Dal procedimento sommario al nuovo procedimento semplificato di cognizione.

Di Francesca Casciaro -

Sommario: 1. Gli obbiettivi della riforma: l’abrogazione degli art. 702 bis ss. c.p.c. e l’introduzione degli artt. 281 decies, undecies, duodecies e terdecies. – 2. L’ambito applicativo del procedimento semplificato di cognizione. Le ipotesi in cui il rito semplificato è obbligatorio. – 3. Segue. Le ipotesi in cui l’esperimento del rito semplificato di cognizione è facoltativo. – 4. La fase introduttiva: procedimento semplificato e procedimento sommario a confronto. – 5. La trattazione della causa e il rapporto fra il procedimento semplificato di cognizione e il procedimento ordinario di cognizione – 6. La fase istruttoria e la fase decisoria. – 7. L’appello. – 8. Conclusioni.

 1.Gli obbiettivi della riforma: l’abrogazione degli art. 702 bis ss. c.p.c. e l’introduzione degli artt. 281 decies, undecies, duodecies e terdecies. – Il D. lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 (c.d. Riforma Cartabia) ha avuto il primario obiettivo di incentivare “l’efficienza del processo civile”, al fine di porre un argine all’annosa crisi della giustizia italiana.

La riforma ha dunque perseguito esigenze di semplificazione, speditezza e razionalizzazione del processo (senza sacrificare il principio del contraddittorio), al fine di abbreviare i tempi processuali e garantire una durata ragionevole dei procedimenti[1].

Una delle innovazioni introdotte per realizzare i summenzionati intenti è stata l’abrogazione del procedimento sommario di cognizione disciplinato dagli artt. 702-bis ss. c.p.c, con la previsione, nell’ambito del libro secondo del codice di procedura civile, agli artt. 281 decies e ss. c.p.c, di un nuovo rito, denominato “rito semplificato di cognizione” [2], il quale, modellato sullo schema procedimentale del vecchio rito sommario, si caratterizza per la semplificazione della fase introduttiva e di trattazione della causa[3].

L’abrogato procedimento sommario era stato introdotto dalla L. 69/2009 con l’obiettivo di predisporre un modello processuale alternativo a quello ordinario, caratterizzato da un procedimento più agile e spedito per la risoluzione delle controversie più semplici, nel quale la fase istruttoria fosse svincolata da rigide predeterminazioni legislative e rimessa alla discrezionalità del giudice che “omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione rilevanti (…) e provvede con ordinanza all’accoglimento o al rigetto delle domande”[4].

Tuttavia, la scarna disciplina del procedimento sommario aveva dato adito a numerosi dubbi interpretativi e, anche se molti di essi erano stati prontamente risolti dalla giurisprudenza, taluni aspetti continuavano a suscitare non poche perplessità.

Innanzitutto, il nomen iuris scelto dal legislatore per indicare il rito in esame, nonché la sua collocazione nel Libro IV del codice (che disciplina i procedimenti speciali) aveva portato gli interpreti a chiedersi se la cognizione del giudice dovesse essere piena ed esauriente, come nel rito ordinario, ovvero meramente sommaria[5].

Risolta tale questione propendendo per la prima delle due soluzioni innanzi prospettate (id est: quella che sostiene la pienezza della cognizione), ci si era interrogati sull’applicabilità del rito sommario alle controversie assoggettate alla competenza del giudice del lavoro e a quelle in materia di locazione[6].

Il dubbio sorgeva in ragione della formulazione dell’art. 702 bis (ora abrogato), che ne limitava l’ambito applicativo alle sole cause devolute alla competenza del Tribunale in composizione monocratica, nonché dalla circostanza che il co. 2 dell’art. 702 ter c.p.c. prevedeva la possibilità per il giudice, se le difese svolte dalle parti richiedevano un’istruttoria non sommaria, di disporre il mutamento del rito fissando l’udienza ex art. 183 c.p.c. (udienza non prevista nella disciplina del rito del lavoro e delle locazioni).

Dopo qualche incertezza iniziale, dottrina e giurisprudenza[7] avevano concluso per l’inapplicabilità del procedimento sommario alle controversie in materia di lavoro e locazione, stante la specialità di tali procedimenti, già ispirati a una concentrazione delle attività, per cui sarebbe risultata superflua una variante nelle forme del processo sommario di cognizione.

Tale soluzione va ribadita anche con riferimento al nuovo rito semplificato di cognizione[8].

Infine, pare opportuno dar conto che ulteriori interrogativi (invero mai compiutamente risolti nel periodo di vigenza degli artt. 702 bis e ss. c.p.c.) erano posti dall’infelice formulazione dell’art. 702 ter cod. proc. civ., ove prevedeva, al co. 2, che il giudice, in caso di domanda, principale o riconvenzionale, non rientrante tra quelle indicate nell’art. 702 bis, dovesse provvedere con ordinanza non impugnabile (e, dunque, non revocabile né modificabile) ad emettere declaratoria di inammissibilità.

Tale inammissibilità infatti, essendo volta a sanzionare quello che era, essenzialmente, un errore sul rito, aveva destato aspre critiche in dottrina[9], sollevando dubbi interpretativi anche in giurisprudenza[10].

La dictio legis della norma non lasciava adito a perplessità: qualora l’attore avesse introdotto con rito sommario una causa non rientrante nell’ambito applicativo dell’art. 702 bis e ss. cod. proc. civ., il giudice, invece di disporre il mutamento del rito, avrebbe dovuto chiudere il processo con una declaratoria di inammissibilità della domanda. Lo stesso doveva avvenire, ai sensi dell’art. 702 ter, co. 2, parte seconda, nel caso in cui la parte resistente, costituitasi in giudizio, avesse proposto una domanda riconvenzionale esulante dall’ambito applicativo del processo sommario di cognizione[11].

Su un quadro normativo così precisamente delineato, si erano avvicendati gli sforzi di dottrina e giurisprudenza[12] (cui da ultimo si era aggiunto un intervento della Corte Costituzionale[13]), tesi ad assicurare una lettura restrittiva dell’art. 702 ter, co. 2, cod. proc. civ., che fosse compatibile con il principio di strumentalità e funzionalità del processo e con quello di economia dei giudizi.

Invero, le difficoltà interpretative da ultimo menzionate ormai non risultano più attuali: i neointrodotti artt. 281 decies e ss. hanno infatti generalizzato la possibilità per il giudice di disporre il mutamento del rito, sicché si può ragionevolmente concludere che le perplessità sollevate dall’infelice dictio legis dell’abrogato art. 702 ter c.p.c. possano oggi considerarsi definitivamente superate.

All’esito di tali premesse, pare nondimeno opportuno osservare che il procedimento sommario di cognizione introdotto nel 2009, nei quattordici anni in cui ha trovato applicazione, ha (in fin dei conti) dato buona prova di sé: nel 2018 la durata media effettiva del rito ex 702 bis c.p.c. è stata di 472 giorni, a fronte dei 1270 giorni mediamente necessari per la definizione del procedimento ordinario di cognizione in primo grado[14].

Tuttavia, appaiono persuasive le argomentazioni di coloro che individuano la ragione giustificativa del minor tempo occorrente per la definizione delle cause trattate con il rito sommario nella minore complessità delle controversie assoggettate al procedimento ex art. 702 bis, piuttosto che nella semplificazione e destrutturazione della fase istruttoria[15].

Orbene, il legislatore del 2023, pur avendo integralmente abrogato la disciplina del procedimento sommario di cognizione, non ha inteso eliminare il rito introdotto del 2009 quanto, piuttosto, rafforzare l’istituto, mediante l’estensione del suo ambito applicativo e la sua ricollocazione nel Libro II del codice, relativo al processo di cognizione (mentre il procedimento sommario di cognizione era disciplinato all’interno del Libro IV del codice, relativo ai procedimenti speciali).

Tali innovazioni sono espressive di una voluntas legis tesa a riconoscere nel nuovo procedimento semplificato un vero e proprio modello alternativo al rito ordinario[16].

2. L’ambito applicativo del procedimento semplificato di cognizione. Le ipotesi in cui il rito semplificato è obbligatorio. – Non v’è perfetta coincidenza fra l’ambito applicativo del vecchio procedimento sommario di cognizione e quello del nuovo rito semplificato, disciplinato dall’art. 281 decies c.p.c.

L’abrogato art. 702 bis c.p.c. prevedeva, infatti, che il rito speciale trovasse applicazione, a scelta dell’attore, per le sole cause in cui il Tribunale giudica in composizione monocratica.

L’art. 281 decies, invece, al co. 1, prevede che il procedimento semplificato debba essere utilizzato “quando i fatti di causa non sono controversi, oppure quando la domanda è fondata su prova documentale, o è di pronta soluzione o richiede un’istruzione non complessa”, e ciò a prescindere dalla composizione dell’organo giudicante.

