferenza del giudice ordinario: questi, se investito del reclamo di cui all’art. 818 bis c.p.c., interverrà nella controversia con una decisione che, pur con tutti i limiti della cognizione sommaria e nonostante la particolare configurazione del reclamo ex art. 818 bis c.p.c. come impugnazione a critica vincolata (a differenza di quello a critica libera e pienamente devolutivo dell’art. 669 terdecies c.p.c.), precederà – ma che potrebbe anche avere un qualche effetto persuasivo per – quella degli arbitri.

Ma, una finestra di potenziale interferenza del giudice ordinario nel processo arbitrale si apre, in realtà, ben più a monte del reclamo cautelare, e cioè ai sensi dell’art. 818, comma secondo, c.p.c. Trattasi, però, di una interferenza molto meno preoccupante e, in qualche modo, necessitata dal principio di effettività della tutela giurisdizionale. L’art. 818, comma secondo, c.p.c. dispone che «Prima dell’accettazione dell’arbitro unico o della costituzione del collegio arbitrale, la domanda cautelare si propone al giudice competente ai sensi dell’articolo 669 quinquies». Il legislatore della riforma ha qui mutuato la soluzione a cui, nel silenzio della legge, la giurisprudenza e la dottrina erano giunte, nella vigenza del vecchio art. 35, comma quinto, del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, quando si era ammessa la possibilità di ricorrere al giudice ordinario per la sospensione della delibera assembleare da impugnarsi dinanzi agli arbitri che non avessero ancora costituito l’organo arbitrale[84].

L’art. 818, comma secondo, c.p.c. segna una peculiarità del sistema perché, se è vero che la competenza cautelare degli arbitri è esclusiva, per cui non è possibile la simultanea potestà cautelare di arbitri e giudice ordinario, vi è pur sempre una concorrenza di tipo sequenziale, scandita dal diaframma temporale posto dall’art. 818, comma secondo, c.p.c.[85] Il che, tra l’altro, garantisce il permanere di un buon margine di operatività per l’art. 669 quinquies c.p.c., opportunamente aggiornato con l’inciso «salvo quanto disposto dall’articolo 818, primo comma», il quale continua così a svolgere la sua funzione di individuare la competenza cautelare del giudice ordinario in caso di convenzione di arbitrato, ma anteriormente all’accettazione dell’arbitro unico o alla costituzione del collegio arbitrale. Senza dimenticare che l’art. 669 quinquies c.p.c. seguiterà ad assolvere a quel compito pure qualora le parti non abbiano affidato agli arbitri il potere di emanare provvedimenti cautelari o abbiano loro assegnato una potestas cautelare solo parziale, e cioè limitata ad alcune cautele tra quelle conservative o anticipatorie in astratto domandabili al giudice statuale.

Lo spartiacque temporale di questa concorrenza diacronica è governato dall’art. 818, comma secondo, c.p.c. ed è rappresentato dall’accettazione dell’arbitro unico o dalla costituzione del tribunale arbitrale: intervenuta l’una o l’altra, la competenza cautelare trasmigra dal giudice ordinario per radicarsi in via esclusiva sugli arbitri, se muniti di tale potestas dalle parti compromittenti ai sensi del primo comma dell’art. 818 c.p.c. La distinzione tra accettazione dell’arbitro unico e costituzione del tribunale arbitrale non è priva di significato[86] e non va sottovalutata se si vuole cogliere il significato della previsione. Infatti, non è detto che i due momenti coincidano; anzi, nell’arbitrato amministrato, di norma l’accettazione è seguita da una serie di attività di tipo burocratico-amministrativo (disclosure; osservazioni delle parti sulla nomina; conferma da parte dell’istituzione dell’arbitro; trasmissione del fascicolo d’ufficio all’arbitro dopo il versamento del fondo iniziale), solo espletate le quali si giunge alla costituzione del tribunale arbitrale[87]. Quindi, il cenno all’accettazione dell’arbitro unico o alla costituzione va bene inteso e sta a significare che la norma mira in senso più ampio ad evitare un vuoto di tutela cautelare nella fase in cui il giudice privato non è ancora in condizione di operare.

La competenza cautelare di tipo sequenziale, necessaria a garantire la effettività della tutela giurisdizionale anche nel momento in cui gli arbitri non sono ancora nelle condizioni di agire in concreto e soprattutto in assenza di adeguati meccanismi di tutela arbitrale ante causam (a disparte delle figure dell’arbitro d’urgenza previste dai regolamenti arbitrali[88]), complica in qualche modo lo scenario e pone due problemi di non poco conto[89]. Il primo problema riguarda la individuazione del momento determinante della competenza cautelare del giudice ordinario e degli arbitri. La seconda questione rilevante concerne la natura dell’eccezione che potremmo definire di compromesso arbitrale cautelare, e cioè se essa risenta della stessa natura della exceptio compromissi sul merito ex art. 819 ter, comma primo, c.p.c.

6. Partiamo dal primo tema. È evidente che la concorrenza diacronica tra le potestà cautelari di giudice ordinario e arbitri richiede di stabilire quale sia il momento determinante delle relative competenze. Qui assume importanza non solo il diaframma temporale dell’art. 818, comma secondo, c.p.c. (i.e. accettazione e/o costituzione intervenute o meno), ma anche l’esigenza di disciplinare le sopravvenienze alla proposizione della domanda cautelare potenzialmente capaci di incidere sulla competenza dell’uno o degli altri, negandola o affermandola. Viene in rilievo a questo ultimo proposito l’art. 5 c.p.c. e la perpetuatio iurisdictionis[90], quale principio generale idoneo ad operare anche nell’ambito qui in esame sia nella sua accezione più ortodossa e restrittiva (i.e. le sopravvenienze negative della competenza sono irrilevanti) sia nella sua accezione più elastica e costituzionalmente orientata, da sempre affermata e definitivamente avallata dopo l’entrata in vigore dell’art. 8 della legge 31 maggio 1995, n. 218 (i.e. le sopravvenienze affermative della competenza agiscono)[91]. Ne consegue che il giudice ordinario, a cui sia rivolta la domanda di cautela in un momento in cui non vi sono le condizioni per indirizzarla agli arbitri, conserva la propria potestas e deve decidere il merito dell’istanza cautelare anche qualora si realizzino in corso di giudizio i presupposti perché quella istanza sia proposta agli arbitri: si ha riguardo, cioè, allo stato di fatto e di diritto esistente al momento della proposizione della domanda e il mutamento negativo è irrilevante. Allo stesso modo, ove la parte rivolga agli arbitri la domanda cautelare prima della loro accettazione o della loro costituzione in tribunale arbitrale, gli arbitri, che nelle more abbiano accettato o si siano costituiti in tribunale arbitrale, devono dichiararsi competenti a conoscere l’istanza di cautela: in questo caso, si ha riguardo al sopravvenuto criterio di collegamento quale mutamento capace di affermare la competenza del giudice inizialmente incompetente.

7.Veniamo al regime della exceptio compromissi «cautelare», rispetto alla quale si pone un tema di una certa importanza: se quella eccezione, pure in assenza di un’espressa volontà di legge, condivide lo stesso trattamento dell’eccezione di compromesso sul merito di cui all’art. 819 ter, comma primo, c.p.c. Quest’ultima, infatti, è dalla legge espressamente regolata come un’eccezione in senso stretto perché il suo rilievo è riservato all’iniziativa della parte interessata, che la deve (rectius, è onerata di) proporre, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta tempestivamente depositata ai sensi del combinato disposto degli artt. 819 ter, comma primo, e 167, comma secondo, c.p.c. In altri termini, la parte convenuta dinanzi al giudice ordinario su controversia coperta da patto compromissorio ha la disponibilità della corrispondente eccezione, nel senso che è libera di sollevarla come di rinunciarvi. In quest’ultimo caso, la rinuncia della parte intimata, che era stata preceduta dalla corrispondente rinuncia dell’attore che ha proposto la domanda al giudice ordinario, vale a sottrarre la disputa agli arbitri, ancorché limitatamente alla controversia decisa in quel giudizio, secondo quanto sancito dall’art. 819 ter, comma primo, ultima proposizione, c.p.c. Il giudice ordinario, così investito della lite, non può rilevare officiosamente l’esistenza della convenzione di arbitrato.

Occorre chiedersi se analoghe considerazioni valgono anche per l’eccezione di compromesso su domanda di tutela cautelare rivolta al giudice statuale.

I primi commenti alla riforma hanno fatto emergere opinioni difformi, sebbene manifestate nell’ambito di un dibattito per forza di cose ancora embrionale. Da un lato, vi è chi ha ipotizzato l’eccezione di compromesso «cautelare» come rilevabile d’ufficio sulla base della natura inderogabile della competenza cautelare ex art. 28 c.p.c., per cui il giudice statuale, pure in mancanza di domanda di parte e sulla base degli atti acquisiti al processo, dovrebbe accertare, prima, se vi sia una convenzione arbitrale devolutiva di potestas cautelare agli arbitri e se questi abbiano accettato o si siano costituiti in tribunale arbitrale e, poi, la propria competenza ai sensi dell’art. 669 quinquies c.p.c.[92] Altri, invece, hanno postulato la disponibilità dell’eccezione de qua, argomentando che la competenza cautelare arbitrale, ancorché «esclusiva», si fonda sulla volontà delle parti, le quali, così come l’hanno conferita, allo stesso modo potrebbero poi sottrarla in forza di un accordo tacito risultante dalla proposizione della istanza di cautela al giudice statuale ad opera del ricorrente e dalla successiva mancata eccezione di compromesso ad opera del resistente[93].

Un dato di partenza può essere intanto posto: la questione va esaminata dal punto di vista del giudice ordinario che riceve la domanda di tutela cautelare e alla luce dei principi che sono a fondamento della disciplina della competenza cautelare. A me sembra che qui prendano rilievo non solo l’art. 28 c.p.c., che prevede alcune ipotesi di competenza territoriale inderogabile (tra cui, per l’appunto, quella cautelare), ma anche le norme sul processo cautelare uniforme e, specificamente, gli artt. 669 ter, 669 quater e 669 quinquies c.p.c. L’art. 28 c.p.c., secondo la impostazione largamente prevalente e più condivisibile, va inteso come norma volta ad escludere che le parti possano concordare l’attribuzione della competenza cautelare ad un giudice diverso da quello competente per il merito[94]. L’art. 669 ter, comma primo, c.p.c. afferma la competenza cautelare ante causam del giudice che è competente a conoscere del merito. L’art. 669 quater, comma primo, dispone che la competenza cautelare in corso di causa è del giudice davanti al quale pende la causa per il merito. L’art. 669 quinquies c.p.c. statuisce che, in caso di clausola compromissoria, di compromesso o di arbitrato pendente, la competenza cautelare è del giudice che sarebbe stato competente a conoscere del merito, con la clausola di salvezza, di nuova aggiunta, di quanto disposto dall’art. 818, comma primo, c.p.c.

Dalle appena richiamate disposizioni sul processo cautelare uniforme si ricava il principio basilare della competenza cautelare, che è quello della necessaria inscindibilità tra la competenza a decidere la domanda cautelare e la competenza a decidere la causa di merito[95]. Le norme sulla competenza del processo cautelare uniforme vanno poi coordinate con l’art. 28 c.p.c., dal quale si desume il principio della inderogabilità della competenza cautelare stabilita dagli artt. 669 ter, 669 quater e 669 quinquies c.p.c. e, quindi, del criterio di collegamento indissolubile tra il cautelare e il merito[96]. E, allora, se la competenza cautelare è inderogabile nel senso appena descritto, il giudice investito della domanda cautelare verifica d’ufficio la propria competenza ed accerta, anche in mancanza di eccezione di parte e sulla base delle acquisizioni processuali, se essa sussista per l’appunto ai sensi degli artt. 669 ter, 669 quater e 669 quinquies c.p.c.[97].

Se trasponiamo queste premesse al caso del giudice ordinario al quale sia stata proposta una domanda cautelare relativa a controversia oggetto di convenzione arbitrale, sembra lecito sostenere non solo che egli accerta d’ufficio la propria competenza, ma anche che, nel condurre questo accertamento officioso, egli dovrà usare il parametro dell’art. 669 quinquies c.p.c. Tale norma contiene, nella sua nuova versione, un significativo inciso finale che recita «salvo quanto disposto dall’articolo 818, primo comma». Proviamo, dunque, a parafrasare l’art. 669 quinquies c.p.c.: se la controversia è oggetto di clausola compromissoria o è compromessa in arbitri o se è pendente il giudizio arbitrale, la domanda cautelare si propone al giudice che sarebbe stato competente per il merito, salvo che le parti, anche mediante il rinvio a regolamenti arbitrali, abbiano attribuito agli arbitri il potere di concedere provvedimenti cautelari con la convenzione arbitrale o con atto scritto anteriore all’instaurazione del giudizio arbitrale, nel qual caso la competenza cautelare attribuita agli arbitri è esclusiva. L’art. 669 quinquies c.p.c., così come aggiornato dalla recentissima riforma, dimostra che, in caso di disputa coperta da patto arbitrale o di arbitrato pendente, è venuta meno la necessità della scissione tra competenza cautelare e competenza per il merito: in altri termini, tale scissione era precedentemente affermata in via generale come rimedio al dogma preclusivo di cui all’art. 818 c.p.c, mentre oggi opera in via eccezionale e nei limiti del nuovo art. 818, comma primo, c.p.c.

Mi sembra quindi di poter condividere quanto ha osservato chi ha affermato la natura officiosa delle verifiche del giudice ordinario investito della domanda di cautela in caso di convenzione arbitrale attributiva di poteri cautelari agli arbitri, nel senso che il giudice statuale valuta, nel caso anche da sé, nell’ordine[98]:

a)se le parti abbiano conferito la potestas cautelare agli arbitri in uno dei modi consentiti dall’art. 818 c.p.c.; nonché eventualmente

b)se lo spartiacque dell’accettazione o della costituzione si sia realizzato.

Ove queste verifiche abbiano dato esito positivo, il giudice ordinario, anche in assenza della relativa eccezione, ma solo dopo aver sollecitato il contraddittorio delle parti sia ai sensi dell’art. 101, comma secondo, c.p.c. sia ai sensi dell’art. 669 sexies, comma primo, c.p.c.[99], dichiara il proprio difetto di potestas iudicandi cautelare ex artt. 28, 669 quinquies e 818 c.p.c. con ordinanza reclamabile ai sensi dell’art. 669 terdecies c.p.c., ma non impugnabile con regolamento di competenza ex artt. 42 e 43 c.p.c.: quest’ultimo rimedio, infatti,  rimane confinato nell’alveo dell’art. 819 ter c.p.c., norma che lo ammette nei soli casi in cui il giudice ordinario decida sulla ripartizione di competenza fra sé e gli arbitri in ordine alla cognizione di merito[100].

Ritengo che questa soluzione sia anche la più coerente con la ratio della riforma, desumibile a chiarissime lettere dalle parole della Relazione illustrativa sull’art. 3, comma cinquantadue, lett. b), del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149, che è stata proprio quella di evitare possibili sovrapposizioni e duplicazioni di tutela nei due ambiti, per cui «(…) una volta che il processo arbitrale sia iniziato e l’organo arbitrale si sia regolarmente costituito (in modo tale da consentire una sollecita risposta alla richiesta di tutela cautelare formulata dalla parte), o comunque, nel caso di arbitro unico, questi abbia accettato la nomina, ove le parti abbiano inteso attribuire agli arbitri tale potere, lo stesso viene attribuito integralmente e in via esclusiva agli stessi arbitri. Non vi può dunque essere, in queste ipotesi, una potestas concorrente tra arbitri e giudici ordinari».

Sostenere, nell’opposta prospettiva, che le parti possano rinunciare alla potestas cautelare degli arbitri semplicemente disponendo della relativa eccezione dinanzi al giudice ordinario rischia di compromettere la semplificazione perseguita dal legislatore, oltre a contravvenire al più generale principio di massima unificazione possibile tra competenza cautelare e competenza di merito, senza che concludenti indici sistematici supportino tale conclusione.

