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Esecuzione specifica e misure coercitive (Cronistoria di uno strano caso processuale)
Di Girolamo Monteleone -
Sommario: 1) Introduzione. 2) L’esecuzione forzata di Salvatore Satta. 3) Le prime reazioni alle tesi del Satta. 4) Ulteriori sviluppi. 5) La reintegrazione nel posto di lavoro. 6) Lo stato attuale delle misure coercitive e della c.d. esecuzione specifica.
1) Introduzione.
Sono trascorsi ormai alcuni decenni da quando, dopo l’entrata in vigore dei nuovi codici, civile e di procedura civile, si era riacceso il dibattito scientifico intorno all’esecuzione forzata. Uno degli argomenti più controversi riguardava i reciproci rapporti tra espropriazione forzata e la c.d. esecuzione in forma specifica (espressione ellittica che riunisce artificiosamente in una categoria omogenea l’esecuzione per consegna o rilascio e quella per obblighi di fare o non fare) nell’ambito del più generale sistema giuridico della responsabilità patrimoniale gravante sul debitore secondo gli artt. 2740 e ss. c.c.
Inizialmente la disputa tra gli studiosi, non priva di toni vivaci, era rimasta circoscritta entro i limiti usuali di un contrasto di opinioni giuridiche sulla più corretta configurazione degli istituti in questione, e cioè se alla loro omogeneità funzionale, consistente nel dare pratica attuazione ai dettami di un titolo esecutivo, corrispondesse eguale omogeneità strutturale. In particolare, alcuni autorevoli processualisti dubitavano che la c.d. esecuzione in forma specifica, come tracciata dagli artt. 2930-2933 c.c, trovasse ingresso per i diritti di credito in senso proprio nascenti dalle obbligazioni disciplinate dagli artt. 1173 e ss. c.c., per essere invece elettivamente applicabile agli obblighi nascenti dalla lesione di diritti reali e/o assoluti.
Intorno agli anni 70/80 dello scorso secolo è però avvenuto che quel dibattito ha subito una colorazione “politica”[1], che ha fatto dell’esecuzione specifica una specie di bandiera ideologica da sostenere ed estendere ad ogni costo, anche quando le vigenti norme di legge depongono in senso contrario. Può essere interessante osservare oggi, a distanza di tanti anni e possibilmente a mente fredda, quali concreti sviluppi abbia registrato la accennata disputa e se essa sia ancora attuale.
2) L’esecuzione forzata di Salvatore Satta.
Nel 1950 veniva pubblicata una stesura aggiornata del volume di S. Satta sull’Esecuzione forzata, inserito nel Trattato di Diritto civile italiano diretto da F. Vassalli[2]. In esso l’A. esponeva una concezione parzialmente dissonante dalle vedute correnti del complesso istituto processuale attinente alla tutela dei diritti, distinguendo nettamente in base al dato normativo l’espropriazione forzata dalla c.d. esecuzione in forma specifica e sopratutto ricollegando le due specie di esecuzione a posizioni giuridiche diverse.
Egli, ispirandosi anche alla concreta esperienza, raggruppava i diritti soggettivi in due grandi categorie: da un lato le situazioni giuridiche finali, dall’altro quelle strumentali. Le prime sono caratterizzate dall’intrinseca immanenza, o coincidenza, del diritto e della sua titolarità con tutte le facoltà concernenti il godimento e la disponibilità del proprio oggetto. In sintesi: il titolare di questa categoria di diritti per esercitarli e goderne è perfettamente autonomo ed indipendente, non ha, cioè, bisogno all’indicato fine della cooperazione di altri soggetti. I terzi devono semplicemente astenersi dal turbarli o violarli, perché, come suol dirsi, essi valgono erga omnes. Rientrano in tale categoria i diritti reali, così qualificati perché hanno come oggetto immediato una res, e più in generale quelli assoluti che, pur se non riguardano una cosa materiale, hanno ad oggetto beni immateriali della massima importanza e presentano il carattere della coincidenza immediata e strutturale tra titolarità e godimento.