In realtà, la dictio legis della norma, nella parte in cui afferma che (nelle ipotesi summenzionate) il giudizio “è introdotto nelle forme del procedimento semplificato”, lascia desumere l’obbligatorietà del rito di cui agli artt. 281 decies e ss. ogniqualvolta la semplicità dell’istruttoria emerga dalle circostanze enumerate dal legislatore.

Ad ogni buon conto, non è per niente agevole immaginare come il ricorrente, nel momento in cui propone la domanda, possa avvedersi della sussistenza dei presupposti che renderebbero obbligatorio l’esperimento del rito in esame.

Fra le situazioni disciplinate dal legislatore, infatti, l’unica astrattamente determinabile a priori è quella relativa alla fondatezza della domanda su prova documentale; al contrario, è di immediata evidenza che le altre circostanze (i fatti di causa non controversi, la pronta soluzione della domanda e la non complessità dell’istruttoria) dipendono dal modo in cui la controparte esplicherà le proprie difese e, dunque, appaiono inidonee a costituire la base di un giudizio prognostico sulla sussistenza delle condizioni che rendono obbligatorio l’utilizzo del rito semplificato[17].

Conseguentemente, la previsione di cui all’art. 281 decies c.p.c. pare essere rivolta (più che alla parte che si accinge a introdurre il giudizio) al giudice, il quale, sulla base delle allegazioni prospettate dalle parti, è senz’altro il soggetto più idoneo a valutare la sussistenza (o l’insussistenza) dei presupposti richiesti dalla norma, e può così provvedere al mutamento del rito[18].

A tal riguardo, quando la causa è stata introdotta nelle forme ordinarie, l’art 183 bis c.p.c. consente espressamente al giudice, nel corso dell’udienza di trattazione, di disporre con ordinanza non impugnabile il mutamento del rito.

Tuttavia, pare opportuno rilevare che il passaggio dal rito ordinario a quello semplificato di cognizione, nell’ambito dell’udienza ex art. 183 c.p.c., rischia di risultare ben poco funzionale (e, anzi, potrebbe finanche recare pregiudizio all’economia e alla durata del giudizio).

All’esito delle innovazioni introdotte dalla Riforma Cartabia alla disciplina del processo ordinario, infatti, nell’udienza di trattazione risultano già compiutamente definiti il thema decidendum e il thema probandum della controversia, sicché non è agevole comprendere l’utilità pratica (in relazione alle esigenze di speditezza e razionalizzazione del processo) che potrebbe derivare da un mutamento del rito intervenuto in tale stadio.

Preferibile sembra dunque ritenere che il giudice adito nelle vie ordinarie possa disporre il mutamento del rito anche in un momento antecedente a quello della prima udienza (rectius: ancor prima che vengano depositate dalle parti le memorie integrative ex art. 171 ter c.p.c), sulla base delle allegazioni prospettate dal convenuto nella comparsa di risposta.

Sempre rivolta al magistrato (e non alla parte che introduce il giudizio) è anche l’ulteriore (e speculare) ipotesi di mutamento del rito disciplinata dall’art. 281 duodecies, c.p.c, la quale prevede che il giudice debba disporre il passaggio dal rito semplificato a quello ordinario quando, nel corso della prima udienza, egli ravvisi l’insussistenza dei presupposti previsti dall’art. 281 decies o, comunque, ritenga che la complessità della lite e dell’istruzione probatoria richiedano la trattazione della causa nelle forme ordinarie.

Dunque, si può realisticamente concludere che la previsione di cui all’art. 281 decies, co. 1, nella parte in cui enumera le ipotesi nelle quali è obbligatorio lo svolgimento del processo nelle forme del rito semplificato, fornisce precise (e vincolanti) indicazioni al giudice, più che al ricorrente: quest’ultimo non subirà, infatti, alcuna sanzione ove introduca il giudizio con una forma errata, essendo demandato all’organo giudicante il compito di disporre il mutamento del rito.

Alla medesima conclusione non si poteva, invece, giungere in relazione all’ambito applicativo del procedimento sommario di cognizione: gli abrogati artt. 702 bis e ter prevedevano, infatti, che nell’ipotesi in cui il ricorrente avesse introdotto nelle forme sommarie una causa che esulava dall’ambito applicativo del rito speciale, tale errore avrebbe dovuto essere sanzionato con una pronuncia di inammissibilità[19].

La possibilità per il giudice di disporre il mutamento del rito era infatti prevista dall’art. 183 bis (nella sua previgente formulazione) esclusivamente per il caso in cui l’attore avesse introdotto nelle forme ordinarie una controversia che, per la semplicità della lite e dell’istruzione probatoria, era preferibile trattare con il rito sommario, ovvero nell’ipotesi (opposta), disciplinata dall’abrogato art. 702 ter c.p.c, in cui il giudizio, instaurato nelle forme sommarie, richiedeva un’istruzione non sommaria.

3.Segue. Le ipotesi in cui l’esperimento del rito semplificato di cognizione è facoltativo. – Oltre alle ipotesi in cui l’esperimento del procedimento semplificato è obbligatorio (indipendentemente dalla composizione – monocratica o collegiale – dell’organo giudicante), l’art. 281 decies, al co. 2, prevede altresì che “nelle cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica la domanda può sempre essere introdotta nelle forme del procedimento semplificato”.

La scelta sul rito da adottare, in questo caso, spetta esclusivamente al ricorrente, essendo meramente facoltativo l’esperimento del giudizio nelle forme del rito semplificato.

Tuttavia, sul punto occorre precisare che tale ipotesi va tenuta nettamente distinta da quella (menzionata all’art. 281 decies, co. 1) in cui il rito semplificato è obbligatorio: nel caso in cui la causa debba essere decisa dal tribunale in composizione monocratica l’introduzione della domanda nelle forme di cui agli artt. 281 decies ss. resterà obbligatoria se i fatti di causa non sono controversi, se la domanda è di pronta soluzione, se è fondata su prova documentale, o se richiede un’istruzione non complessa.

Ove si esuli da tali presupposti, invece, se la causa è devoluta alla cognizione del giudice in composizione collegiale, essa andrà necessariamente introdotta nelle forme ordinarie; al contrario, ove la controversia debba essere giudicata dal tribunale in composizione monocratica la parte che introduce il giudizio potrà scegliere discrezionalmente il rito da adottare.

Ove la parte decida di propendere per l’introduzione del giudizio nelle forme del procedimento semplificato di cognizione, tuttavia, è comunque assicurato un controllo del giudice sulla congruità del rito prescelto alla complessità della lite e dell’istruttoria: ove egli ritenga che la causa richieda una trattazione “non semplificata”, l’art 281 duodecies, co. 1, seconda parte, gli attribuisce la facoltà di disporre il mutamento del rito nelle forme ordinarie.

Il mutamento del rito sembrerebbe essere invece precluso nel caso in cui l’attore abbia deciso di introdurre la domanda con il rito ordinario: l’art. 183 bis c.p.c, così come novellato dalla riforma, consente al giudice di ordinare la prosecuzione del processo nelle forme del rito semplificato esclusivamente ove ricorra uno dei presupposti (ex art. 281 decies, co. 1, c.p.c.) che rendono obbligatorio l’esperimento di quest’ultimo, e non anche nelle ipotesi di mera facoltatività.

Si può dunque concludere che il tenore letterale dell’art. 183 bis sembra teso a delineare la scelta dell’attore di introdurre il giudizio nelle forme ordinarie (quando il rito semplificato di cognizione è facoltativo) come insindacabile[20].

A ben vedere, tale soluzione interpretativa non è condivisibile, in quanto creerebbe una irragionevole disparità di trattamento fra il caso in cui l’attore propone la domanda con il rito ordinario e quello in cui utilizzi il procedimento semplificato (limitando a quest’ultima eventualità la possibilità per il giudice di censurare la scelta della parte, disponendo il mutamento del rito).

Di certo non sfugge che la sindacabilità dell’opzione dell’attore per il rito semplificato, in questi casi, ha il chiaro scopo di assicurare l’ordinata ed esauriente trattazione della controversia, sicché la valutazione in ordine alla sua complessità – che ne renderebbe impossibile un esaustivo approfondimento nelle forme del rito semplificato – deve necessariamente spettare in ultima istanza al magistrato[21].

Tuttavia, non si comprende perché tale controllo ultimo del giudice dovrebbe essere escluso nel caso in cui l’attore abbia ab origine optato per il rito ordinario: siffatta soluzione pare invero contraria allo spirito stesso della riforma, che ha delineato il procedimento semplificato come un rito (in tutto e per tutto) alternativo e fungibile a quello ordinario, che assicura alle parti le medesime garanzie.

A ciò si aggiunga che riconoscere al giudice la possibilità di disporre il mutamento del rito da ordinario a semplificato (nei casi in cui quest’ultimo procedimento possa assicurare una più rapida ed efficiente definizione della controversia) appare ben più rispondente al principio di ragionevole durata dei giudizi che, come noto, ha sicuro rilievo Costituzionale ex art. 111 Cost.