8. Mi sembra di poter dire che il procedimento arbitrale «cautelare», come quello sul merito, è regolato dall’art. 816 bis c.p.c.[101] Vige anche in questo ambito, quindi, il principio della più ampia libertà di forme: le parti possono stabilire, nei modi e nei tempi indicati dall’art. 816 bis, comma primo, c.p.c., le regole che gli arbitri devono osservare nel procedimento «cautelare»; ove le parti non abbiano esercitato questa loro facoltà, gli arbitri possono regolare il procedimento nel modo che essi ritengono più opportuno. Gli arbitri, però, devono attuare in ogni caso, e dunque anche a prescindere da eventuali indicazioni di segno opposto provenienti dalle parti, il principio di ordine pubblico processuale del contraddittorio, concedendo loro ragionevoli ed equivalenti possibilità di difesa. Inoltre, nulla esclude, salvo che le parti abbiano diversamente previsto nell’esercizio della facoltà loro concessa dall’art. 816 bis c.p.c., che gli arbitri possano emanare il provvedimento cautelare anche inaudita altera parte, e dunque sulla base di una cognizione sommaria perché superficiale, quando la convocazione della controparte potrebbe pregiudicarne l’attuazione. Un simile modo di procedere non si pone per forza in contraddizione con la doverosa osservanza del principio del contraddittorio, il quale potrà essere soltanto differito, ma di certo non mancante. Gli arbitri, dunque, dovranno senza indugio, e quindi già con lo stesso provvedimento inaudita altera parte, adottare ogni accorgimento necessario a consentire alle parti (soprattutto a quella resistente, colpita dal provvedimento reso inaudita altera parte, alla quale il ricorso e il provvedimento andranno portati a conoscenza[102]) di dedurre e controdedurre, con l’assegnazione di termini per memorie e/o con la fissazione di un’udienza, il tutto in funzione della conferma, della modifica o della revoca del provvedimento in precedenza impartito. Tutto questo, infine, non avverrà ai sensi dell’art. 669 sexies c.p.c., che è norma di carattere spiccatamente procedimentale (come pure la rubrica di essa lascia intendere), bensì accadrà sempre ai sensi dell’art. 816 bis, comma primo, c.p.c., e dunque secondo le indicazioni che le parti si erano premurate di impartire o, in assenza di esse, secondo le determinazioni assunte dagli arbitri, i quali, nel fare ciò, potranno di certo anche ispirarsi all’art. 669 sexies c.p.c.[103]

9.L’ambito applicativo per l’art. 816 bis c.p.c. rispetto al procedimento cautelare «arbitrale», appare essere quello, e solo quello, di cui si è appena dato atto. Ne restano fuori, almeno a mio avviso, tutte quelle questioni, che ruotano intorno all’esercizio della potestas iudicandi cautelare e che riguardano il regime del provvedimento interinale, quali la riproposizione della domanda cautelare nonché l’inefficacia, la modifica e la revoca del provvedimento cautelare ed i relativi presupposti.

Qui emerge una grave lacuna della riforma perché il legislatore si è completamente disinteressato di questi rilevantissimi profili e ha pretermesso di dettarne una disciplina specifica con riferimento al potere cautelare esercitato dagli arbitri. Eppure, dottrina autorevolissima già in passato aveva ammonito a questo proposito[104].

La carenza, tuttavia, deve essere colmata e ciò non potrà che avvenire facendo ricorso alle corrispondenti norme del processo cautelare uniforme, ossia gli artt. 669 septies, 669 octies e 669 decies c.p.c., per i quali residuerà dunque un cospicuo ed essenziale margine operativo.

Partiamo dalla riproposizione della domanda cautelare. Se il diniego è avvenuto per ragioni di rito, essendosi il giudice statuale o gli arbitri dichiaratisi incompetenti, l’istanza sarà ripresentabile senza limiti a norma dell’art. 669 septies, primo comma, prima parte, c.p.c. Se la domanda di cautela è stata rigettata nel merito dal giudice statuale adito nel limbo temporale di cui all’art. 818, comma secondo, c.p.c. o dagli arbitri già operativi, essa sarà riproponibile agli arbitri nei limiti di quanto disposto dall’art. 669 septies, comma primo, seconda parte, c.p.c., e quindi con la allegazione di sopravvenienze (nuove circostanze extraprocessuali) o di nuove ragioni di fatto o di diritto (nuovi fatti, nuove prove, etc.), non dedotte con la originaria istanza cautelare, capaci di determinare una diversa valutazione (in senso affermativo) del fumus boni iuris o del periculum in mora[105].

La revoca o la modifica sono regolate, invece, dall’art. 669 decies c.p.c., per cui saranno invocabili, su istanza di parte, se intervengano dei nova – mutamenti nelle circostanze o allegazioni di fatti anteriori di cui si è avuta conoscenza successivamente al provvedimento cautelare – idonei, anche in questo caso, a provocare una diversa valutazione (ma, in senso negativo) del fumus boni iuris o del periculum in mora. L’art. 669 decies, comma terzo, c.p.c. è stato aggiornato ed integrato dalla recente riforma con il solito inciso recante la clausola di salvezza di quanto disposto dall’art. 818, comma primo, c.p.c. Se ne ricava – sebbene alla stessa conclusione si sarebbe agevolmente potuti giungere pure senza tale addizione – che la domanda di revoca o di modifica vada rivolta agli arbitri rispetto al provvedimento cautelare da loro emesso in forza del potere assegnatogli ai sensi dell’art. 818, comma primo, c.p.c.[106] Si pone, però, anche un’altra e più complessa questione, ossia a chi vada indirizzata l’istanza di revoca o di modifica quando il provvedimento cautelare sia stato emanato dal giudice statuale nello spazio temporale che gli è riservato dall’art. 818, comma secondo, c.p.c., ma, nelle more della emersione dei nova, sia intervenuta l’accettazione dell’arbitro unico o la costituzione del collegio arbitrale. A me pare che, in questo caso, la soluzione stia nell’art. 669 decies, comma primo, c.p.c., il quale stabilisce che, in caso di provvedimento cautelare emanato ante causam e se non è stato proposto il reclamo ai sensi dell’art. 669 terdecies c.p.c., competente a conoscere della istanza di revoca o di modifica è il giudice istruttore della causa di merito. Poiché nel caso in esame i giudici della causa di merito sono gli arbitri, l’istanza di revoca o di modifica del provvedimento cautelare impartito dal giudice statuale va presentata a loro[107], sempre che, bene inteso, gli sia stata conferita la potestas cautelare ai sensi dell’art. 818, comma primo, c.p.c. Infatti, la revoca o la modifica sono comunque manifestazioni dell’esercizio del potere cautelare, di modo che, mancando il conferimento ai sensi dell’art. 818, comma primo, c.p.c., la domanda di revoca o di modifica andrà indirizzata al giudice statuale che aveva emesso il provvedimento cautelare. Si potrebbe obiettare che l’art. 669 decies, comma primo, c.p.c. non è stato emendato con l’inciso «salvo quanto disposto dall’art. 818, primo comma» e che, da ciò, se ne potrebbe desumere che l’assenza di quella clausola di salvezza vada intesa come volontà del legislatore di lasciare il potere di revoca o di modifica nelle mani dello stesso giudice statuale che aveva impartito il provvedimento cautelare, anche nell’ipotesi in cui gli arbitri siano nelle more divenuti competenti: in altri termini, dovrebbe trovare applicazione il comma terzo dell’art. 669 decies c.p.c. e non il comma primo. Tuttavia, riterrei questa obiezione superabile sulla base di due argomenti. Il primo argomento è che l’art. 669 decies, comma primo, c.p.c. discorre proprio di «giudice istruttore della causa di merito» e non è in discussione che, in presenza del patto di arbitrato, gli arbitri siano il giudice della causa di merito: insomma, l’inserimento dell’inciso «salvo quanto disposto dall’art. 818, primo comma» sarebbe stato superfluo. Il secondo argomento è che l’art. 669 decies, comma terzo, c.p.c. è previsione che, quanto alla ipotesi di devoluzione della causa di merito ad arbitrato, in precedenza trovava spiegazione nel dogma preclusivo del vecchio art. 818 c.p.c., ma la cui applicazione oggi andrebbe circoscritta al caso in cui il provvedimento cautelare sia stato emanato dal giudice statuale mancando la potestas cautelare agli arbitri ai sensi del nuovo art. 818, comma primo, c.p.c. (la cui disposizione è, infatti, fatta salva dall’inciso conclusivo di nuova introduzione).

L’inefficacia del provvedimento cautelare emanato strumentalmente ad un giudizio di merito da promuoversi o già incardinato dinanzi agli arbitri è regolata dall’art. 669 novies c.p.c., a cui andranno apportati gli opportuni adattamenti in relazione alle diverse situazioni che possono darsi.

È opportuno distinguere a seconda che la declaratoria di inefficacia riguardi un provvedimento cautelare emanato dal giudice statuale o quello emesso dagli arbitri.

Così, nel caso di provvedimento cautelare adottato dal giudice statuale ante causam, la inefficacia deve essere domandata al giudice che aveva concesso la cautela nell’ipotesi in cui il giudizio arbitrale non sia iniziato nel termine perentorio e nei modi cui all’art. 669 octies, commi uno e cinque, c.p.c.[108] oppure quando, per qualsiasi ragione, il giudizio arbitrale iniziato si sia chiuso senza giungere ad una pronuncia di merito.

L’atro caso è quello del provvedimento cautelare autorizzato dal giudice statuale ante causam o comunque nello spazio temporale riservatogli dall’art. 818, comma secondo, c.p.c., ossia dopo che sia stata proposta la domanda di arbitrato, ma prima che si sia realizzata la litispendenza arbitrale in senso ampio perché mancanti l’accettazione dell’arbitro unico o la costituzione del collegio arbitrale, che siano poi sopraggiunte. In tale ipotesi, la inefficacia va senz’altro chiesta al giudice ordinario che aveva emanato la cautela qualora il giudizio arbitrale non si sia concluso con una pronuncia di merito. Qualora, invece, gli arbitri abbiano accertato inesistente il diritto per il quale il provvedimento cautelare era stato concesso dal giudice statuale, e dunque nel caso di cui all’art. 669 novies, comma quarto, n. 2), c.p.c., non si vedono ragioni per negare loro il contestuale potere di dichiarare con il lodo l’inefficacia del provvedimento cautelare, dando anche le disposizioni necessarie per ripristinare la situazione precedente ex art. 669 novies, comma secondo, c.p.c., al quale rimanda la proposizione finale del n. 2) del comma quarto dell’art. 669 novies c.p.c.[109] Riterrei, però, che ciò sia possibile solo a condizione che le parti abbiano attribuito agli arbitri la potestas cautelare atteso che la declaratoria di inefficacia del provvedimento cautelare rimane espressione dell’esercizio del potere cautelare. Diversamente, ossia in assenza di questa potestas iudicandi degli arbitri, la declaratoria di inefficacia e le disposizioni di ripristino andrebbero domandate con ricorso al giudice che aveva emanato il provvedimento cautelare. La previsione di cui al n. 1) del comma quarto dell’art. 669 novies c.p.c., invece, è ormai sostanzialmente inoperativa in quanto allo stato non v’è nel nostro ordinamento giuridico la previsione di un termine decadenziale per il deposito del lodo (domestico o estero) ai fini della sua esecutorietà[110]. Resta fermo, però, l’art. 156 bis disp. att. c.p.c., che condiziona il permanere dell’efficacia del sequestro conservativo alla proposizione della domanda di esecutorietà del lodo entro il termine perentorio ivi indicato e la successiva sua conversione in pignoramento ex art. 686 c.p.c. alla conseguita dichiarazione di esecutorietà[111]. Ove il deposito non fosse fatto tempestivamente, a me sembra che la declaratoria di inefficacia del sequestro conservativo vada chiesta sempre al giudice ordinario, che sarà o quello che aveva emesso il provvedimento cautelare o, se il sequestro conservativo era stato autorizzato dagli arbitri, quello che sarebbe stato competente per il merito ai sensi dell’art. 669 quinquies c.p.c. È condivisibile, infatti, il rilievo secondo cui sarebbe eccessivo, oltre che foriero di troppe incertezze, pretendere che sia ricostituito l’organo arbitrale che, con la pronuncia del lodo, aveva esaurito il proprio mandato[112].

Veniamo alla inefficacia del provvedimento cautelare emanato dagli arbitri, i quali sono competenti a dichiararne la inefficacia quando ricorra la fattispecie contemplata dall’art. 669 novies, comma quarto, n. 2), c.p.c. Resta inteso che, se gli arbitri omettono di adottare i provvedimenti di cui al comma secondo dell’art. 669 novies c.p.c. con il lodo che dichiara inesistente il diritto sostanziale, è preferibile concludere che la domanda di inefficacia del provvedimento cautelare arbitrale vada indirizzata con ricorso al giudice che sarebbe stato competente per il merito ex art. 669 quinquies c.p.c. Non riterrei ragionevole, infatti, pretendere che la parte interessata riattivi l’organo arbitrale, con tutto il bagaglio di incertezze che ciò implicherebbe, solo per ottenere la declaratoria di inefficacia della cautela che era stata impartita.

Lo stesso ragionamento vale per il caso in cui il procedimento arbitrale non pervenga ad una decisione di merito, nel senso che i provvedimenti di cui al comma secondo dell’art. 669 novies c.p.c. vadano domandati al giudice che sarebbe stato competente per il merito ex art. 669 quinquies c.p.c.: non è ragionevole imporre di ricostituire il tribunale arbitrale (solo) per decidere sulla istanza di inefficacia.

Come si può agevolmente cogliere, non poche questioni si pongono all’orizzonte e le soluzioni non sempre sono lineari o di agevole individuazione. Sono questi i motivi per cui sarebbe stata opportuna una disciplina organica di questi essenziali temi rispetto al potere cautelare esercitato in funzione dell’arbitrato.

10.Il legislatore della riforma ha configurato il provvedimento cautelare emanato dagli arbitri, sia concessivo sia negatorio della invocata cautela, come reclamabile ai sensi del nuovo art. 818 bis c.p.c.

L’art. 818 bis c.p.c. è certamente una delle previsioni più controverse della nuova disciplina della potestas cautelare arbitrale in quanto l’opzione praticata permette l’interferenza del giudice ordinario nella vicenda arbitrale[113]. Va subito sgombrato il campo da un tema: la reclamabilità del provvedimento cautelare reso dagli arbitri non era scelta imposta da principi inderogabili. Ciò è confermato dal fatto che il vecchio art. 35, comma quinto, del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, aveva espressamente qualificato l’ordinanza degli arbitri di inibitoria della delibera assembleare impugnata dinanzi ad essi come non reclamabile. L’art. 818 bis c.p.c., quindi, è il frutto di una scelta di politica legislativa, determinata dalla necessità di trovare un’accettabile linea mediana tra l’impulso al superamento dell’antico dogma preclusivo e la persistente ritrosia del potere statuale a cedere ulteriori margini di azione. Che l’art. 818 bis c.p.c. sia il risultato di un compromesso appare chiaro alla luce della particolare connotazione data al reclamo ivi regolato, trasformato da gravame pienamente devolutivo ed a critica libera a impugnazione a critica (molto) vincolata e chiusa ai nova.

Partiamo dalla norma. L’art. 818 bis c.p.c. dispone che «Contro il provvedimento degli arbitri che concede o nega una misura cautelare è ammesso reclamo a norma dell’articolo 669-terdecies davanti alla corte d’appello, nel cui distretto è la sede dell’arbitrato, per i motivi di cui all’articolo 829, primo comma, in quanto compatibili, e per contrarietà all’ordine pubblico».

Va preliminarmente osservato che, pur nel silenzio della norma, il provvedimento cautelare emanato dagli arbitri avrà la forma dell’ordinanza, per la cui attuazione, come vedremo a proposito dell’art. 818 ter c.p.c.[114], si è ritenuto superfluo qualsiasi controllo di tipo omologatorio: non sarà necessario, dunque, un previo exequatur giudiziale, assimilabile a quello previsto per il lodo rituale dall’art. 825 c.p.c.

Il reclamo avverso l’ordinanza cautelare degli arbitri è ordinario sotto il profilo procedurale, ma speciale quanto alla struttura del mezzo.