Sono, invece, situazioni giuridiche strumentali quei diritti e/o rapporti giuridici che tendono a costituire o a conservare alcuna delle anzidette situazioni finali, vale a dire i diritti reali o assoluti. Rientrano in questa categoria le obbligazioni civili, da cui nascono i diritti di credito aventi ab origine una specifica direzione soggettiva verso un determinato soggetto, il debitore, ed i diritti potestativi, o poteri di diritto privato. Questi diritti si estinguono quando viene raggiunto lo scopo per cui sono nati, cioè la situazione giuridica finale cui mirano, che invece, essendo fine a se stessa, è destinata a durare più o meno a lungo.
Posta la premessa, lo Studioso collegava la c.d. esecuzione specifica (rectius l’esecuzione per consegna o rilascio di un bene mobile o immobile e l’esecuzione per obblighi di fare e non fare) ai diritti reali e/o assoluti, osservando che gli obblighi nascenti dalla loro violazione non fossero obbligazioni in senso stretto o proprio, ma il loro riflesso che trova attuazione a mezzo degli organi giudiziari. In sostanza nell’esecuzione specifica si riscontra l’esercizio di un diritto assoluto mediato dall’ufficio esecutivo nel rispetto delle forme imposte dalla legge, poiché in ogni caso non è permesso al titolare di invadere la sfera giuridica altrui facendosi ragione da sé.
L’espropriazione forzata, invece, è il mezzo tipico di tutela del creditore, quindi del diritto relativo nascente da una obbligazione civile, perché, non avendo esso come suo riferimento diretto ed immediato un bene bensì la prestazione dovuta dal debitore per procurarlo (vale a dire una azione umana per natura libera), in caso di inadempimento non v’è altro modo per soddisfare il creditore che aggredire il patrimonio dell’obbligato ed espropriare i suoi beni, per trasformarli nell’equivalente pecuniario atto ad appagarlo egualmente.
Questo sistema si estende a qualsiasi obbligazione, anche quelle in cui l’oggetto della prestazione non sia quello di dare una somma di danaro ma di dare, fare o non fare qualche altra cosa. Per questa via, diversa dall’adempimento volontario, viene superato il difetto di cooperazione del debitore neutralizzandone gli effetti negativi. Vale a dire: aggirando l’ostacolo, anziché sbattervi contro con la pretesa che il debitore faccia a viva forza quanto dovuto, coartando e limitando la sua naturale libertà di agire.
Questo nelle linee essenziali e stringatissime il pensiero del Satta, che veniva supportato da una ulteriore serie di argomentazioni giuridiche della massima importanza, come anche sviluppato nelle successive edizioni della sua monografia[3], nel Commentario[4], nel notissimo Manuale[5], ed in un saggio dedicato espressamente all’argomento[6].
3) Le prime reazioni alle tesi del Satta
Come accennato, la pubblicazione delle teorie sattiane, sopra sinteticamente riassunte, suscitò subito delle accentuate reazioni critiche da parte di esponenti di un’altra corrente di pensiero, tutte tendenti a contestarne il contenuto per affermare e dimostrare che la c.d. esecuzione specifica possa e debba trovare ingresso non solo per i diritti reali o assoluti, ma anche per quelli relativi di credito veri e propri.
In particolare, nello stesso anno (1953) vedevano la luce due brevi monografie, entrambe recanti lo stesso titolo: “l’esecuzione forzata in forma specifica”, l’una del Mandrioli l’altra del Denti, scritte all’insaputa l’uno dell’altro[7]. Vi era, però, una notevole differenza tra le due trattazioni, accomunate dall’intento di emarginare la teoria del Satta e lo stesso A., la cui principale colpa era stata quella di dissentire ancora una volta da dei stereotipi processualistici di stampo carneluttiano comunemente accettati grazie anche al predominio accademico di F. Carnelutti[8].