Al limite, pare opportuno interrogarsi sull’effettiva utilità, per il giudice, di disporre il passaggio del rito da ordinario a semplificato in prima udienza, momento in cui risultano già compiutamente individuati il thema decidendum e il thema probandum. E’ quantomeno dubbio, infatti, che la conversione del rito, intervenuta in questa fase, sia suscettibile di determinare un apprezzabile riduzione delle tempistiche processuali[22].

Infine, un’ultima considerazione si rende opportuna: l’attribuzione (alla parte che introduce il giudizio) della facoltà di adottare il rito semplificato nelle cause in cui il Tribunale giudica in composizione monocratica si pone, invero, in linea di continuità con la disciplina prevista dall’art. 702 bis in relazione all’ambito applicativo del procedimento sommario di cognizione.

La norma abrogata dalla riforma, infatti, prevedeva che l’applicazione del rito speciale fosse rimessa alla libera scelta dell’attore nelle sole cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica (salva la possibilità riconosciuta al giudice, valutata la complessità dell’istruttoria, di disporre il mutamento del rito).

In conclusione, dunque, si può affermare che la vera novità della riforma (in relazione all’ambito applicativo del procedimento in esame) consiste nell’introduzione, all’art. 281 decies, co. 1, c.p.c, delle ipotesi in cui l’adozione del rito semplificato è obbligatoria a prescindere dalla composizione dell’organo giudicante.

Tale innovazione, nella parte in cui estende l’ambito applicativo del rito semplificato, va evidentemente nella direzione di un suo rafforzamento rispetto al vecchio procedimento sommario[23].

4. La fase introduttiva: procedimento semplificato e procedimento sommario a confronto. – La fase introduttiva del rito semplificato di cognizione è disciplinata dall’art. 281 undecies c.p.c. che prevede che l’atto introduttivo debba rivestire la forma del ricorso (contenente le indicazioni di cui ai numeri 1), 2), 3), 3 bis), 4), 6) e 7) dell’art. 163 c.p.c.)[24].

La norma prescrive che il giudice, entro cinque giorni dalla designazione, debba fissare con decreto l’udienza di comparizione ed assegnare al convenuto un termine per la sua costituzione, la quale deve intervenire almeno dieci giorni prima della data della prima udienza.

Il ricorso, unitamente al decreto di fissazione dell’udienza, deve essere notificato al convenuto a cura del ricorrente, fermo restando che fra il giorno in cui avviene la notificazione e quello dell’udienza deve intercorre un termine minimo – a difesa – di quaranta giorni (che diventano sessanta giorni nel caso in cui il luogo in cui va eseguita la notificazione è situato all’estero[25]).

Il convenuto si costituisce in giudizio depositando una comparsa di risposta, la quale ha un contenuto in tutto analogo a quello previsto nell’ambito della disciplina del rito ordinario di cognizione (la disposizione riproduce infatti il contenuto dell’art. 167 c.p.c. e quello dell’art. 206 c.p.c, in relazione alla chiamata in causa di un terzo ad opera del convenuto).

Volendo operare un confronto fra la disciplina prevista dal nuovo art. 281 undecies c.p.c. per il rito semplificato e quella che era prevista dall’abrogato art. 702 bis con riferimento al procedimento sommario di cognizione, sono ravvisabili ben poche differenze.

In primo luogo, sebbene in entrambi i riti l’atto introduttivo presenta la forma del ricorso, il suo contenuto appare parzialmente divergente: l’art. 281 decies aggiunge infatti agli elementi richiesti dall’art. 702 bis il riferimento al numero 3 bis) dell’art. 163 c.p.c (l’indicazione dell’assolvimento degli oneri previsti per il superamento della condizione di procedibilità cui – eventualmente – è soggetta la domanda) e richiede che l’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto poste a fondamento della domanda debba essere effettuata in modo chiaro e specifico.

Tali differenze, invero, sono la diretta conseguenza delle innovazioni apportate dalla riforma Cartabia al testo dell’art. 163 c.p.c, con l’introduzione del numero 3 bis), prima assente, e la modifica del numero 4)[26].

In secondo luogo, l’abrogato art. 702 bis non prescriveva alcun termine al giudice per la fissazione della prima udienza, mentre il co. 2 dell’art. 281 undecies prescrive a tal fine un termine di cinque giorni il quale, comunque, ha natura ordinatoria[27].

Infine, il nuovo rito semplificato prevede dei termini minimi a difesa per la costituzione del convenuto (quaranta giorni) maggiori rispetto a quelli che erano previsti dalla disciplina del procedimento sommario (trenta giorni).

 5. La trattazione della causa e il rapporto fra il procedimento semplificato di cognizione e il procedimento ordinario di cognizione. – Nel procedimento semplificato di cognizione la trattazione della causa rinviene la sua regolamentazione nell’art. 281 duodecies c.p.c.

Il co. 1 della norma, come già analizzato, reca la disciplina del mutamento del rito da semplificato ad ordinario di cognizione, precisando che il giudice, ove ritenga di adottare con ordinanza non impugnabile siffatta determinazione, debba fissare l’udienza ex art. 183 c.p.c, rispetto alla quale decorrono i termini previsti dall’art. 171 ter c.p.c.

Il mutamento del rito, tralasciando i profili già esaminati al par. 3, pone tuttavia una questione problematica che non rinviene un’espressa soluzione nella scarna regolamentazione normativa, ossia quella del coordinamento fra il nuovo procedimento semplificato e la novellata disciplina del rito ordinario.

Infatti, la c.d. riforma Cartabia ha apportato molteplici e notevoli innovazioni al procedimento ordinario[28], ridisegnando integralmente la stessa struttura e funzione della prima udienza di trattazione.

Se nella disciplina previgente l’udienza ex art. 183 c.p.c. era volta alla definitiva fissazione del thema decidendum e del thema probandum – i quali, invero, potevano essere compiutamente determinati anche in un momento successivo nel caso in cui il giudice, su richiesta delle parti, avesse concesso le memorie integrative di cui all’art. 183, co. 6, c.p.c. – nel nuovo rito ordinario la prima udienza si svolge in un momento in cui thema decidendum e il thema probandum sono già interamente fissati[29].

Il neointrodotto art. 171 ter c.p.c. ha infatti previsto che le parti, prima dell’udienza di trattazione ed entro dei termini che decorrono a ritroso dalla data fissata per quest’ultima, devono presentare tre memorie integrative:

– la prima, da depositarsi almeno quaranta giorni prima dell’udienza ex art. 183 c.p.c., è volta alla proposizione delle domande ed eccezioni conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dalla controparte, nonché a precisare e/o modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già proposte e a chiamare in causa un terzo ove l’esigenza della sua partecipazione al giudizio sia sorta in seguito alle difese svolte dal convenuto;

– la seconda, da depositare almeno venti giorni prima dell’udienza, per replicare alle domande e alle eccezioni nuove o modificate dalle altre parti, proporre le eccezioni conseguenza delle domande nuove formulate nella prima memoria, indicare i mezzi di prova e offrire i documenti in comunicazione;

– la terza, da depositare almeno dieci giorni prima dell’udienza, per replicare alle eccezioni nuove e indicare la prova contraria.

Le nuove memorie integrative, a ben vedere, si vanno a sostituire a quelle che erano previste dall’abrogato co. 6 dell’art. 183, c.p.c, che il giudice concedeva direttamente in prima udienza, ove richieste dalle parti, per la proposizione di nuove domande ed eccezioni conseguenza delle difese svolte da controparte, per la precisazione o modificazione di domande, eccezioni e conclusioni già proposte e per l’indicazione dei mezzi di prova e la produzione di documenti.

In definitiva, dunque, la riforma ha sancito l’obbligatorietà dell’appendice di trattazione scritta che la disciplina previgente prevedeva come meramente facoltativa; tuttavia la sua attuazione è anticipata in un momento anteriore rispetto allo svolgimento della prima udienza, sicché quest’ultima è destinata a svolgersi quando la trattazione della causa si è ormai esaurita[30].

A ciò si aggiunga che il nuovo art. 171 bis c.p.c. anticipa a un momento antecedente alla prima udienza anche l’esperimento di quelle verifiche preliminari (regolarità del contraddittorio, sussistenza delle condizioni di procedibilità, indicazione alle parti delle questioni rilevabili d’ufficio) che per il co. 1 dell’art. 183 c.p.c, nella sua previgente formulazione, dovevano essere effettuate nel corso dell’udienza di trattazione.

Le innovazioni introdotte segnano una radicale differenza di disciplina fra il procedimento semplificato di cognizione ed il nuovo procedimento ordinario: il primo appare infatti ben più affine al vecchio rito ordinario che al nuovo.

L’art. 281 duodecies c.p.c. designa infatti la prima udienza come il luogo deputato alla trattazione della causa, nel quale vengono effettuate le verifiche preliminari ed interviene la definitiva fissazione del thema decidendum e del thema probandum.