È ordinario sotto l’aspetto procedurale perché esso va proposto ai sensi dell’art. 669 terdecies c.p.c., adattato, evidentemente, quel che c’è da adattare. Così, innanzitutto, il comma primo della disposizione citata non sembra porre particolari problemi: il reclamo ex art. 818 bis c.p.c. va proposto nel termine perentorio di quindici giorni, che decorreranno assai realisticamente dalla comunicazione del provvedimento a cura degli arbitri. È teoricamente possibile, ma inverosimile nella prassi, che l’ordinanza cautelare degli arbitri sia adottata in udienza o che essa venga notificata dalla parte prima della comunicazione dei giudici privati: ove ciò accadesse, il dies a quo per il reclamo sarebbe con ogni evidenza quello dell’udienza o della notificazione, a seconda dei casi. Non preoccupano nemmeno il secondo e il terzo comma dell’art. 669 terdecies c.p.c.: la forma del reclamo contro il provvedimento cautelare arbitrale è quella del ricorso ed il procedimento da esso introdotto avrà le forme dei procedimenti camerali ex artt. 737 e 738 c.p.c. Il comma quarto dell’art. 669 terdecies c.p.c. pare invece incompatibile con la peculiare struttura del reclamo ex art. 818 bis c.p.c.: infatti, quel comma, che dà rilevanza ai nova, ha la propria ratio nella natura pienamente devolutiva del reclamo cautelare ordinario, per mezzo del quale al collegio è permessa anche una rivalutazione nel merito dei presupposti del fumus boni iuris e del periculum in mora, la quale va esclusa nell’ambito del reclamo ex art. 818 bis c.p.c.[115] Il comma quinto dell’art. 669 terdecies c.p.c. solleva, invece, un importante problema interpretativo. Posto che, senz’altro, la corte d’appello adita può confermare o revocare l’ordinanza cautelare degli arbitri, resta il dubbio se essa possa anche impartire la cautela a seguito della rimozione del provvedimento arbitrale.

Il dubbio c’è perché non è chiaro se, tenuto conto del carattere speciale del reclamo ex art. 818 bis c.p.c., al giudice competente spetti pure il giudizio rescissorio o se esso debba arrestarsi alla pronuncia rescindente. La questione si pone scontatamente con riferimento alla ipotesi in cui oggetto di reclamo sia l’ordinanza con cui gli arbitri abbiano respinto l’istanza cautelare e la corte d’appello adita accolga l’impugnazione contro il provvedimento negatorio. Ma, non è solo questo il caso: nulla esclude che gli arbitri abbiano concesso la cautela e che il reclamante faccia valere, ad esempio, quale motivo di impugnazione quello di cui al numero 1) o al numero 2) del comma primo dell’art. 829 c.p.c., di cui la corte d’appello adita accerti la fondatezza: il giudice del reclamo dovrà, in questo caso, limitarsi alla pronuncia rescindente di annullamento dell’ordinanza cautelare per invalidità della convenzione arbitrale o per invalida costituzione dell’organo arbitrale o, eliso il provvedimento arbitrale, potrà anche impartire la cautela qualora accerti la ricorrenza dei relativi presupposti concessivi e, ovviamente, il resistente abbia avanzato la relativa domanda in via incidentale?

L’art. 818 bis c.p.c. è silente sul punto, a differenza di quanto l’art. 830, comma secondo, c.p.c. fa per l’impugnazione del lodo rituale, laddove è espressamente stabilito che, se il lodo è annullato per uno dei motivi ivi menzionati, la corte d’appello decide la controversia nel merito, salvo che le parti non avessero diversamente stabilito con la convenzione di arbitrato o con accordo successivo. La soluzione che esclude la competenza del giudice del reclamo al giudizio rescissorio trova agevole conforto nella natura esclusiva ex art. 818, comma primo, c.p.c. della potestà cautelare degli arbitri, ove ad essi attribuita, e previene (o limita molto) l’interferenza[116]. Tuttavia, è innegabile che la tesi ricostruttiva che nega tout court il potere rescissorio alla corte d’appello adita ai sensi dell’art. 818 bis c.p.c. non regge ad una prova di ragionevolezza: essa, infatti, se omologata, imporrebbe alla parte istante la cautela di riproporre la relativa domanda agli arbitri con notevole perdita di tempo e con potenziale compromissione delle esigenze cautelari e, di conseguenza, del principio di effettività della tutela giurisdizionale. Ne consegue che, almeno a mio avviso, alla corte d’appello competente debba riconoscersi il potere di concedere il provvedimento cautelare, ove ravvisi il fumus boni iuris e il periculum in mora, e ciò sia in caso di accoglimento del reclamo avverso l’ordinanza arbitrale di diniego sia in caso di accoglimento del reclamo contro l’ordinanza arbitrale di concessione emessa da un tribunale arbitrale, ad esempio, incompetente o non correttamente nominato. Sotto quest’ultimo profilo, è certamente fondata la preoccupazione manifestata da chi rileva che, ammettendo il giudizio rescissorio a fronte dell’annullamento dell’ordinanza cautelare concessiva per incompetenza degli arbitri, si finisce per aggirare la norma sulla competenza di cui all’art. 669 quinquies c.p.c. ed a configurare un procedimento cautelare di unico grado dinanzi al giudice del reclamo ex art. 818 bis c.p.c.[117] Tuttavia, a me pare che il principio di effettività della tutela giurisdizionale, che ha il proprio fondamento nell’art. 24 Cost., debba prevalere sulla visione più rigoristica ed anzi che proprio quel principio debba fungere da viatico per un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 818 bis c.p.c. sul punto in esame perché l’affermazione giurisdizionale di un diritto sostanziale, non tempestivamente cautelato da pericoli di infruttuosità o di tardività, si tradurrebbe solo in una vuota affermazione[118]. E, d’altronde, se si ammette che la corte d’appello adita ex art. 818 bis c.p.c. può annullare l’ordinanza arbitrale di rigetto della domanda cautelare per uno dei motivi di cui all’art. 829, comma primo, c.p.c. o per contrarietà all’ordine pubblico ed impartire la cautela (al ricorrere dei presupposti), sarebbe poco coerente negare un analogo potere quando venga revocata l’ordinanza cautelare concessiva in ragione della incompetenza degli arbitri[119].

Veniamo ai motivi del reclamo contro il provvedimento cautelare degli arbitri. L’art. 818 bis c.p.c. li disciplina con un rinvio secco agli errores in procedendo per i quali, ai sensi dell’art. 829, comma primo, c.p.c., è consentita l’impugnazione del lodo rituale, in quanto compatibili, oltre che per contrarietà all’ordine pubblico.

Partendo dall’ordine pubblico, osservo soltanto che, attraverso di esso, cade il diaframma impeditivo della rivalutazione dei presupposti del fumus boni iuris e – riterrei – anche del periculum in mora da parte della corte d’appello competente ex art. 818 bis c.p.c. Non sembra opinabile, infatti, che una valutazione di quei presupposti che sia stata condizionata da una violazione di norme di diritto sostanziale di ordine pubblico (quanto al fumus boni iuris) o da una valutazione del periculum in mora in palese contrasto con principi inderogabili dell’ordinamento giuridico possano essere dedotti come motivo di reclamo ex art. 818 bis c.p.c. e causa di annullamento della ordinanza cautelare emanata dagli arbitri[120].

Venendo ai motivi di cui all’art. 829, comma primo, c.p.c., richiamati dall’art. 818 bis c.p.c. «in quanto compatibili», osservo, in senso moderatamente critico, che il legislatore avrebbe forse potuto fare uno sforzo ulteriore a tutto beneficio della chiarezza ed, a quel precipuo fine, enucleare i motivi deducibili con il reclamo cautelare de quo: d’altra parte, l’art. 808 ter, comma secondo, c.p.c., introdotto dal decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40, regola con una norma ad hoc i motivi di annullamento del lodo irrituale e lo fa elencandoli uno ad uno, nonostante quell’elenco sia la sostanziale riproduzione, ancorché con un catalogo più ristretto, dell’art. 829, comma primo, c.p.c. Anche in quel caso si sarebbe potuto dire che «Il lodo contrattuale è annullabile dal giudice competente per i motivi di cui all’articolo 829, primo comma, in quanto compatibili», ma si scelse altra strada.

Occorre, però, prenderne atto e spetta all’interprete ritagliare l’esatta dimensione del rinvio operato dall’art. 818 bis c.p.c. ai motivi di cui all’art. 829, comma primo, c.p.c., in quanto compatibili. Il problema sta, ovviamente, proprio in quella clausola di compatibilità, la quale può essere interpretata sostanzialmente in due modi[121]. Il primo è che vi siano alcuni casi del ventaglio ex art. 829, comma primo, c.p.c. senz’altro deducibili quali motivi di annullamento del provvedimento cautelare degli arbitri ed altri di sicuro incompatibili di modo che l’art. 818 bis c.p.c. si riferisca solo ai primi con completa estromissione dei secondi: si pensi ai motivi di cui ai numeri 1), 2) e 3) del comma primo dell’art. 829 c.p.c., la cui compatibilità con il reclamo ex art. 818 bis c.p.c. è obiettivamente di immediata percezione; mentre, quelli di cui ai numeri 5), 6) e 8) presentano un contenuto ad una prima lettura di difficile riferibilità al provvedimento cautelare degli arbitri. Il secondo approccio che si può avere nella interpretazione della riserva di compatibilità ex art. 818 bis c.p.c. è quello che ammette un’opera di adeguamento, in quanto possibile, di ogni singolo motivo di cui all’art. 829, comma primo, c.p.c. al reclamo disciplinato dalla norma de qua. In questa prospettiva, anche i motivi di cui ai numeri 5), 6) e 8) dell’art. 829, comma primo, c.p.c., ad esempio, si mostrano deducibili ai sensi dell’art. 818 bis c.p.c., ovviamente fatti gli opportuni adattamenti per garantirne la compatibilità con il reclamo ivi regolato.

Mi pare che il secondo approccio sia da preferire perché permette di adeguare, con interventi di chirurgia tutto sommato mininvasiva, motivi di reclamo che, se si seguisse l’altra soluzione, verrebbero recisamente tagliari fuori dall’alveo applicativo dell’art. 818 bis c.p.c.[122]

Scendiamo sul terreno pratico e facciamo alcuni esempi.

Ho appena sopra detto che il numero 5) di cui al primo comma dell’art. 829, comma primo, c.p.c. è motivo in apparenza incompatibile col reclamo avverso il provvedimento cautelare reso dagli arbitri perché l’art. 823 c.p.c. è norma che ha espressamente ad oggetto i requisiti del lodo. Eppure, nessuno potrebbe ragionevolmente negare che l’ordinanza cautelare degli arbitri debba contenere la esposizione sommaria dei motivi, volti ad illustrare la valutazione del fumus boni iuris e del periculum in mora; ed ancora, nessuno potrebbe seriamente postulare che il provvedimento cautelare arbitrale possa non avere il dispositivo o che, ancora, esso possa non recare la sottoscrizione degli arbitri. Analogamente, quanto al numero 6), deve essere annullabile l’ordinanza cautelare degli arbitri che sia stata emanata, per assurdo, dopo la scadenza del termine per la pronuncia del lodo sulla base del banale rilievo che non è efficacemente accordabile un provvedimento cautelare strumentale ad una decisione di merito non più validamente pronunciabile dai giudici privati per cessazione del mandato[123]. L’adattamento del motivo di cui al numero 8) richiede un intervento più massiccio, ma comunque perfettamente plausibile perché deve poter essere reclamato il provvedimento cautelare degli arbitri che, ad esempio, violi il giudicato cautelare, accogliendo una nuova istanza fondata sulle stesse ragioni di fatto o di diritto di un’altra domanda in precedenza rigettata dal giudice statuale ai sensi dell’art. 818, comma secondo, c.p.c. Ma, potrebbe darsi anche un altro caso deducibile sotto l’egida del numero 8) in questione, ovvero quello del provvedimento cautelare arbitrale che sia contrario ad altro provvedimento (sentenza o lodo) su cui si sia formato il giudicato. Di più difficile collocamento, nel senso della chiara compatibilità o incompatibilità con l’art. 818 bis c.p.c., è il motivo previsto dal numero 4) dell’art. 829, comma primo, c.p.c., non tanto nella prima parte, perché riterrei scontata la reclamabilità dell’ordinanza cautelare arbitrale che oltrepassi i limiti oggettivi della convenzione di arbitrato, quanto piuttosto nella seconda parte. Ma anche qui, a ben vedere, un ulteriore accomodamento del motivo è possibile nella direzione che deve affermarsi come reclamabile l’ordinanza cautelare che abbia statuito sul merito cautelare in un caso in cui il merito cautelare non poteva essere delibato dagli arbitri perché, ad esempio, sprovvisti della relativa potestas iudicandi. Tutti gli altri numeri della lista di cui al comma primo dell’art. 829 c.p.c. non mi sembra che pongano grossi problemi di compatibilità ai sensi dell’art. 818 bis c.p.c., però con almeno un paio di doverose precisazioni. La prima è che il numero 1) dell’art. 829, comma primo, c.p.c. va inteso senz’altro come riferito anche al caso (senza dubbio estraneo all’impugnazione del lodo) dell’invalidità dell’atto scritto successivo attributivo della potestas cautelare ex art. 818, comma primo, c.p.c. Resta fermo, comunque, il rinvio all’art. 817, comma terzo (rectius, comma secondo)[124], c.p.c. nel senso che la invalidità della convenzione di arbitrato è deducibile ai sensi dell’art. 818 bis c.p.c. se ed in quanto la relativa eccezione sia stata tempestivamente sollevata di fronte agli arbitri nella prima difesa successiva alla loro accettazione perché, qualora ciò non fosse accaduto, l’ordinanza cautelare non sarà reclamabile per quel motivo[125]. La seconda precisazione è che il motivo di cui al numero 10) riguarderà l’ordinanza arbitrale che neghi la cautela richiesta per ragioni di rito, mentre quelle stesse ragioni di rito non sussistevano, di modo che gli arbitri avrebbero dovuto delibare il merito cautelare[126].

11. L’art. 818 ter, comma primo, c.p.c. statuisce che «L’attuazione delle misure cautelari concesse dagli arbitri è disciplinata dall’articolo 669-duodecies c.p.c. e si svolge sotto il controllo del tribunale nel cui circondario è la sede dell’arbitrato o, se la sede dell’arbitrato non è in Italia, il tribunale del luogo in cui la misura cautelare deve essere attuata». Una volta abbattuto il divieto di cui al vecchio art. 818 c.p.c. con l’attribuzione agli arbitri della potestà cautelare, il principio di effettività della tutela giurisdizionale (anche di tipo interinale) imponeva con ogni evidenza di dettare la disciplina dell’attuazione dei provvedimenti cautelari arbitrali. E il legislatore vi ha provveduto entro i confini di un principio e criterio direttivo piuttosto ampio visto che l’art. 1, comma quindici, lett. c), della legge 26 novembre 2021, n. 206, aveva delegato il legislatore a «disciplinare le modalità di attuazione della misura cautelare sempre sotto il controllo del giudice ordinario».

Muovendo dal primo comma dell’art. 818 ter c.p.c. è possibile fare immediatamente tre osservazioni. La prima è che il legislatore delegato, in assenza di un’indicazione in quel senso da parte della legge delega, ha connotato i provvedimenti cautelari degli arbitri come immediatamente attuabili, al pari di quelli resi dal giudice statuale, mettendo così da parte la diversa opzione di un previo exequatur giudiziale che fosse sulla falsariga di quello previsto dall’art. 825 c.p.c. per il lodo arbitrale[127]: la soluzione mi sembra condivisibile perché quel previo exequatur avrebbe giocoforza richiesto del tempo e si sarebbe assai poco attagliato alle esigenze di celerità connaturate alla tutela cautelare, svilendo la potestà concessa agli arbitri. Il secondo rilievo è che l’attuazione del provvedimento cautelare arbitrale segue la disciplina ordinaria secondo le norme sul processo cautelare uniforme, e cioè ai sensi dell’art. 669 duodecies c.p.c., con la sola peculiarità che la competenza funzionale è inderogabilmente attribuita al tribunale del circondario in cui è la sede dell’arbitrato ed è così fissata per tutti i provvedimenti cautelari astrattamente impartibili dagli arbitri[128]. Il terzo è che, scontatamente, l’attuazione del provvedimento cautelare arbitrale deve avvenire sotto il controllo del giudice statuale perché gli arbitri, ancorché oggi possano essere muniti dalle parti della potestas iudicandi interinale, rimangono privi del potere di imperio necessario a conseguire, ove ve ne fosse il bisogno, l’adeguamento coattivo della realtà materiale al comando reso.

