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Comunicazioni digitali, (il)legittimità delle fonti di prova e licenziamento disciplinare
Di Lucia D’Arcangelo -
Abstract
La trasformazione digitale del terzo millennio reca con sé innumerevoli problemi giuridici che gli operatori del diritto stentano a risolvere con le categorie giuridiche tradizionali, ancorate a testi che affondano le proprie radici in un humus culturale molto diverso da quello attuale. Tra le varie questioni che gli interpreti, nel silenzio legislativo, si trovano ad affrontare vi è quella dell’acquisizione a fini probatori e dell’utilizzabilità delle comunicazioni digitali. In sede penale, gli strumenti del sequestro probatorio e delle intercettazioni non sempre si dimostrano al passo coi tempi caratterizzati da comunicazioni spesso asincroniche; in sede civile, nel codice di rito difetta una norma che disciplina il regime di utilizzabilità della prova acquisita in violazione di norme sostanziali. In questo contesto, è in corso un intenso dibattito, specie in ambito penale, riguardante il concetto di corrispondenza delineato nell’art. 15 della Costituzione e la sua idoneità a ricomprendere anche la messaggistica istantanea, come WhatsApp, che consente di scambiare sia in chat che in gruppi messaggi – ma anche foto e video – potenzialmente suscettibili di diventare di dominio pubblico. I profili evidentemente sono connessi come dimostra la discussione in ambito lavoristico nel quale si assiste sempre più spesso all’irrogazione di sanzioni disciplinari che traggono origine dall’uso che il lavoratore fa dello strumento informatico, ad esempio diffondendo critiche denigratorie nei confronti dell’azienda o dei superiori gerarchici mediante propri profili aperti ed accessibili sui cd. social network, come Facebook, o attraverso WhatsApp. L’Autrice, attraverso l’esame delle recenti pronunce del Giudice delle leggi, della Suprema Corte di cassazione e delle Corti internazionali, ricostruisce lo stato attuale del dibattito fornendo una interpretazione costituzionalmente orientata delle varie disposizioni, giungendo alla conclusione che la chat in un gruppo chiuso di Facebook o di WhatsApp deve essere equiparata alla corrispondenza privata che, in quanto tale, non può essere divulgata all’esterno; con tutte le conseguenze che ne derivano, in sede penale, per l’intercettazione ed il sequestro dei messaggi scambiati in una chat privata e, in sede civile, per l’utilizzo nell’ambito di un procedimento disciplinare nei confronti del lavoratore subordinato incolpato di aver offeso il proprio datore di lavoro attraverso la messagistica istantanea.
The digital transformation of the third millennium brings with it countless legal problems which legal practitioners are having difficulty in solving with traditional legal categories, anchored to texts that have their roots in a cultural humus very different from the current one. Among the various issues that interpreters, in the legislative silence, are faced with is the acquisition for probative purposes and the usability of digital communications. In criminal matters, the tools of seizure and interception do not always keep pace with the times characterized by often asynchronous communications; in civil cases, the Code of Procedure does not contain a rule governing the regime for the use of evidence obtained in breach of substantive rules. In this context, an intense debate is taking place, especially in the criminal field, concerning the concept of correspondence outlined in art. 15 of the Constitution and its ability to also include instant messaging, such as WhatsApp, which allows you to exchange both in chat and group messages – but also photos and videos – potentially susceptible to become public domain. The profiles are obviously connected as shown by the discussion in the work environment in which we see increasingly the imposition of disciplinary sanctions that originate from the use that the worker makes of the computer tool, For example, by spreading denigrating criticism towards the company or superiors through their own open profiles and accessible on social networks, such as Facebook, or via WhatsApp. The author, through the examination of recent rulings of the Judge of laws, the Supreme Court of cassation and international courts, reconstructs the current state of the debate by providing a constitutionally oriented interpretation of the various provisions, Concluding that chat in a closed Facebook or WhatsApp group should be treated as private correspondence which, as such, cannot be disclosed to the outside world; with all the consequences that this entails, in criminal proceedings, for the interception and seizure of messages exchanged in a private chat and, in civil proceedings, for use in the context of disciplinary proceedings against an employee who is accused of offending his employer through instant messaging.
Sommario: 1. Inquadramento del problema. – 2. Generalità e specificità del rapporto di lavoro. – 3. La giurisprudenza penale. – 4. La giurisprudenza lavoristica. – 5. La Corte costituzionale e la nozione di corrispondenza. – 6. La giurisprudenza delle Sezioni Unite Penali. – 7. Le comunicazioni digitali ed il regime di (in)utilizzabilità della prova: l’orientamento più recente della Cassazione penale. – 8. L’inutilizzabilità della prova illecita in sede civile. – 8.1. L’orientamento favorevole alla utilizzabilità delle prove raccolte in violazione delle disposizioni sulla disciplina della protezione dei dati. – 8.2. L’opinione che esclude l’utilizzabilità delle prove acquisite in violazione della normativa privacy. – 8.3. L’equivalenza tra dato inutilizzabile e prova illecita in ragione della violazione del diritto alla protezione dei dati personali. – 8.4. L’inutilizzabilità del dato acquisito in violazione delle normativa privacy secondo il cd. criterio di gerarchia assiologica mobile. – 8.5. Rilievi conclusivi sull’inutilizzabilità del dato acquisito in violazione delle normativa privacy.
1. Inquadramento del problema
Da quando con la trasformazione digitale la tecnologia è divenuta un armamentario indissolubilmente collegato alla vita di ogni giorno, al punto da costituirne parte integrante[1], il legislatore[2], la dottrina e la giurisprudenza tentano di risolvere una serie di problemi giuridici che ad essa sono strettamente connessi e che investono in pari modo i diversi rami del diritto, tanto che nel mondo anglosassone – che ha conosciuto un precoce sviluppo dell’uso di queste apparecchiature – sono nate specifiche branche del diritto penale sostanziale e processuale che le riguardano: i computer crimes e i computer-relatedcrimes nei quali il dispositivo digitale può essere l’obiettivo di atti criminali o il mezzo per compierli[3].
Premessa questa breve considerazione, l’analisi della prassi conferma la diffusione, sempre più ampia, delle attività investigative dirette ad acquisire quali elementi di prova i dati contenuti nelle apparecchiature: il ricorso alla ricerca della digital evidence risulta, infatti, imposto dal fatto che le comunicazioni non si svolgono quasi più tramite la corrispondenza tradizionale, ossia con la lettera in busta chiusa e inviata a mezzo posta, ma avvengono tramite telefono oppure, sempre più di frequente, attraverso dispositivi elettronici e informatici, come e-mail, messaggi SMS, o con applicativo WhatsApp e simili.
Tali comunicazioni, una volta ricevute dal destinatario, rimangono conservate nella memoria dello strumento elettronico, sia esso un computer, uno smartphone o un tablet[4].
Il computer, ma anche lo smartphone, acquisiscono, dunque, sempre maggiore importanza quale fonte di prova in relazione a qualsiasi tipo di rapporto. In tutti questi casi “l’elaboratore elettronico viene in considerazione semplicemente come contenitore di informazioni che si suppongono utili a fini probatori”[5].
Nel codice di diritto processuale penale vigente esistono almeno due grandi contenitori normativi in grado di accogliere le sfide della modernità ed offrire cittadinanza giuridica all’evolversi delle necessità della prassi investigativa: la disciplina dei sequestri e quella delle intercettazioni.
Tuttavia, l’evoluzione tecnologica nel campo delle comunicazioni digitali ha ridimensionato, scemandola, l’importanza di quella differenza tra comunicazione sincrona e asincrona che stava alla base della tradizionale distinzione codicistica tra sequestro della corrispondenza e intercettazione delle comunicazioni. I più recenti sviluppi applicativi di Internet nel campo della comunicazione rompono i vecchi schemi: mediante le più comuni applicazioni di messaggistica istantanea (WhatsApp, ma non solo), oggi si è diffuso un tertium genus di modalità comunicativa, che potremmo definire di tipo ibrido: comunicazione sincrona, quando entrambi gli utenti sono contemporaneamente connessi; comunicazione asincrona, quando uno dei due utenti non è connesso o, pur essendo connesso, non risponde in tempo reale, leggendo e rispondendo al messaggio successivamente[6].
Il problema che si pone, dunque, è relativo alla relazione tra il principio di conservazione (rectius: non dispersione) della prova e la tutela di un rapporto, quello tra individuo e attrezzatura informatica, che impatta sui diritti inviolabili, tra cui la libertà personale e la libertà di domicilio, quest’ultima nella sua particolare accezione di domicilio informatico, nonché la libertà e la segretezza della corrispondenza.
2.Generalità e specificità del rapporto di lavoro
Il diritto del lavoro non è estraneo alle dinamiche appena rappresentate, come dimostra uno studio di qualche anno fa che ha evidenziato come le relazioni tra web e lavoro siano particolarmente complesse ed esaminabili da molteplici angoli visuali[7], sia sul versante del controllo dell’attività lavorativa (art. 4, Stat. lav.), sia in termini di trattamento e successivo utilizzo dei dati personali dei lavoratori derivanti (anche) dagli strumenti di lavoro.
Il tema è quello dell’abuso dei vari strumenti di comunicazione digitale da parte del datore di lavoro, attraverso pratiche di gestione del rapporto lavorativo (anche in fase preassuntiva) volte a raccogliere informazioni o ad attuare un vero e proprio controllo occulto sui dipendenti, che possono incidere in modo significativo su diritti fondamentali di questi ultimi, in primis quello alla protezione dei dati personali del lavoratore.
La questione, poi, è particolarmente delicata quando il comportamento si estrinseca attraverso l’uso degli strumenti tecnologici a disposizione, propri, oppure in dotazione perché forniti dal datore di lavoro[8]. Ciò in quanto si tratta di comportamenti che coinvolgono direttamente l’obbligo di fedeltà (art. 2105 c.c.)[9] e la libertà di opinione (art. 21 Cost. e art. 1 Stat. lav.)[10], che influiscono anche sull’immagine e la reputazione aziendali, con maggiore o minore rilevanza, tenendo conto del ruolo e dell’inquadramento ricoperti: la violazione da parte di un dirigente o di un responsabile marketing che posti commenti sulla propria pagina Facebook o sul proprio profilo Twitter (ora X) può avere un peso differente rispetto ai comportamenti posti in essere dall’addetto alla sicurezza o dall’impiegato addetto alla cassa.
La situazione si complica ulteriormente quando la scelta del mezzo fornito oggi dalla tecnologia implica in modo più o meno marcato il legittimo esercizio del diritto di critica[11].
Si pensi, ad esempio, all’utilizzo che degli stessi strumenti faccia il lavoratore, talvolta anche nella vita privata, ad esempio diffondendo critiche denigratorie nei confronti dell’azienda o dei superiori gerarchici mediante propri profili aperti ed accessibili sui cd. social network, come Facebook, o attraverso piattaforme di messaggistica istantanea, come WhatsApp, che consentono di scambiare sia in chat che in gruppi messaggi – ma anche foto e video – potenzialmente suscettibili di diventare di dominio pubblico, laddove (in assenza della predisposizione di adeguati filtri) siano ri-postati e ulteriormente condivisi da altri soggetti, in una cerchia sempre più ampia e indeterminata.
Con riguardo ai social network si è osservato, infatti, che le possibili interconnessioni con il rapporto di lavoro “ne suggeriscono un prudente utilizzo da parte dei lavoratori e un prudente apprezzamento da parte dei datori di lavoro quando devono valutare i comportamenti dei lavoratori commessi a mezzo di’ internet”[12].
Non a caso, il tema dell’utilizzo dei social network durante il rapporto di lavoro è di particolare importanza, con riguardo specifico alle modalità d’uso di tali strumenti di comunicazione e alle conseguenze sul piano disciplinare[13]. Analogamente è a dirsi per il profilo, connesso a questo ultimo, della utilizzabilità (o meno) da parte del datore di lavoro delle comunicazioni digitali nel contesto di procedimenti disciplinari.
3.La giurisprudenza penale
Le comunicazioni digitali, una volta ricevute dal destinatario, rimangono conservate nella memoria dello strumento elettronico, sia esso un computer, uno smartphone o un tablet, come dati “statici” ovvero cd. “freddi”, secondo il linguaggio informatico, perché il flusso della comunicazione elettronica è già avvenuto.
Per tale ragione, la giurisprudenza della Corte di cassazione penale, in misura pressoché unanime, ha sempre escluso che in ordine a tali comunicazioni possa trovare applicazione la disciplina sulle intercettazioni, facendo richiamo, invece, alle norme sui documenti (art. 234 cod. proc. pen.) e sui documenti informatici (art. 234-bis cod. proc. pen.).
Operandosi una differenziazione tra conversazioni “in essere”, cioè in corso di svolgimento, e conversazioni concluse, costituenti ormai fatti storici oggetto di una memorizzazione documentale, si è ritenuto che “i messaggi WhatsApp e gli sms conservati nella memoria di un telefono cellulare hanno natura di documenti ai sensi dell’art. 234 c.p.p., sicché è legittima la loro acquisizione mediante mera riproduzione fotografica, non trovando applicazione né la disciplina delle intercettazioni, né quella relativa all’acquisizione di corrispondenza di cui all’art. 254 c.p.p., non versandosi nel caso della captazione di un flusso di comunicazioni in corso, bensì nella mera documentazione “ex post” di detti flussi”[14].
La stessa giurisprudenza penale, tuttavia, esaminando nel contesto del reato di diffamazione la sussistenza dell’aggravante dell’uso di un “mezzo di pubblicità”, ha considerato di dover distinguere tra l’utilizzo di un social (strumento che si rivolge – per definizione – ad una ampia platea di persone previamente abilitate dal titolare della pagina a consultarne i contenuti, con possibilità di riproporre i testi o le immagini sulla propria bacheca, sì da dare luogo di fatto ad una forma di diffusione incontrollata) e l’utilizzo di una chat di messaggistica ristretta.
A tal proposito, ha osservato che ad essere rilevante non è il numero di iscritti alla chat quanto la conformazione tecnica del mezzo, tesa a realizzare uno scambio di comunicazioni che resta – in tutta evidenza – riservato. Ciò perché la diffusione del messaggio a più soggetti (gli iscritti alla chat) avviene in un contesto informatico, che, se da un lato consente la rapida divulgazione del testo, dall’altro non determina la perdita di una essenziale connotazione di riservatezza della comunicazione, destinata ad un numero identificato e previamente accettato di persone. Con la conseguenza che “la diffusione di un messaggio offensivo in una “chat” dell’applicazione “whatsapp” non configura l’aggravante dell’uso di un “mezzo di pubblicità”, trattandosi di strumento di comunicazione destinato a un numero ristretto di persone e privo della necessaria diffusività”[15].
In senso analogo, in precedenza, si è ritenuto che l’invio di una lettera o di una e-mail ad un numero determinato di destinatari non sia idoneo ad integrare l’aggravante prevista dall’art. 595, comma 3, cod. pen., neppure nel caso in cui la missiva sia stata inviata ad un numero cospicuo di persone in quanto la casella di posta elettronica è uno spazio riservato[16].
4.La giurisprudenza lavoristica
Anche le Sezioni Unite Civili, con riguardo ad un procedimento disciplinare a carico di un magistrato ordinario, hanno ritenuto che i messaggi WhatsApp e gli sms conservati nella memoria di un telefono cellulare sono utilizzabili quale prova documentale ex art. 234 c.p.p. e, dunque, possono essere legittimamente acquisiti mediante la mera riproduzione fotografica, non trovando applicazione né la disciplina delle intercettazioni, né quella relativa all’acquisizione di corrispondenza di cui all’art. 254 c.p.p.[17].
In ambito lavoristico, invece, la Corte di cassazione già da tempo ha osservato che “In tema di licenziamento disciplinare, costituisce giusta causa di recesso, in quanto idonea a ledere il vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo, la diffusione su “facebook” di un commento offensivo nei confronti della società datrice di lavoro, integrando tale condotta gli estremi della diffamazione, per la attitudine del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del messaggio tra un gruppo indeterminato di persone”[18]. Nello stesso senso si è anche affermato che “la potenzialità offensiva della propalazione di notizie o di dichiarazioni proprio a mezzo dei cd. social in generale, e di Facebook in particolare, sia più volte stata affermata dalla giurisprudenza sia civile che penale di questa Corte, che ha posto in rilievo l’idoneità del messaggio, una volta immesso sul web, anche su un social ad accesso circoscritto, di sfuggire al controllo del suo autore per essere veicolato e rimbalzato verso un pubblico indeterminato, tanto che l’immissione di un “post” di contenuto denigratorio è stato ritenuto più volte idoneo ad integrare gli estremi della diffamazione”[19].