Infatti, il Mandrioli aveva sviluppato il suo pensiero attraverso una puntuale ed accurata indagine di diritto positivo, in esito alla quale pensava di avere dimostrato che alla luce dell’ordinamento giuridico vigente la c.d. esecuzione specifica è una forma di tutela giurisdizionale esecutiva compatibile ed applicabile anche ai diritti di credito in caso di inadempimento del debitore (non importa, per il momento, stabilire se tale dimostrazione fosse veramente riuscita).
Il Denti, invece, pensava di giungere al medesimo risultato attraverso una concezione di più ampio respiro, secondo la quale il titolo esecutivo è uno strumento processuale astratto totalmente avulso dai diritti, che attraverso l’esecuzione forzata si tende a soddisfare. Il titolo astratto e staccato dai diritti soggettivi incorporerebbe una fantomatica sanzione esecutiva, concetto alquanto nebuloso oscuro ed incomprensibile, la cui attuazione sarebbe il vero ed unico scopo del procedimento di esecuzione forzata sorretto da un’azione anch’essa astratta e dal contenuto esclusivamente processuale. Per tal ragione sarebbe stata infondata la teoria del Satta, che prendeva le mosse proprio dalla natura giuridica dei diritti che attraverso l’esecuzione forzata trovano realizzazione concreta per porre in risalto la netta differenza tra le sue diverse forme.
Per dimostrare l’inaccettabilità della concezione super astratta sostenuta dal Denti non occorrono particolari sforzi dialettici: basta leggere con un minimo di attenzione e di buon senso l’art. 474 c.p.c., anziché pretendere di cancellarlo, il cui contenuto era evidentemente sottovalutato dall’A[9].
4) Ulteriori sviluppi.
Passati una ventina di anni, chi scrive si dedicava ad approfondire il tema della responsabilità/garanzia patrimoniale e dei mezzi di conservazione della stessa previsti dalla legge[10]. Prendendo spunto proprio dall’insegnamento sattiano, si poneva in risalto essere un elemento intrinseco e strutturale del rapporto giuridico obbligatorio (quello che corre tra due soggetti a priori individuati: creditore e debitore) il complesso sistema giuridico della responsabilità da inadempimento. Esso sistema si snoda attraverso quella personale soggettiva del debitore inadempiente (art. 1218 c.c.), quella patrimoniale che ha ad oggetto tutti i suoi beni presenti e futuri e vale paritariamente per tutti i creditori (art. 2740 e 2741 c.c.), i mezzi di conservazione della stessa (artt. 2900-2906 c.c.), e che infine sfocia nell’espropriazione forzata con l’art. 2910 c.c. il quale recita: ”il creditore, per conseguire quanto gli è dovuto, può fare espropriare i beni del debitore secondo le regole stabilite dal codice di procedura civile”[11].
Risulta subito evidente dal contenuto della legge che il complesso sistema giuridico della responsabilità-garanzia gravante sul debitore si applica a tutte le obbligazioni, qualunque sia l’oggetto della prestazione dovuta (dare, fare, o non fare), non solo ad alcune di esse (quelle di danaro). Esso, quindi, è un elemento costitutivo intrinseco caratterizzante qualunque rapporto giuridico obbligatorio, il quale già nasce potenzialmente orientato verso un equivalente risarcitorio in danaro, sicchè il risarcimento stesso non è una nuova obbligazione succedanea che si sostituisce a quella originaria a causa della renitenza del debitore, ma è sempre la stessa considerata nel momento patologico dell’inadempimento.
Ciò posto, le forme di esecuzione specifica previste dagli artt. 2930-2933 non hanno alcun punto di contatto con il sistema della responsabilità-garanzia patrimoniale, perché non riguardano l’intero patrimonio del debitore, non hanno natura attualmente o potenzialmente concorsuale ma anzi escludono il concorso dei creditori, riguardano un bene già individuato o predeterminato che spesso non è neppure di proprietà del soggetto obbligato, ma è da costui detenuto abusivamente. Ne consegue che la c.d. esecuzione specifica, essendo chiaramente estranea al sistema della responsabilità/garanzia patrimoniale, è un mezzo di tutela non pertinente alle obbligazioni vere e proprie ma confacente solo ai diritti reali o assoluti.