Per quanto concerne le modalità dell’attuazione, l’art. 818, comma primo, ter c.p.c. rinvia, puramente e semplicemente, all’art. 669 duodecies c.p.c. Il che significa che le modalità di attuazione dei provvedimenti cautelari arbitrali di natura non pecuniaria, e dunque aventi ad oggetto obblighi di consegna, rilascio, fare o non fare, dovranno giocoforza essere stabilite dal tribunale competente ai sensi dell’art. 818 ter c.p.c., sotto il cui controllo l’attuazione avverrà. L’attuazione dei provvedimenti cautelari arbitrali aventi ad oggetto somme di denaro, invece, avrà luogo ai sensi degli artt. 491 e seguenti in quanto compatibili, ossia nelle forme dell’espropriazione forzata presso il debitore, presso terzi o immobiliare, a seconda dei casi. Quanto ai sequestri autorizzati dagli arbitri non sorgono particolari questioni perché l’art. 818 ter, comma secondo, c.p.c. fa un rinvio esplicito alle regole ordinarie, ossia agli artt. 677 ss. c.p.c. Il sequestro giudiziario, dunque, si eseguirà ai sensi dell’art. 677 c.p.c., il sequestro conservativo sui mobili ai sensi dell’art. 678 c.p.c. e, infine, quello sugli immobili ai sensi dell’art. 679 c.p.c. L’unica specificità è che la competenza per l’attuazione dei sequestri concessi dagli arbitri è sempre quella, funzionale ed inderogabile, del tribunale del luogo in cui è fissata la sede dell’arbitrato, stante l’inequivocabile inciso conclusivo dell’art. 818 ter, comma secondo, c.p.c. di rinvio al comma primo.

12.Un discorso a parte merita l’inciso finale del comma primo dell’art. 818 ter c.p.c., laddove si legge che competente per l’attuazione è «se la sede dell’arbitrato non è in Italia, il tribunale del luogo in cui la misura cautelare deve essere attuata». È chiaro che, attraverso tale previsione, il legislatore ha inteso dare ingresso alla possibilità di riconoscimento ed esecuzione in Italia dei provvedimenti interinali emessi da arbitri di arbitrati con sede all’estero. Qui la particolarità, però, è che tale riconoscimento e tale esecuzione non passa per un regime circolatorio assimilabile a quello approntato per le sentenze arbitrali straniere dalla Convenzione di New York del 10 giugno del 1958 e, nel nostro ordinamento giuridico, dagli artt. 839 e 840 c.p.c. Insomma, saremmo al cospetto di ordinanze cautelari rese da arbitri esteri immediatamente eseguibili in Italia dinanzi al tribunale del luogo in cui la cautela deve essere attuata, ossia trattate alla stessa identica stregua delle ordinanze provvisorie rese dagli arbitri di un arbitrato con sede nel territorio della Repubblica[129].

La previsione è stata oggetto di critica. Si è detto che essa andrebbe interpretata nel senso di precisare che l’attuazione dei provvedimenti cautelari resi da arbitri esteri, se e quando riconosciuti in Italia tramite un procedimento di exequatur (che, però, ad oggi non esiste, n.d.r.), seguirà le disposizioni dell’art. 818 ter c.p.c. e non quelle sull’espropriazione forzata: diversamente opinando, sempre secondo i sostenitori di questa teoria, l’art. 818 ter c.p.c. avrebbe il diverso significato di ammettere la diretta ed immediata attuazione delle ordinanze interinali emanate da arbitri esteri, in assenza di qualsiasi verifica delibatoria, conclusione che esporrebbe la norma in parte qua alla censura di eccesso di delega[130].

A me pare, invece, che l’art. 818 ter, comma primo, proposizione finale, vada inteso per quel che è, ossia come norma essa stessa strumentale al recepimento e all’attuazione in Italia dei provvedimenti cautelari arbitrali stranieri. Il fatto che il recepimento e l’attuazione accadano in modo pressoché diretto ed automatico, e cioè senza essere preceduti da un procedimento di delibazione ad hoc, non è di per sé opzione abnorme[131]. Tra l’altro, nulla esclude che un incidente di tipo delibatorio possa aprirsi dinanzi al giudice del luogo di attuazione, competente ex art. 818 ter, comma primo, ultimo inciso, c.p.c., il quale, ad esempio, ritengo che ben potrà rifiutare l’attuazione di un provvedimento cautelare contrario all’ordine pubblico[132]. Se non si seguisse questa lettura della previsione in esame – coerente con lo spirito complessivo della Convenzione di New York del 1958 (e segnatamente con il principio del trattamento interno più favorevole di cui all’art. VII), a cui non si può negare anche una valenza di paradigma interpretativo più generale – si dovrebbe giocoforza constatare:

a)che i provvedimenti cautelari degli arbitri esteri siano – allo stato attuale – inattuabili in Italia, stante la conclamata inapplicabilità ad essi del regime della Convenzione di New York del 1958, mentre sono riconoscibili ed eseguibili, ancorché con il diaframma delibatorio degli artt. 839 e 840 c.p.c., i lodi arbitrali esteri definitori del merito con portata di giudicato;

b)che l’art. 818 ter, comma primo, ultimo inciso, c.p.c. sia norma sostanzialmente inutile.

Insomma, ritengo che, tra le due interpretazioni dell’art. 818 ter, comma primo, ultimo inciso, c.p.c., vada privilegiata quella che garantisce un valore alla norma – la quale è pure avallata da argomenti abbastanza solidi – piuttosto che quella che glielo nega.

13.Una delle principali novità della riforma della disciplina dell’arbitrato è senza dubbio la rifusione, pressoché pedissequa (a parte qualche adattamento, anche di un certo rilievo), della disciplina dell’arbitrato societario nel codice di rito, e segnatamente negli artt. 838 bis ss. c.p.c. L’operazione è senz’altro da approvare perché permette di sistemare in un unico corpo normativo, ossia nel Titolo VIII del Libro IV del codice di procedura civile, l’intera disciplina dell’arbitrato: il che non significa che l’arbitrato societario non mantenga le sue specificità, che continuano a distinguerlo dall’arbitrato di diritto comune (e, in effetti, gli artt. 838 bis ss. c.p.c. si presentano come un piccolo corpus a sé stante), ma la conservazione di quel moncone del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, composto dagli artt. 34-37, non aveva obiettivamente più alcun senso[133]. Bene ha fatto, quindi, il legislatore della riforma a reciderlo del tutto.

Tornando alla materia del cautelare arbitrale, si è già detto che, prima della recentissima novella, l’unica ipotesi di assegnazione agli arbitri di potestas cautelare era proprio quella regolata dall’art. 35, comma quinto, del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, che prevedeva il potere degli arbitri di sospendere la delibera assembleare quando agli arbitri fosse devoluta la controversia sulla validità della delibera stessa.

L’art. 35, comma quinto, del decreto legislativo cit. è ora trasferito nell’art. 838 ter, comma quarto, c.p.c., ai sensi del quale «Salvo quanto previsto dall’articolo 818, in caso di devoluzione in arbitrato di controversie aventi ad oggetto la validità di delibere assembleari, agli arbitri compete il potere di disporre, con ordinanza reclamabile ai sensi dell’articolo 818 bis, la sospensione dell’efficacia della delibera».

Mi limito a tre osservazioni sulla previsione di nuovo conio.

La prima è di carattere interpretativo perché l’art. 838 ter, comma quarto, c.p.c. esordisce con l’ambiguo inciso «Salvo quanto previsto dall’articolo 818 (…)». Ciò ha fatto sorgere il dubbio se quella iniziale clausola di salvezza:

a)stia lì a significare che, anche nelle ipotesi di impugnativa della delibera assemblare davanti agli arbitri, la competenza cautelare vada loro espressamente attribuita dalle parti, ossia ai sensi dell’art. 818, comma primo, c.p.c.; o

b)più semplicemente sia tesa a specificare implicitamente che, pure nel caso di impugnativa della delibera assembleare in arbitrato, la competenza cautelare è in capo al giudice ordinario fino al momento in cui non sia intervenuta l’accettazione dell’arbitro unico o la costituzione del tribunale arbitrale, e cioè ai sensi dell’art. 818, comma secondo, c.p.c.

È certo che il legislatore delegato avrebbe potuto essere più attento nell’opera di raccordo tra l’art. 838 ter, comma quarto, c.p.c. e l’art. 818 c.p.c. perché la formulazione letterale dà oggettivamente adito a dubbi. Tuttavia, mi sembra che, tra le due opzioni interpretative, quella sub b) sia da preferire[134]. Infatti, contrasterebbe con la ratio complessiva della riforma, che ha aperto la via al cautelare arbitrale, e quindi sarebbe illogico, leggere il combinato disposto degli artt. 818 e 838 ter, comma quarto, c.p.c. come abolitivo della sola ipotesi sino ad oggi ammessa di competenza cautelare arbitrale ex lege per declassarla, secondo la disciplina generale, al rango di competenza cautelare condizionata al volere delle parti. D’altronde, è anche del tutto plausibile che il legislatore delegato abbia inteso chiarire quello che, nella vigenza dell’art. 35, comma quinto, del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 ed in assenza di espressa disposizione di legge, si era affermato come un profilo di incertezza: ossia a chi spettasse la competenza a conoscere della istanza di inibitoria quando l’organo arbitrale non fosse ancora idoneo ad operare[135]. Dubbio che fu poi risolto per via interpretativa collocando quella competenza in capo al giudice statuale individuato ai sensi dell’art. 669 quinquies c.p.c.[136] Ne consegue che l’inciso «Salvo quanto previsto dall’articolo 818 (…)» va riferito, a mio avviso, al solo comma secondo dell’art. 818 c.p.c. per stabilire che, prima dell’accettazione dell’arbitro unico o della costituzione del tribunale arbitrale, l’inibitoria della delibera assembleare va domandata al giudice statuale competente ai sensi dell’art. 669 quinquies c.p.c.

La seconda osservazione riguarda una diversa, possibile, interpretazione della criptica clausola posta nell’incipit dell’art. 838 ter, comma quarto, c.p.c. Infatti, potrebbe pure ritenersi che la clausola di salvezza de qua facoltizzi le parti del contratto sociale a sottrarre la competenza cautelare sulla inibitoria della delibera assembleare agli arbitri per assegnarla in via esclusiva al giudice statuale. Sennonché, neppure tale ipotesi è omologabile perché non si può superare, a meno di non svilire il valore delle parole, il dato letterale inequivocabile della rubrica dell’art. 838 ter c.p.c., che è intitolata, come già lo era il vecchio art. 35 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, «Disciplina inderogabile del procedimento arbitrale»[137]. Agli arbitri societari, ai quali è demandata la controversia sulla validità della delibera in forza della clausola compromissoria statutaria, è coessenziale e non negabile la correlativa potestas cautelare sulla sospensiva.

La terza osservazione riguarda il regime dell’ordinanza di sospensione di cui all’art. 838 ter, comma quarto, c.p.c., che il legislatore della riforma ha voluto concepire come reclamabile ai sensi dell’art. 818 bis c.p.c., e cioè ai sensi della disciplina ordinaria del reclamo cautelare arbitrale. Questa è certamente una rilevante novità perché l’ordinanza sulla inibitoria era regolata come non reclamabile per espressa disposizione dell’ora abrogato art. 35, comma quinto, del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, che aveva voluto evitare ogni potenziale interferenza del giudice statuale nella vicenda arbitrale. Oggi, invece, la possibile interferenza vi è, ma è, in fondo, una interferenza tollerabile perché il reclamo resta, come vedremo, quello a critica (ultra) vincolata e non devolutivo di cui all’art. 818 bis c.p.c. Va segnalata la dissonante indicazione che la legge di delega aveva impartito circa il reclamo ordinario avverso il provvedimento cautelare emanato dagli arbitri di diritto comune e il reclamo contro l’ordinanza sulla inibitoria della delibera assembleare oggetto di impugnativa dinanzi ad essi[138]. Infatti, l’art. l, comma quindici, lett. c), della legge 21 novembre 2021, n. 206, prescriveva di «disciplinare il reclamo cautelare davanti al giudice ordinario per i motivi di cui all’articolo 829, primo comma, del codice di procedura civile e per contrarietà all’ordine pubblico»; invece, la lettera f) della stessa previsione dettava semplicemente di «prevedere altresì la reclamabilità dell’ordinanza di cui all’articolo 35, comma 5, del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, che decide sulla richiesta di sospensione». Se ne poteva arguire che l’indicazione fosse quella di regolare il reclamo avverso il provvedimento sulla inibitoria della delibera assembleare come esteso anche alla violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia, né più né meno di quanto accadeva – e tutt’ora accade ex art. 838 quater c.p.c. – per il lodo che decide sulla validità di delibere assembleari, che è sempre «impugnabile anche a norma dell’articolo 829, terzo comma», mentre il lodo ordinario lo è solo se espressamente disposto dalle parti. Il legislatore delegato ha percorso la diversa via del reclamo ex art. 818 ter, comma quarto, c.p.c. quale modellato su quello dell’art. 818 bis c.p.c., quindi non proponibile per violazione delle regole di diritto, bensì solo per egli errores in procedendo di cui al comma primo dell’art. 829, comma primo, nonché per contrarietà all’ordine pubblico[139]. La scelta mi sembra condivisibile perché le parti – in quel caso, bene inteso, con espressa previsione scritta ex art. 818, comma primo, c.p.c. – potrebbero anche scegliere di dotare gli arbitri societari di una potestà cautelare generale o comunque più estesa del solo potere di sospensiva, nel qual caso l’ordinanza cautelare sarebbe sempre soggetta al reclamo ordinario ex art. 818 bis c.p.c. Insomma, se il reclamo sul provvedimento concernente l’inibitoria della delibera assembleare fosse stato ammesso pure per violazione delle regole di diritto, ci saremmo trovati al cospetto della ingiustificata previsione di un diverso regime di reclamabilità, a seconda che gli arbitri societari avessero provveduto su una istanza di inibitoria o su una richiesta cautelare in tutti gli altri casi[140]. In questa prospettiva, la piena equiparazione del reclamo avverso il provvedimento sulla sospensiva al reclamo ex art. 818 bis c.p.c è soluzione semplificatoria razionale e condivisibile.

14.Veniamo all’ultimo tema oggetto di questo contributo, ossia al rapporto tra tutela cautelare e arbitrato irrituale. La domanda è se anche gli arbitri liberi siano dotabili dalle parti della potestas cautelare ai sensi dell’art. 818, comma primo, c.p.c. (nonché ai sensi dell’art. 838 ter, comma quarto, c.p.c.). La questione è obiettivamente controversa perché le indicazioni ricavabili dal sistema di nuova introduzione appaiono in un certo senso contraddittorie. Infatti, l’art. 1, comma quindici, lett. c) della legge 26 novembre 2021, n. 206, impartiva l’indicazione di «prevedere l’attribuzione agli arbitri rituali del potere di emanare misure cautelari (…)». Vi era, quindi, nella legge delega, un esplicito riferimento agli arbitri rituali, quali soggetti destinatari della nuova potestas cautelare. Sennonché, nella traduzione in legge degli appena citati principi e criteri direttivi, il richiamo agli arbitri rituali è sparito, tant’è che di esso non v’è traccia nel nuovo art. 818 c.p.c., dove il cenno è fatto genericamente agli arbitri (la norma de qua, infatti, recita che «Le parti (…) possono attribuire agli arbitri (…)»). La Relazione illustrativa al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149, e specificamente al comma cinquantadue, lett. b), è sostanzialmente neutrale sul punto, nel senso che essa non dà indicazioni concludenti sul mancato recepimento dell’esplicito rimando agli arbitri rituali: vi si legge, soltanto, che «Un ulteriore, rilevante, comparto della normativa in materia di arbitrato è quello della disciplina dei poteri cautelari da parte degli arbitri rituali» e nulla di più. È evidente che, in questo quadro, delle due l’una:

1)o gli artt. 818 ss. c.p.c. riguardano tanto gli arbitri rituali quanto quelli irrituali; o

2)si conclude che essi afferiscano solo agli arbitri rituali, tenendo ferma la indicazione della legge delega, ancorché non replicata esplicitamente dal decreto attuativo.