Nel diverso caso della messagistica WhatsApp, invece, si è osservato – con un certo margine di anticipo – che “i messaggi scambiati in una “chat” privata, seppure contenenti commenti offensivi nei confronti della società datrice di lavoro, non costituiscono giusta causa di recesso poiché, essendo diretti unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo e non ad una moltitudine indistinta di persone, vanno considerati come la corrispondenza privata, chiusa e inviolabile, e sono inidonei a realizzare una condotta diffamatoria in quanto, ove la comunicazione con più persone avvenga in un ambito riservato, non solo vi è un interesse contrario alla divulgazione, anche colposa, dei fatti e delle notizie ma si impone l’esigenza di tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni stesse”[20]. Secondo questa linea interpretativa, pertanto, quando il messaggio è inoltrato a una o più persone determinate (ossia permanga il carattere di inter-subiettività), anche i servizi di messaggistica istantanea, al pari delle e-mail, sono da considerarsi a tutti gli effetti corrispondenza[21].
Con quest’ultima decisione, quindi, è stata esclusa la configurabilità di una condotta diffamatoria in ragione delle particolari caratteristiche del veicolo della critica stessa: dunque, non per la natura inoffensiva delle espressioni utilizzate, ma per la riservatezza della comunicazione che, in quanto accessibile ai soli aderenti al gruppo e/o alla chat Facebook, escluderebbe la volontà di una divulgazione esterna[22].
In precedenza, invece, le varie pronunce concernenti licenziamenti irrogati per la trasmissione di missive o e-mails denigratorie i giudici di legittimità non hanno mai considerato la natura “riservata” della corrispondenza né l’assenza di volontà divulgativa, valutando, invece, la portata diffamatoria delle espressioni utilizzate dal lavoratore e l’eventuale esercizio del diritto di critica[23].
Il discrimen operato dalla Corte di cassazione in ambito lavoristico[24], sebbene non adeguatamente compreso in un primo momento dalla dottrina specialistica[25] e con tutti gli avvertimenti del caso[26], è corretto, sancendo l’art. 15 Cost. che “La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge”. Tale tutela prescinde dalle caratteristiche del mezzo tecnico utilizzato ai fini della trasmissione del pensiero, “aprendo così il testo costituzionale alla possibile emersione di nuovi mezzi e forme della comunicazione riservata”[27]. La garanzia si estende, quindi, ad ogni strumento che l’evoluzione tecnologica mette a disposizione a fini comunicativi, compresi quelli elettronici e informatici, ignoti al momento del varo della Carta costituzionale[28].
La posta elettronica e la messaggistica istantanea – ossia le “versioni contemporanee” della corrispondenza epistolare e telegrafica – rientrano, dunque, a pieno titolo nella sfera di protezione dell’art. 15 Cost., apparendo del tutto assimilabili a lettere o biglietti chiusi. D’altro canto, è principio ormai consolidato che per “comunicazione” debba necessariamente includersi anche quella telematica[29].
Peraltro, gli strumenti di comunicazione digitale non sono tutti uguali e non funzionano tutti nel medesimo modo. In particolare, una chat dell’applicativo WhatsApp è, per le sue caratteristiche ontologiche, uno strumento di comunicazione di certo ‘agevolante’ ma al contempo ‘ristretto’, nel senso che il messaggio (di testo o immagine che sia) raggiunge esclusivamente i soggetti iscritti (e reciprocamente accettatisi) alla medesima chat.
Peraltro, l’art. 8 CEDU[30] ribadisce il diritto di ogni persona al rispetto della vita privata e familiare[31] e a tale riguardo la Corte europea ha chiarito che la nozione di corrispondenza è riconducibile a qualsiasi forma di comunicazione scritta, orale e informatica[32]. La Corte EDU, in altri termini, fornisce un’interpretazione estensiva ed evolutiva della nozione di corrispondenza e, in particolar modo, del requisito dell’attualità della comunicazione, includendovi espressamente i messaggi che siano stati inviati dal mittente e già ricevuti dal destinatario.
Può ben ritenersi, quindi, che il perimetro applicativo dell’art. 8 CEDU si estende alle forme di comunicazione telematico-elettroniche, anche nella loro dimensione statica[33]. Già nella consapevolezza di tale realtà giuridica non sarebbe giustificabile un abbassamento di tutele rispetto ai parametri di compatibilità dell’art. 15 Cost.
La chat in un gruppo chiuso di Facebook o di WhatsApp è, dunque, equiparata alla corrispondenza privata che, in quanto tale, non può essere divulgata all’esterno.
Tale realtà è stata colta anche da quella giurisprudenza della Corte di giustizia che, nel corso del tempo e a più riprese, ha ritenuto non conforme al diritto eurounitario la possibilità di acquisire i tabulati telefonici senza che quell’attività sia sottoposta ad un “previo controllo effettuato da un giudice”[34]. In sostanza, la Corte di giustizia non fa altro che pretendere quelle previsioni dei “casi” e dei “modi” di acquisizione dei tabulati imposti dal comando costituzionale degli artt. 14 e 15 Cost., nonché dalla stessa giurisprudenza della Corte europea[35], così abbracciandosi la tesi secondo cui, l’acquisizione dei tabulati telefonici è attratta nella disciplina della segretezza delle comunicazioni e, comunque, non è sussumibile nello schema giuridico della prova documentale. E ciò tanto più ove si consideri che si disquisisce su un diritto fondamentale che impone il rispetto del principio di proporzionalità richiamato dall’art. 52 CEDU, che preclude la limitazione di un diritto oltre quanto strettamente necessario. In tale prospettiva la Corte di giustizia rimarcava anche la necessità di limitare tale accesso alle forme gravi di criminalità[36].
I messaggi scambiati in chat privata, pur recanti affermazioni diffamatorie e discriminatorie, non sono dunque inquadrabili nella fattispecie di frasi ingiuriose, discriminatorie e minacciose indirizzati a superiori o colleghi. Quindi, anche se la comunicazione con più persone avviene in un ambito privato, cioè all’interno di una cerchia di persone, non solo non si parla più di diffamazione ma è necessario tutelare la libertà e segretezza della comunicazione stessa.
Viceversa, chi rivela a terzi il contenuto della chat o del gruppo WhatsApp commette un reato, quello di violazione del segreto della corrispondenza, comportamento che è appunto punito penalmente dal codice penale agli artt. 616, 617, 617-septies.
In particolare, all’art. 616 cod. pen., rubricato “Violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza”, è stato aggiunto un ultimo comma, il quale recita: “ai fini delle disposizioni di questa sezione, per “corrispondenza” si intende quella epistolare, telegrafica o telefonica, informatica o telematica ovvero effettuata con ogni altra forma di comunicazione a distanza”. L’ambito di applicazione della fattispecie penale si estende, pertanto, non solo alla corrispondenza epistolare, ma, per espressa previsione di legge, anche a quella telegrafica, telefonica, informatica e telematica, nonché, in via residuale, ad ogni altra forma – attuale o anche futura – di comunicazione a distanza[37].
La disposizione del codice penale fornisce, pertanto, un primo argomento utile a sostegno della tesi secondo cui, sin dal 1992 (quindi da più di 30 anni), il legislatore accoglie una nozione piuttosto ampia di corrispondenza: tra le comunicazioni telematiche, cui fa riferimento il testo di legge, possono essere, infatti, certamente ricompresi sia i servizi di messaggistica istantanea, che la posta elettronica.
Diverso e più grave è il caso in cui è lo stesso datore di lavoro a procurarsi illecitamente eventuali messaggi o registrazioni denigratorie nei suoi confronti o nei confronti dell’azienda o di altri dipendenti all’interno di chat di gruppo o di chat private di WhatsApp.
In questi casi, ci troviamo, infatti, di fronte a profili importanti di violazione della privacy del lavoratore e al reato di accesso abusivo a sistema informatico, ex art. 615 cod. pen., ai sensi del quale “Chiunque abusivamente si introduce in un sistema informatico o telematico protetto da misure di sicurezza ovvero vi si mantiene contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo, è punito con la reclusione fino a tre anni”.
Al di fuori dei casi che integrano le fattispecie incriminatrici sopra elencate (cioè nel caso in cui manchi l’animus diffamandi o la rappresentazione della possibilità che la diffusione crei un pregiudizio alla vittima, o nel caso in cui difetti uno degli elementi materiali richiesti dagli articoli suddetti), l’invio a terzi di uno screenshot raffigurante una chat privata o estratti di essa, da parte di uno dei partecipanti alla conversazione, potrebbe violare il diritto alla riservatezza degli altri interlocutori, e conseguentemente comportare per l’autore il risarcimento dell’eventuale danno cagionato, nel caso in cui da esso si possano dedurre dati personali e sensibili, tutelati dal Codice in materia di protezione dei dati personali (d.lgs. n. 196/2003; d’ora in poi: Codice privacy) e dal Regolamento UE 2016/679 (d’ora in poi: GDPR), il cui art. 6 prevede che “il trattamento è lecito solo e nella misura in cui (…) l’interessato ha espresso il consenso al trattamento dei propri dati personali (…)”[38], con la conseguenza che incorre in responsabilità civile ai sensi dell’art. 15 del Codice privacy “chiunque cagiona danno ad altri per effetto del trattamento di dati personali è tenuto al risarcimento ai sensi dell’art. 2050 del codice civile. Il danno non patrimoniale è risarcibile anche in caso di violazioni dell’art. 11”[39].
5.La Corte costituzionale e la nozione di corrispondenza
Nel precedente paragrafo, si è detto che la Sezione Lavoro della Corte di cassazione è intervenuta nella materia delle comunicazioni digitali con una giurisprudenza, sin dal primo momento, molto più evoluta di quella penale, ove la svolta interpretativa è avvenuta solo con la sentenza n. 170 del 22 giugno 2023 della Corte costituzionale (cosiddetta sentenza Renzi, perché aveva ad oggetto l’acquisizione di plurime comunicazioni, con messaggi elettronici, del Senatore Matteo Renzi disposte dalla Procura di Firenze senza la previa autorizzazione da parte del Senato)[40], che ha affermato una serie di principi, tra cui, per quanto qui di interesse, quello relativo alla definizione di corrispondenza, rilevante ai fini della tutela dell’art. 15 Cost.[41].
La Corte costituzionale ha anzitutto affrontato il tema della differenza tra il sequestro di corrispondenza e le intercettazioni di comunicazioni di conversazioni e, a tal fine, in assenza di una definizione di queste ultime contenuta nel codice di procedura penale, ha richiamato la sentenza delle Sezioni Unite penali n. 36747 del 28 maggio 2003, che ha chiarito che le intercettazioni consistono nella “apprensione occulta, in tempo reale, del contenuto di una conversazione o di una comunicazione in corso tra due o più persone da parte di altri soggetti estranei al colloquio”.
Sulla base di tale definizione, la Corte costituzionale ha puntualizzato che per aversi intercettazione debbono ricorrere due condizioni, la prima delle quali è di ordine temporale: la comunicazione deve essere in corso nel momento della sua captazione da parte dell’estraneo, ossia deve essere colta nel suo momento “dinamico”, con la conseguente estraneità a tale nozione dell’attività di acquisizione del supporto fisico contenente la memoria di una comunicazione già avvenuta e, quindi, oramai quiescente nel suo momento “statico”.
La seconda condizione attiene alle modalità di esecuzione: l’apprensione del messaggio comunicativo da parte del terzo deve avvenire in maniera occulta, ossia all’insaputa dei soggetti tra i quali intercorre la comunicazione.
Nel caso dell’acquisizione dei messaggi custoditi nella memoria del dispositivo mancano entrambe tali condizioni, con la conseguenza che non può parlarsi di intercettazioni con riguardo alla loro acquisizione.
Senonché, escluso che l’acquisizione dei messaggi di cui trattasi possa considerarsi un’intercettazione, la Corte costituzionale ha poi rimarcato che essi rientrano senz’altro nell’amplissima nozione di corrispondenza, che abbraccia ogni comunicazione di pensiero umano (idee, propositi, sentimenti, dati, notizie) e che prescinde dalle caratteristiche del mezzo tecnico utilizzato ai fini della trasmissione del pensiero.
Con l’ulteriore precisazione che la garanzia di cui all’art. 15 della Costituzione – che assicura a tutti i consociati la libertà e la segretezza della “della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione”, consentendone la limitazione “soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria” – si estende “a ogni strumento che l’evoluzione tecnologica mette a disposizione a fini educativi, compresi quelli elettronici e informatici”.
Da qui si comprende la certa riconducibilità alla nozione di corrispondenza della posta elettronica, dei messaggi WhatsApp e più in generale della messaggistica istantanea, che, quindi, rientrano nella sfera di protezione dell’art. 15 della Costituzione, “apparendo del tutto assimilabili a lettere o biglietti chiusi”.
Richiamando numerose pronunce della Corte EDU, il Giudice delle leggi ha sottolineato ulteriormente che “soccorre, peraltro, nella direzione considerata anche la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale non ha avuto incertezze nel ricondurre sotto il cono di protezione dell’art. 8 CEDU -ove pure si fa riferimento alla “corrispondenza” tout court- i messaggi di posta elettronica (Corte EDU, grande camera, sentenza 5 settembre 2017, Barbulescu contro Romania, paragrafo 72; Corte EDU, sezione quarta, sentenza 3 aprile 2007, Copland contro Regno Unito, paragrafo 41), gli SMS (Corte EDU, sezione quinta, sentenza 17 dicembre 2020, Saber contro Norvegia, paragrafo 48) e la messaggistica istantanea inviata e ricevuta tramite internet (Cotte EDU, Grande Camera, sentenza Barbulescu, paragrafo 74)”; che -a livello di legislazione interna- l’art. 616 cod. pen., come sostituito dall’art. 5 della Legge n. 547 del 1993, nell’ambito dei delitti contro l’inviolabilità dei segreti, include espressamente nella nozione di corrispondenza, oltre a quella epistolare, telegrafica e telefonica, anche quella “informatica o telematica ovvero effettuata con ogni altra forma di comunicazione a distanza”.
Così, escluso che l’acquisizione dei messaggi possa rientrare nella nozione di intercettazione, e una volta riconosciuto, in via generale, che essi sono compresi nella nozione di corrispondenza, la Corte costituzionale evidenzia che l’interrogativo principale da risolvere è quello di stabilire se i messaggi di posta elettronica, i messaggi WhatsApp e la messaggistica istantanea mantengono la natura di corrispondenza anche quando sono stati ricevuti e letti dal destinatario e ormai conservati e giacenti nella memoria dei dispositivi elettronici dello stesso destinatario o del mittente.
A tale proposito, la Corte costituzionale ha evidenziato che su questo tema si fronteggiano due opposte interpretazioni.
Secondo un primo orientamento, la corrispondenza già ricevuta e letta dal destinatario non è più un mezzo di comunicazione: perdendo la natura di corrispondenza, diviene un semplice documento. Tale concezione assume che la nozione di corrispondenza coincide con l’atto di “corrispondere”, che si esaurisce nel momento in cui il destinatario prende cognizione della comunicazione.
Posizione, questa, che trova eco in un indirizzo della Corte di cassazione che ha definito i confini applicativi della fattispecie del sequestro di corrispondenza delineata dall’art. 254 cod. proc. pen. Ciò, sia con riguardo alla corrispondenza epistolare[42], sia in relazione ai messaggi elettronici. La Corte di cassazione ha, invero, affermato che i messaggi di posta elettronica, sms e WhatsApp, già ricevuti e memorizzati nel computer o nel telefono cellulare del mittente o del destinatario, hanno natura di “documenti” ai sensi dell’art. 234 cod. proc. pen. La loro acquisizione processuale, pertanto, non soggiace né alla disciplina delle intercettazioni di comunicazioni informatiche o telematiche (art. 266-bis cod. proc. pen.), né a quella del sequestro di corrispondenza di cui al citato art. 254 cod. proc. pen., la quale implica una attività di spedizione in corso[43].
Secondo una diversa lettura, al contrario, la natura di corrispondenza non si esaurisce con la mera ricezione del messaggio e la presa di cognizione del suo contenuto da parte del destinatario, ma permane finché la comunicazione conservi carattere di attualità e di interesse per i corrispondenti, venendo meno solo quando il decorso del tempo o altra causa abbia trasformato il messaggio in documento “storico”, cui può attribuirsi un valore retrospettivo, affettivo, collezionistico, artistico, scientifico o probatorio.
A fronte di tali contrapposte teorie, la Corte costituzionale ha chiarito che la natura di corrispondenza va correttamente intesa nel senso espresso dalla seconda concezione, in quanto la degradazione della comunicazione a mero documento quando non più in itinere restringerebbe l’ambito della tutela costituzionale apprestata dall’art. 15 Costituzione alle sole ipotesi – sempre più rare – di corrispondenza cartacea; tutela che sarebbe del tutto assente in relazione alle comunicazioni operate tramite posta elettronica e altri servizi di messaggistica istantanea, in cui all’invio segue la ricezione con caratteri di sostanziale immediatezza.