La contrapposizione che si suole fare tra esecuzione per equivalente ed esecuzione diretta o specifica, la quale soltanto permetterebbe il preciso soddisfacimento del diritto del creditore e quindi dovrebbe avere priorità logica e giuridica, è in realtà fallace ed equivoca[12]. Infatti, da un canto, la detta contrapposizione riguarda il diritto sostanziale, e cioè la scelta dei modi e dei mezzi che l’ordinamento appresta come rimedio all’inadempimento, non riguarda l’esecuzione forzata ed il diritto processuale. D’altro canto, trascura il fatto oggettivo empirico che la prestazione dovuta dal debitore è una azione personale individua e quindi, anche se fosse applicabile e possibile materialmente per un determinato diritto di credito la c.d. esecuzione specifica, il creditore non otterrebbe giammai la prestazione originaria, ma solo un suo surrogato costituente una forma di risarcimento del danno in forma specifica[13] (art. 2058 c.c.).
5) La reintegrazione nel posto di lavoro.
Nel torno di tempo qui considerato (gli anni 1970/80), quando la disputa scientifica di cui si è sommariamente riferito si era in certo qual modo attenuata, pur restando ciascuno nelle sue posizioni, si assiste ad un insistente riemergere dell’interesse di alcuni studiosi verso l’esecuzione in forma specifica. Il movente, questa volta, non era però di natura essenzialmente giuridico-processuale (come in passato) ma di origine politica. In seguito all’emanazione dello Statuto dei lavoratori (L. 20-5-1970 n. 300), ed in particolare del suo art. 18 (successivamente sterilizzato per mano delle stesse forze politiche che lo avevano introdotto), era stato posto all’attenzione un problema alquanto artificioso avente ad oggetto la materiale reintroduzione in una azienda di un lavoratore illegittimamente licenziato e perciò reintegrato nel posto di lavoro mediante un provvedimento giudiziario, costituente titolo esecutivo.
Si trattava a mio avviso di un problema artificioso, perché la legge citata aveva già previsto il caso di inottemperanza all’obbligo datoriale di riassumere in servizio il lavoratore licenziato e poi reintegrato, ed aveva predisposto per esso un ottimo e pratico rimedio consistente nella ricostituzione automatica ope legis del rapporto di lavoro con l’obbligo del pagamento della retribuzione con tutti gli accessori indipendentemente dall’esecuzione della prestazione lavorativa. Quindi, se il datore di lavoro, previamente costituito in mora, non faceva rientrare in azienda il lavoratore reintegrato, non concludeva nulla perché doveva egualmente retribuirlo vuoto per pieno.
La soluzione prevista dalla legge non soddisfaceva, però, alcuni fautori dell’esecuzione specifica, i quali sostenevano, invece, che il lavoratore reintegrato dovesse essere ricollocato manu militari nel posto di lavoro attraverso lo strumento processuale dell’esecuzione forzata per obblighi di fare o non fare, o altro equivalente[14]. E’ evidente che l’obbiettivo in tal modo perseguito non era quello di tutelare al meglio la posizione economica e giuridica del lavoratore, esulava cioè dal sinallagma contrattuale inerente al rapporto di lavoro subordinato, ma era di altro genere.