A me pare che, tra le due opzioni, si debba privilegiare quella sub a). Rileva, innanzitutto, il fatto che l’art. 818 c.p.c. accenni genericamente agli arbitri, senza alcun’altra indicazione di contorno. Tale previsione va inserita nel quadro della teoria unitaria del fenomeno arbitrale, il quale, al di là del suo carattere rituale o irrituale, è sempre uno strumento di definizione eteronoma di una disputa su diritti soggettivi, e dunque un processo destinato a concludersi con un giudizio[141]. Teoria unitaria che ha ottenuto una notevole spinta con la riforma che fu attuata dal decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40, introduttiva di una norma ad hoc – l’art. 808 ter c.p.c. – dedicata all’arbitrato irrituale. Infatti, quella riforma venne anticipata dalla previsione della legge delega 14 maggio 2005, n. 80, il cui art. 1, comma terzo, lett. b), stabiliva, quale principio e criterio direttivo, di «riformare in senso razionalizzatore la disciplina dell’arbitrato prevedendo (…) che le norme in materia di arbitrato trovino sempre applicazione in presenza di patto compromissorio comunque denominato, salva la diversa ed espressa volontà delle parti di derogare alla disciplina legale (…)». Se, quindi, all’arbitrato irrituale si applicano tendenzialmente tutte le norme del Titolo VIII del Libro IV del codice di rito, eccettuate solo quelle escluse dall’art. 808 ter c.p.c. (artt. 824 bis e 825 c.p.c.) e quelle ontologicamente incompatibili con esso[142], non vedrei ragioni per cui la nuova disciplina di cui agli artt. 818 ss. c.p.c. non dovrebbe valere per l’arbitrato irrituale, considerata pure la mancanza di una chiara manifestazione di volontà di segno opposto da parte del legislatore delegato.

Mi sembra che possa supportare questa conclusione il dettato dell’art. 669 quinquies c.p.c., che, come sopra detto, è la disposizione codicistica precipuamente volta a regolare la competenza del giudice statuale in presenza di clausola compromissoria, di compromesso o di pendenza del giudizio arbitrale. Essa, infatti, recita che «Se la controversia è oggetto di clausola compromissoria o è compromessa in arbitri anche irrituali o se è pendente il giudizio arbitrale, la domanda si propone (…) salvo quanto disposto dall’articolo 818, primo comma». Dall’incipit dell’art. 669 quinquies c.p.c., nella formulazione che venne introdotta dall’art. 2, comma 3, lett. e-bis), del decreto legge 14 marzo 2005, n. 35, con l’inserimento delle parole «anche non rituali», si può desumere, innanzitutto, che non v’è alcuna ontologica incompatibilità tra arbitrato irrituale e tutela cautelare, per cui la protezione interinale del diritto sostanziale, pure nella vigenza del vecchio art. 818 c.p.c., era assicurata dal giudice ordinario per l’arbitrato libero esattamente come lo era per l’arbitrato rituale. La recente riforma ha poi integrato l’art. 669 quinquies c.p.c. con l’inciso conclusivo «salvo quanto disposto dall’articolo 818, primo comma», senza toccare il riferimento agli arbitri «anche non rituali», di cui alla prima parte della disposizione. Ora, poiché si è già mostrato che il nuovo art. 818, comma primo, c.p.c. non scevera tra arbitrato rituale e arbitrato irrituale, mi sembra che, anche sotto questo aspetto, possa concludersi che l’art. 669 quinquies c.p.c. trovi applicazione se la disputa è deferita ad arbitri anche non rituali, salvo che le parti non abbiano attribuito ad essi arbitri (anche non rituali) il potere di concedere provvedimenti cautelari ai sensi, per l’appunto, dell’art. 818, comma primo, c.p.c.

Il vero scoglio su cui rischia di infrangersi la tesi qui proposta è costituito dal regime che il legislatore della riforma ha ideato per il reclamo cautelare, che l’art. 818 bis c.p.c. ha voluto proponibile per gli errores in procedendo di cui all’art. 829, comma primo, c.p.c., in quanto compatibili, e per contrarietà all’ordine pubblico. Il problema non sta nel motivo imperniato sulla contrarietà all’ordine pubblico, che ha portata generale e che può colpire il provvedimento cautelare indipendentemente dal fatto che esso sia stato somministrato dagli arbitri rituali o da quelli irrituali. La criticità sta, invece, nell’esplicito rinvio che l’art. 818 bis c.p.c. fa ai motivi di cui all’art. 829, comma primo, c.p.c., ossia al catalogo dei casi in cui è consentita l’impugnazione per nullità del lodo rituale. Si potrebbe, cioè, postulare che il fatto che il reclamo avverso i provvedimenti cautelari emanati dagli arbitri sia ammesso per i motivi di impugnazione del lodo rituale vale a dimostrare che i provvedimenti cautelari di cui trattasi sono soltanto quelli emessi dagli arbitri rituali.

Basta questa osservazione?

Si tratta di vedere se l’art. 818 bis c.p.c. sia davvero incompatibile con l’ipotesi che la potestas cautelare ex art. 818 c.p.c. sia esercitata dagli arbitri irrituali o se, invece, si possano intravedere indici sistematici di compatibilità, sebbene ricavati per via interpretativa.

La ratio dell’art. 818 bis c.p.c. è di garantire un sostanziale parallelismo tra i motivi di impugnazione del lodo e i motivi di reclamo avverso il provvedimento degli arbitri, concessivo o negatorio della cautela, con il preciso intento di evitare ogni distonico squilibrio nel livello di incidenza del sindacato demandato al giudice statuale nei due casi[143].

Così stando le cose, potrebbe apparire, a tutta prima, in contraddizione con quella ratio legis sostenere che anche il provvedimento cautelare, di qualunque segno, impartito dagli arbitri irrituali sia reclamabile ai sensi dell’art. 818 bis c.p.c., ossia per i motivi di nullità del lodo rituale, oltre che per contrarietà all’ordine pubblico. L’art. 818 bis c.p.c. sarebbe, in questa prospettiva, argomento davvero decisivo per escludere gli arbitri irrituali dalla potestas cautelare conferibile ex art. 818, comma primo, c.p.c.

Sennonché, ritengo che l’art. 818 bis c.p.c. possa essere sottoposto ad un’operazione interpretativa che, con uno sforzo sopportabile, permette di superare l’ostacolo e di scongiurare una conclusione che a me sembra in contrasto con l’art. 669 quinquies c.p.c. e con la neutralità, sul punto, dell’art. 818, comma primo, c.p.c. Il dato normativo da cui muovere è l’art. 808 ter, comma secondo, c.p.c., il quale disciplina specificamente i motivi di annullamento del lodo irrituale, ponendo una griglia impugnatoria che è sostanziale replica di quella approntata dall’art. 829, comma primo, c.p.c. per il lodo rituale[144]. Ne consegue che l’art. 818 bis c.p.c. potrebbe essere adeguato alla potestas cautelare esercitata dagli arbitri irrituali in due modi:

1)o ritenendo il riferimento all’art. 829, comma primo, c.p.c. implicitamente sostituito, quanto all’arbitrato irrituale, con quello all’art. 808 ter, comma secondo, c.p.c., ferma la clausola di compatibilità dei motivi; o, in alternativa,

2)considerando il cenno all’art. 829, comma primo, c.p.c. come compatibile con il reclamo avverso il provvedimento interinale emanato da questi ultimi, salva sempre la clausola di compatibilità.

Nessuna delle due soluzioni sembra porre problemi insormontabili – per quanto io riterrei senz’altro preferibile quella sub b) – proprio per la tendenziale sovrapponibilità del modello impugnatorio costruito, quanto ai motivi, dagli artt. 808 ter, comma secondo, e 829, comma primo, c.p.c. Per altro verso, entrambe le proposte consentirebbero di ovviare ad una lettura dell’art. 818 bis c.p.c. che, valorizzando oltre la sua reale portata il rimando all’art. 829, comma primo, c.p.c., approdi alla poco logica conclusione di vietare agli arbitri irrituali l’esercizio della potestas cautelare, anche laddove le parti gliel’abbiano assegnata ai sensi dell’art. 818, comma primo, c.p.c.

* Questo contributo è destinato alla Rivista dell’Arbitrato.

[1] V., per un commento a prima lettura, dei principi e criteri direttivi della legge delega 21 novembre 2021, n. 206, Biavati, L’architettura della riforma del processo civile, Bologna, 2021; Idem, La riforma del processo civile: motivazioni e limiti, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1, 2022, 45 ss. Per un commento organico al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149, v., invece, La riforma Cartabia del processo civile, Roberta Tiscini (a cura di), Pisa, 2023.

[2] V., per un commento a prima lettura dei principi e criteri direttivi della legge delega in materia di arbitrato, Aa.Vv., Commento ai principi in materia di arbitrato della legge delega n. 206 del 21 novembre 2021, art. 1, c. 15, in Riv. arb., 3, 2021, 3 ss.; cfr. altresì Punzi, Le prospettive di riforma dell’arbitrato offerte dalla legge delega per «l’efficienza del processo civile», in Riv. dir. proc., 2, 2022, 611 ss.; Salvaneschi, L’arbitrato nella legge delega per la riforma del processo civile, in Riv. dir. proc., 2, 2022, 614 ss. nonché, ma a proposito dell’arbitrato societario, v. Idem, in Aa.Vv., Commento, 73 ss. Cfr. anche, quanto al commento a prima lettura dei principi e criteri direttivi della legge delega in tema di cautelare arbitrale, Carlevaris, in Aa.Vv., Commento, cit., 37 ss. e v. inoltre Tota, I poteri cautelari degli arbitri nella legge di delega, n. 206/2021, in Judicium, 2, 2022, 169 ss. Invece, per una analisi organica della nuova disciplina dell’arbitrato, quale risultante dal decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149, attuativo della legge delega, cfr. Farina-Merone, in Aa.Vv., La riforma Cartabia, cit., 1175 ss. e, con riferimento specifico ai nuovi artt. 818 ss. c.p.c., v. Farina, La riforma Cartabia, cit., 1191 ss. V. altresì Briguglio, Il potere cautelare degli arbitri, introdotto dalla riforma del rito civile, e la inevitabile interferenza del giudice (“evviva il cautelare arbitrale!”, ma le cose non sono poi così semplici), in Riv. arb., 4, 2022, 787 ss. e in www.judicium.it.

[3] V. Briguglio, in Av.V.v., Commento, cit., 3 ss.; Idem, Il potere cautelare, cit., 788-789.

[4] Su cui cfr. infra, par. 8.

[5] La pregnante definizione in termini di concorrenza diacronica del rapporto tra le due potestà cautelari, segnata dallo spartiacque temporale dell’accettazione dell’arbitro unico o della costituzione del tribunale arbitrale ex art. 818, comma secondo, c.p.c., è di Briguglio, Il potere cautelare, cit., 795.

[6] Rilevante rispetto al procedimento cautelare arbitrale, ma non rispetto ad altri temi, come quelli della modifica e della revoca del provvedimento cautelare o della sua dichiarazione di inefficacia. V. funditus sul punto infra.

[7] Cfr. Punzi, Disegno sistematico dell’arbitrato, Seconda edizione, II, Padova, 2012, 209.

[8] Sono note le difficoltà con cui la Commissione presieduta dal Prof. Francesco Paolo Luiso ha dovuto confrontarsi a causa delle diverse anime in seno ad essa, che hanno imposto compromessi quasi mai migliorativi.

[9] Sul significato da attribuire a questa distonia tra legge delega e decreto attuativi v. infra, par. 14.

[10] È noto il dibattito sul criterio determinativo della competenza del giudice ordinario in presenza di clausola compromissoria per arbitrato estero. Va detto, innanzitutto, che la disciplina sul processo cautelare uniforme presenta una norma che è proprio rubricata «Competenza in caso di clausola compromissoria, compromesso o di pendenza del giudizio arbitrale», ossia l’art. 669 quinquies c.p.c., ai sensi del quale, nel suo testo ante riforma «Cartabia», «Se la controversia è oggetto di clausola compromissoria o è compromessa in arbitri anche non rituali o se è pendente il giudizio arbitrale, la domanda si propone al giudice che sarebbe stato competente a conoscere del merito». Il criterio scelto dall’art. 669 quinquies c.p.c. è sempre apparso chiaro perché esso, quale esplicitazione del criterio generale impartito per la competenza cautelare ante causam ex art. 669 ter, comma primo, c.p.c., impone semplicemente di ragionare in astratto e indirizzare la domanda di cautela al giudice che sarebbe stato virtualmente competente a conoscere del merito ove non vi fosse stato l’elemento preclusivo del patto arbitrale. Una parte della dottrina, però, ha giudicato l’art. 669 quinquies c.p.c. inapplicabile in presenza di patto per arbitrato estero perché, valendo il patto per arbitrato estero come fattispecie di difetto ab origine della giurisdizione del giudice interno, non vi sarebbe, neanche in astratto, un giudice italiano competente a conoscere della causa di merito. La conseguenza è che, in questa prospettiva, in presenza di convenzione per arbitrato estero, la competenza cautelare del giudice italiano sarebbe governata non dall’art. 669 quinquies c.p.c., bensì sempre dall’art. 669 ter, comma terzo, c.p.c. (e ciò anche in corso di causa, in ragione del rinvio fatto dall’art. 669 quater, comma quinto, c.p.c.), e la relativa istanza di cautela andrebbe sempre proposta «al giudice, che sarebbe competente per materia o per valore, del luogo in cui deve essere eseguito il provvedimento cautelare». V. in tal senso Attardi, Le nuove disposizioni del processo civile e il progetto del Senato sul giudice di pace, Padova, 1991, 236; Consolo, Spiegazioni di diritto processuale, I, Torino, 1994, 244, ove l’A. evidenzia che «l’art. 669-quinquies non si applica poi all’ipotesi di arbitrato straniero, che sarà piuttosto regolata dall’art. 669-ter, comma 3, c.p.c., con risultati comunque analoghi»; Idem, in Consolo-Luiso-Sassani, Commentario alla riforma del processo civile, Milano, 1996, 611; Guarnieri, in Aa.Vv., Provvedimenti urgenti per il processo civile, Padova, 1992, 301 e 306; Olivieri, I provvedimenti cautelari nel nuovo processo civile, in Riv. dir. proc., 688 ss. In giurisprudenza, va Trib. Palmi, 9 luglio 1998, in Giur. it., 1999, 1212 ss. e Trib. Venezia, 6 luglio 1998, in Riv. dir. int. priv. e proc., 1999, 92 ss. Secondo altra, e preferibile, impostazione esegetica, la devoluzione di una controversia ad arbitri esteri non sempre e non necessariamente vuol dire carenza di giurisdizione del giudice italiano, perché possono ben darsi ipotesi di arbitrato estero vertenti su controversie che, in assenza dell’accordo compromissorio, sarebbero state di competenza del giudice italiano: sottrazione della causa di merito alla giurisdizione del giudice italiano, ma non mancanza ab origine di quella stessa giurisdizione. In tutte queste ipotesi, dovrebbe venire in gioco in via prioritaria l’art. 669 quinquies c.p.c. perché, pure in presenza del patto per arbitrato estero, può essere individuato il giudice che, sul territorio della Repubblica, sarebbe stato virtualmente competente a conoscere della causa di merito. Tale conclusione sarebbe, altresì, avallata dalla mera – ma comunque significativa – constatazione che l’art. 669 quinquies c.p.c. non distingue in alcun modo tra arbitrato domestico e arbitrato estero di modo che la norma in questione sarebbe destinata ad operare in tutti i casi di patto arbitrale, essendo così applicabile tanto in caso di patto per arbitrato interno tanto in caso di patto per arbitrato estero. In tutte le altre ipotesi, in cui un giudice italiano competente a conoscere la causa di merito sarebbe comunque mancato, pure nell’assenza della convenzione per arbitrato estero, opererà in via sussidiaria l’art. 669 ter c.p.c. e la domanda cautelare andrà proposta al giudice, competente per materia o per valore, del luogo in cui il provvedimento deve essere eseguito. Questa è l’impostazione di Punzi, Disegno sistematico, cit., 219-220; Luiso, Arbitrato e tutela cautelare nella riforma del processo civile, in Riv. arb., 1, 1991, 256; Briguglio, Potestas iudicandi in materia cautelare ed arbitrato estero, in Riv. arb., 1, 2010, 41; Proto Pisani, La nuova disciplina del processo civile, Napoli, 1991, 385. V. anche Licci, La competenza cautelare nelle controversie devolute ad arbitri, in Riv. arb., 2, 2019, 359-360, la quale evidenzia correttamente che questa impostazione avrebbe anche il pregio di superare il problema di sceverare, caso per caso, tra arbitrato domestico ed arbitrato estero, soprattutto quando la sede dell’arbitrato non appaia ancora certa.