In tal senso, la Corte costituzionale per rafforzare il proprio convincimento osserva ulteriormente:
– che “la Corte europea dei diritti dell’uomo non ha avuto, d’altro canto, esitazioni nel ricondurre nell’alveo della “corrispondenza” tutelata dall’art. 8 CEDU anche i messaggi informatico-telematici nella loro dimensione “statica”, ossia già avvenuti (con riguardo alla posta elettronica, Corte EDU, sentenza Copland, paragrafo 44; con riguardo alla messaggistica istantanea, Corte EDU, sentenza Barbulescu, paragrafo 74; con riguardo a dati memorizzati in floppy disk, Corte EDU, sezione quinta, sentenza 22 maggio 2008, Iliya F.F.v contro Bulgaria, paragrafo 42). Indirizzo, questo, recentemente ribadito anche in relazione… al sequestro dei dati di uno smartphone, che comprendevano anche SMS e messaggi di posta elettronica (Corte EDU, sentenza Saber, paragrafo 48)”.
– che “La stessa Corte di cassazione si è espressa, peraltro, in senso ben diverso quando si è trattato di individuare la sfera applicativa del delitto di violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza delineato dall’art. 616 cod. pen. Essa ha ritenuto, infatti, che tale disposizione incriminatrice tuteli proprio e soltanto il momento “statico” della comunicazione, cioè il pensiero già fissato su supporto fisico, essendo il profilo “dinamico” oggetto di protezione nei successivi artt. 617 e 617-quater cod. pen., che salvaguardano le comunicazioni in fase di trasmissione da interferenze esterne (presa di cognizione, impedimento, interruzione, intercettazione) (Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 29 settembre-4 novembre 2020, n. 30735; Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 2 febbraio-15 marzo 2017, n. 12603). In quest’ottica, la giurisprudenza di legittimità ha quindi ripetutamente affermato che integra il delitto di violazione di corrispondenza la condotta di chi prende abusivamente cognizione del contenuto della corrispondenza telematica ad altri diretta e conservata nell’archivio di posta elettronica (Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 25 marzo-2 maggio 2019, n. 18284; Cass., sentenza n. 12603 del 2017). In direzione analoga appare, altresì, orientata la Corte di cassazione civile (in tema di licenziamento disciplinare, Corte di cassazione, sezione lavoro, ordinanza 10 settembre 2018, n. 21965)”[44].
Tale attualizzazione della nozione di corrispondenza rispetto ai nuovi mezzi di comunicazione ha comportato l’estensione anche ai messaggi elettronici della sfera di tutela prevista dall’art. 15 Cost., che assicura a tutti i consociati la libertà e la segretezza “della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione”, consentendone la limitazione “soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge”.
6.La giurisprudenza delle Sezioni Unite Penali
Sebbene all’indomani della sentenza n. 170/2023 della Corte costituzionale, attenta dottrina abbia osservato che la stessa determina un riconoscimento di tutela (solo) per la classe politica, tutela veicolata dall’art. 68 Cost. e non anche per il cittadino, dal momento che l’acquisizione della sua corrispondenza nel processo non incontra particolari limiti[45], alla citata sentenza hanno fatto seguito due sentenze “gemelle” delle Sezioni Unite Penali, n. 23755 (Gjuzi Ermal – Rv. 286573)[46] e n. 23756 (Giorgi – Rv. 286589) del 29 febbraio 2024, dep. 14/06/2024, in tema di acquisizione tramite Ordine europeo di indagine (da cui l’acronimo O.E.I) di comunicazioni svolte su piattaforma criptata e su cd. criptofonini che l’autorità giudiziaria francese aveva già captato e decriptato.
Le due decisioni del massimo consesso hanno affermato in motivazione, con espresso richiamo della giurisprudenza costituzionale, che “…quando la prova documentale ha ad oggetto comunicazioni scambiate in modo riservato tra un numero determinato di persone, indipendentemente dal mezzo tecnico impiegato a tal fine, occorre assicurare la tutela prevista dall’art. 15 Cost. in materia di «corrispondenza». Come infatti precisato dalla giurisprudenza costituzionale, «quello di “corrispondenza” è concetto ampiamente comprensivo, atto ad abbracciare ogni comunicazione di pensiero umano (idee, propositi, sentimenti, dati, notizie) tra due o più persone determinate, attuata in modo diverso dalla conversazione in presenza», il quale «prescinde dalle caratteristiche del mezzo tecnico utilizzato», e si estende, perciò, anche alla posta elettronica ed ai messaggi inviati tramite l’applicativo WhatsApp, o s.m.s. o sistemi simili, «del tutto assimilabili a lettere o biglietti chiusi» perché accessibili solo mediante l’uso di codici di accesso o altri meccanismi di identificazione (così Corte cost., sent. n. 170 del 2023; nello stesso senso, Corte cost., sent. n. 227 del 2023 e Corte cost., sent. n. 2 del 2023). Di conseguenza, indipendentemente dalla modalità utilizzata, trova applicazione «la tutela accordata dall’art. 15 Cost. – che assicura a tutti i consociati la libertà e la segretezza «della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione», consentendone la limitazione «soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge – […]» (cfr., ancora, testualmente, Corte cost., sent. n. 170 del 2023). La tutela prevista dall’art. 15 Cost., tuttavia, non richiede, per la limitazione della libertà e della segretezza della corrispondenza, e, quindi, per l’acquisizione di essa ad un procedimento penale, la necessità di un provvedimento del giudice. Invero, l’art. 15 Cost. impiega il sintagma «autorità giudiziaria», il quale indica una categoria nella quale sono inclusi sia il giudice, sia il pubblico ministero (per l’inclusione del pubblico ministero nella nozione di “autorità giudiziaria” anche nel diritto euro-unitario, cfr., proprio con riferimento alla Direttiva 2014/41/UE, Corte giustizia, 08/12/2020, Staatsanwaltschaft Wien, C-584/19). E questa conclusione trova conferma nella disciplina del codice di rito. L’art. 254 cod. proc. pen. prevede che il sequestro di corrispondenza è disposto della «autorità giudiziaria», senza fare alcun riferimento alla necessità dell’intervento del giudice, invece espressamente richiesto, ad esempio, in relazione al sequestro da eseguire negli uffici dei difensori (art. 103 cod. proc. pen.). A sua volta, l’art. 353 cod. proc. pen. statuisce, in modo testuale, che l’acquisizione di plichi chiusi e di corrispondenza, anche in forma elettronica o inoltrata per via telematica, è autorizzata, nel corso delle indagini, dal «pubblico ministero», il quale è titolare del potere di disporne il sequestro”.
Le Sezioni Unite Penali, perciò, hanno fatto propria la definizione di corrispondenza che la Corte costituzionale ha dato delle comunicazioni già avvenute con posta elettronica, oppure con i messaggi inviati tramite l’applicativo WhatsApp, o SMS o sistemi simili, e conservati nella memoria dei dispositivi mobili.
Facendo tesoro delle chiare indicazioni della Corte costituzionale, la Corte di cassazione penale ha abbandonato – sebbene si rinvenga ancora qualche sacca di resistenza[47] –l’orientamento indicato nel par. 3, e ha affermato che i messaggi di posta elettronica, i messaggi WhatsApp e gli SMS conservati nella memoria di un dispositivo elettronico costituiscono corrispondenza anche dopo la ricezione da parte del destinatario, almeno fino a quando, per il decorso del tempo o per altra causa, essi non abbiano perso ogni carattere di attualità, in rapporto all’interesse alla sua riservatezza, trasformandosi in un mero documento “storico”, sicché, fino a quel momento, la loro acquisizione deve avvenire secondo le forme previste dall’art. 254 cod. proc. pen. per il sequestro della corrispondenza[48].
Allineandosi alla posizione del giudice delle leggi, tale approdo realizza un’interpretazione costituzionalmente orientata senz’altro apprezzabile[49].
7.Le comunicazioni digitali ed il regime di (in)utilizzabilità della prova: l’orientamento più recente della Cassazione penale
Rilevanti conseguenze derivano dall’inquadramento nel concetto di corrispondenza dello scambio di comunicazioni avvenuto con la posta elettronica, oppure con i messaggi inviati tramite l’applicativo WhatsApp, o sms.
In sede penale, la violazione delle norme processuali sull’acquisizione della corrispondenza porta all’inutilizzabilità cosiddetta patologica di quanto sequestrato dal pubblico ministero, come di recente sostenuto dalla Suprema Corte, che in motivazione, sul punto ha precisato: “Si è da tempo affermato che rientrano nella categoria delle prove sanzionate dall’inutilizzabilità, non solo le prove oggettivamente vietate, ma anche quelle formate o acquisite in violazione dei diritti soggettivi tutelati dalla legge e, a maggior ragione, come in precedenza detto, quelle acquisite in violazione dei diritti tutelati in modo specifico dalla Costituzione. La Corte costituzionale con la sentenza numero 34 del 1973 ha ravvisato l’esistenza di divieti probatori ricavabili in modo diretto dal dettato costituzionale, enunciando il principio per cui attività compiute in dispregio dei diritti fondamentali del cittadino non possono essere assunte di per sé a giustificazione e fondamento di atti processuali a carico di chi quelle attività costituzionalmente illegittime abbia subito. Il suddetto principio – come già detto – ha consentito l’elaborazione della categoria delle prove cosiddette incostituzionali, cioè di prove ottenute attraverso modalità, metodi e comportamenti realizzati in violazione dei fondamentali diritti del cittadino garantiti dalla Costituzione, da considerarsi perciò inutilizzabili nel processo”[50].
Per questa ragione è inutilizzabile anche l’acquisizione da parte della polizia giudiziaria delle chat (nella specie, sulla scorta di un rilievo fotografico operato dalla stessa polizia giudiziaria – cd. screenshot – delle chat di WhatsApp) avvenuta con il consenso di chi aveva il diritto di disporne tutte le volte in cui trattasi di un’attività svolta dalla polizia giudiziaria nei confronti di un soggetto già gravato da elementi indiziari tali da giustificare l’acquisizione della posizione di indagato. In questi casi, infatti, il consenso che si assume essere stato prestato liberamente dall’indagato non può supplire alla carenza di un provvedimento emesso dall’autorità giudiziaria, di autorizzazione preventiva o di convalida successiva dell’atto di indagine posto in essere, invece, in totale autonomia dalla polizia giudiziaria[51].
In precedenza, la Suprema Corte ha sostenuto, sempre in tema di prove assunte in violazioni di precetti costituzionali, che “In tema di acquisizione di dati contenuti in tabulati telefonici, non sono utilizzabili nel giudizio abbreviato i dati di geolocalizzazione relativi a utenze telefoniche o telematiche, contenuti nei tabulati acquisiti dalla polizia giudiziaria in assenza del decreto di autorizzazione dell’Autorità giudiziaria, in violazione dell’art. 132, comma 3, d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, in quanto prove lesive del diritto alla segretezza delle comunicazioni costituzionalmente tutelato e, pertanto, affette da inutilizzabilità patologica, non sanata dalla richiesta di definizione del giudizio con le forme del rito alternativo”[52].
Tale ultima decisione, si segnala anche perché ha escluso in maniera netta che possa argomentarsi in senso contrario, facendo leva, ad esempio, sulla disciplina della cosiddetta prova innominata di cui all’articolo 189 cod. proc. pen; tale norma consente certamente l’ingresso processuale della prova atipica, ma solo qualora essa presenti cumulativamente due caratteristiche: la prima, positiva, si sostanzia nella sua idoneità all’accertamento del thema probandum; la seconda, di segno negativo, consiste nel limite per il quale essa non possa presentarsi come lesiva della libertà morale della persona. Essa, però, ricorda la Corte, contempla solo le prove atipiche che non rechino vulnus alle esigenze costituzionalmente tutelate e, dunque, non richiedono una disciplina legislativa espressa, come deve, invece, sussistere in tutti i casi in cui sono in gioco i diritti tutelati dalla previsione dell’articolo 15 Cost. In altri termini, l’inosservanza delle norme codicistiche conduce all’inutilizzabilità patologica della prova raccolta in tal modo, né può utilizzarsi in tale ambito lo strumento della prova atipica per il limite intrinseco del citato art. 189.
8.L’inutilizzabilità della prova illecita in sede civile
Il rispetto, in generale, della normativa sul trattamento di dati personali condiziona ex ante, sotto il profilo della legittimità, la raccolta e l’eventuale utilizzo dei dati sull’attività dei lavoratori, con la conseguenza che “i dati personali trattati in violazione della disciplina rilevante in materia di trattamento dei dati personali non possono essere utilizzati, salvo quanto previsto dall’articolo 160-bis” (art. 2-decies, d.lgs. n. 101/2018)[53].
Per quel che riguarda la questione relativa al valore probatorio dei messaggi digitali[54], è bene precisare che la regola della inutilizzabilità si prefigura come conseguenza giuridicamente rilevante di qualsiasi trattamento svolto in violazione della legge sulla protezione dei dati[55]. Ciò può desumersi sia dalla collocazione sistematica del menzionato art. 2-decies nell’articolato del Capo II del Codice privacy dedicato ai “Principi” che regolano la materia, sia dal rinvio dello stesso art. 2-decies al successivo art. 160-bis del Codice medesimo, che ribadisce con estrema chiarezza la competenza della legislazione processuale in materia civile e penale per ogni valutazione, ai fini probatori, che concerne la validità, l’efficacia e l’utilizzabilità di documenti riguardanti trattamenti di dati personali svolti in difformità alla disciplina sulla tutela dei dati.
Esemplificando, nelle ipotesi di raccolta illecita di dati e di successivo utilizzo per fini disciplinari (il più delle volte a scopo di licenziamento), il lavoratore può, sia proporre reclamo all’Autorità Garante (artt. 77-78, GDPR), sia impugnare l’atto di licenziamento innanzi al giudice togato.
I due rimedi non si configurano come alternativi, l’uno rispetto all’altro, bensì perseguibili in modo parallelo e, in ogni caso, l’indagine del giudice ordinario dovrà estendersi a verificare l’entità del fatto addotto a fondamento della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo.
La valutazione sul criterio della utilizzabilità/inutilizzabilità dei dati alla luce della disciplina del Codice privacy costituisce presupposto ineludibile della pronuncia giurisdizionale sulla legittimità/illegittimità dell’atto di licenziamento.
Difatti, i provvedimenti adottati sulla base di informazioni sui comportamenti dei dipendenti ottenute in modo illegittimo sono invalidi e, nel caso del licenziamento per ragioni soggettive, espongono il datore di lavoro all’obbligo della reintegra per “insussistenza del fatto contestato” anche relativamente “ai lavoratori assunti con contratto a tutele crescenti”[56].
In quest’ultimo senso è anche la giurisprudenza della sezione lavoro della Corte di cassazione secondo cui, in mancanza della preventiva informativa prescritta dalla legge, il materiale raccolto, siccome “inutilizzabile”, non può essere valutato dal giudice a sostegno della decisione[57], in quanto “il controllo “fine a sè stesso”, eventualmente finalizzato ad accertare inadempimenti del lavoratore che attengano alla effettuazione della prestazione, continua ad essere vietato. Ciò non esclude, però, (…) che ove il controllo sia invece legittimo, le informazioni raccolte in esito ad esso possano essere utilizzate dal datore di lavoro per contestare al lavoratore ogni sorta di inadempimento contrattuale”[58].
Il quesito che a questo punto si pone attiene alla utilizzabilità (o meno) in sede di processo civile dei dati raccolti illegittimamente ovvero in modo non conforme alle disposizioni sulla disciplina della protezione dei dati stabilite dal GDPR e dal Codice privacy. Ci si chiede, cioè, quale sia la sorte sul piano processuale dei dati inutilizzabili e se possano ritenersi equivalenti alle prove illecite, per le quali, come noto, nel processo civile non esiste un divieto di utilizzazione in sede probatoria[59].
L’art. 160-bis del Codice privacy stabilisce difatti che “la validità, l’efficacia e l’utilizzabilità di atti, documenti […] nel procedimento giudiziario basati sul trattamento di dati personali non conformi a disposizioni di legge o di regolamento restano disciplinate dalle pertinenti disposizioni processuali nella materia civile e penale”.