Per capire quale fosse questo obbiettivo, occorre ricordare che quegli stessi anni, poi non a caso definiti di piombo, erano stati caratterizzati da un imperversante terrorismo di matrice ideologica che tanti inutili, ottusi e dolorosi lutti ha provocato al Paese. Quindi, la reale posta in gioco non era quella di aiutare il povero lavoratore rimasto privo dei mezzi di sussistenza, essendo tale evenienza già superata dalla legge. E molto probabilmente non era neppure quella, a parole manifestata, di costruire un sistema giuridico atto a consentire l’attuazione puntuale di qualunque diritto di credito. Si può, invece, ragionevolmente supporre, anche alla luce degli eventi e degli scritti del tempo, che lo scopo effettivo fosse quello di fare rientrare ad ogni costo in fabbrica dei soggetti politicamente orientati per permettere loro di continuare a fare proselitismo in situ in vista di un rivolgimento politico estraneo al sentimento prevalente e diffuso nella nazione. Il che non deve apparire strano, perché la storia si ripete, mutatis mutandis, ancora oggi.
Essendomi occupato dell’argomento ex professo non per ragioni di militanza politica ma di natura esclusivamente giuridica, ho ritenuto opportuno di interloquire e prendere posizione sul cennato revival e sulle misure coercitive in un apposito saggio[15]. Solo in una nota del medesimo (la n. 34) venivano prese in esame e criticate le teorie esposte sull’argomento da una giovane (allora) ricercatrice[16].
Mal me ne incolse!
Il mio scritto, non si sa bene perché, suscitò una stizzita ed esagerata reazione del Denti[17]. Questi, dimentico delle sue teorie sul titolo esecutivo astratto e del tutto indifferente alla natura dei diritti da realizzare coattivamente, ritenne di difendere a spada tratta se stesso (come noto fautore della c.d. politica del diritto) e la giovane studiosa[18], non avanzando argomentazioni di carattere giuridico e/o scientifico alle mie osservazioni ma abbandonandosi ad offese personali al mio indirizzo. A prescindere dalla singolarità di un metodo scientifico basato sull’attacco ad personam (che ben qualifica chi lo ha usato ed ha continuato ad usarlo), anche a distanza di tanti anni è facile obbiettare quanto segue: se il titolo esecutivo è una entità puramente processuale del tutto astratta ed indifferente al contenuto dei diritti da realizzare coattivamente, perché scaldarsi tanto per affermare l’attuazione a mezzo dell’esecuzione specifica della reintegrazione nel posto di lavoro del dipendente illegittimamente licenziato?
Evidentemente la natura ed il contenuto dei diritti da realizzare coattivamente contano e le teorie sull’astrattezza meramente processuale del titolo esecutivo e della relativa azione si sono rivelate delle inutili astruserie del tutto campate in aria. Ma se così è, si ritorna all’impostazione del Satta, che distingue espropriazione forzata ed esecuzione specifica proprio in base alle caratteristiche dei diritti per cui si agisce esecutivamente.
Quindi ed in conclusione le teorie, di cui si è riferito, prospettate come indagini di teoria generale sul concetto di esecuzione forzata e sull’adempimento delle obbligazioni, erano in realtà strumenti di disputa politica sostanzialmente estranei al genuino ambito della ricerca giuridica.
6) Lo stato attuale delle misure coercitive e della c.d. esecuzione specifica.
Sono ormai passati oltre quattro decenni dalle riferite vicende, ed il tempo trascorso ci consente di considerarle in modo, possibilmente, oggettivo.
Intanto, bisogna segnalare la recente pubblicazione di alcune pregevoli trattazioni generali sull’esecuzione forzata che si sforzano di fornire una corretta interpretazione giuridica delle sue norme regolatrici e prescindono dalle suggestioni interessate dei c.d. politici del diritto[19].
Bisogna, poi, prendere atto che a partire dal 2009 sono state introdotte nel nostro ordinamento processuale delle misure di coercizione indiretta, previste dall’art. 614 bis del c.p.c., nel cui libro III è stato inserito il titolo IV bis[20]. Si tratta di un fatto positivo (melius abundare quam deficere) e sarebbe errato opporsi pregiudizialmente ad esso, purchè si abbia la consapevolezza dei suoi limiti. Invero da esse non si possono a mio avviso trarre tutte quelle implicazioni di teoria generale da alcuno prospettate anche perchè possono avere concreta efficacia solo in un ristretto numero di casi.