[11] V. Carnacini, voce Arbitrato rituale, in Noviss. dig. it., Torino, 1958, 893-894, per il quale quello posto dal vecchio art. 818 c.p.c. «è senza dubbio un divieto assoluto ed inderogabile, qualunque sia stata l’intenzione concorde delle parti al momento della stipulazione del compromesso o della clausola compromissoria»; cfr. Andrioli, sub art. 818, in Commento al codice di procedura civile, IV, terza ed. rived., Napoli, 1964, 850, il quale parla di «totalitarietà del divieto, cui le parti non possono derogare e la cui inosservanza deve essere rilevata d’ufficio dal giudice». Più recentemente v. La China, L’Arbitrato, Il sistema e l’esperienza, Milano, 2011, 163-164, il quale scrive di «vera giuridica impossibilità per gli arbitri di concedere sequestri od altri provvedimenti cautelari».

[12] V. Briguglio, sub art. 818, in Codice di procedura civile commentato, Romano Vaccarella e Giovanni Verde (a cura di), Torino, 1997, 818, per il quale «Il divieto ex art. 818 non impedisce ovviamente che i compromittenti attribuiscano agli arbitri, o – come prevedono alcuni regolamenti di arbitrato amministrato – ad apposito e diverso organo (v. le Rules for a Pre-arbitral Reféré Procedure della C.C.I.), il potere di disporre misure interinali, la cui attuazione si risolva sul piano esclusivamente privatistico, e la cui inattuazione dà luogo soltanto a tutela risarcitoria ovvero, de facto, ad una posizione di svantaggio nel successivo o coevo procedimento arbitrale»; Idem, sub art. 818, in La nuova disciplina dell’arbitrato, Commentario, Milano, 1994, 136-137; cfr. altresì Salvaneschi, Arbitrato, sub art. 818, in Commentario del codice di procedura civile, Sergio Chiarloni (a cura di), Bologna, 2014, 625-626; Punzi, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., 208; Biavati, Spunti critici sui poteri cautelari degli arbitri, testo scritto della relazione al convegno A.I.A. – Rivista dell’arbitrato su «L’ausilio giudiziario all’arbitrato tra sostegno, controllo e interferenza», tenutosi a Roma, presso l’Accademia Nazionale dei Lincei, il 3 dicembre 2012, in Riv. arb., 2, 2013, 329 ss., spec. 332-334. V. ancora Corea, sub art. 818, in Commentario alle riforme del processo civile, Antonio Briguglio e Bruno Capponi (a cura di), III, Tomo secondo, Padova, 2009, 838-839. Si veda anche, se si vuole, Carosi, Arbitrato e tutela cautelare: limiti di possibile derogabilità dell’art. 818 c.p.c. e relativi effetti, in Riv. arb., 1, 2021, 43 ss.

[13] V. sul punto le considerazioni di Briguglio, Il potere cautelare, cit., 789- 791 e spec. ivi alla nota 3. Ma v. anche Biavati, Spunti critici, cit., 333 e ivi la nota 6, ove l’A. annota che «Mi sembra di poter dire, però, che la generazione dei grandi Maestri del Novecento non si era confrontata con l’arbitrato nelle sue applicazioni di massa, come si sono date nelle ultime decadi del secolo scorso».

[14] In particolar modo a partire dalla riforma del diritto dell’arbitrato introdotta con il decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40 e in giurisprudenza dalla nota sentenza Corte Cost., 28 novembre 2001, n. 376, con nota di E.F. Ricci, La «funzione giudicante» degli arbitri e l’efficacia del lodo (un grand arrêt della Corte costituzionale), in Riv. dir. proc., 2, 2002, 351 ss., e poi Corte Cost., 3 luglio 2013, n. 223.

[15] Il profilo è trattato da Punzi, Disegno sistematico, cit., 206 e ivi spec. la nota 599. Cfr. Boccagna e De Santis, sub art. 818, in Commentario breve al diritto dell’arbitrato nazionale ed internazionale, Massimo Benedettelli, Claudio Consolo, Luca Radicati di Brozolo (a cura di), Milano, 2017, 320; Salvaneschi, Arbitrato, cit., 627-628; Villa, in Aa.Vv., L’arbitrato, Laura Salvaneschi e Andrea Graziosi (a cura di), Milano, 2020, 519; Bove, L’arbitrato nelle controversie societarie, in Giust. civ., II, 2003, 491; Corea, Commentario alle riforme, cit., 841.

[16] Così esplicitamente Punzi, Disegno sistematico, cit., 206, spec. la nota 599; Salvaneschi, Arbitrato, cit., 627-628; Villa, L’arbitrato, cit., 518-519; Ghirga, sub art. 818, in Aa.V.V., La nuova disciplina dell’arbitrato, Sergio Menchini (a cura di), Padova, 2010, 316.

[17] Cfr. Punzi, Luci ed ombre nella riforma dell’arbitrato, in Riv. trim. dir. proc. civ., II, 2007, 395 ss., spec. 425; Arieta, Trattato di diritto processuale civile, seconda edizione, XI, Padova, 2011, 819.

[18] Cfr. E.F. Ricci, Il nuovo arbitrato societario, in Riv. trim. dir. proc. civ., II, 2003, 517 ss., spec. 530; Corsini, L’arbitrato nella riforma del diritto societario, in Giur. it., 2003, 1285 ss., spec. 1297; La China, L’arbitrato, cit., 162-163; Biavati, Spunti critici, cit., 335, secondo cui il vecchio art. 35, comma quinto, c.p.c. costituiva «eccezione esplicita» al divieto di cui all’art. 818 c.p.c. ante riforma «Cartabia». Peculiare la puntualizzazione di Corea, Commentario alle riforme, cit., 842-843.

[19] Cfr. Gradi, in Punzi, Il processo civile, Sistema e problematiche, III, seconda ed., Torino, 2010, 219; Biavati, Spunti critici, cit., 335-336, il quale evidenzia che la sospensiva de qua è «un provvedimento self-executing, che non richiede una successiva coazione e che realizza l’interesse del richiedente, nel senso che, paralizzando gli effetti della delibera impugnata fino al lodo, consente all’impugnante di non mettere in pratica, legittimamente, i contenuti pregiudizievoli della delibera».

[20] V. Corea, Commentario alle riforme, 846-847, ove il particolare e condivisibile rilievo per cui «In realtà, né per la sospensione delle delibere societarie, né per le misure propriamente inibitorie può darsi per scontato che all’emanazione del provvedimento non possa seguire una fase attuativa, di controllo della «ottemperanza» al provvedimento da parte dello stesso giudice – e, in ipotesi, quindi, da parte dell’organo arbitrale – che lo ha emesso. Analogamente a quanto accade in altri settori del diritto, anche nelle impugnative societarie la sospensione, neutralizzando l’efficacia dell’atto e anticipando gli effetti della sentenza di annullamento (art. 2377 c.c.), vincola la società all’adozione dei provvedimenti necessari all’effettivo ripristino della situazione antecedente, che la sospensiva ha potuto realizzare solo a livello giuridico-normativo». Cfr. Idem, Profili del provvedimento cautelare di sospensione delle deliberazioni societarie, in Riv. dir. comm., 1, 2006, 35 ss. nonché Idem, La sospensione delle deliberazioni societarie nel sistema della tutela giurisdizionale, Torino, 2008, 274 ss.

[21] Cfr. Carnacini, voce Arbitrato rituale, cit., 894; D’Onofrio, sub. art. 818, in Commento al codice di procedura civile, II, terza ed. rived. e agg., Torino, 1953, 450, il quale distingue tra sequestri giudiziari e conservativi, da un lato, per i quali la spiegazione del divieto starebbe, per l’appunto, nel difetto di auctoritas degli arbitri, e procedimenti d’istruzione preventiva e procedimenti d’urgenza, dall’altro lato, per i quali la ragione della preclusione starebbe «nella incongruenza di una funzione arbitrale che sarebbe preliminare a quella della giurisdizione ordinaria»; Fazzalari, L’arbitrato, Torino, 1997, 398; Briguglio, Codice di procedura civile commentato, cit., 865; Idem, La nuova disciplina, cit., 136; Punzi, voce Arbitrato, in Enc. giur., II, Roma, 1988, 24; Salvaneschi, Arbitrato, cit., 627; Corea, Commentario alle riforme, cit., 838.

[22] V. Punzi, voce Arbitrato, cit., 24, il quale qualche pagina prima,  ossia spec. 3, nel ricostruire la posizione dell’arbitrato di fronte allo Stato, spiega con chiarezza come il dato caratterizzante del sorgere dello Stato sta proprio nella rivendicazione del monopolio della forza, per cui al privato è consentito di giudicare e risolvere una controversia, ma non di imporre con la forza la decisione assunta: quest’ultima attività, che potremmo chiamare di adeguamento della realtà materiale al precetto impartito, è riservata allo Stato, che la esercita attraverso propri organi a ciò preposti.

[23] Cfr. Andrioli, Commento al codice di procedura civ., cit., 760 e poi 850.

[24] Cfr. Coniglio, Il sequestro giudiziario e conservativo, terza ed. rived. e agg., Milano, 1953, 90.

[25] V. Satta-Punzi, Diritto processuale civile, Padova, 1987, 879. V. La China, L’arbitrato, cit., 164.

[26] Così Arieta, Note in tema di rapporti tra arbitrato rituale ed irrituale e tutela cautelare, in Riv. dir. proc., 3, 1993, 750.

[27] Lo pone in evidenza La China, L’arbitrato, cit., 164. Non a caso D’Onofrio, cit., 450, scriveva, a commento del vecchio art. 818 c.p.c., che «In sostanza, si è voluto, in questa materia, affine all’esecuzione, mantenere integra la competenza del giudice statuale».

[28] È del Carnelutti, Istituzioni del nuovo processo civile italiano, seconda ed., Roma, 1941, 61, l’idea per cui il potere di dare un comando e quello di farlo eseguire non potessero che darsi o negarsi insieme. Contra, cfr. Gradi, in Punzi, Il processo, cit., 219. Biavati, Spunti critici, cit., 334, cita, quali esempi di scissione tra il potere di emanare il provvedimento cautelare e quello di eseguirlo, l’art. 31 del Regolamento Bruxelles I e l’art. 35 del Regolamento Bruxelles I-bis.

[29] Come possono essere alcune cautele atipiche, quali, ad esempio, l’autorizzazione ad una parte a sospendere l’esecuzione di un contratto o ad effettuare i pagamenti su di un conto vincolato oppure la sospensione di una delibera dell’assemblea dei soci avente ad oggetto la decisione di alienare beni immobili; o tipiche, quale, ad esempio, la sospensione della delibera di esclusione del socio ex art. 2287 c.c. Cfr. sul punto Bernardini, L’arbitrato internazionale, Milano, 1987, 23; Briguglio, Codice di procedura civile commentato, cit., 866; Gradi, in Punzi, Il processo civile, 219.

[30] Cfr. Villa, L’arbitrato, cit., 516.

[31] Cfr. Luiso, Arbitrato e tutela cautelare nel processo civile, in Riv. arb., 2, 1991, 253 ss.; Idem, Appunti sull’arbitrato societario, in Riv. dir. proc., 3, 2003, 705 ss., spec. 724; Idem, Diritto processuale civile, IV, nona ed., Milano, 2017, 209, per il quale «Non si capisce il perché di tale regola, visto che l’arbitro può emettere una pronuncia di merito». Salvaneschi, Arbitrato, cit., 625-626; G.F. Ricci, sub art. 818, in Av.Vv., Arbitrato, Federico Carpi (a cura di), terza ed., Bologna, 2016, 589; Consolo, in Consolo-Luiso-Sassani, La riforma del processo civile, Milano, 1991, 457; Auletta, sub artt. 34-37, in Aa.Vv., La riforma delle società. Il processo, Bruno Sassani (a cura di), Torino, 2003, 352. V. di recente Briguglio, Il potere cautelare, cit., 789-791 e sempre spec ivi la nota 3.

[32] È noto, infatti, che le norme del procedimento cautelare uniforme sulla competenza, ossia gli artt. 669 ter e 669 quater c.p.c., si ispirano al principio del cumulo della potestas cautelare in capo allo stesso giudice che è realmente competente per il merito, per cui la domanda di cautela va proposta o dinanzi al giudice che è competente per il merito, quando il giudizio di cognizione non sia stato ancora introdotto, o dinanzi al giudice già adito per il merito, quando il giudizio di cognizione già penda. V. sul punto Licci, La competenza, cit., 339.

[33] Sul rilievo costituzionale della tutela cautelare cfr. Arieta, Trattato, cit., 8 ss. Sul principio di effettività della tutela giurisdizionale e sulla tutela cautelare come elemento imprescindibile della stessa v. Verde, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, quinta ed., Torino, 2015, 78. Cfr. anche Villa, L’arbitrato, cit., 516 e ivi la nota 5. V. Corte di giustizia, 19 giugno 1990, C-213/89, Factortame Ltd. V. pure la Relazione illustrativa della Commissione presieduta dal Prof. Francesco Paolo Luiso alle proposte in materia di arbitrato del 24 maggio 2021.

[34] Un exequatur del tutto sui generis perché non perequabile a quello previsto dall’art. 825 c.p.c. per il lodo rituale ai fini della sua esecutorietà, ma rivolto a conferire al provvedimento cautelare arbitrale l’idoneità all’attuazione. V. sul punto Auletta, Cognizione sommaria e giudizio arbitrale, in Diritto dell’arbitrato rituale, Giovanni Verde (a cura di), Torino, 2000, 360; v. pure Corea, Commentario, cit., 840. Contra Arieta, Note in tema, per il quale l’attitudine all’attuazione sarebbe caratteristica intrinseca ed immanente di ogni provvedimento cautelare, onde non sarebbe teorizzabile un controllo formale esterno che condizionasse quella efficacia.

[35] Cfr. Carpi, I procedimenti cautelari e l’esecuzione nel disegno di legge per la riforma urgente del c.p.c., in Riv. trim. dir. proc. civ., 1990, 1259; Verde, Lineamenti, cit., 78; G.F. Ricci, sub art. 818, cit., 590; Punzi, Disegno sistematico, cit., 208-209, dove il condivisibile avvertimento per cui «un’ipotetica modifica del sistema non potrebbe limitarsi alla previsione di un decreto di esecutività del provvedimento autorizzativo emanato dagli arbitri, ma dovrebbe prevedere quanto meno le stesse garanzie in tema di modifica, revoca e dichiarazione di inefficacia del provvedimento cautelare, assicurate dal giudice ordinario»; Corea, Commentario, cit., 839, e ivi la nota 6.

[36] V. per riferimenti bibliografici retro le note 11 e 12.

[37] V. Carlevaris, La tutela cautelare nell’arbitrato internazionale, Padova, 2006, spec. 586 ss; Idem, Commento, cit., 37 ss. V. anche Bernardini, Arbitrato internazionale e misure cautelari, in Riv. arb., 1, 1993, 13 ss.; Tommaseo, Lex fori e tutela cautelare, in Riv. arb., 1, 1999, 9 ss.; Pozzi, Arbitrato e tutela cautelare: profili comparatistici, in Riv. arb., 1, 2005, 17 ss.

[38] V. Briguglio, Il potere cautelare, cit., 791-792 e ivi spec. la nota 9. Cfr. anche Farina, La riforma Cartabia, cit., 1194.

[39] Il che secondo Biavati, Spunti critici, cit., 337 sarebbe pure confermato dal comma sesto dell’art. 832 c.p.c., perché, se è ivi disposto che «Se l’istituzione arbitrale rifiuta di amministrare l’arbitrato, la convenzione d’arbitrato mantiene efficacia e si applicano i precedenti capi di questo titolo», deve ritenersi che sia vero pure il contrario, e cioè che, se l’istituzione arbitrale amministra l’arbitrato, è ammessa la deroga a tutti «i precedenti capi di questo titolo», di cui pure l’art. 818 c.p.c. è parte.