Ora, mentre il codice di procedura penale, all’art. 191, dedicato alle “prove illegittimamente acquisite” detta un principio generale, nei suoi primi due commi, stabilendo che “Le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate” (comma 1)[60] e che “L’inutilizzabilità è rilevabile anche di ufficio in ogni stato e grado del procedimento” (comma 2)[61], nessuna previsione analoga appare nel sistema del processo civile[62]. E, la dottrina che più ampiamente ha studiato il tema delle prove illecite in quest’ultima sede, ha escluso (in ciò seguito dalla giurisprudenza[63]) trattarsi di un “silenzio” colmabile per analogia o interpretazione estensiva[64].
8.1. L’orientamento favorevole alla utilizzabilità delle prove raccolte in violazione delle disposizioni sulla disciplina della protezione dei dati
Secondo un orientamento dottrinale abbastanza diffuso, sarebbe efficace, sul piano probatorio, ogni documento o provvedimento relativo ad un trattamento di dati personali, ancorché illegittimo, che rispetti le norme di rito che governano il processo[65].
Nel senso indicato si esprime anche una parte della giurisprudenza sin dalla vigenza del codice di rito del 1940-42[66], secondo cui, non esistendo nel processo civile un divieto esplicito di utilizzo delle prove illecite (come, appunto, l’art. 191 c.p.p.) ed essendo il documento affetto da un vizio (solo) preprocessuale, questo ultimo è comunque utilizzabile come prova (salve le conseguenze extraprocessuali, civili e penali, del comportamento illecito)[67]. Secondo questa impostazione, per rifiutare l’ingresso nel processo di un documento ottenuto illecitamente sarebbe necessaria una specifica regola processuale di esclusione probatoria[68].
In assenza di una tal norma, che attribuisca rilevanza nel processo alla violazione di norme sostanziali, il giudice non potrebbe sanzionare l’illecito extraprocessuale con una sanzione processuale[69].
In questo filone si deve collocare anche quella dottrina che fa riferimento all’opinabile principio secondo cui l’inutilizzabilità dei dati personali reperiti in violazione della disciplina in materia sarebbe opponibile unicamente ai destinatari delle prescrizioni regolanti il trattamento e, quindi, non al giudice[70].
8.2. L’opinione che esclude l’utilizzabilità delle prove acquisite in violazione della normativa privacy
Partendo dall’opinione indicata da ultimo, si deve osservare, in senso contrario, che la ratio dell’art. 160-bis del Codice privacy è quella di scoraggiare la ricerca, l’acquisizione e più in generale il trattamento illecito di dati personali. E, per realizzare questa funzione, il rimedio previsto dal legislatore è di impedire la realizzazione dello scopo, cioè, la successiva utilizzazione di quei dati.
È, dunque, naturale osservare – a meno di non volersi accontentare di una categoria qualificatoria, anzi meramente qualificatoria perché priva di “sanzione”[71] – che i limiti dettati a tutela della riservatezza “incidono, vincolandoli al rispetto delle legittimità, non solo sull’esercizio dei poteri di controllo del datore di lavoro ma anche sui poteri del giudice, il quale di regola è tenuto a non dare ingresso alle prove procurate in violazione delle norme di legge”[72].
Più in generale, la dottrina più sensibile al tema della protezione dei dati ha cercato di colmare il “vuoto normativo” esistente nel processo civile[73].
All’orientamento descritto nel precedente paragrafo si è infatti replicato che, seguendo quel modo di sviluppare i termini del problema, si corre il rischio di una semplificazione forse eccessiva, che può condurre al paradosso di restringere l’area delle prove illecite a quelle affette da un vizio processuale, cioè dall’inosservanza delle norme sul rito.
Con una sorta di eterogenesi dei fini, infatti, le prove ottenute con sistemi antigiuridici non sarebbero mai “giustiziabili” nel processo civile, per l’assenza in questo ultimo di una norma volta a sanzionare l’illecito extraprocessuale. In tal modo, però, si finisce per porre l’ordinamento in contraddizione con sé stesso, giacché, da un lato, qualifica quel trattamento dei dati come “illecito”, dall’altro, permette la produzione di quei dati in un giudizio civile, ossia una diffusione altrimenti vietata, e dall’altro ancora consente alla parte di trarre in tal modo vantaggio da un’attività illecita (con pericolosi effetti incentivanti di tale illecito), ciò che è contrario ai principi generali, fra i quali quello del “giusto processo” ex art. 111 Cost.[74], nonché all’opinione, pressoché unanime, che qualifica come illecita proprio la prova acquisita in violazione di una norma sostanziale, penale, civile o amministrativa[75].
Proseguendo il nostro ragionamento, si osserva che, con riguardo alle prove “precostituite”[76], diversamente dalle prove costituende, manca qualsiasi attività di ammissione da parte del giudice[77]: il documento, infatti, viene direttamente prodotto dalla parte e il giudice non influisce sul suo deposito[78]. L’acquisizione di tali prove passa, dunque, attraverso una semplice allegazione materiale non soggetta a preventivo controllo di legalità da parte del giudice, sicché l’illiceità non concerne “di regola” il momento della loro acquisizione quanto piuttosto il modo con cui il documento è entrato nella disponibilità di colui che lo utilizza. Con la conseguenza che, ad eccezione delle ipotesi in cui (ad esempio) il documento è depositato dopo la scadenza di un termine perentorio ovvero senza il rispetto delle prescrizioni di legge, l’atto formato o reperito in violazione delle norme sulla privacy sarebbe sempre utilizzabile proprio perché generalmente acquisito nel rispetto delle norme di rito che governano il processo[79].
Seguendo questa impostazione, risulterebbe vanificata, sia la ratio del principio di inutilizzabilità delle informazioni oggetto di trattamenti illeciti e che, ciononostante, il datore di lavoro (utilmente) produrrebbe in giudizio (art. 2-decies, del Codice privacy), sia la ratio di tutela del lavoratore dall’utilizzabilità delle prove acquisite in violazione dei divieti in essa contenuti (art. 4 St. lav.). Per questa ragione non è possibile “accontentarsi” – a fronte della utilizzabilità nel processo civile della prova eventualmente acquisita in violazione della normativa sulla privacy – di sanzioni amministrative (art. 83, GDPR e art. 161 ss. del Codice privacy) e/o penali (quando si configura un reato)[80], ovvero del risarcimento del danno da quantificare in un autonomo processo (art. 82, GDPR)[81].
A conferma di ciò, non va posto in dubbio, infatti, che quella acquisita in violazione delle norme sulla privacy è una prova precostituita formata in modo illecito, cioè con violazione di una norma di diritto sostanziale – l’art. 4, comma 3, cit. – che pone la regola per la raccolta dei dati personali. Una prova, cioè, ascrivibile alla categoria di quelle illecite, pur prendendo come punto di riferimento la sua nozione più ristretta che tende ad escludere dal suo ambito operativo quelle ammesse e assunte in contrasto con disposizioni del codice di rito o comunque di diritto processuale[82].
E, d’altra parte, che quella in esame sia una prova assunta in violazione di un obbligo giuridico deriva sia dalla costruzione deontica dell’illecito di cui all’art. 4, Stat. lav., sia dalla previsione, ad esso collegata, dell’art. 2 decies, Codice privacy, che pone la regola dell’inutilizzabilità[83]. E tale violazione, del resto, è postulata dalla dottrina[84] e dalla giurisprudenza[85] che assumono come conseguenza del divieto di prova illecita nel processo civile l’esclusione (di essa) tra le prove che il giudice deve porre a fondamento della decisione ex art. 115 c.p.c.
8.3. L’equivalenza tra dato inutilizzabile e prova illecita in ragione della violazione del diritto alla protezione dei dati personali
Andando oltre, può dirsi che, nel caso di specie, siamo al cospetto non solo di una norma meramente sostanziale che si assume violata (eventualmente quella di cui all’art. 4 cit.)[86], ma anche di una prova venuta in possesso di una parte (il datore di lavoro) in violazione di una posizione giuridica soggettiva protetta (i.e., il diritto alla protezione dei dati personali come diritto fondamentale dell’individuo ai sensi dell’art. 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea), con modalità del tutto incompatibili con la protezione costituzionale dei diritti inviolabili dell’uomo[87].
Non è difficile, perciò, affermare che la prova formata nell’inosservanza delle norme sulla privacy è una prova affetta da vizi extraformali rispetto ai quali non può valere il regime di tassatività e dunque la disciplina posta dall’art. 156 c.p.c. per i (soli) vizi formali[88].
Questa constatazione consente di ritenere applicabile alla prova illecita civile in senso sostanziale il regime di inutilizzabilità stabilito nel processo penale (art. 191 c.p.p.), in virtù del cd. fenomeno della circolazione tra processi[89] che finisce per far convergere (assicurando, peraltro, la cd. armonia assiologica[90]) le strade della prova illecita, nel processo civile e nel processo penale, in un’unica direzione orientata a dare rilievo alla efficacia non solo verticale (nei rapporti tra autorità e cittadino) ma anche orizzontale (nelle relazioni interprivate) delle prescrizioni costituzionali[91]. La fattispecie dei vizi extraformali, consentendo l’emersione in ambito processuale di vizi che possono non derivare dalla violazione della legge processuale, finisce, dunque, per obbedire anche a criteri peculiari di altri rami dell’ordinamento per darne un assetto tendenzialmente unitario[92].
La duplice premessa di questo ragionamento è costituita dal fatto che: a) i divieti probatori sottesi alle garanzie costituzionali dei diritti di libertà individuale (ex artt. 14 e 15 Cost.) sono in grado di operare direttamente con effetti preclusivi anche nei confronti di altre situazioni di peculiare “intrusione” nella sfera di riservatezza privata[93]; b) la diretta ricavabilità di divieti probatori dalle norme costituzionali a tutela dei “diritti inviolabili dell’uomo” (soprattutto, nell’ottica dell’art. 2 Cost., dagli artt. 13, 14 e 15 Cost.)[94], fa sì che essi siano operanti (come espressione di una regola generale di inammissibilità della prova illecita) anche in quei processi (come quello civile) nei quali manchi una previsione generale assimilabile all’art. 191 c.p.p.[95], non potendo “attività compiute in dispregio dei fondamentali diritti del cittadino (…) essere assunte di per sé a giustificazione ed a fondamento di atti processuali a carico di chi quelle attività costituzionalmente illegittime abbia subito”[96].
Si devono, pertanto, distinguere le ipotesi in cui le norme processuali violate, preordinate alle modalità di acquisizione probatoria, hanno determinato una lesione dei diritti costituzionalmente tutelati del soggetto contro cui la prova si intende far valere, da quelle in cui non si verifica tale lesione, essendo diretta la norma violata a tutelare un bene diverso non riferibile direttamente alla sfera giuridica dell’interessato. E per le prime è il giudice delle leggi a stabilire che le “prove ottenute attraverso modalità, metodi e comportamenti realizzati in dispregio dei fondamentali diritti del cittadino garantiti dalla Costituzione”[97] restano prive di ogni effetto. Conseguentemente, osservano i giudici di legittimità, rileva “non la violazione della norma processuale sull’acquisizione della prova, ma «a monte» la condotta illecita per violazione del divieto prescritto dalla norma di diritto sostanziale, venendo a coincidere la vittima dell’illecito civile – che ha subìto la lesione dello ius arcendi sull’informazione identificativa – con la stessa parte processuale contro la quale tale informazione viene fatta valere quale fonte di prova, non potendo quindi trasformarsi in lecita – attraverso le rituali forme di assunzione delle prove nel processo – la condotta illecita relativa alla divulgazione e comunicazione del dato che non poteva essere acquisito o raccolto, atteso che l’utilizzo probatorio del dato integrerebbe proprio quel pregiudizio che la norma di divieto intende impedire a tutela del diritto dello stesso soggetto cui la legge intende apprestare la protezione”[98].
In questo contesto, la violazione delle prescrizioni dettate dalla legge a tutela dei dati personali, stante il divieto di utilizzabilità degli stessi (art. 2-decies del Codice privacy) viene a tradursi nell’illecita acquisizione e disponibilità, ai fini probatori, di informazioni identificative della qualità di una persona fisica che costituiscono oggetto del “diritto assoluto alla protezione dei dati personali”, ricompreso tra le “libertà fondamentali della persona”[99].
In considerazione della formulazione dell’art. 6, par. 1, lett. f), GDPR, secondo il quale il trattamento è lecito qualora sia «necessario per il perseguimento del legittimo interesse del titolare del trattamento o di terzi, a condizione che non prevalgano gli interessi o i diritti e le libertà fondamentali dell’interessato che richiedono la protezione dei dati personali», pur in assenza di “specifiche norme processuali”, la protezione dei dati personali è pertanto tale da imporsi, di per sé, mediante corrispondenti (ed impliciti) divieti probatori, in qualsiasi tipo di processo, per effetto di previsioni direttamente precettive e vincolanti[100] che risolvono – a monte – il conflitto tra l’interesse all’accertamento della verità nel processo e le istanze di tutela dei diritti fondamentali a favore delle seconde[101].
8.4. L’inutilizzabilità del dato acquisito in violazione delle normativa privacy secondo il cd. criterio di gerarchia assiologica mobile
Alla regola di inutilizzabilità del dato acquisito in spregio della normativa posta a tutela dei dati personali si perviene anche utilizzando il cd. criterio di gerarchia assiologica mobile come strumento risolutivo del conflitto tra principi[102].
Tra il “diritto di difesa” del datore di lavoro e il diritto del lavoratore all’acquisizione dei propri dati personali nel rispetto della normativa vigente, che è posta a tutela della sfera della dignità e della libertà dell’individuo[103], il piatto della bilancia tende a pendere, infatti, da quest’ultimo lato[104], considerate anche le ricadute pregiudizievoli su altri diritti, come quello alla conservazione del posto di lavoro[105] e, in senso più ampio, al diritto stesso di difesa del lavoratore, che sarebbe irrimediabilmente “compromesso” dalla possibilità per il giudice di conoscere elementi di prova dal documento assunto in violazione dei predetti parametri, trattandosi, d’altra parte, di materiale probatorio da valutare esclusivamente pro datore di lavoro[106].
Ad ulteriore conferma della correttezza di una tale forma di bilanciamento e del risultato che può derivarne, a favore della parte lavoratrice, del tutto ragionevolmente, possono invocarsi le decisioni di merito e di legittimità rese nella vigenza del c.p.c. del 1865[107], le quali esclusero l’utilizzo di prove illecitamente acquisite in base a principi generali (come quello del nemo auditur propriam turpitudinemallegans e della buona fede processuale)[108], facendo affiorare, così, la natura assiologica – prima che normativa – del problema. E ciò senza potersi omettere dal rilevare che acquisire una prova violando la legge, talvolta (come nella specie) anche la Costituzione, non è altro che una modalità di farsi giustizia da sé vietata dall’art. 392 c.p. che sancisce il divieto di esercizio delle proprie ragioni[109].
8.5. Rilievi conclusivi sull’inutilizzabilità del dato acquisito in violazione delle normativa privacy
Dal ragionamento svolto nei precedenti paragrafi emerge abbastanza chiaramente che ciò che impedisce al datore di lavoro di giovarsi di una prova formata in violazione di prerogative di tutela del lavoratore è sia il principio di legalità sia la necessità di rispettare i diritti fondamentali del lavoratore[110].
Peraltro, le norme che stabiliscono i diritti fondamentali non si limitano a vietare che il pubblico potere o il privato commettano violazioni dirette, ma sono volte anche a negare la possibilità che da esse i soggetti pubblici e/o privati possano trarne qualche forma di profitto.
È in questo senso, del resto, che va letto l’art. 4, St. lav. Esso fa parte di quella complessa normativa volta a contenere in vario modo le manifestazioni del potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro[111] nei confronti del lavoratore, che vi è assoggettato, sul piano tecnico funzionale oltre che socio-economico.
La previsione dei limiti procedurali al potere datoriale costituisce, difatti, il fondamento della regola della inutilizzabilità dei mezzi di prova illeciti – ovvero acquisiti in violazione dei limiti suddetti – nell’ambito dei giudizi aventi ad oggetto diritti e obblighi nascenti dal rapporto di lavoro.
Il principio di inutilizzabilità della prova illecita nel processo civile trova conforto nella concezione, sia di chi configura la regola del giusto processo ex art. 111 Cost. (codificato anche nell’art. 6 CEDU) come “cerniera” per importare nel sistema positivo la regola di esclusione della prova illecita che ha come fondamento ultimo un principio di diritto naturale o di natura etica[112], sia di chi opta per la diretta ricavabilitá dai precetti costituzionali di una regola di esclusione della prova illecita[113], sia di chi, ancora, propende per il ricorso ai precetti costituzionali in funzione di norme sovraordinate per procedere ad un’interpretazione adeguatrice delle norme ordinarie[114], almeno nei casi in cui quello leso dall’acquisizione illecita sia un diritto costituzionalmente garantito o comunque un diritto fondamentale[115], mediante l’enucleazione di una norma generale di inammissibilità della prova illecita nel processo civile[116].