L’ultima stesura di questo articolo, già più volte modificato, conferma ancora una volta che la coercizione indiretta non si applica agli obblighi di pagamento di somme di danaro, né alle controversie di lavoro subordinato pubblico o privato e ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’art. 409 c.p.c. Quindi, un vasto e importante settore dei rapporti obbligatori sfugge al loro raggio di azione, limitandone la portata giuridica.
In argomento sia consentito, inoltre, muovere e riproporre alcune osservazioni, che non sembrano essere state del tutto superate anche dai più attenti studiosi della materia.
– Il principio nemo ad factum praecise cogi potest non è una maligna invenzione escogitata per favorire alcune categorie di soggetti a scapito di altri, o la trovata equivoca di antiquati giureconsulti più o meno sorpassati, ma rispecchia un innegabile dato di fatto. A bocce ferme, considerando cioè il rapporto obbligatorio nel suo ordinario assetto sostanziale, il creditore non può fare nulla per costringere il debitore ad attivarsi per adempiere alla sua prestazione. Può solo agire esecutivamente contro di lui nei modi e nei limiti previsti dalla legge processuale. La libertà e l’incoercibilità dell’azione umana restano, dunque, un fatto oggettivo anche nell’ambito di un dovere giuridico, sia esso obbligazione in senso proprio o altra specie di obbligo. Le c.d. misure coercitive in discorso mirano, infatti, a forzare la volontà dell’obbligato con la minaccia di una penalità, funzionano cioè mediante una violenza morale legalizzata: se non si infrange l’intrinseca libertà di volere e di autodeterminazione del debitore, in teoria intangibile, non si ottiene alcun risultato. Resta, pertanto, confermato che nemo ad factum praecise cogi potest, salvo che con la minaccia di un male peggiore (che può andare dal pagamento di una somma fino all’arresto o alla prigione) il debitore sia indotto a fare egli stesso ciò che rifiutava: tamen coactus volui.
– Conseguentemente le misure di coercizione indiretta non rientrano nell’ambito dell’esecuzione forzata, vale a dire di quei procedimenti attraverso i quali viene surrogata la prestazione del debitore inadempiente per raggiungere in altro modo il soddisfacimento del creditore, ma tendono ad evitarne l’impiego attraverso la costrizione morale del debitore. Esse, pertanto, non trovano la loro giusta collocazione nel codice processuale, ma devono essere previste e regolate dal codice sostanziale nell’ambito dei rimedi per l’inadempimento alla stregua di consimili istituti, quali le clausole penali, gli interessi moratori, l’anatocismo e simili.
– Le misure coercitive previste dall’art. 614 bis c.p.c., a loro volta, non sono altro che multe o sanzioni penali di contenuto pecuniario. Pertanto, esse assolveranno ad una funzione deterrente solo se l’obbligato ha un patrimonio aggredibile, che sarà infine oggetto di espropriazione forzata nei modi ben noti in caso di ulteriore inadempienza. Ma se l’obbligato è nullatenente (o si rende tale), la misura coercitiva non produrrà su di lui alcun effetto.
– Infine viene in considerazione l’aspetto stranamente trascurato in tutta questa materia, ed è quello ritraibile dall’ordinamento giuridico penale. Il diritto ed il processo penali sono il regno delle misure di coercizione diretta ed indiretta, perché ogni divieto di compiere una azione ritenuta delittuosa (non uccidere, non rubare, ec. ec.) è presidiato in caso di sua violazione dalla minaccia di conseguenze ben più gravi e più pesanti del pagamento di una somma di danaro. Eppure ciò non ha mai prevenuto il crimine, cioè la più grave delle violazioni di legge. Ed allora bisogna chiedersi perché mai le misure di coercizione indiretta previste dall’art. 614 bis c.p.c. dovrebbero riuscire laddove neppure il diritto e la sanzione penale vera e propria riescono.