[40] V. Carnacini, voce Arbitrato rituale, cit., 893-894; Andrioli, Commento, cit., 850; G.F. Ricci, Arbitrato, cit., 339; più di recente, La China, L’Arbitrato, cit., 163-164, che postula di «giuridica impossibilità per gli arbitri di concedere sequestri od altri provvedimenti cautelari, sì che, ove li concedessero, questi sarebbero addirittura da considerarsi inesistenti».

[41] Cfr. Briguglio, Codice di procedura civile commentato, cit., 865-866; Idem, La nuova disciplina, cit., 136-137; altresì Salvaneschi, Arbitrato, cit., 625-626; Punzi, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., 208; Biavati, Spunti critici, cit., 329 ss., spec. 332-334; Corea, Commentario, cit., 838-839.

[42] Cfr. su tutti Briguglio, Codice di procedura civile commentato, cit., 866.

[43] Cfr. Briguglio, La nuova disciplina, cit., 136.

[44] V. Carosi, Arbitrato e tutela cautelare, cit., 43 ss.

[45] Cfr. Gradi, in Punzi, Il processo civile, cit., 219; Idem, Disegno sistematico, cit., 208. V. anche Salvaneschi, Arbitrato, cit., 625-626.

[46] Cfr. Briguglio, Il potere cautelare, cit., 791 e ivi spec. la nota 6. La soluzione scelta dal legislatore italiano è peculiare nel contesto internazionale. Infatti, molte delle più evolute legislazioni nazionali – v., ad esempio, l’art. 374, comma primo, del codice di diritto processuale civile svizzero, l’art. 183, comma primo, della legge svizzera di diritto internazionale privato, l’art. 1033 del ZPO, l’art. 23 della Ley 20/2003, la Section 38 dello UK Arbitration Act –presuppongono il potere degli arbitri di concedere provvedimenti, salva diversa volontà manifestata dalle parti del patto arbitrale. V. sul punto in senso critico verso l’opzione italiana Carlevaris, Commento, cit., 39.

[47] V. la giusta osservazione di Farina, La riforma Cartabia, cit., 1193.

[48] Cfr. Farina, La riforma Cartabia, cit., 1193.

[49] Su cui tornerò più nel dettaglio infra, par. 13.

[50] Cfr. Carlevaris, Commento, cit., 39.

[51] La questione è senza dubbio significativa rispetto all’arbitrato ad hoc; mentre, mi sembra di scarsa rilevanza se riferita all’arbitrato amministrato, per il quale il richiamo al regolamento arbitrale, comprensivo pure delle clausole attributive di poteri cautelari, rende difficile ipotizzare che la potestà cautelare degli arbitri sia sancita in forza di un successivo atto scritto.

[52] Cfr. sul punto Farina, La riforma Cartabia, cit., 1194-1195 e ivi la nota 11.

[53] La dicotomia tra litispendenza in senso ampio o statico, intesa come pendenza della lite, e litispendenza in senso stretto o dinamico ex art. 39, comma primo, c.p.c., intesa come contemporanea pendenza di più processi relativi alla stessa causa, risale a Chiovenda, Sulla «perpetuatio iurisdictionis», in Saggi di diritto processuale civile, I, 1930, I, Roma, 1930, 296; Idem, Rapporto giuridico processuale e litispendenza, ivi, II, Roma, 1931, 375. Tale dicotomia è stata, poi, ripresa da Colesanti, voce Litispendenza (diritto processuale civile), in Noviss. dig. it., IX, terza ed., Torino, 1963, 976 ss.; Redenti, Diritto processuale civile, I, Milano, 1954, 211; Liebman, Manuale di diritto processuale civile, seconda ed., I, Milano, 1957, 387. Nega tale distinzione, proponendo invece l’unificazione della nozione di litispendenza sotto il fenomeno unitariamente descritto dall’art. 39, comma primo, c.p.c., Sorace, voce Litispendenza (dir. proc. civ.), in Enc. dir., XXIV, Varese, 1974, 841 ss. Sulla specifica nozione di litispendenza arbitrale v. Punzi, Disegno sistematico, cit., 43 ss.; cfr. altresì il lavoro monografico di Muroni, La pendenza del giudizio arbitrale, Torino, 2008.

[54] V. in argomento Briguglio, Il potere cautelare, cit., 791-792 e spec. la nota 10; v. anche Farina, La riforma Cartabia, cit., 1194-1195, e spec. la nota 11.

[55] Cfr. Farina, La riforma Cartabia, cit., 1195, spec. la nota 11. L’A., in ogni caso, ammette che il conferimento della potestas cautelare agli arbitri possa avvenire anche dopo l’instaurazione del giudizio arbitrale, ossia nel corso dello stesso, ove ciò sia l’effetto della concorde volontà delle parti, manifestata espressamente o per facta concludentia (ad esempio non eccependo l’improponibilità della domanda cautelare avanzata agli arbitri da una delle parti), e con il consenso degli arbitri medesimi (i quali decidano nel «merito» della domanda cautelare, senza alcunché a loro volta rilevare).

[56] Così Punzi, Disegno sistematico, cit., 43.

[57] Cfr. Zanzucchi, Diritto processuale civile, II, sesta ed., Milano, 1964, 17.

[58] Cfr. Punzi, Disegno sistematico, cit., 48

[59] Cfr. Punzi, Disegno sistematico, cit., 48, sottolinea che il patto compromissorio «è fonte di un duplice rapporto tra le parti e tra le parti e gli arbitri, duplice rapporto che si deve perfezionare». Codovilla, Del compromesso e del giudizio arbitrale, seconda ed., Torino, 1915, 385, annota che «e se manca il giudice non si ha possibilità di atti iniziativi del giudizio». Contra, la dottrina più remota, spec. Amar, Dei giudizi arbitrali, seconda ed., Torino, 178, per il quale, sulla scorta della premessa del compromesso visto non solo come contratto, ma anche come atto facente le veci della citazione in giudizio, «il compromesso genera la litispendenza, perché essa deriva appunto dall’apertura di un giudizio».

[60] Così testualmente Schizzerotto, Arbitrato, Milano, 1958, 272.

[61] Cfr. Mortara, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, III, seconda ed. riv., Torino, 141-142.

[62] Cfr. De Nova, in Aa.Vv., L’arbitrato, Laura Salvaneschi e Andrea Graziosi (a cura di), Milano, 2020, 20-21, il quale evidenzia «l’importanza che la costituzione del collegio arbitrale avvenga in un’udienza apposita, che deve vedere la presenza dei difensori delle parti, muniti, come già si è detto, dei necessari poteri anche ai fini dell’art. 816-bis c.p.c.».

[63] Cfr. Schizzerotto, Arbitrato, cit., 271 ss., spec. 273. Cfr. G.F. Ricci, sub art. 816 bis, in Aa.V.V., cit., 400, secondo il quale «l’inizio del procedimento vero e proprio» si verifica con l’accettazione. Cfr. Fazzalari, voce Arbitrato (teoria gen. e dir. proc. civ.), in Dig. it., disc. priv., sez. civ., I, Torino, 1987, 398; Idem, voce Processo arbitrale, in Enc. dir., XXXVI, Milano, 1987, 307, il quale afferma proprio che, dal momento dell’accettazione degli arbitri, si perfeziona la locatio operis fra loro e le parti ed il processo arbitrale pende.

[64] Cfr. Punzi, Disegno sistematico, cit., 50.

[65] V. in questo senso, oltre all’A. citato retro alla nota 62, Schizzerotto, Arbitrato, cit., 273.

[66] V. Carnacini, voce Arbitrato rituale, cit., 888; G.F. Ricci, sub art. 816 bis, cit., 398-400. De Nova, cit., 51.

[67] Sulla nozione di «domanda arbitrale qualificata», intesa come atto atipico (perché definito solo dai modi di presentazione e dai suoi contenuti) e composito (perché risultato della combinazione di plurimi elementi, quali la manifestazione della volontà di promuovere l’arbitrato, la nomina dell’arbitro e la proposizione della domanda), v. Salvaneschi, La domanda di arbitrato, in Riv. dir. proc., 1995, 645 ss.; Tommaseo, La domanda di arbitrato, in Riv. arb., 2, 2001, 169 ss.; Borghesi, La domanda di arbitrato, in Riv. trim. dir. proc. civ., 901 ss. Per una ricostruzione complessiva della portata della riforma del 1994 v. Muroni, La pendenza, cit., 60 ss.

[68] Cfr. quanto detto appena retro alla nota 67 a proposito del carattere atipico e composito della «domanda arbitrale qualificata».

[69] Cfr. Salvaneschi, La domanda, cit., 649; cfr. Borghesi, La domanda, cit., 911-912, il quale associa la litispendenza arbitrale alla proposizione della domanda di arbitrato.

[70] Cfr. Mortara, Commentario, cit., 141, il quale osserva che «Le parti devono convenire intorno alla forma e all’oggetto della lite e al giudice presso il quale vogliono svolgerla; il giudice deve accettare l’ufficio; dopo ciò il processo può incominciare».

[71] Cfr. su tutti Punzi, Disegno sistematico, cit., 49-53.

[72] Cfr. sul punto le pragmatiche ed assai pregnanti osservazioni di De Nova, L’arbitrato, cit., 21.

[73] Cfr. Carlevaris, Commento, cit., 40. Sul tema cfr. anche diffusamente Farina, La riforma Cartabia, cit., 1194 ss., della cui opinione si è già dato atto retro, alla nota 55.

[74] Il fatto che l’interferenza del giudice statuale, anche forte, possa riproporsi in un secondo momento, e cioè al momento dell’eventuale reclamo ex art. 818 bis c.p.c., è altra questione.

[75] Ammette un accordo posteriore all’instaurazione del processo arbitrale anche Briguglio, Il potere cautelare, cit., 792 e ivi la nota 10, il quale argomenta sulla base dell’ulteriore argomento per cui il criterio direttivo che era stato impartito dalla legge delega parlava solo di «atto scritto successivo» alla convenzione arbitrale e non di «atto scritto anteriore all’instaurazione del giudizio arbitrale», di modo che «il retaggio della legge delega e le considerazioni fin qui svolte potrebbero ragionevolmente consentire una interpretazione adeguatrice dell’art. 818, c. 1, tale per cui quel patto sia efficacemente attributivo di potestà cautelare agli arbitri purché da questi accettato (…)».

[76] Cfr. sempre Briguglio, Il potere cautelare, cit., 792 e ivi la nota 10.

[77] Cfr. De Nova, Arbitrato, cit., 22.

[78] Come accadrebbe nel caso di una domanda cautelare proposta da una parte in corso di arbitrato, non contestata in via di eccezione dall’altra per difetto del previo accordo scritto attributivo di potestas cautelare agli arbitri, di cui gli stessi arbitri delibino il merito senza a loro volta alcunché rilevare. Cfr. al riguardo le osservazioni di Farina, La riforma Cartabia, cit., 1195-1197.

[79] Sul punto rinvio di nuovo a Farina, La riforma Cartabia, cit., 1195 e ivi anche la nota 14.

[80] Cfr., in senso decisamente critico verso la scelta legislativa, Carlevaris, Commento, 41. Contra, e cioè per una valutazione di sostanziale favore della esclusività della potestas cautelare degli arbitri, Salvaneschi, L’arbitrato nella legge delega, cit., 614 ss., spec. 625 e ivi la nota 17; anche Briguglio, Il potere cautelare, cit., spec. 792-793, mostra una sostanziale apertura verso l’opzione praticata, di cui non nega le criticità, tra le quali vi è proprio il caso in cui la domanda di cautela sia indirizzata dalla parte compromittente (anche) nei confronti di soggetti estranei alla convenzione arbitrale e, quindi, da essa non astretti; cfr. infine Tota, I poteri cautelari, cit., 176.

[81] Cfr. sul punto le precipue osservazioni di Briguglio, Il potere cautelare, cit., 794.

[82] Cfr. Salvaneschi, L’arbitrato nella legge delega, cit., 626, la quale evidenzia che la reclamabilità è scelta discussa e nevralgica «sia perché rappresenta un’ingerenza del giudice nell’ambito del procedimento cautelare, sia perché il modello societario di partenza prevedeva che l’ordinanza di sospensiva emanata dagli arbitri fosse espressamente «non reclamabile».

[83] Così Briguglio, Il potere cautelare, cit., 794.

[84] Cfr. Briguglio, Il potere cautelare, cit., 795 e ivi la nota 20. In argomento, v. Villa, Una poltrona per due: la sospensione delle delibere assembleari fra giudice privato e giudice statuale, in Riv. arb., 2, 2009, 311.

[85] Cfr. Briguglio, Il potere cautelare, cit., 795.

[86] Si è detto supra dell’importanza dell’accettazione degli arbitri quale atto indispensabile per il perfezionarsi del rapporto processuale arbitrale e momento determinativo della litispendenza arbitrale in senso ampio.

[87] Cfr., a titolo meramente esemplificativo, gli artt. 19, 20, 21, 24 del Regolamento arbitrale della Camera Arbitrale di Milano.

[88] Un terreno di approfondimento va senz’altro individuato nelle interrelazioni possibili tra l’art. 818, comma secondo, c.p.c. e quelle forme di arbitrato d’urgenza, previste da alcuni regolamenti arbitrali (cfr. Appendice V del Regolamento di arbitrato della I.C.C. o l’art. 44 del Regolamento di arbitrato della C.A.M.), che consentono alla parte interessata, prima ancora che la domanda di arbitrato sia stata depositata o comunque nelle more della costituzione del tribunale arbitrale, di attivare un procedimento volto alla nomina di un arbitro d’urgenza, a cui proporre la domanda di tutela cautelare. La relatio al regolamento di arbitrato, in forza della convenzione arbitrale che lo richiami, pone la questione se la possibilità di ricorrere all’arbitro d’urgenza possa far considerare abbattuto il diaframma temporale di cui all’art. 818, comma secondo, c.p.c. e la competenza cautelare radicata in via esclusiva in capo all’arbitro (d’urgenza) o se altro e diverso debba essere il criterio di coordinamento tra le due potestà (almeno) potenzialmente concorrenti di giudice privato e giudice ordinario. Il problema della compatibilità tra l’art. 818, comma secondo, c.p.c. e le forme di arbitrato d’urgenza, richiama tre possibili scenari:

1)il primo è quello della permanenza della competenza cautelare esclusiva in capo al giudice statuale ex 818, comma secondo, c.p.c., il quale, quindi, dovrebbe prevalere sulle disposizioni regolamentari disciplinanti l’arbitro d’urgenza, il quale, se sollecitato, potrebbe al più emettere provvedimenti interinali ad efficacia meramente privatistica. Questa impostazione valorizza il rilievo della condizione posta dall’art. 818, comma secondo, c.p.c., che è quella dell’accettazione dell’arbitro unico o della costituzione del collegio arbitrale, concetti a cui sarebbe estranea la figura dell’arbitro d’urgenza;

2)il secondo scenario è quello che la possibilità di adire l’arbitro d’urgenza realizzi la condizione posta dall’art. 818, comma secondo, c.p.c., per cui la competenza cautelare sarà collocata esclusivamente sull’arbitro d’urgenza, anche se non è ancora intervenuta l’accettazione dell’arbitro unico o la costituzione del collegio arbitrale;

3) il terzo scenario è quello della competenza concorrente tra giudice statuale e arbitro d’urgenza, per cui la parte sarebbe libera di scegliere l’organo a cui rivolgere la domanda di tutela cautelare.

Io ritengo che, tra tutte le soluzioni possibili, la più coerente sia quella sub b), adattata però in modo tale da riproporre per l’arbitro d’urgenza lo stesso, identico, schema di concorrenza diacronica di cui si è parlato a proposito del riparto di competenza cautelare tra giudice statuale e arbitri ai sensi dell’art. 818, comma secondo, c.p.c. Lo spartiacque temporale varia nel senso che, rispetto all’arbitro d’urgenza, esso non è quello dell’accettazione dell’arbitro unico o della costituzione del collegio arbitrale, bensì quello dell’accettazione o della costituzione dell’arbitro d’urgenza. Per cui, fintanto che quella accettazione o quella costituzione non vi sia, residua comunque uno spazio di competenza cautelare esclusiva per il giudice statuale, secondo lo schema dell’art. 818, comma secondo, c.p.c., per l’appunto traslato sull’arbitro d’urgenza.