Per concludere, se ancora una volta si volesse ragionare in senso contrario, a nulla varrebbe invocare gli ostacoli che potrebbero frapporsi nell’accertamento della verità materiale per il richiamo di una parte processuale al rispetto del diritto alla privacy.
E ciò almeno per un triplice ordine di motivi. Da un lato, l’utilizzabilità della prova illecita nel processo civile pare essa stessa in contrasto con il principio generale dell’onere della prova ex art. 2697, comma 1, c.c.[117] e con la disciplina dell’ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c., dalla quale si ricava che il legislatore ha accordato alla parte il potere di produrre solo i documenti dei quali ha una legittima disponibilità[118]. Dall’altro, gli ampi e incisivi poteri istruttori attribuiti al giudice del lavoro dall’art. 421 c.p.c. non possono “essere estesi sino a consentire l’ingresso nel processo delle cd. prove atipiche e men che meno delle cd. “prove illecite”[119]. Dall’altro ancora, è tutto da dimostrare che il processo abbia una funzione epistemica, come insieme strutturato di attività finalizzate a conseguire conoscenze veritiere dei fatti rilevanti per la decisione della controversia[120].
[1] Cfr. L. Floridi, La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Milano, 2017.
[2] Cfr. L. 18 marzo 2008, n. 48 (contenente la ratifica della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla criminalità informatica), che, oltre ad aver introdotto nuove fattispecie incriminatici, ha dato una nuova regolamentazione ai mezzi di ricerca della prova: accanto alla perquisizione informatica, sono previsti l’ispezione ed il sequestro informatico con normative che tendono ad assicurare la genuinità e la non modificabilità dei dati raccolti (sulle carenze della normativa, v. M. Bergonzi Perrone, Il mancato rispetto delle disposizioni della l. 48/2008 in tema di acquisizione probatoria informatica: per una ipotesi sanzionatoria non prevista esplicitamente dal dato normativo, Modena, 2013). Da quel momento – salva qualche eccezione di carattere settoriale – non vi sono stati interventi normativi di particolare rilievo, e alla soluzione dei problemi posti dall’evoluzione tecnologica ha dovuto provvedere la giurisprudenza, dalle cui elaborazioni sono spesso scaturite soluzioni ondivaghe, se non apertamente contraddittorie. Da ultimo, v. invece il testo del disegno di legge approvato in Senato il 10 aprile 2024 – che tende ad introdurre l’art. 254-ter c.p.p. (“Sequestro di dispositivi e sistemi informatici o telematici, memorie digitali, dati, informazioni, programmi, comunicazioni e corrispondenza informatica inviate e ricevute”) – il quale sembra recepire gli insegnamenti della recente sentenza Corte cost. 27 luglio 2023, n. 170, in riferimento ai dati comunicativi presenti nello smartphone e nei computer, nonché di alcuni Protocolli (il riferimento è al Protocollo della Procura Generale della Repubblica di Trento, del 22 ottobre 2021, in Penale DP (web), 19 novembre 2021, con nota di L. Filippi, Sequestro dei dispositivi elettronici: nota della Procura Generale di Trento) che hanno provato a procedimentalizzare per fasi il sequestro dei dispositivi elettronici.
[3] M. Minafra, Sul giusto metodo acquisitivo della corrispondenza informatica “statica”, in Giur. it., 2018, p. 1718.
[4] La connessione globale non avviene solo tra computer intesi in senso stretto, ma anche tra dispositivi digitali (smartphone, tablet, etc.) di uso comune (anche) da parte di persone senza alcuna cognizione in campo informatico o telematico, le quali utilizzano ormai tali dispositivi come se essi fossero una vera e propria appendice del proprio corpo.
[5] F.M. Molinari, Questioni in tema di perquisizione e sequestro di materiale informatico, in Cass. pen., 2012, p. 71. Cfr. anche O Murro, Lo smartphone come fonte di prova. Dal sequestro del dispositivo all’analisi dei dati, Milano-Padova, 2024.
[6] M. Torre, Considerazioni su perquisizione, sequestro e intercettazioni digitali, in Dir. pen. e proc., 2024, p. 812.
[7] P. Tullini (a cura di), Web e lavoro. Profili evolutivi e di tutela, Torino, 2017.
[8] Cfr. S. Battistelli, La dilatazione della nozione di insubordinazione nel contesto social, in Riv. it. dir. lav., 2022, II, p. 8. Rilevante è anche il tema della chat aziendale, con riguardo alla quale si è stabilito che “La “chat” aziendale, destinata alle comunicazioni di servizio dei dipendenti, è qualificabile come strumento di lavoro ai sensi dell’art. 4, comma 2, st.lav. novellato, essendo funzionale alla prestazione lavorativa, con la conseguenza che le informazioni tratte dalla “chat” stessa, a seguito dei controlli effettuati dal datore di lavoro, sono inutilizzabili in mancanza di adeguata informazione preventiva ex art. 4, comma 3, st. lav.” (Cass., Sez. L, 22 settembre 2021, n. 25731, Rv. 662273 – 01).
[9] Cfr. Cass., Sez. L, 10 dicembre 2008, n. 29008, Rv. 605741 – 01, secondo cui “L’esercizio da parte del lavoratore del diritto di critica nei confronti del datore di lavoro, con modalità tali che, superando i limiti del rispetto della verità oggettiva, si traducono in una condotta lesiva del decoro dell’impresa datoriale, suscettibile di provocare con la caduta della sua immagine anche un danno economico in termini di perdita di commesse e di occasioni di lavoro, è comportamento idoneo a ledere definitivamente la fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro, integrando la violazione del dovere scaturente dall’art. 2105 cod. civ., e può costituire giusta causa di licenziamento”. L’inquadramento della diffusione di critiche o accuse rivolte all’impresa in una interpretazione “ampia” dell’obbligo di fedeltà è stato oggetto di discussione in dottrina. Da parte di alcuni si è parlato di un utilizzo improprio in tali casi dell’art. 2105 c.c.; altri ritengono che meglio sarebbe evocare la categoria degli obblighi atipici di protezione, ricavati direttamente dalla funzione integrativa delle clausole generali e generati dai rischi del contatto sociale nell’ambito di un rapporto di lavoro (C. Pisani, nella nota a Cass. civ. 4 aprile 2005, n. 6957, in Riv. it. dir. lav., 2005, II, p. 920 ss.). In merito alla riconducibilità del diritto di critica all’obbligo di fedeltà, v., invece, M. G. Greco, Diritto di critica e rapporto di lavoro, Arg. dir. lav., 2006, 1, 294; E. Fiata, Limiti al diritto di critica del lavoratore e controllo di legittimità, Giur. it., 2019, 3, p. 612.
[10] Cfr. P. Salazar-L. Failla, Rapporto di lavoro e social network: il punto sul diritto di critica, in Lav. giur., 2022, p. 1102; V. Del Gaiso, È legittimo il licenziamento del sindacalista che non rispetta i limiti del diritto di critica, in Riv. it. dir. lav., 2021, II, p. 685; P. Tosi-E. Puccetti, Il diritto di critica nella rinnovata rilevanza del limite di pertinenza, in Riv. it. dir. lav., 2019, II, p. 229; O. Dessì, Il diritto di critica del lavoratore, in Riv. it. dir. lav., 2013, II, p. 395 ss.; V. Valenti, Il diritto di critica del lavoratore: tra obbligo di fedeltà e “dovere” di verità, in Riv. giur. lav., 2016, II, p. 504 ss.; M. Terenzio, Il diritto di critica del prestatore di lavoro subordinato: un difficile equilibrio tra garanzie costituzionali e obblighi contrattuali, in Riv. giur. lav., 2010, II, p. 198 ss.; E. Menegatti, I limiti al diritto di critica del lavoratore, in Arg. dir. lav., 2008, 3, p. 876 ss.; M.G. Greco, Diritto di critica e rapporto di lavoro, in Arg. dir. lav., 2006, p. 294 ss.; M. Aimo, Privacy, libertà di espressione e rapporto di lavoro, Napoli, 2003.
[11] Secondo i principi espressi dalla Corte di cassazione (cfr. Cass. Civ., Sez. L, 18 gennaio 2019, n. 1379, in Lav. giur., 2019, 12, 1110 ss.), l’esercizio del diritto di critica dei lavoratori nei confronti del datore di lavoro è lecito laddove espressione del “diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero” (art. 21 Cost.), anche “nei luoghi dove prestano la loro opera” (L. n. 300 del 1970, art. 1), tenuto altresì conto dell’interesse ad esprimersi sulle modalità di esercizio dell’attività imprenditoriale che possano avere ricadute sulle condizioni di vita e di lavoro del personale. Tale esercizio del diritto incontra un limite nella tutela dell’onore, della reputazione e del decoro del datore di lavoro, beni-interessi che costituiscono riflesso di diritti fondamentali della persona tutelati quali valori essenziali della dignità dell’uomo, “sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove svolge la sua personalità” (art. 2 Cost.). La critica manifestata dal lavoratore all’indirizzo del datore di lavoro può, dunque, trasformarsi da esercizio lecito di un diritto in una condotta astrattamente idonea a configurare un illecito disciplinare laddove superi i limiti posti a presidio della dignità della persona umana, così come predeterminati dal diritto vivente.
[12] G. Pezzini, Sulla rilevanza disciplinare delle opinioni espresse in un gruppo WhatsApp, in Lav. giur., 2020, 6, p. 647 ss., p. 652.
[13] M. Miscione, I comportamenti privati rilevanti per il lavoro nella rete senza tempi e spazi, in Lav. giur., 2017, 6, 521. Il tema è stato studiato anche in Spagna, v. M. José Cervilla Garzòn, Incidenza dell’utilizzo di WhatsApp nell’ambito dei rapporti di lavoro: dottrina e giurisprudenza in Spagna, in Dir. rel. ind., 2016, 4, p. 1212, con traduzione di L. Serrani. La rilevanza disciplinare di esternazioni virtuali dei lavoratori è stata già affrontata dalla giurisprudenza di merito (cfr., ad esempio, Trib. Ascoli Piceno 19 novembre 2013, in Riv. it. dir. lav., 2015, II, p. 75) e di legittimità (cfr. Cass. 31 gennaio 2017, n. 2499, Arg. dir. lav., 2017, p. 762; Cass. 27 aprile 2018, n. 10280, in Giur. it., 2018, p. 1956; Cass. 6 settembre 2018, n. 21719; Cass. 10 settembre 2018, n. 21965, in Giur. it., 2019, p. 137).
[14] Cass., sez. II pen., 1° luglio 2022, n. 39529; Cass. pen., Sez. VI, 16 marzo 2022, n. 22417, Sgromo, Rv. 283319.
[15] Cass. pen., Sez. I, 19 maggio 2023 (dep. 14 settembre 2023), n. 37618, Rv. 285248 – 01, in Cass. pen., 2024, p. 1004, con nota di C. Rossi, Non ricorre l’aggravante dell’uso di un mezzo di pubblicità nel caso di diffusione di un messaggio offensivo in una chat attraverso WhatsApp. Si ritiene, invece, pacificamente che l’aggravante dell’offesa recata con un altro mezzo di pubblicità è certamente integrata, ad esempio, dalla pubblicazione di post diffamatori sulla bacheca Facebook o Instagram (di recente, cfr. Cass. pen., Sez. V, 9 settembre 2024 n. 34057, in Riv. pen., 2024, con nota di F.M.M. Bisanti, Insulta il sindaco durante una diretta su Instagram e pubblica i video sul social-network: confermata la condanna per diffamazione aggravata). In tal senso, v. anche Sez. V, 25 gennaio 2021, n. 13979, con la quale la Suprema Corte attribuisce importanza alla potenzialità oggettiva del mezzo utilizzato di raggiungere un numero indeterminato ovvero quantitativamente apprezzabile di persone; in senso conforme, v. anche Cass. pen., Sez. V, 6 luglio 2015, n. 3963; Cass. pen., Sez. V, 14 novembre 2016, n. 4873, con le quali viene ribadito che la sussistenza del requisito della comunicazione con due o più persone deve presumersi qualora l’espressione offensiva venga inserita all’interno di un contesto o di un registro destinato ad essere visionato da un numero indeterminato di persone, in tempi ravvicinati, come accade non solo per i social media e siti internet, ma anche per i giornali telematici, a nulla rilevando l’astratta e teorica possibilità che non vengano acquistati o letti da alcuno.
[16] Cass. pen., Sez. I, 28 aprile 2015, n. 24431. Per quanto attiene alla questione giuridica della configurabilità del delitto di diffamazione nel caso in cui tra i destinatari di una e-mail dal contenuto lesivo vi sia anche la persona offesa v. ex multis Cass. pen., Sez. V, 4 marzo 2021, n. 13252; Cass., pen., Sez. V, 15 marzo 2016, n. 18919. In base a quest’orientamento occorre valutare caso per caso: se l’offesa viene profferita nel corso di una riunione “a distanza” (o “da remoto”), tra più persone contestualmente collegate, alla quale partecipa anche l’offeso, ricorrerà l’ipotesi della ingiuria commessa alla presenza di più persone (fatto depenalizzato) (come deciso da Cass., Sez. V, 25 febbraio 2020, n. 10905, Sala, Rv. 278742); di contro, laddove vengano in rilievo comunicazioni (scritte o vocali), indirizzate all’offeso e ad altre persone non contestualmente “presenti” (in accezione estesa alla presenza “virtuale” o “da remoto”), ricorrono i presupposti della diffamazione (v. anche Cass. pen., Sez. V, 10 giugno 2022, n. 28675).
[17] Cassazione civile, Sez. Un., 27 aprile 2023, n. 11197, in Giur. it., 2023, p. 2623.
[18] Cass. 27 aprile 2018, n. 10280 (in Giur. it., 2018, 1956, con nota di P. Tosi-E. Puccetti, Post denigratorio su Facebook, la leggerezza che per pubblicità diventa giusta causa), ove è precisato, in motivazione, che, in tal caso, “il rapporto interpersonale, proprio per il mezzo utilizzato, assume un profilo allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione”, venendosi a determinare “la circolazione del commento tra un gruppo di persone, comunque, apprezzabile per composizione numerica”.
[20] Cass. 10 settembre 2018, n. 21965; nella giurisprudenza di merito v., nello stesso senso, Trib. Firenze, 16 ottobre 2019, in Lav. giur., 2020, p. 645. Sulla distinzione tra critica “pubblica” e “privata” v. G. Martire, Diritto di critica del lavoratore e obbligo di fedeltà: un equilibrio delicato, nota a Cass. 10 dicembre 2008, n. 29008, in www.treccani.it.
[21] Anche il Consiglio di Stato, in una decisione del 2014 (Cons. Stato, Sez. III, 21 febbraio 2014, n. 848, in Foro it., 2014, III, 501) ha inquadrato il profilo personale (ed i relativi contenuti) di un utente di social network al quale sia possibile accedere solo dietro autorizzazione del titolare del profilo (come avviene laddove vi siano contenuti condivisi su Facebook con i soli amici) nell’alveo della tutela della vita privata costituzionalmente protetta. Più recentemente, però, il giudice amministrativo ha confermato la decisione con cui era stato respinto il ricorso di un appartenente alle forze di polizia che aveva diffuso immagini personali tramite WhatsApp (cfr. Consiglio di Stato, Sez. II, 28 novembre 2023, n. 1017).
[22] Così facendo, la Corte di cassazione non ha dovuto confrontarsi con l’orientamento che riconosce al giudice di legittimità il controllo circa l’esimente del diritto di critica mediante la verifica della sussumibilità dei fatti (modi e termini in cui la critica è stata espressa) nel canone (giuridico) di continenza formale.
[23] Cfr. ex pluribus: Cass., 29 aprile 2004, n. 8254, in Mass. Giur. It., 2004; Cass., 7 settembre 2012, n. 14995, in Guida lav., 2012, 50, p. 32; Cass., 20 settembre 2016, n. 18404; Cass. civ., Sez. L, Sent., (data ud. 05/05/2016) 20/09/2016, n. 18404; Cass., 9 febbraio 2017, n. 3484; Cass., 10 novembre 2017, n. 26682, in Lav. giur., 2018, p. 471, e Cass., 28 settembre 2018, n. 23601, concernente e-mails di cui la lavoratrice aveva disconosciuto la conformità all’originale.