Ben vengano, dunque, le misure in questione, purchè si riconosca che esse possono funzionare in un numero ristretto di casi e soprattutto che sono intrinsecamente inidonee a porre generale rimedio alla fase patologica dell’inadempimento delle obbligazioni.
[1] Si allude nel testo a quella corrente di pensiero sinteticamente definibile come “politica del diritto”. Non si tratta di una definizione arbitraria, o soggettiva, dal momento che i fautori di tale indirizzo hanno anche creato una apposita rivista proprio così chiamata. In sostanza il loro scopo è quello di usare l’indagine giuridica come uno strumento di lotta politica a fini di potere e di piegare ai suddetti fini l’interpretazione e l’applicazione delle norme di legge. Ovviamente, così opinando si avranno tante politiche del diritto quanti sono i partiti politici con l’altrettanto ovvia scomparsa del diritto dal panorama scientifico e culturale.
[2] V. S. SATTA, L’esecuzione forzata, Torino 1950.
[3] Si sono succedute varie edizioni dell’Esecuzione forzata del SATTA, sempre nel ricordato Trattato di diritto civile, fino alla quarta ed ultima del 1963.
[4] Cfr. SATTA, Commentario al codice di procedura civile, III, Milano 1966, 3 e ss.
[5] Cfr. SATTA, Manuale di Diritto processuale civile, 7° ed., Padova 1967, 453-461.
[6] Cfr. SATTA, Svolgimenti critici di una dottrina sull’esecuzione forzata, in Colloqui e soliloqui di un giurista, Padova 1968, 242 e ss., e già in Studi in onore di Antonio Cicu, Milano 1951.
[7] Evidentemente nell’ambito di una certa scuola, o corrente di pensiero, processuale era stata impartita la direttiva di contrastare la teoria del Satta affinchè egli rimanesse isolato e senza seguito. Operazione in parte riuscita.
[8] F. Carnelutti era specialmente un noto avvocato penalista (da ultimo v. G. SCARSELLI, Francesco Carnelutti: il giurista, l’avvocato, l’uomo, in judicium.it, 2021) dirottato nel 1915 alla procedura civile, che si permetteva di recensire ad orecchio tutto e tutti dalle pagine della Rivista di Diritto processuale, alla direzione della quale (dopo la morte di Chiovenda) non fece altro che litigare di continuo con P. Calamandrei. Sul passaggio di Carnelutti alla procedura civile cfr., già, F. CIPRIANI, Storie di processualisti ed oligarchi, Milano 1991, 186 e ss.; sui continui contrasti con Calamandrei cfr., da ultimo, B. CAVALLONE, Una convivenza difficile, Riv. dir. proc. 2019, 324 e ss.
Memorabile la polemica con S. Satta nata dalla prolusione da questi letta all’Università di Padova nel 1936 sugli orientamenti pubblicistici del processo civile, che scatenò la violenta reazione di Carnelutti perché criticava la sua teoria sull’interesse pubblico alla composizione della lite, dimostrandone l’inconsistenza. In argomento si rinvia a S. SATTA, Soliloqui e colloqui di un giurista, Padova 1968, pg. 177-210, nonché a CIPRIANI, Op. cit., 386-387.
[9] Recita l’art. 474 c.p.c.: “l’esecuzione forzata non può aver luogo che in virtù di un titolo esecutivo per un diritto certo liquido ed esigibile…”. Sfidiamo chiunque a dimostrare che colui il quale agisce esecutivamente intende attuare la c.d. sanzione esecutiva astratta e non soddisfare un suo diritto. Ci chiediamo, inoltre, quale tipo di sanzione contengano i titoli esecutivi stragiudiziali, come la cambiale, l’assegno bancario, il negozio notarile, ec., e più in generale se possa considerarsi sanzione a carico dell’obbligato attuare in concreto il contenuto di un diritto soggettivo, qualunque natura esso abbia.