Il co. 4 dell’art. 281 duodecies c.p.c. prevede inoltre la possibilità per le parti di richiedere l’appendice di trattazione scritta, che il giudice può concedere se “sussiste giustificato motivo” assegnando due termini perentori:

– il primo non superiore a venti giorni per la precisione e modificazione delle domande, eccezioni e conclusioni e per l’indicazione dei mezzi di prova e la produzione di documenti;

– il secondo non superiore a dieci giorni per replicare e per dedurre prova contraria.

Tuttavia, pare opportuno specificare che nel rito semplificato di cognizione non è permessa l’introduzione di nuove domande ed eccezioni che siano conseguenza delle difese svolte dalla controparte, mancando ogni riferimento alla prima delle tre memorie di cui all’art. 171 ter c.p.c.[31].

Tale appendice di trattazione scritta non era prevista nell’ambito della disciplina dell’abrogato procedimento sommario di cognizione e costituisce una novità del nuovo rito semplificato: nel silenzio della legge (rectius: dell’art. 702 ter c.p.c.), si riteneva infatti che il rito sommario – caratterizzato dalla destrutturazione e dalla semplicità dell’istruttoria – fosse incompatibile con la concessione dei termini per in deposito delle memorie ex art. 183 c.p.c., con la conseguenza che le parti avevano l’onere di indicare i mezzi di prova e precisare e modificare domande, eccezioni e conclusioni già proposte entro la prima udienza.

Con riferimento alle neointrodotte memorie integrative all’interno della disciplina del procedimento semplificato di cognizione i maggiori interrogativi si sono posti in relazione al significato da attribuire alla locuzione di “giustificato motivo”, requisito cui il legislatore subordina la concessione dei termini per il deposito delle memorie.

Fra i primi orientamenti formatisi sul testo della riforma[32], v’è chi ha ritenuto che il “giustificato motivo” si possa considerare esistente solo quando l’esigenza di precisare e/o modificare la domanda, nonché di apportare nuove integrazioni istruttorie sia concretamente emersa in seguito alle difese svolte dal convenuto o ai rilievi officiosi effettuati dal giudice; in difetto di tali circostanze, infatti, le preclusioni sarebbero destinate a maturare già con il deposito degli atti introduttivi.

Una seconda impostazione, più aderente al tenore letterale dell’art. 281 undecies, co. 3, parte seconda, c.p.c, – che prevede come uniche attività da compiere a pena di decadenza con l’atto introduttivo la proposizione di domande e di eccezioni (in senso stretto), nonché la chiamata in causa di un terzo – ha invece ritenuto che le preclusioni maturino esclusivamente in relazione a tali attività: per le altre (come le richieste istruttorie) il giudice non si potrebbe invece esimere dal concedere i termini, ove richiesti dalle parti.

Condivisibili paiono tuttavia i rilievi di chi ha evidenziato che entrambe le tesi soprarichiamate non meritano condivisione nella parte in cui la prima, troppo restrittiva, finisce per introdurre in via interpretativa preclusioni scevre da qualsivoglia previsione normativa, mentre la seconda, troppo liberalizzatrice, rischia di togliere al richiesto requisito del “giustificato motivo” ogni valore precettivo.

Sicché sembra preferibile ritenere che alle parti sia comunque consentito di dimostrare la necessità della concessione dei termini per l’appendice di trattazione scritta ai fini del compiuto soddisfacimento delle loro esigenze difensive[33]; fermo restando che, in linea di principio, la trattazione della causa dovrebbe essere auspicabilmente esaurita nell’ambito della prima udienza.

Poste tali premesse, un ulteriore profilo da esaminare è quello relativo al rapporto fra il procedimento ordinario e quello semplificato di cognizione nel caso in cui il giudice abbia disposto con ordinanza il mutamento del rito.

Evidenziato che i due procedimenti, all’esito della riforma, presentano una struttura per nulla affine, v’è da interrogarsi sull’opportunità delle scelte legislative che ne hanno disciplinato il coordinamento.

Il co. 1 dell’art. 281 duodecies c.p.c. dispone che il giudice, nell’ordinare il mutamento del rito da semplificato a ordinario, fissa l’udienza ex art. 183 c.p.c. e, rispetto a tale data, decorreranno a ritroso i termini per il deposito delle memorie integrative ex art. 171 ter c.p.c.

In tal guisa, viene assicurata alle parti la possibilità di modificare e/o precisare le domande e le eccezioni proposte con gli atti introduttivi, nonché quella di avanzare ulteriori istanze istruttorie[34].

Senonché, la soluzione adottata dal legislatore lascia perplessi laddove consente al processo, che svolgendosi secondo lo schema del rito semplificato era già pervenuto all’udienza di trattazione, di regredire, ritornando ad uno stadio antecedente a quello dell’udienza ex art. 183 c.p.c.

Tale regressione, invero, si spiega in ragione dell’innegabile discrasia fra le funzioni assolte dalla prima udienza nel procedimento semplificato – in cui è volta alla trattazione della causa – e in quello ordinario – in cui interviene a trattazione ormai esaurita.

In altri termini, l’ordinanza di mutamento del rito, quando interviene nell’ambito del rito semplificato, lo fa in un momento in cui il thema decidendum e il thema probandum non sono stati ancora definitivamente fissati, né tali elementi potrebbero trovare determinazione nel corso dell’udienza ex art. 183 c.p.c, la quale postula che le preclusioni in ordine alla modificazione/precisazione della domanda e quelle istruttorie siano ormai maturate.

Necessario è parso allora un arretramento del processo in una fase antecedente (quella delle memorie ex art. 171 ter c.p.c.), affinché le parti potessero effettivamente soddisfare le loro esigenze difensive.

Tuttavia, resta il dubbio su quando vadano effettuate quelle verifiche preliminari che la disciplina del procedimento ordinario, all’art. 171 bis, afferma debbano essere compiute dal giudice istruttore entro quindici giorni dalla costituzione del convenuto e che, seguendo il rito semplificato, dovrebbero verosimilmente compiersi nell’ambito della prima udienza.

Nel silenzio della legge, pare doversi escludere che il giudice, prima di concedere i termini per le memorie integrative, debba effettuare le verifiche richieste dall’art. 171 bis c.p.c: preferibile sembra allora ritenere che il giudice, in questo caso, debba (rectius: conservi il potere di) procedere alle opportune verifiche preliminari direttamente all’udienza ex art. 183 c.p.c.

Minori incertezze desta l’ipotesi opposta, disciplinata dall’art. 183 bis c.p.c, in cui il rito viene mutato da ordinario a semplificato: in questo caso il legislatore, in considerazione del fatto che la trattazione della causa si è già esaurita, coerentemente prevede che si applichi “il comma quinto dell’articolo 281 duodecies”, ossia che il giudice, se non ritiene la causa matura per la decisione, provveda ad ammettere i mezzi di prova rilevanti e proceda alla loro assunzione.

In tal caso, bisogna ritenere che non residui spazio alcuno per la concessione dei termini per l’appendice di trattazione scritta ex art. 281 duodecies, co. 4, c.p.c, e ciò sia per ragioni di ordine logico (in quanto sono già state depositate le memorie ex art. 171 ter), che di ordine letterale (perché il co. 5 dell’art. 281 duodecies, richiamato dall’art. 183 bis, presuppone che il giudice non abbia “provveduto ai sensi del secondo e del quarto comma”).

6.La fase istruttoria e la fase decisoria – La semplificazione della fase istruttoria era una delle principali caratteristiche del procedimento sommario di cognizione, e si è detto che tale rito ha costituito lo schema sulla base del quale il legislatore ha modellato la disciplina del nuovo procedimento semplificato, modellato dal legislatore sullo schema dell’abrogato rito sommario di cognizione.

Tuttavia, se l’art. 702 ter c.p.c. si limitava a prevedere che il giudice “sentite le parti e omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio procede nel modo che ritiene più opportuno” all’istruzione della causa, il nuovo art. 281 duodecies, al co. 5, offre più specifiche indicazioni, affermando che “il giudice ammette i mezzi di prova rilevanti per la decisione e procede alla loro assunzione”[35].

Conseguentemente, l’essenziale disciplina della disposizione introdotta dalla c.d. riforma Cartabia va integrata con un (inevitabile) rinvio alle regole fissate per l’ammissione e l’assunzione dei mezzi di prova nell’ambito del rito ordinario, senza che si possa più porre dubbio alcuno (che erano sorti in relazione al rito sommario) sulla possibilità – oggi esclusa – di derogare alle norme dettate nell’ambito del processo ordinario[36].

D’altro canto, fermo restando che nel caso in cui l’istruzione probatoria della causa dovesse risultare troppo complessa per essere trattata nelle forme semplificate il giudice dovrà provvedere a disporre il mutamento del rito ai sensi dell’art. 281 duodecies, co. 1, seconda parte, c.p.c, non sembra che si possano aprioristicamente individuare delle limitazioni in ordine all’ammissibilità (nel rito sommario) dei mezzi di prova previsti dalla disciplina del procedimento ordinario.

In dottrina, infatti, si è opportunamente evidenziato che la complessità dell’istruttoria o della lite che rende doveroso il mutamento del rito non può discendere dalla necessità di assumere un singolo mezzo di prova, ma consegue da una valutazione complessiva[37].