[24] La distinzione tra le due fattispecie è recentemente ripresa da Cass., Sez. L, 6 maggio 2024, n. 12142, che ha confermato che “In tema di licenziamento disciplinare, costituisce giusta causa di recesso, in quanto idonea a ledere il vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo, la diffusione su “facebook” di un commento offensivo nei confronti della società datrice di lavoro, integrando tale condotta gli estremi della diffamazione, per la attitudine del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del messaggio tra un gruppo indeterminato di persone”. In precedenza, nello stesso stesso senso, Cass., Sez. L, 13 ottobre 2021, n. 27939 (in Lav. giur., 2022, p. 845), secondo cui “In tema di licenziamento, la pubblicazione di post gravemente offensivi verso il datore di lavoro sul profilo personale di Facebook del lavoratore, in quanto idonea a consentirne la circolazione in una cerchia indeterminata di persone, configura l’insubordinazione dedotta a fondamento della giusta causa del recesso”.
[25] P. Tosi-E. Puccetti, Licenziamento – Chat Facebook: se la riservatezza legittima la denigrazione del datore di lavoro, in Giur. it., 2019, p. 137.
[26] Cfr. R. Nunin, Critiche al datore sui social network e licenziamento per giusta causa, in Lav. giur., 2022, p. 848, che rileva come i “rischi legati alle conseguenze della diffusione con le modalità di cui si è detto di messaggi lesivi della reputazione di altre persone dovrebbero essere ormai comunemente noti a tutti, quantomeno alla luce dei (purtroppo) già numerosi e gravi casi di cyberbullismo (talora anche nelle forme del c.d. revenge porn) posti in essere mediante social network, di cui si è più volte dovuta occupare in questi anni la cronaca, in relazione a vicende particolarmente drammatiche e con esiti talora tragici”.
[27] Corte cost. 12 gennaio 2023, n. 2, in Dir. pen. e proc., 2023, 3, p. 378.
[28] Corte cost. 24 gennaio 2017, n. 20. Già in precedenza, con riguardo agli apparecchi ricetrasmittenti di debole potenza, cfr. Corte cost. 27 ottobre 1988, n. 1030; sulla libertà del titolare del diritto di scegliere liberamente il mezzo con cui corrispondere, cfr. Corte cost. 26 febbraio 1993, n. 81.
[29] Mediante la telematica, i dispositivi elettronici, oltre che come apparecchiature terminali per l’elaborazione dei dati, vengono utilizzati come strumenti di comunicazione, per consentire in modo ottimale il trasporto (e l’utilizzazione) dell’informazione.
[30] Occorre rimarcare come l’art. 8 CEDU abbia cura di individuare i presupposti legittimanti l’ingerenza pubblica nel diritto alla vita privata e nella corrispondenza. Come si evince dal par. 2 della disposizione in discorso, le intrusioni dell’autorità sono consentite in presenza di un’espressa previsione legislativa giustificata dal perseguimento di attività legittime contemplate espressamente dalla norma. A tali requisiti si aggiunge anche quello di una valutazione in ordine a quanto sia “proporzionata” la limitazione del diritto individuale rispetto alla legittima finalità che si intende perseguire (e ciò tanto con riferimento ad interessi generali di natura statuale, tanto con riferimento alla tutela dei diritti altrui).
[31] Si è posto in evidenza come, rispetto all’art. 8 CEDU, l’analoga formulazione dell’art. 7 CDFUE non indichi i presupposti legittimanti l’ingerenza nella sfera di riservatezza della persona. Si è rilevato, tuttavia, come i requisiti di cui all’art. 8 par. 2 della CEDU risultino operativi in ragione della clausola di corrispondenza delle disposizioni sovranazionali (v. art. 52 CDFUE).
[32] V. Corte EDU, 12 aprile 1977, Bruggemann e Scheuten c. Germania.
[33]Amplius, P. Villaschi, La posta elettronica e i messaggi WhatsApp sono corrispondenza? Note a margine del ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato promosso dal Senato della Repubblica in relazione al “caso Renzi”, in Federalismi.it, 7/2023, p. 253 ss.
[34] Cfr. Corte giust. UE, Grande sezione, 08 aprile 2014, Digital Rights Ireland LTD e Kartner Landesregierung, Michel Seitlinger, Christof Tschall e al.
[35] Cfr. Corte EDU, Gran Camera, 16 febbraio 2000, Amann c. Svizzera; Corte EDU, Gran Camera, 2 agosto 1984, Malone c. Regno Unito; Corte EDU, Gran Camera, 8 febbraio 2018, Ben Faiza c. Francia.
[36] In una linea di tendenza simile con riferimento all’esigenza di giustificare l’intrusione solo per gravi reati cfr. Corte giust. UE, Sez. I, 7 settembre 2023, A.G. c. Lituania; Corte giust., Grande sezione, ottobre 2018, Ministero Fiscal, dove oltre al fattore della gravità del reato si richiede di valutare anche quello della gravità dell’intrusione. Per una ricostruzione delle prese di posizione europee cfr. G. Leo, Le indagini sulle comunicazioni e sugli spostamenti delle persone: prime riflessioni riguardo alla recente giurisprudenza europea su geolocalizzazione e tabulati telefonici, in Sist. pen., 31 maggio 2021, p. 9.
[37] F. Mantovani, Diritto penale, I delitti contro la persona, Cedam, Padova, 2019, I, p. 561. In questo senso si è espressa anche la giurisprudenza della Corte di cassazione (in Cass. pen., Sez. V, n. 18284 del 2019, si legge, invero, che “integra il reato di violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza (art. 616 c.p.) la condotta di colui che prende cognizione del contenuto della corrispondenza telematica conservata nell’archivio di posta elettronica (Sez. V, n. 12603 del 02/02/2017, Segagni, Rv.269517)”.
[38] Sulle caratteristiche che deve avere l’espressione del consenso, v. P. Gallo, Il consenso al trattamento dei dati personali come prestazione, in Riv. dir. civ., 2022, p. 1054.
[39] In argomento sia consentito il rinvio a L. D’Arcangelo, La tutela del lavoratore nel trattamento dei dati personali, Roma, 2024, p. 153 ss.
[40] In Processo penale e giustizia, 2024, p. 862, con nota di G.M. Baccari, Lo scambio di messaggi WhatsApp costituisce “corrispondenza”. Tra i vari commenti alla sentenza si segnalano: A. Chelo, Davvero legittimo il sequestro di messaggi e-mail e WhatsApp già letti?, in Giur. cost., 2023, 1746; L. Filippi, Il cellulare “contenitore” di corrispondenza anche se già letta dal destinatario, in Penale d.p., 2023, 475; C. Fontani, La svolta della Consulta: la “corrispondenza telematica” è pur sempre corrispondenza, in Diritto penale e processo, 2023, 1312; L. Longhi, La libertà e la segretezza delle comunicazioni dei parlamentari n due recentissime pronunce della Corte costituzionale, in www.federalismi.it; M.T. Morcella, Ed ora, come si può apprendere la corrispondenza archiviata?, in Giur. it., 2024, 195; L.M. Tonelli, Un’estensione (eccessiva?) della nozione di “corrispondenza” in una recente sentenza della Corte costituzionale, in Osserv. cost., 2024, 266
[41] Cfr. M. Borgobello, Il concetto di “corrispondenza” nella sentenza 170 del 2023 della Corte costituzionale, in www.giurisprudenzapenale.com, nonché V. Pupo, Evoluzione degli strumenti tecnologici di comunicazione e autorizzazioni ad acta nei confronti dei parlamentari: i chiarimenti della Corte costituzionale sulla nozione giuridica di “corrispondenza”, in Giurcost.org, Consultaonline, 2024, p. 123.
[42] Cfr., tra le altre, Cass. pen., sez. I, 23 aprile 2014 (dep. 12 giugno 2014), n. 24919; Cass., Sez. Un. Pen., 19 aprile 2012 (dep. 8 luglio 2012), n. 28997.
[43] In quest’ultimo senso, con riguardo alle singole categorie di messaggi che di volta in volta venivano in rilievo, cfr. ex plurimis, tra le ultime, Cass. pen., sez. II, 1° luglio 2022 (dep. 19 ottobre 2022), n. 39529; Cass. pen., sez. VI, 16 marzo 2022 (dep. 8 giugno 2022), n. 22417; Cass. pen., sez. V, 10 marzo 2021 (dep. 6 maggio 2021), n. 17552.
[44] Alla decisione appena analizzata, ha fatto seguito poco dopo altra pronuncia, la sentenza n. 227 del 2023, con cui la Consulta ha risolto un altro conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato dal Senato della Repubblica, dichiarando che non spettava all’autorità giudiziaria procedente disporre, effettuare e utilizzare le intercettazioni che avevano coinvolto un senatore della Repubblica, nel periodo in cui questi ricopriva l’incarico, e acquisire, quali elementi di prova documentale, i messaggi WhatsAppscambiati tra il predetto e un terzo imputato, prelevati tramite copia forense dei dati contenuti nello smartphone in uso a quest’ultimo nell’ambito di un procedimento penale, pena la violazione degli artt. 4 e 6, L. n. 140 del 2003.
[45] G. Spangher, Il sequestro dei dispositivi di archiviazione digitale, in Penale. Diritto e procedura, 12 ottobre 2023. In senso contrario alla citata dottrina, v. Cass. pen., Sez. VI, 21 maggio 2024, n. 31180, Donnarumma, che non ha condiviso “l’osservazione del procuratore generale secondo il quale il principio affermato dalla Corte costituzionale non avrebbe portata generale ma si riferirebbe esclusivamente all’ambito applicativo delle guarentigie apprestate dall’articolo 68 Cost. in favore del parlamentare”.
[46] In Processo penale e giustizia, 2024, p. 1084, con nota di L. Pelli.
[47] Cfr. Cass., Sez. III, 23 luglio 2024, n. 30074, in cui si legge “È orientamento consolidato in sede di legittimità che i messaggi “wathsapp” e gli sms conservati nella memoria di un telefono cellulare hanno natura di documenti ai sensi dell’art. 234 cod. proc. pen., sicché è legittima la loro acquisizione mediante mera riproduzione fotografica, non trovando applicazione né la disciplina delle intercettazioni, né quella relativa all’acquisizione di corrispondenza di cui all’art. 254 cod. proc. pen., non versandosi nel caso di captazione di un flusso di comunicazioni in corso, bensì nella mera documentazione ex post di detti flussi”.
[48] Da ultimo, cfr. Cass. pen., sez. VI, 11 settembre 2024 (dep. 28 ottobre 2024), n. 39548, Rv. 287039 – 01, che ha ritenuto inutilizzabili i messaggi WhatsApp direttamente acquisiti dalla polizia giudiziaria. In precedenza, prima dell’intervento delle Sezioni Unite Penali, nello stesso senso v. Cass. pen., Sez. II, 15 maggio 2024 (dep. 28 giugno 2024), n. 25549, § 1.1.5 e § 1.1.6.
[49] D. Albanese, La “nuova” corrispondenza nel processo penale, tra recenti sviluppi giurisprudenziali e scenari de lege ferenda, in Dir. pen. e proc., 2024, p. 1517.
[50] Cass. pen., Sez. VI, 21 maggio 2024, n. 31180, Donnarumma, Rv. 286773-01.
[51] Cass. pen., Sez. VI, 13 gennaio 2025, n. 1269. Aggiunge la sentenza che, anche se il consenso fosse stato reso dalla persona indagata su sollecitazione della polizia giudiziaria, e pur dopo l’avviso della facoltà di essere assistito da un difensore, resta imprescindibile, onde prevenire il rischio di abusi, che in situazioni del genere la polizia giudiziaria abbia il dovere di procedere al sequestro del telefono senza poter accedere al suo contenuto, prima di una formale autorizzazione da parte del pubblico ministero, in applicazione della disciplina processuale sopra richiamata relativa all’apertura della corrispondenza. Con tale sentenza, la Corte ribadisce inoltre il “principio di non sostituibilità”, per cui “non è consentito alla polizia giudiziaria, in un sistema rigorosamente ispirato al principio di legalità, scostarsi dalle previsioni legislative per compiere atti atipici i quali, permettendo di conseguire risultati identici o analoghi a quelli conseguibili con gli atti tipici, eludano tuttavia le garanzie costituzionali dettate dalla legge per questi ultimi”.
[52] Cass. pen., Sez. VI, 11 gennaio 2023, n. 15836, Berera, Rv. 284590-01, in Cass. pen., 2023, p. 2279, con nota di C. Marinelli, Non sono utilizzabili neppure in sede di giudizio abbreviato i dati di geolocalizzazione relativi a cellulari, contenuti in tabulati telefonici, acquisiti dalla polizia giudiziaria in assenza del decreto di autorizzazione dell’autorità giudiziaria.
[53] Il criterio di inutilizzabilità era previsto dal previgente art. 11, comma 2, del Codice privacy, che, dopo aver definito, al paragrafo 1, le regole del trattamento (liceità, correttezza, finalità legittime, esattezza, pertinenza e non eccedenza, conservazione), stabiliva che “I dati trattati in violazione della disciplina rilevante in materia di trattamento dei dati personali non possono essere utilizzati”. Quest’ultima norma è stata di recente interpretata nel senso che con la sua formulazione (originaria ed) assoluta, ossia senza limiti né clausole di salvezza, il legislatore abbia inteso imporne un’accezione rilevante sia in sede processuale, sia in sede extraprocessuale, con la conseguenza che l’art. 11 cit. sul piano processuale “preclude non solo alle parti di avvalersi dei predetti dati come mezzo di prova, ma pure al giudice (nella controversia diversa da quella avente ad oggetto il provvedimento del Garante relativo al trattamento dei dati personali) di fondare il proprio convincimento su fatti dimostrati dal dato acquisito in modo non rispettoso delle regole dettate dal legislatore e dai codici deontologici” (Cass., sez. L, 11 ottobre 2023, n. 28378, in Giur. it., 2024, p. 878, con nota di P. Stolfa, in Lav. giur., 2024, p. 708, con nota di A. Sitzia, e in RGL, 2024, p. 162, con nota di M. Peruzzi).
[54] Con riferimento alle e-mail, tre sono le principali questioni controverse affrontate da Cass. civ., sez. III, 21 maggio 2024, n. 14046: la loro idoneità a soddisfare la forma scritta (ad substantiam, ad probationem o ad altri fini); la loro riconducibilità o meno ai documenti firmati e il loro valore probatorio. Su questi temi v. di recente G. Travan, Valore probatorio di e-mail e pec – Documento informatico e processo: valore probatorio e forma scritta di e-mail, pec e allegati, in Giur. it., 2024, p. 2302. Questione diversa è quella relativa al valore probatorio dello screenshot (per tali intendendosi – secondo la definizione della Treccani – la schermata o porzione di immagine copiata dallo schermo del computer e salvata tramite un apposito programma) che, stante la possibilità di rinvenire nella rete internet soluzioni gratuite utili per contraffare un messaggio WhatsApp o YouTube o Facebook, è tutt’altro che un mezzo di prova affidabile; sul valore probatorio dello screenshot nel processo penale e in quello penale, v. G. Gioia, Il valore probatorio dello screenshot tra processo civile e processo penale, in Giur. it., 2023, p. 2625. E la questione dell’attendibilità del materiale digitale è destinata a complicarsi notevolmente con l’espansione dell’utilizzo dell’IA. In proposito, con dovizia di particolari preoccupanti, R.A. Delfino, Deepfakes on Trial: A Call to Expand the Trial Judge’s Gatekeeping Role To Protect Legal Proceedings from Technological Fakery, in 74 Hastings L.J., 2023, p. 293.
[55] Sul punto sia consentito rinviare a L. D’Arcangelo, L’obbligo di protezione dei dati del lavoratore: adempimento e sanzioni, in Dir. lav. merc., 2020, n. 1, pp. 29 ss.
[56] C. Zoli, Il controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, cit., p. 650.
[58] Cass., sez. L, 12 novembre 2021, n. 34092. Questa pronuncia richiama espressamente ai principi sanciti da Cass., sez. L, 22 settembre 2021, n. 25731 e 25732, secondo cui “sono consentiti i controlli anche tecnologici posti in essere dal datore di lavoro finalizzati alla tutela di beni estranei al rapporto di lavoro o ad evitare comportamenti illeciti, in presenza di un fondato sospetto circa la commissione di un illecito, purché sia assicurato un corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla libertà di iniziativa economica, rispetto alle imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore, sempre che il controllo riguardi dati acquisiti successivamente all’insorgere del sospetto. Non ricorrendo le condizioni suddette, la verifica della utilizzabilità a fini disciplinari dei dati raccolti dal datore di lavoro andrà condotta alla stregua della l. n. 300 del 1970, art. 4, in particolare dei suoi commi 2 e 3”.
[59] In dottrina, per una ricognizione sul tema, v. C. Gamba, Il controllo a distanza delle attività dei lavoratori e l’utilizzabilità delle prove, in Labour and Law Issues, II, n. 01, 2016, la quale – dopo ampia disamina – conclude nel senso che la regola della esclusione delle prove illecite “è l’elemento che permette di mantenere intatti i limiti posti dalla norma” (p. 154).