[89] Cfr. sul punto i rilievi di Briguglio, Il potere cautelare, cit., 796-800.

[90] Sulla rilevanza del principio della perpetuatio iurisdictionis quale regola generale per la individuazione del momento determinate della competenza pure nei rapporti tra potestas cautelare giudiziale e potestas cautelare arbitrale cfr. le osservazioni di Briguglio, Il potere cautelare, cit., 798-799. Cfr. anche Tota, I poteri cautelari, cit., 176; Farina, La riforma Cartabia, cit., 1202 e ivi anche la nota 27.

[91] Questa seconda accezione della perpetuatio iurisdictionis risponde non tanto ad una esigenza di certezza, quanto piuttosto a ragioni di economia processuale, per cui il giudice adito, se inizialmente incompetente, non può dichiarare il proprio difetto di competenza o di giurisdizione se sopravvenga nel corso del giudizio un criterio di collegamento tra la controversia e l’ufficio giudiziario adito. Cfr. Martino, sub art. 5, in Aa.Vv., Codice di procedura civile commentato, Romano Vaccarella e Giovanni Verde (a cura di), I, Torino, 1997, 124-126. Cfr. altresì Franchi, voce Giurisdizione civile, in Enc. giur., XV, Roma, 1989, 11. In giurisprudenza è principio risalente: v. Cass., 21 febbraio 1990, n. 1292; Cass., 11 febbraio 1980, n. 964.

[92] Cfr. Briguglio, Il potere cautelare, cit., 797-798.

[93] Cfr. Farina, La riforma Cartabia, cit., 1199 e spec. ivi la nota 21.

[94] Cfr. Mandrioli-Carratta, Diritto processuale civile, IV, 285-288, ma spec. 285-286, nota 19; Vaccarelli, in Punzi, Il processo civile, cit., 41; cfr. anche Verde, Appunti sul procedimento cautelare, in Foro it., V, 1992, 432 ss.  Cfr. in giurisprudenza Trib. Torino, 24 aprile 2012, in Giur. it., 4, 2013, 924 ss., con nota adesiva di Dalmotto. Contra, Arieta, in Montesano-Arieta, Il nuovo processo civile, Napoli, 1991, 126, per il quale l’art. 28 c.p.c. sancirebbe la inderogabilità della competenza cautelare, per cui, laddove le parti avessero stabilito una diversa competenza per il merito, l’istanza di cautela andrebbe comunque proposta al giudice competente secondo i criteri legali.

[95] Cfr. Fabbi, sub art. 28, in Aa.Vv., Codice di procedura civile Picardi, Roma Vaccarella (a cura di), I, VII ed., Milano, 2021, 234 nonché R. Giordani, sub art. 669 ter, ivi, 4091 e 4095-4096. Cfr. Mandrioli-Carratta, Diritto processuale, cit., 285-288; Sabatino Vaccarelli, in Punzi, Il processo civile, cit., 39-43.

[96] Cfr. sempre Verde, Appunti, cit., 435, il quale osserva che «La competenza del giudice cautelare, per quanto inderogabile, è un posterius rispetto alla competenza del giudice del merito, in quanto viene ricavata da quest’ultima».

[97] Cfr. Verde, Appunti, cit., 432 ss. e spec. 434.

[98] Così Briguglio, Il potere cautelare, cit., 797-798.

[99] La norma in questione disciplina l’ordinanza quale provvedimento tipico con cui il giudice rigetta la domanda cautelare e l’ordinanza, a differenza del decreto, è provvedimento emanabile solo dopo l’audizione delle parti. Cfr. al riguardo Verde, Appunti, cit., 434.

[100] Cfr. sul punto sempre Briguglio, Il potere cautelare, cit., 798.

[101] Cfr. Briguglio, Il potere cautelare, cit., 804-805; v. anche i rilievi di Farina, La riforma Cartabia, cit., 1203 ss.

[102] Gli arbitri, a tal fine, potranno o comunicare loro stessi il ricorso e il provvedimento alla parte intimata o assegnare al ricorrente un termine per provvedervi, auspicabilmente perentorio, con l’avvertenza che, in tal caso, essi dovranno avvisare le parti di tale perentorietà e delle conseguenze connesse alla inosservanza del termine, onde assicurare la prevedibilità delle regole ed evitare la ex post facto rule. Per una critica all’antico, e per nulla condivisibile, dogma per cui gli arbitri, poiché sprovvisti di imperio, non potrebbero assegnare termini perentori cfr. Briguglio, Riflessioni sulla prova nell’arbitrato, fra individuazione delle regole applicabili e flessibilità arbitrale (con una esercitazione conclusiva sulla «non contestazione»), in Riv. arb., 3, 2013, 878 e ivi la nota 41. Cfr. inoltre Salvaneschi, Procedimento arbitrale: via libera agli arbitri sui termini perentori, in Corr. giur., 2016, 1272 ss. Cfr. infine, se si vuole, Carosi, L’istruttoria arbitrale alla luce del principio di flessibilità e i riflessi sull’applicazione della regola della «non contestazione», in Riv. arb., 3, 2022, 576-577.

[103] Cfr. Briguglio, Il potere cautelare, cit., 805.

[104] Cfr. Punzi, Disegno sistematico, cit., 209.

[105] Cfr. Briguglio, Il potere cautelare, cit., 800. In questo senso anche Farina, La riforma Cartabia, cit., 1214. V. sull’art. 669 septies, comma primo, c.p.c., Mandrioli-Carratta, Diritto processuale, cit. 295. Cfr. Vaccarelli, in Punzi, Il processo civile, cit., 47; cfr. Giordano, sub art. 669 septies, in Aa.Vv., Commentario del codice di procedura civile, Luigi Paolo Comoglio, Claudio Consolo, Bruno Sassani, Romano Vaccarella (diretto da), VII, Tomo primo, Milano, 2014, 1146-1152.

[106] Cfr. sul punto Farina, La riforma Cartabia, cit., 1215.

[107] Questa è la condivisibile opinione di Rasia, Prime riflessioni sul progetto della commissione Luiso in materia di arbitrato, in Riv. trim. dir. proc. civ., 4, 2021, 1062, il quale alla nota 18 richiama il parallelismo con l’art. 1468, par. 2, c.p.c. francese.

[108] Si segnala che l’art. 669 novies, comma secondo, c.p.c. è stato emendato in sede di riforma con la rimozione della previsione secondo la quale, in caso di contestazione sulla tardiva instaurazione del giudizio di merito, questa sarebbe stata decisa dall’ufficio giudiziario al quale apparteneva il giudice che aveva emesso il provvedimento cautelare con sentenza provvisoriamente esecutiva. Nell’attuale formazione della norma de qua, in entrambi i casi contemplati dal primo comma della stessa, il giudice, convocate le parti e garantito il contraddittorio, adotta con ordinanza i provvedimenti di cui al comma secondo, se ne accerta la ricorrenza dei presupposti.

[109] Cfr. Farina, La riforma Cartabia, cit., 1271 e ivi la nota 75.

[110] Cfr. sul punto Giordano, sub art. 669 novies, in Aa.V.V, cit., 4152.

[111] Riferimenti al tema in Farina, La riforma Cartabia, cit., 1218 nonché in Giordano, sub art. 669 novies, in Aa.Vv., cit., 4152.

[112] Cfr. Farina, La riforma Cartabia, cit., 1217 e ivi la nota 75.

[113] Cfr. Briguglio, Il potere cautelare, cit., 808, il quale evidenzia come «è chiaro che il reclamo cautelare dà esca ad una notevole intrusione della giurisdizione nel cuore della vicenda arbitrale in corso».

[114] Cfr. infra, par. 11.

[115] Cfr. Briguglio, Il potere cautelare, cit., 806-807, il quale annota che «il controllo del giudice statuale non consente un riesame nel merito del provvedimento arbitrale, così come non è consentito un tale riesame in sede di controllo impugnatorio avverso il lodo».

[116] Cfr. sul punto Tota, I poteri cautelari, cit., 179.

[117] Sotto questo aspetto non si condividono i pur interessanti rilievi di Farina, La riforma Cartabia, cit., 1208 e ivi la nota 43 per il quale, in un caso del genere, la corte d’appello non potrebbe comunque impartire la cautela perché, provenendo il provvedimento da arbitri incompetenti, rivivrebbe la competenza ex art. 669 quinquies c.p.c. del giudice ordinario, la quale sarebbe di fatto bypassata se si ammettesse la possibilità di pronuncia in unico grado cautelare da parte del diverso giudice del reclamo ex art. 669 terdecies c.p.c.

[118] Sulla tutela cautelare e il principio di effettività della tutela giurisdizionale, cfr. tra le molte Corte Cost., 30 novembre 2007, n. 403 nonché Corte Cost., 7 luglio 2010, n. 236.

[119] Cfr. in questo senso Briguglio, Il potere cautelare, cit., 810.

[120] Cfr. sul punto le osservazioni di Briguglio, Il potere cautelare, cit., 808.

[121] Cfr. sul punto Farina, La riforma Cartabia, cit., 1210.

[122] Briguglio, Il potere cautelare, cit., 807, osserva proprio in tal senso che «In realtà i motivi ex art. 829, c. 1, quelli cioè corrispondenti agli errores in procedendo arbitrali, sono in astratto quasi tutti, con eventuali adattamenti, compatibili con il reclamo cautelare avverso il provvedimento arbitrale, vuoi concessivo, vuoi negatorio della cautela». Contra, Carlevaris, in Aa.Vv., Commento, cit., 48.

[123] Cfr. Farina, La riforma Cartabia, cit., 1210 e ivi la nota 49.

[124] Sull’errore tipografico che connota l’art. 817, comma secondo, c.p.c. cfr. Boccagna, sub art. 817, in Aa.Vv., Commentario breve al diritto dell’arbitrato nazionale ed internazionale, Massimo Benedettelli, Claudio Consolo e Luca Radicati di Brozolo (a cura di), seconda ed., Milano, 2017, 416.

[125] Cfr. le osservazioni di Briguglio, Il potere cautelare, cit., 809-810, il quale evidenzia che il reclamo sarebbe in un simile caso inammissibile, senza, però, che la mancata eccezione ex art. 817, comma secondo, c.p.c. possa configurare un valido accordo tacito attributivo della potestas cautelare agli arbitri, la cui legittimità sarebbe esclusa dalla forma prevista dall’art. 818 c.p.c.

[126] Cfr. sempre Briguglio, Il potere cautelare, cit., 808-809.

[127] Cfr. retro le note 34 e 35.

[128] Briguglio, Il potere cautelare, cit., 819, evidenzia che in tal modo il legislatore delegato ha voluto superare, quantomeno ai fini della competenza giudiziale, la contrapposizione tra attuazione di provvedimenti cautelari aventi ad oggetto somme di denaro ed attuazione di provvedimenti cautelari aventi ad oggetto consegna, rilascio, fare o non fare, così dissipando qualsiasi dubbio sul giudice sotto il cui controllo l’attuazione deve avvenire. Il che è, d’altronde, confermato dal secondo comma dell’art. 818 ter c.p.c., il quale, nel fare salvi gli artt. 677 ss. c.p.c. per l’esecuzione dei sequestri concessi dagli arbitri, conferma che «Competente è il tribunale previsto dal primo comma».

[129] Cfr. Briguglio, Il potere cautelare, cit., 821 e poi 822.

[130] Cfr. Farina, La riforma Cartabia, cit., 1221 e ivi la nota 86.

[131] Si consideri anche che il sistema sperimenta già ipotesi di recepimento automatico di provvedimenti giurisdizionali in materia civile e commerciale formatisi in ordinamenti giuridici esteri. Si pensi al Regolamento UE, 12 dicembre 2012, n. 1215 («Bruxelles I-bis»), il quale consente la libera di circolazione, senza necessità di previo exequatur, non solo delle sentenze, ma anche dei provvedimenti cautelari emanati da un’autorità giurisdizionale competente a conoscere del merito (v. il considerando n. 33 e poi l’art. 2, lett. a) nonché l’art. 42, comma secondo).

[132] Cfr. sul punto Briguglio, Il potere cautelare, cit., 821.

[133] Cfr. in argomento, e in particolare sui vari aspetti della trasmigrazione e del riordino dell’arbitrato societario, Salvaneschi, L’arbitrato nella legge delega, cit., 631-633; Idem, in Aa.Vv., Commento, cit., 73-85.

[134] Cfr. Briguglio, Il potere cautelare, cit., 791, il quale fa intendere che l’inibitoria ex vecchio art. 35, comma quinto, del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 e nuovo art. 838 ter, comma quarto, c.p.c. rimanga tutt’oggi la sola ipotesi di competenza cautelare ex lege e, dunque, non mediata da un esplicito conferimento ad opera delle parti.

[135] Cfr. sul punto i rilievi di Salvaneschi, in Aa.Vv., Commento, cit., 81-82, la quale, nell’analisi a prima lettura dei principi e criteri direttivi della legge delega, aveva avvertito della necessità di prestare attenzione al caso della domanda di inibitoria a collegio arbitrale non ancora costituito.

[136] Cfr. Villa, Una poltrona per due, cit., 311.

[137] Sul punto v. Briguglio, Il potere cautelare, cit., 791 e ivi la nota 8. Sulla tassatività di questa disciplina, sebbene a proposito dell’art. 35 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, v. Boccagna e Izzo, sub artt. 34 e 35, in Aa.Vv., Commentario breve, cit., 476 ss.

[138] Cfr. i rilievi di Salvaneschi, in Aa.Vv., Commento, cit., 83-84.

[139] Così seguendo, ad esempio, le precipue indicazioni che a prima lettura giunsero da Salvaneschi, in Aa.Vv., Commento, 83-84.

[140] Cfr. sul punto ancora Salvaneschi, in Aa.Vv., Commento, spec. 84, la quale aggiunge l’ulteriore argomento per cui «Proprio nell’unica materia in cui il potere cautelare degli arbitri era già conosciuto, sarebbe infatti davvero discutibile pensare che il giudice ordinario in sede di reclamo possa entrare nel merito della decisione arbitrale, con evidenti interferenze e ricadute sul corso successivo dell’arbitrato».

[141] Cfr. Cecchella, L’arbitrato, Torino, 1991, 44 ss.; Fazzalari, L’arbitrato, Torino, 1997, 22 ss.; Luiso, Diritto processuale civile, IV, 3° ed., Milano, 2000, 312; Punzi, Disegno sistematico, cit., 619 ss.; Sassani, L’arbitrato a modalità irrituale, in questa Riv. arb., 1, 2007, 25-26.

[142] Cfr. Punzi, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., 623-625. Così Sassani, L’arbitrato a modalità irrituale, cit., 37 ss. Ma v. anche Luiso e Sassani, La riforma del processo civile, Milano, 2006, 263, i quali affermano proprio che «Tutte le norme che il codice prevede per l’arbitrato rituale sono applicabili all’arbitrato irrituale, salvo una diversa volontà delle parti».

[143] Lo si evince dalla Relazione illustrativa al comma cinquantadue dell’art. 3, lett. c) del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149, la quale rileva che «(…) la garanzia del reclamo viene dall’articolo 818 bis del codice di procedura civile limitata ai soli motivi di cui all’articolo 829, primo comma, del codice di rito, in quanto compatibili, oltre che al caso della contrarietà all’ordine pubblico. Tale previsione intende porsi in conformità con l’ambito di impugnazione nei confronti del provvedimento decisorio finale del giudizio, istituendo un parallelismo tra i possibili motivi di impugnazione del lodo, previsti nello specifico catalogo di errores in procedendo di cui all’articolo 829, primo comma, del codice di procedura civile, in quanto compatibili (…) e le possibili censure spendibili nei confronti del provvedimento interinale, che abbia accolto o rigettato la richiesta di misura cautelare. (…) non sarebbe stato logico, in effetti, attribuire in sede di reclamo cautelare un generale controllo di merito e con esso un sindacato più ampio di quello stabilito dal legislatore nei confronti del provvedimento decisorio finale del giudizio».

[144] Cfr. al riguardo Sassani, L’arbitrato a modalità irrituale, cit., 29, per il quale l’art. 808 ter c.p.c. configura «(…) un’autonoma azione di impugnativa i cui motivi appaiono tagliati sulla falsariga dell’impugnazione per nullità del lodo» e ivi la nota 14.