[10] Cfr. G. MONTELEONE, Profili sostanziali e processuali dell’azione surrogatoria – Contributo allo studio della responsabilità patrimoniale dal punto di vista dell’azione, Milano 1975, pg. 5-89.
[11] In questo senso v., da ultimo, G. MONTELEONE, Diritto processuale civile, 9° ed., II, Padova 2023, pg. 63 e ss.
[12] Si tratta della c.d. “tensione” dell’ordinamento alla attuazione specifica dei diritti di credito, sulla cui consistenza ed evoluzione ampi ragguagli, da ultimo, in U. COREA, Condanna civile e misure coercitive, Pisa 2023, pg. 4-70, con esaurienti riferimenti di dottrina, cui si rinvia. A me sembra che sulla anzidetta questione si sia registrato un annoso dialogo tra sordi, in cui ognuno ripete le stesse cose. A quanto mi consta, nessuno ha mai negato che anche al creditore spetti il pieno diritto al soddisfacimento del credito ed all’adempimento del debitore. Il punto è quello di stabilire quale sia il rimedio più idoneo praticamente e giuridicamente quando il debitore non adempie.
[13] In questo senso cfr. L. MONTESANO, La tutela giurisdizionale dei diritti, 2° ed., Torino 1994, nel Trattato di Diritto civile italiano di F. Vassalli, pg. 169 e ss. Conviene porre nel dovuto rilievo l’onestà e la probità intellettuale di un grande giurista e processualista come il Montesano, il quale, pur non essendo allievo del Satta e dopo vari anni dalla sua morte, avvenuta nel 1975, non esitò a riconoscere il valore e l’esattezza della sua concezione dell’esecuzione forzata.
[14] In questo senso cfr., PEDRAZZOLI, La tutela cautelare delle situazioni soggettive nel rapporto di lavoro, Riv. trim. dir. proc. civ. 1973, 1070 e ss; MAZZAMUTO, L’attuazione degli obblighi di fare, Napoli 1978; TARUFFO, Recensione a Mazzamuto, Riv. trim. dir. proc. civ. 1978, 1327-1329; E. SILVESTRI, Problemi e prospettive di evoluzione nell’esecuzione degli obblighi di fare e non fare, Riv. dir. proc. 1981, 40-70.
Da notare che le dubbie ricostruzioni storiche costituenti lo sfondo delle opere citate, di per sé poco attendibili perché viziate da un chiaro pregiudizio politico-ideologico, sono state smentite quasi subito dal CHIARLONI, Misure coercitive e tutela dei diritti, Milano 1980. Il Chiarloni non era certamente un uomo con simpatie per la destra politica e/o per il sistema economico liberal-capitalistico, ma era un processualista torinese notoriamente orientato verso la sinistra più radicale, e quindi era della stessa area degli Autori sopra citati.
[15] Cfr. G. MONTELEONE, Recenti sviluppi nella dottrina dell’esecuzione forzata, in Riv. Dir. Proc. 1982, 281 e ss.
[16] Cfr. E. SILVESTRI, Problemi e prospettive di evoluzione nella esecuzione degli obblighi di fare e non fare, cit.
[17] Cfr. DENTI, A proposito di esecuzione forzata e di politica del diritto, Riv. dir. proc, 1983, 130 e ss.
[18] In realtà allieva e collaboratrice di M. Taruffo, colui che nel 1978 aveva recensito entusiasticamente il libro del Mazzamuto sull’attuazione degli obblighi di fare.
[19] Cfr. A. TEDOLDI, Esecuzione forzata, Pisa 2020, trattazione generale che tiene nel dovuto conto e mette in risalto la concezione elaborata dal Satta e dai suoi continuatori; B. CAPPONI, Manuale di diritto dell’esecuzione civile, 4° ed., Torino, 2016, pg. 28 e ss. con ampi ragguagli sulle questioni qui trattate
[20] In argomento v. l’ampia e pregevole trattazione di U. COREA, Condanna civile e misure coercitive, cit.