La fase decisoria del procedimento semplificato è disciplinata dall’art. 281 terdecies c.p.c.

Il legislatore ha previsto che il giudice si pronunci sulla causa con sentenza, a differenza di quanto era stabilito dall’art. 702 ter c.p.c, ai sensi del quale il provvedimento conclusivo del procedimento sommario rivestiva la forma dell’ordinanza.

La sentenza conclusiva del rito semplificato, nel caso in cui la causa sia devoluta alla competenza del tribunale in composizione monocratica, viene adottata secondo il modulo decisorio di cui all’art. 281 sexies c.p.c; invece, nelle cause in cui il tribunale giudica in composizione collegiale, la sentenza segue il modulo decisorio di cui all’art. 275 bis c.p.c.

In assenza di una previsione normativa che lo consenta apertis verbis, sembra doversi escludere l’applicabilità nel rito semplificato delle due ordinanze decisorie ex artt. 183 ter e 183 quater, le quali – conducendo al rigetto o all’accoglimento della domanda in seguito a una delibazione in ordine alla “manifesta infondatezza” della domanda o delle difese – rivestono indubbiamente natura eccezionale, e non possono dunque trovare applicazione al di là dei casi in cui sono espressamente previste.

7.L’appello – Il legislatore della riforma ha rinunciato a dettare una disciplina ad hoc per regolare le impugnazioni avverso la sentenza conclusiva del rito semplificato di cognizione: l’ultimo comma dell’art. 281 terdecies si limita infatti ad affermare che “la sentenza è impugnabile nelle vie ordinarie”[38].

Tale scelta, invero, si discosta da quella che era stata adottata dal legislatore del 2009 che, nell’introdurre il procedimento sommario di cognizione, aveva predisposto una norma apposita (l’art. 702 quater) per disciplinare il regime delle impugnazioni.

Plausibilmente, la principale ragione che aveva indotto a dettare un’apposita disciplina per l’appello proposto nei confronti del provvedimento conclusivo del procedimento sommario di cognizione va individuata nella circostanza che quest’ultimo rivestiva la forma dell’ordinanza e non della sentenza.

Conseguentemente, l’assenza di una disposizione come l’art. 702 quater c.p.c. avrebbe senz’altro suscitato notevoli incertezze con riferimento all’autorità ed alla stabilità dell’ordinanza conclusiva del procedimento sommario.

Infatti, la disciplina dell’art. 702 quater c.p.c, si occupava innanzitutto di stabilire che l’ordinanza resa ai sensi dell’art. 702 ter, ove non appellata nel termine di trenta giorni dalla sua notificazione o comunicazione, ha piena attitudine al giudicato sostanziale; nessuna indicazione veniva invece fornita in relazione alla forma che doveva rivestire l’atto introduttivo del giudizio di appello.

Tale lacuna normativa, invero, ha destato notevoli dubbi interpretativi in dottrina e giurisprudenza, non essendo agevole evincere dalla dictio legis della norma se l’appello dovesse essere proposto con la forma del ricorso (la stessa forma rivestita dall’atto introduttivo del giudizio di primo grado instaurato con il rito sommario di cognizione), ovvero con quella della citazione a comparire a udienza fissa (come per le impugnazioni proposte avverso la sentenza conclusiva del rito ordinario)[39].

Tale interrogativo, lungi dall’avere rilievo esclusivamente dogmatico, rivestiva grande importanza pratica: infatti, mentre il ricorso produce i suoi effetti al momento del deposito in cancelleria, la citazione si perfeziona al momento della notifica, con la conseguenza che l’adozione di una forma errata per la proposizione dell’appello poteva comportare l’inammissibilità dell’impugnazione e il passaggio in giudicato dell’ordinanza resa in primo grado.

Dopo le prime incertezze, la soluzione prevalsa in giurisprudenza è stata quella di ritenere che l’appello avverso l’ordinanza conclusiva del procedimento sommario andasse proposta nella forma dell’atto di citazione (dovendosi applicare la disciplina ordinaria di cui agli artt. 339 e ss. c.p.c.) e che in caso di erronea proposizione dell’appello nelle forme del ricorso il vizio possa considerarsi sanato esclusivamente ove l’atto sia stato (non solo depositato ma anche) notificato nei termini previsti per impugnare[40].

La giurisprudenza aveva invece escluso che l’errore dell’appellante sull’atto introduttivo potesse essere emendato tramite il ricorso allo strumento della conversione del rito di cui all’art. 4, D. lgs. 150/2011[41], che prevede che gli “effetti sostanziali e processuali della domanda si producono secondo le norme del rito seguito prima del mutamento”.

Il legislatore della riforma, nell’affermare che “l’appello va proposto nei modi ordinari”, propende innegabilmente per la medesima soluzione che già si era consolidata in giurisprudenza, sicché oggi è fuor di dubbio che l’appello avverso la sentenza conclusiva del rito semplificato vada proposto nelle forme dell’atto di citazione.

Un’ulteriore differenza fra la disciplina delle impugnazioni recata dall’art. 281 terdecies, ult. co, per il rito semplificato e quella che era prevista dall’art. 702 quater per il procedimento sommario attiene alla tematica dei nova e, nello specifico, alla possibilità di introdurre nuove prove nel giudizio di appello.

L’art. 702 quater c.p.c, infatti, oltre ad affermare l’attitudine al giudicato sostanziale dell’ordinanza conclusiva del procedimento sommario, stabiliva l’ammissibilità di nuovi mezzi di prova e nuovi documenti nel caso in cui fossero stati ritenuti indispensabili dal collegio, ovvero la parte avesse dimostrato di non averli potuti produrre prima per causa a lei non imputabile.

Tale previsione, invero, si discostava da quella dettata dall’art. 345 c.p.c. per l’appello nel rito ordinario, che limita l’ammissibilità di nuove prove e nuovi documenti alla sola ipotesi in cui “la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile”, escludendo quindi l’ammissibilità delle prove “indispensabili”.

La ratio di tale differente regolamentazione era stata individuata nella necessità di assicurare – dopo un primo grado svoltosi nelle forme sommarie, caratterizzate dalla destrutturazione e semplificazione della fase istruttoria – la pienezza del contraddittorio ampliando (rispetto al rito ordinario) la possibilità di ammettere nuove prove[42].

Nell’attuale disciplina del procedimento semplificato di cognizione, invece, manca una specifica disposizione atta a regolare l’ammissione di nuove prove in maniera difforme rispetto a quanto avviene nell’appello ordinario, con la conseguenza che, sotto tale profilo, non è più ravvisabile alcuna differenza fra l’appello “semplificato” e l’appello “ordinario”[43].

8.Conclusioni – In definitiva, la disciplina introdotta dal legislatore agli art. 281 decies e ss. c.p.c. sembra coerente rispetto allo scopo prefissato, che era quello di inserire un procedimento alternativo al rito ordinario che consentisse una più rapida ed efficiente trattazione delle controversie caratterizzate da una minor complessità della lite e/o dell’istruttoria.

Infatti, la disciplina del nuovo rito semplificato è caratterizzata da maggior completezza e congruità rispetto a quella dell’abrogato procedimento semplificato, destando altresì minori dubbi e perplessità nella sua interpretazione ed applicazione.

In primo luogo, meritano condivisione la ricollocazione sistematica dell’istituto all’interno del Libro II del codice di rito e il nomen iuris prescelto dal legislatore[44], i quali (si è detto) fugano ogni dubbio, chiarendo inequivocabilmente che il procedimento semplificato di cognizione è caratterizzato da una cognizione piena ed esauriente e costituisce un rito in tutto e per tutto alternativo rispetto a quello ordinario.

Un ulteriore pregio della nuova disciplina, inoltre, va senz’altro individuato nella previsione della perfetta comunicabilità fra rito ordinario e rito semplificato, attuata mediante la generalizzazione della possibilità attribuita al giudice – valutata la complessità della lite e dell’istruttoria – di disporre il mutamento del rito.

Opportuna pare altresì la mancata applicazione della c.d. trattazione scritta anticipata al rito ex art. 281 decies c.p.c, mitigata dalla possibilità che i termini per il deposito delle memorie integrative vengano comunque concessi in prima udienza ove venga ravvisato un “giustificato motivo”: la soluzione adottata appare coerente con la snellezza e la duttilità che, nella mens legis, dovevano caratterizzare il rito in esame.

La riforma, all’art. 281 duodecies, ha altresì risolto il dubbio, posto dalla previgente disciplina del rito sommario di cognizione, sulla maturazione delle preclusioni istruttorie, chiarendo che le parti hanno l’onere di richiedere l’ammissione dei mezzi di prova di cui intendono avvalersi già con gli atti introduttivi, poiché la concessione dei due termini ulteriori per il deposito delle memorie integrative è subordinato alla valutazione (discrezionale) del giudice in ordine alla sussistenza di un “giustificato motivo”[45].