[60] Più in generale, il codice di procedura penale contempla in varie disposizioni (ad esempio, artt. 33-nonies, 62, 64, 141-bis, 191, 195, art. 203, comma 1, bis, art. 357, comma 3, ter, etc.) la categoria giuridica della “inutilizzabilità” della prova o di un atto processuale.
[61] Ai nostri ristretti fini, si precisa che la dottrina prevalente ha chiarito che, riguardando il divieto l’«acquisizione» delle prove, deve trattarsi di violazione di legge esclusivamente processuale, mentre non rileva, ai fini dell’inutilizzabilità delle prove, la violazione di divieti stabiliti da norme penali sostanziali, o da norme civili o amministrative (cfr., per tutti, F. Cordero, Procedura penale, Milano, 2012, pp. 613 ss.). Anche la giurisprudenza, sempre valorizzando l’autonomia e la diversità del diritto processuale (rispetto al diritto sostanziale), è prevalentemente orientata a ritenere che soltanto la violazione delle norme processuali sulla formazione della prova può dare luogo alla sanzione dell’inutilizzabilità (cfr., ad esempio, Cass. pen., sez. II, 7 giugno 2017, n. 28367; per l’interpretazione opposta invece, ossia per l’inutilizzabilità di prove raccolte in violazione di norme penali sostanziali, cfr. Cass. pen., sez. V, 30 maggio 2014, n. 35681, e in dottrina M. Nobili, La nuova procedura penale. Lezioni agli studenti, Bologna, 1989, p. 156). Abbastanza intuitivamente ciò si spiega con la rilevanza penale delle condotte “registrate”, nel senso che la giurisprudenza penalistica (cfr. Cass. pen. Sez. V, 28 maggio 2015, n. 33560) adotta criteri più elastici in considerazione della prevalente esigenza di ordine pubblico relativa alla prevenzione dei reati rispetto alle disposizioni in materia di dati personali, ferma la sanzione che potrebbe colpire il soggetto che abbia raccolto informazioni e dati violando tali disposizioni. Stessa posizione è assunta dalla giurisprudenza di legittimità rispetto alle garanzie statutarie (cfr., ad esempio, Cass. pen., sez. II, 14 luglio 2021, n. 26760, secondo cui “l’eventuale violazione delle garanzie procedurali previste dall’art. 4 dello Statuto dei lavoratori riguarda soltanto i rapporti di diritto privato tra datore di lavoro e lavoratori ma non può avere rilievo nell’attività̀ di accertamento e repressione di fatti costituenti reato”).
[62] Un recente tentativo ricostruttivo della categoria dell’inutilizzabilità in sede processualcivilistica è stato effettuato da Cass., sez. L, 11 ottobre 2023, n. 28378, cit., secondo cui “sebbene non espressamente prevista, la categoria della “inutilizzabilità” della prova o dell’atto processuale sarebbe comunque evincibile dal complessivo sistema processuale civile, in quanto desumibile sia dal regime delle preclusioni istruttorie (art. 183 c.p.c., nella formulazione anteriore alla riforma di cui al D.Lgs. n. 149 del 2022), sia più in generale da quello della nullità degli atti processuali ex art. 157 c.p.c. (secondo cui l’atto nullo non può produrre alcun effetto e, pertanto, non può essere “utilizzato”: Cass. n. 23352/2022, secondo cui nel giudizio di cassazione la procura speciale deve essere rilasciata a margine o in calce al ricorso o al controricorso, atteso il tassativo disposto dell’art. 83 c.p.c., comma 3, che implica necessariamente “l’inutilizzabilità” di atti diversi da quelli suindicati). A conforto di questa seconda ricostruzione sarebbe possibile invocare la giurisprudenza civile di questa Corte, che ricorre sovente alla categoria dell’inutilizzabilità della prova (Cass. ord. n. 22915/2023, secondo cui l’inosservanza del termine ordinatorio per ottemperare all’ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c., non comporta “l’inutilizzabilità” a fini probatori della relativa produzione documentale; Cass. ord. n. 2397/2022, secondo cui il disconoscimento della scrittura privata prodotta in giudizio, ove non sia raggiunta la prova della sua provenienza dalla parte che l’ha disconosciuta, determina “l’inutilizzabilità” del documento ai fini della decisione, anche soltanto in termini di fonte di indizi)”.
[63] Cfr. Cass. 5 maggio 2020, n. 8459, § 3.2. della motiv., ed ivi la precisazione che ad essere esclusa è anche l’applicabilità diretta al processo civile dell’art. 191 c.p.p.
[64] Cfr. L. Passanante, La prova illecita nel processo civile, Torino, 1997, pp. 193 ss., spec. pp. 197 ss., secondo il quale è da scartare ogni tentativo volto ad attribuire “forza espansiva” alla sanzione dell’inutilizzabilità processualpenalistica.
[65] L. Passanante, op. cit., pp. 259 ss. (Id., Ammissibilità della prova (illecita?) e diritto alla riservatezza, in Foro it., 2021, I, c. 291, in particolare lì dove ritiene che, allo stato, in assenza di un intervento legislativo, non sussiste il potere del giudice di non ammettere o di escludere dal proprio convincimento i mezzi di prova illeciti, ritualmente prodotti o assunti); C. Filippi, Il Trattamento dei dati personali per finalità di giustizia, in A. Loiodice-G. Santaniello, La tutela della riservatezza, Padova, 2000, pp. 311 ss.; R. Panetta, Il processo civile, in A. Clemente, Privacy, Padova, 1999, pp. 481 ss.
[66] A partire da Trib. Torino 6 dicembre 1967, in Processi civili, 1968, p. 409, fino a Cass. 28 aprile 2015, n. 8605, in Giur. it., 2015, p. 1610.
[67] Merita di essere ricordato che recentemente la giurisprudenza di legittimità (Cass., sez. Lav., 11 ottobre 2023, n. 28378, cit.), interpretando il previgente art. 11, comma 2, del Codice privacy, ha ritenuto che la violazione delle norme sul trattamento dei dati personali precluda alle parti di avvalersi dei predetti dati come mezzo di prova ed al giudice di fondare il proprio convincimento su fatti dimostrati dal dato acquisito in modo non rispettoso delle regole dettate dal legislatore.
[68] Specifiche regole di esclusione probatoria sono, ad esempio, contenute nell’art. 222 c.p.c., che dispone l’inutilizzabilità di un documento, se, proposta la querela di falso, la parte dichiara di non volersene avvalere, e nell’art. 216 c.p.c., che impedisce di utilizzare la scrittura privata disconosciuta, ma non seguita da richiesta di verificazione.
[69] In questo senso, v. di recente M.P. Fuiano, Sulla (in)utilizzabilità dei dati del lavoratore raccolti in violazione del Codice della privacy, in M. Ricci, A. Olivieri (a cura di), La tutela dei dati del lavoratore. Visibile e invisibile in una prospettiva comparata, Bari, 2022, p. 378 s., secondo cui il quale il giudice “è tenuto ad avvalersi anche di quelle prove raccolte illegittimamente ma dalle quali emerge inconfutabilmente la verità dei fatti”. In questo senso, v. anche M. Gradi, Diritto alla prova e tutela della privacy nel processo civile, in Riv. dir. proc., 2019, p. 1107 e p. 1117.
[70] F. Santoni, La privacy nel rapporto di lavoro: dal diritto alla riservatezza alla tutela dei dati personali, in P. Tullini (a cura di), Tecnologie della comunicazione e riservatezza nel rapporto di lavoro. Uso dei mezzi elettronici, potere di controllo e trattamento dei dati personali, Padova, 2010, p. 49.
[71] Senza potersi in questa sede approfondire le questioni di teoria generale, deve almeno rilevarsi che l’area corrispondente al concetto di sanzione è quella che ricopre le misure di conservazione del sistema che sono caratterizzate da una qualche forma di reazione o di risposta alla violazione “per rafforzare l’osservanza delle proprie norme ed eventualmente per porre rimedio agli effetti dell’inosservanza” (N. Bobbio, Sanzione, in Noviss. Dig. it., vol. XX, Torino, 1960, p. 530) e che volendo distinguere secondo uno schema classico il comando dalla sanzione (E. Allorio, Osservazioni critiche sulla sanzione, in Riv. dir. civ., 1956, p. 15), ed intendendo quest’ultima in senso lato, la inammissibilità e la inutilizzabilità nel diritto processuale civile fanno ancora parte del comando.
[72] C. Gamba, Il controllo a distanza delle attività dei lavoratori e l’utilizzabilità delle prove, cit., p. 144.
[73] V. M. Gambacciani, Prove, privacy, processo, in Mass. giur. lav., 2022, p. 75, secondo cui “in linea teorica nel processo civile il mezzo di prova materialmente acquisito fuori dal processo (precostituito) o assunto al processo (costituendo) con violazione del diritto alla riservatezza dovrebbe essere sempre ed automaticamente inammissibile, anche se prodotto o assunto nel rispetto delle norme di rito”.
[74] Cfr. Cass., sez. L, 11 ottobre 2023, n. 28378, cit., in motiv.). Questo aspetto, in dottrina, è ben segnalato da chi rileva che, diversamente opinando, i limiti all’utilizzabilità delle prove, potrebbero “essere sistematicamente disattesi o elusi sulla base della generalizzata “utilizzabilità” impropriamente ricavata dalle disposizioni riformate” (C. Gamba, op. cit., p. 154).
[75] Da ultima, v. N. Minafra, Prove illecite e diritto alla riservatezza, in Foro it., 2021, I, c. 278, sulla scia di L. Passanante, La prova illecita nel processo civile, cit., p. 85 ss.
[76] La prova formata in violazione delle norme sulla privacy entra nel processo, nella pressoché generalità dei casi, attraverso una produzione documentale.
[77] Cfr., per tutti, C. Mandrioli, Diritto processuale civile, II, Torino, 2003, p. 172; V. Denti, Prova documentale in diritto processuale civile, in Dig. disc. priv. sez. civ., vol. XVI, Torino, 1997, pp. 35 ss. Da rammentare, inoltre, che è la stessa disciplina dettata dagli artt. 74 e 87 disp. att. c.p.c. ad escludere il preventivo vaglio di ammissibilità delle produzioni di parte.
[78] Da ricordare che di recente F. Ferrari, La sanzione dell’inutilizzabilità nel Codice della privacy e nel processo civile, in Riv. dir. proc., 2013, p. 364, ripropone la tesi secondo cui anche le prove precostituite debbono sottostare al vaglio di ammissibilità compiuto dal giudice. Ed in questo schema reputa che “l’illiceità della produzione documentale, vuoi relativa alla precedente acquisizione extraprocessuale del documento, vuoi propria della modalità stessa di produzione, perché tardiva o comunque in violazione di disposizioni di legge sul punto, potrà condurre al provvedimento di inammissibilità della produzione medesima” (p. 366). Per poi conclusivamente sostenere che nel giudizio di ammissibilità della prova il giudice civile deve tenere “in adeguata considerazione la legalità della prova e delle modalità di acquisizione della stessa” (p. 369).
[79] Cfr., nella nostra materia, Cass., sez. L, 12 novembre 2021, n. 33809, che richiama Cass. 25 marzo 2013, n. 7466.
[80] Cfr., per alcuni esempi, Cass. pen., sez. III, 31 gennaio 2017, n. 22148, e anche Cass. 25 febbraio 2020, n. 5105; Cass. pen., sez. II, 10 aprile 2020, n. 11959 e Cass. pen., sez. V, 29 marzo 2011, n. 35383.
[81] Favorevole a questa lettura – per così dire riduttiva – delle disposizioni in materia di privacy è, invece, M.P. Fuiano, op. cit., p. 380. Piuttosto deve rimarcarsi che, nonostante il disvalore della condotta assunta in violazione della normativa sui dati personali, non è espressamente prevista una sanzione di inutilizzabilità o inammissibilità processuale dei dati così raccolti.
[82] Tra i primi a restringere il campo delle prove illecite proprio e solo a quelle acquisite con mezzi illeciti v. E. Ondei, Utilizzazione di prove acquisite con mezzi illeciti, in Foro padano, 1972, I, p. 421; R. Bitonte, Sulla validità delle prove illecitamente acquisite, in Processi civili, 1968, p. 473. In tal modo, la prova illecita si distingue dalla prova atipica, o innominata (ossia non prevista dalla legge o, più precisamente, non compresa espressamente nel catalogo legale di prove) e dalla prova illegittima o nulla (cioè, quella ottenuta in violazione delle norme tecniche processuali o sostanziali che regolano i limiti di ammissibilità della prova, o le modalità con cui può trovare ingresso nel processo, la cui inosservanza costituisce, piuttosto, un’ipotesi di invalidità). Da notare che questa tripartizione, volta a superare l’accorpamento nella categoria della prova illecita anche di quelle che derivano dalla violazione di norme o di principi che disciplinano l’ammissione o la formazione delle prove (il riferimento è a G.F. Ricci, Le prove illecite nel processo civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1987, pp. 34 ss.), è presente anche in M. Taruffo, I fatti e le prove, in M. Taruffo (a cura di), La prova nel processo civile, Milano, 2012, p. 75.
[83] Come si accennava, la conseguenza dell’inutilizzabilità (tipica categoria processualpenalistica) non è sconosciuta al codice di rito (v. art. 222 c.p.c.), né alla legislazione speciale (v. art. 10, comma 1, d.lgs. n. 28/2010).
[84] Tra gli altri, cfr. A. Graziosi, Usi e abusi di prove illecite e prove atipiche nel processo civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2011, pp. 693 ss.
[85] V., ad esempio, Cass. 29 maggio 2013, n. 13319, in Riv. dir. trib., 2014, p. 3; Trib. Torino 8 marzo 2013, in Giur. it., 2014, p. 2480, e da ultimo Trib. Roma 14 febbraio 2024, § 3 della motiv., in www.wikilabour.it. Va notato che di inutilizzabilità discorre pure quella giurisprudenza che, salva solo l’ipotesi in cui venga in discussione la tutela di diritti fondamentali di rango costituzionale, tende ad escludere rilievo sul piano processuale alla modalità con cui, chi produce il documento, è venuto in suo possesso (cfr. Cass. 28 aprile 2015, n. 8605, in Giur. it., 2015, p. 1610, ove si legge “… non qualsiasi irritualità nell’acquisizione di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento fiscale comporta, di per sé, la inutilizzabilità degli stessi, in mancanza di una specifica previsione in tal senso”; più recentemente, v. anche Cass. 12 dicembre 2019, n. 32597).
[86] La prova è venuta in possesso del datore di lavoro per mezzo di un fatto illecito civile. Un caso simile è tratto da Appello Parigi 9 novembre 1966, riportato da F. Angeloni, Le prove illecite, Padova, 1992, pp. 9-10. In quel caso, un datore di lavoro pretendeva di provare in giudizio la colpa grave del lavoratore, quale giusta causa di licenziamento, per mezzo di una registrazione su nastri magnetici di conversazioni telefoniche del dipendente.
[87] Le prove incostituzionali si riconducono ad una violazione di garanzie e di diritti inviolabili dell’individuo, aventi riscontro – anche per implicito e, quindi, senza la necessaria intermediazione di alcuna norma processuale ordinaria, che provveda ad enunciare corrispondenti divieti probatori – in constitutional sanctions, direttamente ricavabili dall’applicazione di norme di tipo super-primario: v. L.P. Comoglio, Commento all’art. 116 c.p.c., in L.P. Comoglio, C. Consolo, B. Sassani, R. Vaccarella, Commentario del codice di procedura civile, vol. II, Torino, 2012, p. 425, nt. 113.
[88] Il rilievo di questa contrapposizione è compiuto dalla dottrina unanime (per tutti v. F. Auletta, Nullità e «inesistenza» degli atti processuali civili, Padova, 1999, p. 156), limitandosi a stabilire l’art. 156, comma 1, che “non può essere pronunciata la nullità per inosservanza di forme di alcun atto del processo, se la nullità non è comminata dalla legge”.
[89] Il fenomeno della circolazione tra processi civili e penali, ancorchè non regolata dalla legge, è generalmente ammessa dalla dottrina (v. A. Giussani, Prova (circolazione della) (dir. proc. civ.), in Enc. Dir., Annali, II, tomo I, Milano, 2008, p. 949.
[90] Sul diritto come sistema, cioè come totalità assiologicamente coesa, v. R. Guastini, Interpretare e argomentare, cit., p. 292.