Infine, con riferimento alle impugnazioni, si è già evidenziato come l’inequivoco rinvio alla disciplina ordinaria ha determinato il definitivo superamento degli interrogativi che erano stati posti dalla formulazione dell’art. 702 quater in relazione alla forma dell’atto introduttivo del giudizio d’appello.

In conclusione, sembra che il nuovo procedimento semplificato possa costituire uno strumento utile (seppur non risolutivo) per incrementare l’efficienza del processo civile nelle controversie in cui è destinato a trovare applicazione.

Inoltre, pare ragionevole prevedere che l’utilizzo del nuovo rito sarà accolto con un certo favore da avvocati e magistrati, poiché la sua struttura si presenta ben più duttile e snella rispetto a quella del novellato rito ordinario[46].

Tuttavia, sarebbe utopico ritenere che l’introduzione del procedimento semplificato di cognizione (anche se considerata unitamente alle ulteriori innovazioni introdotte dalla riforma al processo civile) possa offrire un concreto apporto ai fini della risoluzione dell’endemica crisi della giustizia italiana.

Le ragioni di tale crisi vanno infatti individuate nelle carenze di organico e, più in generale, nell’inadeguata organizzazione degli uffici giudiziari, e non nell’inefficienza delle norme che regolano il processo[47].

Conseguentemente, le difficoltà in cui versa il processo civile non sono suscettibili di essere risolte da una riforma che introduca esclusivamente modifiche procedimentali e non anche strutturali.

[1] L’eccessiva durata dei giudizi in Italia è stata censurata a più riprese dalla Corte EDU. La prima sentenza di condanna pronunciata dai giudici di Strasburgo nei confronti dell’Italia per l’irragionevole durata di un processo civile è stata adottata nel caso Capuano contro Italia (Corte EDU, Capuano c. Italia, 25 giugno 1987. In merito al dibattito sulla (ir)ragionevole durata dei processi italiani cfr. Falletti, Il dibattito sulla ragionevole durata del processo tra la Corte Europea dei diritti dell’uomo e lo Stato italiano, in Revista da Ajuris, 2006, 335.

[2] In dottrina, per i primi contributi sul procedimento semplificato di cognizione, cfr. Carratta, Riforma Cartabia: il nuovo processo civile (II parte) – due modelli processuali a confronto: il rito ordinario e quello semplificato, in Giur. it, 2023, 697; Balena, Il procedimento semplificato di cognizione, in Il foro italiano. Gli speciali. Riforma del processo civile, a cura di D. Dalfino, Piacenza, 2023, 195; Id, Il (seminuovo) procedimento semplificato di cognizione, in Il giusto proc. civ, 2023, 1; Trisorio Liuzzi, La fase introduttiva del giudizio civile di primo grado dinanzi al tribunale, in Il giusto proc. civ, 2023, 25 e in part. 49; Tiscini, Il procedimento semplificato di cognizione, in La riforma Cartabia del processo civile. Commento al d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, Pisa, 2023, 395; Gambineri, Il procedimento semplificato di cognizione (o meglio il “nuovo) processo di cognizione di primo grado), in Questionegiustizia.it, 1, 2023; Motto, Prime osservazioni sul procedimento semplificato di cognizione, in Judicium.it, 2023; Montanaro, Il procedimento semplificato di cognizione: un’occasione mancata, in Questionegiustizia.it, 3, 2023; Cirulli, Il procedimento semplificato di cognizione, in Il processo civile dopo la Riforma Cartabia, (a cura di) Didone, De Santis, Milano, 2023, 235; Mignolla, Il processo semplificato, in Il processo civile dopo la riforma, d. lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, Torino, 2023, 169; Viola, Rito semplificato di cognizione ex art. 281 decies c.p.c.: le nuove preclusioni forti e deboli, in La nuova proc. civ, 1, 2023.

[3] In questo senso Cirulli, Il procedimento semplificato di cognizione, cit., 238, il quale perviene alla conclusione che il legislatore, con il nuovo procedimento semplificato, abbia inteso adottare non un rito speciale, quanto un “rito ordinario parzialmente accelerato, introdotto con ricorso anziché con citazione, con temini ridotti, prico delle verifiche preliminari (art. 171 bis) e delle memorie integrative (171 ter).

[4] Sulla natura del procedimento sommario di cognizione v., per tutti, Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2014, 585; Balena, Istituzioni di diritto processuale civile, III, Bari, 2018, 3; Trisorio Liuzzi, Centralità del giudicato al tramonto?, Napoli, 2016, 114; Tedoldi, Procedimento sommario di cognizione, Torino, 2016; Guaglione, Il nuovo processo sommario di cognizione, Lecce, 2009, 203; Porreca, Il procedimento sommario di cognizione, Milano, 2011.

[5] In relazione a tale dibattito, si veda per tutti Tiscini, Il procedimento semplificato di cognizione, cit., 406, e in part. nota 3, ed ivi ulteriori richiami. Sul punto cfr. anche Mignolla, Il processo semplificato, cit., 172.

[6]A favore dell’inapplicabilità del procedimento sommario di cognizione alle controversie per le quali è prescritto il rito del lavoro cfr. Dalfino, Sull’inapplicabilità del nuovo procedimento di cognizione alle cause di lavoro, in Foro it., 2009, V, 392; Lombardi, Il procedimento sommario di cognizione generale, in questa Rivista, 2010, 477.

Per le opinioni favorevoli all’applicazione del rito sommario nelle cause assoggettate al rito del lavoro cfr. Trisorio Liuzzi, Centralità del giudicato al tramonto?, cit., 115; Benanti, Pretese limitazioni all’applicabilità del procedimento sommario introdotto con il nuovo art. 702 bis, in Il giusto proc. civ, 2011, 505.

In giurisprudenza, per la tesi della compatibilità, v. Trib. Napoli, 25 maggio 2010, Trib. Lamezia Terme, 12 marzo 2010, Foro it., 2011, I, 941; Trib. Latina, 3 marzo 2011. Al contrario, per la tesi dell’incompatibilità v. Trib. Modena, 18 gennaio 2010, in Giur. it., 2012, 388; Trib. Reggio Emilia, 4 marzo 2011; Trib. Torre Annunziata, sez. dist. Torre del Greco, 10 febbraio 2010.

[7] Per le ragioni che hanno portato la dottrina maggioritaria ad escludere la compatibilità fra il rito sommario di cognizione e le controversie di lavoro e previdenziali cfr. Caprio, Tabasco, L’istruttoria nel procedimento sommario, Rimini, 2019, e ivi ulteriori richiami; Fanesi, Domande introdotte con rito sommario di cognizione ritenute inammissibili per incompatibilità strutturale del rito con l’oggetto della domanda, in judicium.it (https://www.judicium.it/domande-introdotte-rito-sommario-cognizione-ritenute-inammissibili-incompatibilita-strutturale-del-rito-loggetto-della-domanda/), 2020.

In particolare, la tesi negativa era fondata su tre distinti argomenti.

In primis, la disciplina del rito sommario faceva espresso riferimento, per l’atto introduttivo e la memoria di costituzione, ai requisiti di forma-contenuto previsti agli artt. 163 e 167 c.p.c., il che aveva fatto desumere una ratio legis volta a concepire il rito sommario come un procedimento speculare a quello ordinario e non a quello del lavoro.

In secondo luogo, l’art. 702 ter, nel disciplinare il mutamento del rito, prevedeva che il giudice rinviasse la causa all’udienza ex art. 183 c.p.c, non prevista nell’ambito del rito del lavoro.

Da ultimo, nel rito sommario di cognizione non vengono riconosciuti al giudice i medesimi i poteri officiosi che gli sono attribuiti nelle controversie di lavoro, né v’è menzione dell’onere di indicare mezzi di prova e documenti, a pena di decadenza, con gli atti introduttivi.

Un’ulteriore ragione, di stampo sistematico, è stata individuata da Acierno, Il nuovo procedimento sommario, in Corr. giur., 2010, 499. Per l’Autrice, la circostanza che l’art. 54 della l. n. 69 del 2009 contenesse una delega al Governo per la riduzione e semplificazione dei riti, individuando tre modelli (ordinario, sommario di cognizione e rito del lavoro) che non ammettono reciproche interferenze, doveva portare a escludere l’applicazione del procedimento sommario alle controversie assoggettate al rito del lavoro.

[8] Così Cirulli, Il procedimento semplificato di cognizione, cit., 252, il quale afferma che “il rito speciale ha carattere esclusivo.

[9] Sul punto cfr. Abbamonte, Il procedimento sommario di cognizione e la disciplina della conversione del rito, Milano, 2017, 236, Acierno, Il nuovo procedimento sommario, cit., 499; Della Vedova, Il giusto processo sommario, Padova, 2013, 185; Porreca, Il procedimento sommario, cit., 121; Tedoldi, Procedimento sommario di cognizione, cit., 432.

[10] Cfr. Cass., 9 luglio 2019, n. 18331; Cass, 27 ottobre 2015, n. 21914.