[91] V. Vigoriti, Prove illecite e Costituzione, in Riv. dir. proc., 1968, p. 64 ss. È questo il tema generale dell’efficacia, ovvero, secondo l’espressione mutuata dagli studi tedeschi sul tema, della Drittwirkung dei principi costituzionali nei rapporti di diritto privato. Per alcuni esempi di norme costituzionali che sono state considerate idonee a regolare immediatamente, senza necessità di interventi legislativi, anche i rapporti tra privati, cfr. Corte cost. 22 gennaio 1987, n. 17 (Drittwirkung dell’art. 37 Cost.), Corte cost. 14 luglio 1986, n. 114 (Drittwirkung dell’art. 32 Cost.), Corte cost. 3 luglio 1956, n. 11 (Drittwirkung dell’art. 13 Cost.).
[92] F. Auletta, op. cit., p. 163. Qualunque ordinamento giuridico, per essere tale e non una mera somma di regole, decisioni e provvedimenti sparsi e occasionali, deve esprimere un’intrinseca coerenza (la coherence secondo il diritto anglo-americano), deve cioè essere riconducibile a principi e valori sostanziali unitari: G. Zagrebelsky, Diritto mite, Torino, 1992, p. 34.
[93] L. P. Comoglio, L’inutilizzabilità assoluta delle prove incostituzionali, in Riv. dir. proc., 2011, pp. 40 ss.
[94] N. Trocker, Processo civile e Costituzione. Problemi di diritto tedesco e italiano, Milano, 1974, pp. 563-565.
[95] Si riconosce, invero, che “…non qualsiasi irritualità nell’acquisizione di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento fiscale comporta, di per sè, la inutilizzabilità degli stessi, in mancanza di una specifica previsione in tal senso ed esclusi, ovviamente, i casi in cui viene in discussione la tutela dei diritti fondamentali di rango costituzionale (quali l’inviolabilità della libertà personale, del domicilio, ecc.)”: Cass. 25 novembre 2011, n. 24923. Più recentemente, è Cass. 5 maggio 2020, n. 8459, § 3.3. della motiv., a riaffermare “il principio che stabilisce la estraneità alle fonti di prova – anche atipiche – di quelle acquisite con modalità tali da ledere le libertà fondamentali e costituzionalmente garantite, quali la libertà personale, il diritto alla segretezza della corrispondenza, la inviolabilità del domicilio”.
[96] Corte cost. 6 aprile 1973, n. 34, in Giur. cost., 1973, p. 316.
[98] Così ancora Cass. 5 maggio 2020, n. 8459, § 3.2. della motiv., salvo poi sostenere che le ragioni di protezione dei dati personali sono per legge recessive rispetto alle esigenze di giustizia. Ciò significa che il trattamento di dati personali svolto senza il consenso del titolare, se legittimamente acquisito nel processo, è ammesso e valutato dal giudice secondo il suo prudente apprezzamento semplicemente perché non è ritenuto contrastante con il diritto alla data protection per una o più delle ragioni esimenti o derogatorie previste, e quindi perché si tratta di prova lecita.
[99] È utile ricordare che il concetto della prova acquisita o formata in contrasto con diritti fondamentali è positivizzato in alcuni ordinamenti. È il caso della Spagna, la cui Ley Organica del Poder Judicial all’art. 11.1 prevede che “No surtirán efecto las pruebas obtenidas, directa o indirectamente, violentando los derechos o libertades fundamentales” (art. 11.1). L’art. 287 della Ley de Enjuinciamiento Civil, del pari, rubricato “ilicitud de la prueba”, regola un vero e proprio procedimento incidentale diretto all’accertamento della illiceità delle prove la cui acquisizione o la cui origine “han vulnerado derechos fundamentales”.
[100] Cfr., al riguardo, a proposito dei tabulati telefonici, i cui limiti di utilizzabilità non sono “coperti” dalla previsione dell’art. 266 c.p.p., Corte cost. 11 marzo 1993, n. 81, in Foro it., 1993, I, c. 2132. Nella motivazione, fra l’altro, si legge che il livello minimo di garanzie, assicurato dall’art. 15 Cost., si impone come parametro generale di validità anche per «la tutela relativa alla riservatezza dei dati di identificazione dei soggetti, del tempo e del luogo della comunicazione», pur se esso non si sia finora tradotto in “specifiche norme processuali”, dato che – come ha riconosciuto la stessa Corte nella pronunzia n. 34 del 1973 – non possono “validamente ammettersi in giudizio mezzi di prova che siano stati acquisiti attraverso attività compiute in violazione delle garanzie costituzionali poste a tutela dei fondamentali diritti dell’uomo o del cittadino” (Ibidem, c. 2135).
[101] A. Pace, Commento all’art. 15, in G. Branca (a cura di), Commentario alla Costituzione, Bologna-Roma, 1977, pp. 109-113.
[102] Cass. 5 agosto 2010, n. 18279, in motiv. Tra i primi ad utilizzare l’espressione “gerarchia mobile” come caratteristica del bilanciamento tra principi, v. R. Guastini, Teoria e dogmatica delle fonti, Milano, 1998, p. 230 e p. 304. A questo criterio – per colmare la “lacuna” di cui si va discorrendo – fanno di recente riferimento S. Garsia-V. Giunta, La prova formata in violazione della disciplina in materia di protezione dei dati personali. Profili giuslavoristici, in Mass. giur. lav., 2022, p. 93, e M. Gombacciani, Prove, privacy, processo, cit., p. 81, precisando che l’esclusione della prova illecita (o incostituzionale) non è automatica e assoluta, ma è rimessa alla valutazione discrezionale del giudice sulla base di un bilanciamento dei diritti e degli interessi che si contrappongono nel caso concreto. In quest’ultimo senso è anche A. Carratta, Diritto di difesa e privacy del terzo: un difficile (ma necessario) bilanciamento, in Fam. dir., 2015, pp. 36 ss., sebbene con riferimento ad una fattispecie caratterizzata dall’impiego nel processo di dati personali di terzi e, quindi, diversa da quella oggetto del nostro studio.
[103] Il diritto alla protezione dei dati personali e alla riservatezza rientra tra le situazioni giuridiche soggettive qualificabili come diritti della personalità – autonomi in ossequio alla preferibile teoria pluralistica – finalizzate alla valorizzazione della dignità e dell’autodeterminazione della persona umana (C.M. Bianca, Diritto civile. 1 la norma giuridica i soggetti, Milano, 1990, p. 147).
[104] In questo senso, cfr. anche N. Minafra, Prove illecite e diritto alla riservatezza, cit., c. 281, secondo la quale “non pare possibile riconoscere prevalenza a questo obiettivo [i.e., la necessità di accertare la verità dei fatti realmente accaduti] rispetto a tutti gli altri, al punto da sacrificare esigenze e diritti contrapposti, e legittimare a posteriori la violazione della legge al fine di reperire la prova per garantirsi un vantaggio personale nel processo” (in questo senso v. anche A. Tursi, Note minime in tema di controlli difensivi del datore, onere della prova e utilizzabilità delle prove illecitamente acquisite nel processo, in LLI, vol. 9, n. 1, pp. 95-96), secondo cui, ponendosi una questione che si basa “sulla violazione di diritti individuali costituzionalmente protetti, quale è il diritto alla privacy, e quello, retrostante, al rispetto della dignità della persona […..] non vale nemmeno invocare il valore, anche costituzionale, dell’accertamento della verità”). Il ragionamento svolto nel testo consente di cogliere l’incertezza del rilievo svolto da chi opina che il diritto alla prova e alla riservatezza, essendo entrambi muniti di copertura costituzionale (il primo ex artt. 24 e 111 Cost. ed il secondo ex artt. 13 e 15 Cost.), hanno “il medesimo rango”, cosicché non potrebbe predicarsi la prevalenza del secondo sul primo (così M.P. Fuiano, op. cit., p. 380; nel medesimo equivoco incorre anche A. Sitzia, Sull’utilizzabilità in giudizio di documenti ottenuti in violazione della “privacy”, in Lav. giur., 2024, p. 715 e p. 717, sebbene con riferimento agli artt. 6 ed 8 CEDU). Nel tema oggetto del nostro esame, infatti, non è in discussione il diritto di difesa in senso stretto, bensì la pretesa di attribuire alla ricerca della verità nel processo la stessa natura del diritto di difesa.
[105] Nel bilanciamento del caso concreto, è stata Cass. 5 agosto 2010, n. 18279, a riconoscere la prevalenza di un diritto sull’altro in considerazione delle ricadute pregiudizievoli sul diritto al posto di lavoro. È appena il caso di ricordare che già Corte cost. 18 dicembre 1970, n. 194, ebbe a sottolineare che i principi cui si ispira l’art. 4 Cost. “esprimono l’esigenza di un contenimento della libertà del recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro, e quindi dell’ampliamento della tutela del lavoratore, quanto alla conservazione del posto di lavoro”, per poi successivamente discorrere di “garanzia costituzionale” (sent. 4 dicembre 2000, n. 541) del “diritto di non subire un licenziamento arbitrario” (sent. 10 febbraio 2006, n. 56) ovvero di “essere estromesso dal lavoro ingiustamente e irragionevolmente” (sent. 8 febbraio 1991, n. 60), fino a precisare che il diritto alla stabilità del posto “non ha una propria autonomia concettuale, ma è nient’altro che una sintesi terminologica dei limiti del potere di licenziamento sanzionati dall’invalidità dell’atto non conforme” (sent. 30 giugno 1994, n. 268), così traducendosi la tutela della stabilità derivante dall’art. 4, comma 1, Cost. in termini di tutela del lavoratore quanto alla conservazione del posto, distinto da un diritto alla conservazione del posto (al riguardo, v. R. Casillo, Diritto al lavoro e dignità, Napoli, 2020, pp. 221 ss.). Da ultimo, in questo senso, v. anche Corte cost. 8 novembre 2018, n. 194.
[106] V., a contrario, Cass. 28 aprile 2015, n. 8605, in Giur. it., 2015, p. 1610 (con nota adesiva di C. Besso).
[107] V. Cass. Torino 8 maggio 1884, in Foro it., 1884, I, c. 1072, che utilizza l’exceptio doli generalis per escludere la prova illecita dalla trama probatoria, e App. Milano 5 aprile 1934, in Riv. dir. proc. civ., 1935, p. 63, che invece invoca i principi generali del diritto (i.e., nemo ex suo delicto condicionem suam meliorem facere potest, comunque riferibile all’aspetto negativo della exceptio doli, posto che la condizione del producente il documento illecitamente acquisito è sicuramente migliore di quella di quella che sarebbe se avesse agito in iure).
[108] L’exceptio doli generalis quale fondamento della regola della inammissibilità della prova illecita è più recentemente riproposta da quella dottrina che, stante la contrarietà ai doveri di buona fede, configura un abuso del processo in caso di produzione di una prova illecita.
[109] A. Graziosi, Usi e abusi di prove illecite e prove atipiche nel processo civile, cit., p. 703.
[110] In questo senso, v. anche M. Barbieri, L’utilizzabilità delle informazioni raccolte: il Grande Fratello può attendere (forse), cit., pp. 205 ss.
[111] V., ad esempio, Cass. 17 giugno 2000, n. 8250, in Notiz. giur. lav., 2000, p. 711.
[112] Cfr. L. P. Comoglio, Etica e tecnica del giusto processo, Torino, 2004, pp. 1-8, che insiste sulla necessità di una moralizzazione del processo nel quadro della quale tutti i protagonisti del dramma processuale sono tenuti al rispetto dei principi di correttezza e lealtà, senza i quali non< può discorrersi fondatamente di un processo giusto. È, quindi, l’etica interna del processo giusto ad implicare il rifiuto di mezzi illegittimi, o addirittura incostituzionali, per l’acquisizione della prova (Id., Le prove civili, Torino, 2004, p. 52).
[113] C. Mainardis, L’inutilizzabilità processuale delle prove incostituzionali, in Quad. cost., 2000, p. 371. Ciò in base ad alcune pronunce della Corte costituzionale in forza delle quali si ritiene di poter generalizzare il precetto costituzionale di cui all’art. 13, comma 3, sì da farne una prescrizione di carattere universale operante anche nei rapporti tra privati.
[114] V. Andrioli, Prova (dir. proc. civ.), in Noviss. dig. it., vol. XIV, Torino, 1967, p. 291.
[115] Come abbiamo avuto modo di dimostrare (sia consentito il rinvio a L. D’Arcangelo, La tutela del lavoratore nel trattamento dei dati personali, cit., p. 28 ss.), il diritto alla protezione dei dati personali è un diritto fondamentale dell’individuo (art. 8, Carta dei diritti fondamentali). Inoltre, va sottolineato che è costante in giurisprudenza l’affermazione della inutilizzabilità nei i casi in cui viene in discussione la tutela di diritti fondamentali di rango costituzionale, come l’inviolabilità della libertà personale o del domicilio (da ultima Cass. 25 febbraio 2020, n. 5105; Cass. 19 dicembre 2019, n. 34093).
[117] F. Angeloni, Le prove illecite, cit., pp. 82 ss. Nello stesso senso, L. Ariola, Le prove atipiche nel processo civile, Torino, 2008, pp. 133-134, nonché N. Minafra, Prove illecite e diritto alla riservatezza, cit., c. 281.
[118] F. Angeloni, Le prove illecite, cit., pp. 99-101. Più in generale, è noto che ogni teoria dell’esibizione poggia, in definitiva, sul tentativo di sistemare in un modo o nell’altro i problemi che derivano dall’inevitabile interferenza fra aspetto sostanziale e aspetto processuale (cfr. S. La China, L’esibizione delle prove nel processo civile, Milano, 1960, p. 90).
[119] G. Vidiri, I poteri istruttori del giudice del lavoro nel processo civile rinnovato, in Giust. civ., 2010, p. 147. Più recentemente, nello stesso senso v. M. Peruzzi, Controlli investigativi, violazione della normativa sulla privacy e inutilizzabilità dei dati in giudizio, in RGL, 2024, p. 168.
[120] Sul delicato e discusso tema della ricerca della verità nel processo, v., anche per tutti gli opportuni ulteriori riferimenti, E. Ancona, La verità nel processo: quale corrispondenza? La prospettiva del dibattito italiano, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2019, pp. 23 ss.; M. Gradi, L’obbligo di verità delle parti, Torino 2018, pp. 3 ss.; A. Mengali, Preclusioni e verità nel processo civile, Torino, 2018; M. Taruffo, Tre divagazioni intorno alla verità, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2018, pp. 133 ss., anche a proposito della c.d. «postverità»; Id., Contro la «veriphobia». Osservazioni sparse in risposta a Bruno Cavallone, in Riv. dir. proc., 2010, pp. 995 ss.; Id., La semplice verità, Bari, 2009; G. Ubertis, Profili di epistemologia giudiziaria, Milano 2015, pp. 1 ss.; F. Cavalla, Retorica Processo Verità, Milano 2007, pp. 17 ss. e gli altri saggi ivi contenuti; B. Cavallone, In difesa della «veriphobia» (Considerazioni amichevolmente polemiche su un libro recente di Michele Taruffo), in Riv. dir. proc., 2010, pp. 1 ss. In questa appassionante discussione, mette conto rilevare che lo stesso F. Carnelutti, La prova civile, Roma, 1947, p. 62, osservava: “Che in un numero maggiore o minore di casi questo scopo [ottenere la conoscenza dei fatti controversi] fallisca e che, malgrado ciò, i fatti risultanti dal processo impiegato vengano ritenuti come veri, o, più esattamente, vengano posti nella sentenza anche se non sono veri, impedisce certo di considerare la verità (materiale) come il risultato costante del processo probatorio e perciò come la sua nota essenziale, ma non affatto come lo scopo che quel processo si propone di raggiungere e che, correlativamente, ne determina la struttura”. Il che spiega come per “la funzione il processo probatorio differisce profondamente dal processo di ricerca della verità materiale” (Id., op. loc. cit.). Per ritenere, poi, del tutto coerentemente “che la offesa al diritto privato sul documento debba determinare l’inefficacia della sua produzione in giudizio rappresenta precisamente l’attuazione di ciò che vuole la legge; anche gli effetti processuali dell’iniuria debbono essere eliminati perché la legge pone il diritto sul documento da parte di chi lo presenta al giudice come condizione affinché il giudice lo possa conoscere” (Id., Illecita produzione di documenti, in Riv. dir. proc. civ., 1935, II, p. 70). “Ed è perciò esatto che secondo il nostro ordine processuale la presenza del documento in giudizio, quando la controparte non abbia un diritto al suo godimento sia pure ai fini limitati della sua conoscenza, dipende dalla volontà della parte, a cui appartiene; in altri termini il suo diritto privato sul documento ne limita l’impiego processuale” (Id., op. ult. loc. cit.; conclusioni queste successivamente confermate in replica all’opposta opinione di V. Andrioli: Id., Ancora sull’inefficacia dei documenti dolosamente sottratti, in Riv. dir. proc., 1957, p. 337).