[11] Sul punto v. Casciaro, L’inammissibilità nel procedimento sommario di cognizione, in Il giusto proc. civ, 2021, 1179.

[12] Sul punto, in dottrina, cfr. Porreca, Il procedimento sommario di cognizione, cit., 130; Abbamonte, Il procedimento sommario di cognizione e la disciplina della conversione del rito, cit., 238; Tedoldi, Procedimento sommario di cognizione, cit., 440; Casciaro, L’inammissibilità nel procedimento sommario di cognizione, cit., 1179.

In giurisprudenza cfr. Cass., 9 settembre 2019, n. 18331, per cui “al di fuori dei casi in cui il tribunale giudica in composizione collegiale, laddove il procedimento sommario di cognizione introdotto dalla parte sia ritenuto dal giudice inammissibile per ragioni diverse e, in particolare, in ragione di una ritenuta incompatibilità del rito sommario con l’oggetto della domanda, deve essere disposto il mutamento del rito ai sensi dell’art. 702 ter c.p.c., comma 3, e non dichiarata l’inammissibilità della domanda ai sensi dell’art. 702 ter c.p.c., comma 2; in siffatte ipotesi, l’eventuale decisione di inammissibilità della domanda che definisca il processo, non rientrando tra quelle per cui è espressamente prevista dalla legge la dichiarazione di inammissibilità con ordinanza non impugnabile, è di conseguenza appellabile, ovvero, se sia adottata in materia per la quale è escluso il doppio grado di giudizio in virtù di una diversa e specifica disposizione di legge, come per il caso dell’opposizione agli atti esecutivi di cui all’art. 617 c.p.c., essa è direttamente ricorribile per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., o comunque censurabile con lo specifico mezzo di impugnazione specificamente previsto dalla legge”.

Ad analoghe conclusioni era giunta anche la giurisprudenza di merito che, anzi, si era spinta oltre, stabilendo che nel caso in cui una controversia rientrante nelle materie di cui all’art. 50 bis c.p.c. fosse stata introdotta nelle forme del procedimento sommario, l’ordinanza del giudice che dispone il mutamento del rito in luogo dell’inammissibilità prescritta dall’art. 702 ter, co. 2, c.p.c. non comporta la nullità del procedimento, essendo tale error in procedendo inidoneo ad inficiare la validità del provvedimento in assenza di una concreta lesione del diritto del contraddittorio e di quello di difesa.

In tal senso v. App. Milano, 20 marzo 2015, in Foro it., 2015, 2950.

[13] Corte Cost., 26 novembre 2020, n. 253, con nota di Volpino, La Corte Costituzionale e il rito sommario: ars interpretandi?, in Il giusto proc. civ, 2021, 161. Nello specifico, la Consulta aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 702 ter, co. 2, ultimo periodo, cod. proc. civ., per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non prevedeva che, qualora con la domanda riconvenzionale sia proposta una causa pregiudiziale a quella oggetto del ricorso principale e la stessa rientri tra quelle in cui il Tribunale giudica in composizione collegiale, il giudice adito potesse disporre il mutamento del rito fissando l’udienza di cui all’art. 183 cod. proc. civ..

[14] Ciò emerge dall’analisi statistica contenuta nella Relazione al progetto di legge che ha condotto alla Riforma Cartabia e, in particolare, nella tabella riportata a pagina 3 della Relazione, consultabile al sito http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/01141527.pdf.

[15] La medesima osservazione è sollevata da Balena (Il procedimento semplificato di cognizione, in Riforma del processo civile, cit., 210) con riferimento al nuovo rito semplificato. Nello specifico, l’Autore afferma che “se la durata dei processi definiti col rito in esame sarà inferiore a quella dei processi trattati col rito ordinario, ciò dipenderà solamente dalla minore complessità delle controversie che ne sono oggetto”. Nello stesso senso cfr. Mignolla, Il processo semplificato, cit., 201.

[16] Trisorio Liuzzi, La fase introduttiva del giudizio civile di primo grado dinanzi al tribunale, cit., 27; Biavati, L’architettura della riforma del processo civile, Bologna, 2021, 34; Tiscini, Il procedimento semplificato di cognizione, cit., 407, dove l’Autrice afferma che “emerge chiara l’intenzione di rendere il procedimento semplificato di cognizione alternativo a quello ordinario”, osservando altresì che essendo “indubbia (ormai da anni) l’intenzione di promuovere un modello sommario-semplificato, il rito disciplinato dagli artt. 702 bis ss. c.p.c. ha poi preso il sopravvento in molteplici direzioni”.

[17] In questo senso cfr. Balena, Il procedimento semplificato di cognizione, cit., 197, ove l’Autore osserva che “al di fuori dell’ipotesi in cui la domanda sia fondata su prova documentale, la verifica dei presupposti contemplati dal primo comma non è possobile ex ante, poiché dipende essenzialmente dal tenore delle difese del convenuto, che possono rendere controversi i fatti allegati dall’attore e comunque più o meno complessa la fase strictu sensu istruttoria”. Nello stesso senso v. Cirulli, Il procedimento semplificato di cognizione, cit., 240.

Nello stesso senso v. Tiscini, Il procedimento semplificato di cognizione, cit., 407, L’Autrice, con specifico riferimento al requisito della “semplicità della lite” e a quello della “non complessità dell’istruttoria”, osserva che si tratta di presupposti difficilmente determinabili a priori “bensì valutabili ex post, una volta che sul tavolo del giudice si sia riversata l’intera (o quasi) materia del contendere; una volta cioè che il convenuto si sia costituito (e non si sia avvertita la necessità o possibilità di coinvolgere terzi)”.

[18] Così Balena, Il procedimento semplificato di cognizione, cit., 197. L’Autore afferma che “l’obbligatorietà del rito in esame dev’essere riferita non all’instaurazione del processo, bensì alla trattazione della causa, che in tali ipotesi, laddove fosse stata promossa col rito ordinario, dovrebbe proseguire nelle forme del rito semplificato”. In relazione a tale profilo cfr. altresì Mignolla, Il processo semplificato, cit., 179.

[19] In relazione a tale profilo cfr. Tedoldi, Procedimento sommario di cognizione, cit., 436, il quale, nel criticare l’irragionevole sanzione dell’inammissibilità che era prevista dall’art. 702 ter, osserva che l’art. 183 bis c.p.c., consentendo al giudice di passare anche d’ufficio dal rito ordinario a quello sommario “rende i due riti perfettamente intercambiabili tra loro, in base al gradiente di complessità della causa. Talché l’inammissibilità del rito sommario erroneamente adottato dal ricorrente per la domanda riservata a decisione collegiale riesce del tutto priva di senso, al cospetto di una norma che pone i due riti, sommario e ordinario, su un medesimo piano di reciproca osmosi”. Nello stesso senso cfr. Della Vedova, Il giusto processo sommario, cit., 184.

[20] In relazione all’asimmetria sussistente fra la formulazione dell’art. 281 duodecies c.p.c. e quella dell’art. 183 bis c.p.c. cfr. Mignolla, Il processo semplificato, cit., 178, il quale rileva che nei casi in cui l’introduzione del giudizio con il rito semplificato è facoltativa (id est: nelle controversie che difettano dei requisiti ex art. 281 decies, co. 1, c.p.c. in cui il Tribunale giudica in composizione monocratica), se la causa è promossa nelle forme ordinarie il giudice non potrà disporre il mutamento del rito.

[21] Balena, Il procedimento semplificato di cognizione, cit., 197; Tiscini, Il procedimento semplificato di cognizione, cit., 414.

[22] Così Montanaro, Il rito semplificato di cognizione: un’occasione mancata, in www.questionegiustizia.it, cit., 2; Mignolla, Il processo semplificato, cit., 181.

[23] In questo senso cfr. Tiscini, Il procedimento semplificato di cognizione, cit., 407.

[24] Per le innovazioni introdotte dalla riforma all’art. 163 c.p.c. cfr. Trisorio Liuzzi, La fase introduttiva, cit., 29; Reali, La fase introduttiva della trattazione, in Il foro italiano. Gli speciali. Riforma del processo civile, a cura di D. Dalfino, Piacenza, 2022, 93; Volpino, La nuova fase introduttiva, cit., 718.

[25] Sul punto v. Mignolla, Il processo semplificato, cit., 183, il quale rileva che “la codificazione dell’ipotesi in cui il luogo della notifica si trovi all’estero” costituisce una novità della riforma.

[26] In questo senso v. Mignolla, Il processo semplificato, cit., 182.

[27] Sul punto cfr. Balena, Il procedimento semplificato di cognizione, cit., 200; Trisorio Liuzzi, La fase introduttiva, cit., 48, il quale osserva che il legislatore, dopo aver previsto che il giudice deve fissare l’udienza di comparizione delle parti entro cinque giorni dalla sua designazione, “inspiegabilmente non ha previsto un termine (ordinatorio) entro il quale il giudice deve fissare la prima udienza”, rendendo concreto  il rischio “che tale udienza possa essere a distanza di molti mesi”.

[28] Sul punto cfr. Costantino, Il processo di cognizione in primo grado, in La riforma della giustizia civile a cura di Costantino, 2022, 158; Trisorio Liuzzi, La fase introduttiva, cit., 27; Reali, La fase introduttiva della trattazione, cit., 93; Volpino, La nuova fase introduttiva del procedimento ordinario di cognizione, in Il giusto proc. civ, 2022, 711; Boccagna Le norme sul giudizio di primo grado nella delega per la riforma del processo civile: note a prima lettura, in ildirittoprocessualecivile.it, 2022, 260.

[29] Così Trisorio Liuzzi, La fase introduttiva, cit., 32.

[30] In questi termini Trisorio Liuzzi, La fase introduttiva, cit., 32; Volpino, La nuova fase introduttiva, cit., 731, il quale, con riferimento ai poteri delle parti in prima udienza, osserva che l’eventuale costituzione tardiva del convenuto “alle soglie o il giorno stesso dell’udienza” lo farà decadere dal potere di depositare le memorie integrative, per la quali la scadenza ultima è individuata dieci giorni prima dell’udienza ex art. 183 c.p.c.

[31] Sul punto v. Balena, Il procedimento semplificato di cognizione, cit., 203, il quale osserva tuttavia che “la rilevanza pratica di questa inopportuna limitazione è però fortemente ridimensionata dal noto orientamento della giurisprudenza più recente – formatosi in relazione al rito ordinario, ma sicuramente estendibile al procedimento in esame – secondo cui la modificazione della domanda (emendatio libelli) può tradursi anche nella proposizione di una domanda affatto diversa per petitum e/o per causa petendi, purché riguardante la medesima vicenda sostanziale e alternativa rispetto alla domanda originaria”.

Per tale orientamento della giurisprudenza v. Cass, S.U., 15 giugno 2015, n. 12310, in Foro it, 2016, I, 255, con nota di Cea, ove i giudici di legittimità hanno statuito che: “La modificazione della domanda ammessa a norma dell’art. 183 c.p.c. può riguardare anche uno o entrambi gli elementi oggettivi della stessa (petitum e causa petendi), sempre che la domanda così modificata risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio e senza che, perciò solo, si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte, ovvero l’allungamento dei tempi processuali”.

Ne parlano, in dottrina, Consolo, Le S.U. aprono alle domande “complanari”: ammissibili in primo grado ancorché (chiaramente e irriducibilmente) diverse da quella originaria cui si cumuleranno, in Corr. giur, 2015, 968; Motto, Le sezioni unite sulla modificazione della domanda giudiziale, in Foro it, 2015, 3190; Id, Domanda di esecuzione in forma specifica dell’obbligo a contrarre ex art. 2932 c.c. e domanda di accertamento dell’avvenuto trasferimento della proprietà: mutatio o emendatio libelli?, in Il giusto proc. civ, 1014, 1027.

[32] Sul punto v. Trisorio Liuzzi, La fase introduttiva, cit., 49

[33] Così Trisorio Liuzzi, La fase introduttiva, cit., 50; Balena, Il procedimento semplificato di cognizione, cit., 204, il quale precisa che la sussistenza del “giustificato motivo” è necessaria ai soli fini della concessione del doppio termine per il deposito delle memorie integrative, mentre l’esercizio dello ius variandi (precisazione/modificazione di domande ed eccezioni e indicazione di mezzi di prova e documenti) in prima udienza non è subordinato all’emanazione di alcun provvedimento discrezionale.

[34] Sul punto cfr. Balena, Il procedimento semplificato di cognizione, cit., 197; Tiscini, Il procedimento semplificato di cognizione, cit., 430.

[35] Sul punto cfr. Cirulli, Il procedimento semplificato di cognizione, cit. 237. L’Autore evidenzia che la differente formulazione dell’art. 281 duodecies c.p.c. (rispetto all’abrogato art. 702 ter c.p.c.) è suscettibile di avere notevoli ricadute pratiche, in quanto “la soppressione del potere giudiziale di procedere nel modo ritenuto più opportuno più non consente di derogare le norme in materia di ammissione ed assunzione dei mezzi di prova contenute nel libro sesto del codice civile e nel libro secondo del codice di rito”, con la conseguenza che “nel rito semplificato non è infatti prevista la deduzione ed assunzione di nuove prove atipiche (sub specie di sommarie informazioni), né di prove tipiche con modalità atipiche o deformalizzate (ad es. testimonianza non articolata per capitoli separati e specifici), diversamente che nell’abrogato rito sommario”.

[36] Sul punto v. Balena, Il procedimento semplificato di cognizione, cit., 206. Cfr. anche Mignolla, Il processo semplificato, cit., 193. L’Autore osserva che il criterio seguito dal legislatore per disciplinare la fase istruttoria del nuovo rito semplificato ha significative divergenze rispetto a quello che era stato adottato per il procedimento sommario: se nel modello delineato dall’art. 702 ter c.p.c. la prima udienza si presentava già come “l’occasione propizia per l’istruzione della causa, cui il giudice sarebbe stato tenuto in modo deformalizzato, dovendo rispettare esclusivamente gli adempimenti funzionali all’esercizio del contraddittorio fra le parti”, il modello del nuovo rito semplificato pare ben più affine a quello adottato per il rito ordinario “al quale si richiama nella scansione della trattazione e dell’attività istruttoria, seppur secondo termini ridotti e senza l’apposita disciplina delle memorie integrative”.

[37] Così Balena, Il procedimento semplificato di cognizione, cit., 207, ove l’Autore afferma che “la laconica formulazione della norma in esame non lascia dubbi circa la piena applicazione al rito semplificato di tutte le disposizioni riguardanti tanto il procedimento di assunzione delle prove quanto, più a monte, il “catalogo” dei mezzi di prova utilizzabili (comprensivo delle c.d. prove “atipiche”) ed i rispettivi limiti di ammissibilità. In ragione di ciò, non sarebbe corretto, a mio avviso, escludere a priori l’uno o l’altro mezzo istruttorio (e il pensiero corre inevitabilmente, in primo luogo, alla consulenza tecnica, della cui compatibilità con il “vecchio” rito sommario si era talora dubitato”.

[38] Sul punto v. Tiscini, Il procedimento semplificato di cognizione, cit., 443, la quale, osservato che l’art. 281 terdecies non disciplina l’appello, bensì la fase decisoria del giudizio di primo grado, conclude che “viene meno dunque qualsiasi peculiarità nel secondo grado di giudizio a differenza di com’era nel rito sommario, il cui appello costituiva un non irrilevante elemento differenziale rispetto al giudizio ordinario”.

[39] Sul punto cfr. Scala, L’appello nel procedimento sommario di cognizione, in Giur. it, 2010, 738, il quale, all’indomani dell’introduzione del rito sommario, aveva osservato che “in astratto è possibile sia pensare che l’appello vada introdotto con ricorso (coerentemente con l’idea che, in assenza di una diversa disposizione, l’atto introduttivo del giudizio di appello debba seguire le forme di quello con cui si è instaurato il processo in primo grado), sia che vada instaurato con atto di citazione, secondo quanto previsto in termini generali dall’ art. 339 c.p.c. e segg.”.

[40] Così Cass. 5 marzo 2020, n. 6318, in Foro It, con nota di Damiani, Osservazioni in tema di errore sulla forma dell’atto di impugnazione; Cass. 30 settembre 2019, n. 24379, in Giur. it. 2020, 1378, con nota di Scalvini, L’appello ex art. 702 quater c.p.c. si propone con atto di citazione; Cass, 15 dicembre 2014, n. 26326, in Giur. it, 2015, 1621, con nota di Amendolagine, L’appello avverso l’ordinanza emessa ex art. 702 quater c.p.c. si propone con atto di citazione.

[41] Sul punto cfr. Cass. 30 settembre 2019, n. 24379, in Giur. it. 2020, 1378, con nota di Scalvini, L’appello ex art. 702 quater c.p.c, cit.

[42] Per tale profilo cfr. Tiscini, Il procedimento semplificato di cognizione, cit., 409, e in part. nota 14, la quale osserva che “il non aver costruito una lex specialis intorno al secondo grado di giudizio del rito semplificato trova ragione nel fatto che l’ambito cognitivo di quest’ultimo – un rito semplificato, ma non sommario – può agevolmente sovrapporsi a quello del rito ordinario (non semplificato), nessuna esigenza di specializzazione ispirando in questo caso il nuovo modello processuale”.

[43] In questo senso cfr. Mignolla, Il processo semplificato, cit., 196.

[44] Cfr. Tiscini, Il procedimento semplificato di cognizione cit., 405

[45] In questi termini v. Bernardo, Relazione sulle novità normative della riforma “Cartabia”, Rel. n. 11/2022 (a cura di Cecilia Bernardo) le modifiche del giudizio di merito, 2023, 136.

[46] Di questo avviso Trisorio Liuzzi, La fase introduttiva, cit., 50.

[47] Così Balena, Il procedimento semplificato di cognizione, cit., 210.